4 minute read
Prefazioni di Sabrina Orlandi
PREFAZIONE
E FU SUBITO CIV di Sabrina Orlandi
Advertisement
Lui era un papavero alto alto e non è che nel 2001 io fossi ancora piccolina, ma tornare dalle vacanze e trovarsi lì davanti Gianfranco Civolani in persona un po’ di soggezione addosso te la mette. Eravamo negli studi di èTV-Rete7 e per Gianfranco, che veniva da Telesanterno, era la prima volta nella sua nuova casa. Il passaggio era avvenuto grazie alla mediazione di Christian Pavani, che oggi è presidente della Fortitudo basket ma allora era un manager televisivo.
«Allora cara Sabri – attacca lui – non sopporto vallette, veline e portaborse in genere. Io preferisco fare il solista ma se accetto di lavorare in due o in tre o in cinquanta, siamo tutti uguali. Tutti giornalisti, intendo.»
Quindi faccio la giornalista dei miei anni e, accorciando tempi e modi, gli rispondo sorridente: «Ottimo Civ, grazie!». Civ, appunto. Era il suo secondo soprannome, più corto del primo, che fino ad allora, per più di quarant’anni, era stato “Civola”. Gli dev’essere suonato bene e ha lasciato che lo chiamassi così in tv, prima che fossero in chissà quanti a salutarlo come Civ.
Era certo: il Civ sarebbe diventato il bastone della mia giovinezza. Il giornalista senza complimenti, a meno che non fossero per lui. È stato facile fare accettare le sue sentenze scolpite nella roccia: quando siamo diventati per la prima volta una coppia in tv, lui aveva già scritto di tutto e di più per una quarantina di anni. Calcio e basket, atletica e pugilato, non c’era sport che il Civ non conoscesse, non aveva opinione che fondasse sull’impressione o sullo stato d’animo, ma sempre sull’esperienza, su quel sapere e sentire da giornali-
sta che nessuno, neanche di fronte alle prese di posizione più dure, aveva il coraggio di contestare.
Sì, sono arrivate sommesse richieste, simili a preghiere, di filtrarlo, ammorbidirlo o arrotondarlo: tutto inutile, tutto inapplicabile. Se il Civ avesse dovuto sacrificare anche per una sola volta il suo pensiero sull’altare della diplomazia, non sarebbe mai più stato se stesso.
Abbiamo lavorato insieme per diciotto anni, tutti i giorni, ma proprio tutti, anche quelli di vacanza. Le mie s’intende. Perché le sue non esistevano. Per il Civ le ferie erano “uno stato dell’anima” e lui in quello stato non era in grado di fermarsi. Come gli è capitato in molte città, Parigi compresa. Un viaggio in auto fino alla capitale della Francia, un giro della piazza, una coca-cola al tavolino del Café de Flore e poi, rivolto a Valeria: «Bene, possiamo tornare a casa». Da quando lo conosco, è stata l’unica volta in cui non l’ho sentito per una giornata intera.
Il mio “cell” ha suonato sempre, comunque e ovunque, Natale, Pasqua o Capodanno che fosse, perché il Civ viveva soprattutto per lavorare e per preparare nel modo migliore il suo punto. Per un paio di volte non gli è stato possibile andare in onda e non se n’è mai fatto una ragione. A distanza di mesi dal “fattaccio”, giocava d’anticipo: «Sabri, non è che il prossimo Natale arrivo e non trovo nessuno che mi apre, vero?».
«Ma no Civ, stai tranquillo, sai com’è, c’è gente strana che il giorno di Natale si siede a tavola per pranzare. Se vieni all’una e mezza è facile che non ci sia nessuno.»
Starsene un po’ in famiglia e pranzare con i propri cari il giorno di Natale: per il Civ riti e abitudini superflui, lontani dal suo stile di vita. Fu costretto a mediare, ma telefonava sempre all’ora di pranzo del 25 dicembre: «Fai gli auguri a tutti, ma prima dimmi il menù». Avere la conferma che noi comuni mortali santifichiamo la festa con il cibo lo divertiva molto, lo trovava estremamente pagano. «Quindi voi per
ricordare un uomo che spezzava pane duro, vi ingozzate di carnazze e di dolciumi. Mah!»
Articolo o conversazione che fosse, Civ faceva sempre un Punto. Spesso, anche dei punto e a capo. Diceva che di fare trasferte passando ore in macchina o in treno non se ne sarebbe più parlato. Ma si firmò la deroga per quel fine maggio del 2008, quando il Bologna e migliaia di bolognesi partirono per Mantova, dove i rossoblù di Arrigoni si sarebbero giocati la promozione, certificata poi sette giorni dopo al Dall’Ara con il Pisa. Salì sull’auto delle donne: Rita Mandini e Francesca Blesio con me e il Civ. Sapevamo che di mangiare zucca e risotto al Civ importava meno di zero e quindi, perfide, lo portammo direttamente all’outlet della moda che è sulla strada. «Fate quel che vi pare, vi aspetto qui» e si sedette al tavolino a bere il caffè e a leggere un giornale. Quando tornammo, il Civ era sotto assedio. Decine di bolognesi lo avevano riconosciuto e circondato per parlare di calcio e di quel che poteva accadere qualche ora dopo. È stato come portare in trasferta il Papa del giornalismo sportivo bolognese: tutti sorpassando la nostra Panda (con la scritta èTV sulla fiancata) strombazzavano al Civ, che il clacson forse non lo sentiva neanche, ma che “sentiva” eccome solidarietà e affetto, anche se gli piaceva tenere nascosti i suoi sensori.
Ecco dunque il primo libro del Civ senza il Civ. È una gioia sapere che Valeria Vacchetti (con il consenso della signora Rosella) ha cucito un lavoro meticoloso e magistrale, partendo dal 1957 e viaggiando fra articoli e appunti fino ai giorni nostri. Un lavoro immane quello di Valeria, l’unica che ha avuto il permesso dal Civ di mettere mano nelle sue cose più preziose: migliaia di libri, foto, cimeli, giornali e riviste. L’Editore potrebbe togliere firma, titolo, foto, copertina, tutto e non cambierebbe nulla, perché basta iniziare a leggere per sapere, dopo quattro parole, che un articolo è del Civ. Lui non c’è più, ma ha lasciato una marchio di fabbrica. Come fanno i grandi.