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Adalberto Bortolotti
PREFAZIONE
ERA IL CIV, ERA BOLOGNA di Adalberto Bortolotti
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Gianfranco Civolani se n’è andato a quasi 84 anni.
Da due combatteva contro la malattia. Nato a Bologna il 28 novembre 1935, si era laureato in Giurisprudenza, specializzato in Psicologia del lavoro. Direttore artistico del teatro La Ribalta negli anni Sessanta, mecenate della pallacanestro femminile con cui ha raggiunto più volte la Serie A, aveva fatto anche il dirigente nel baseball. Giornalista dal ’57, presto era diventato per tutti il Civ. Inviato per “Tuttosport” dal 1961, e in seguito per il “Corriere dello Sport – Stadio”, Civolani raccontò sei Mondiali e due Olimpiadi, e naturalmente il Bologna. Era diventato il punto di riferimento per l’opinione cittadina sulla squadra. Con Sabrina Orlandi a èTV aveva formato una miscela irresistibile: Il punto del Civ era l’appuntamento irrinunciabile.
Eravamo quasi coetanei, Gianfranco e io, rispettivamente classe 1935 e 1936, in realtà divisi da non più di qualche mese. Le nostre vicende professionali si incrociarono presto, per poi protrarsi sotto bandiere volta a volta comuni e diverse, “Tuttosport”, “Stadio”, “Guerin Sportivo”. Profondamente lontani per carattere, scoprimmo di avere le stesse passioni sportive: il Bologna nel calcio, la Virtus nella pallacanestro, Fausto Coppi nel ciclismo e poi l’indimenticabile Checco Cavicchi, pugile e filosofo contadino, sul quale proprio Gianfranco ha scritto pagine memorabili, fra le sue più ispirate e coinvolgenti.
Ora che la notizia (purtroppo non inattesa) della sua scomparsa mi ha raggiunto, mi scopro a riavvolgere il nastro di un
percorso che per sessant’anni ci ha visto lavorare intorno agli stessi avvenimenti, agli stessi personaggi, noi prima giovani poi stagionati cronisti, testimoni di uno sport, e non solo, che mutava faccia e imponeva cambi di marcia e di giudizio. Talvolta alleati, talaltra concorrenti, avversari mai.
Eravamo a cavallo tra liceo (classico, lui Galvani, io Minghetti) e università (Giurisprudenza entrambi) quando provammo a scrivere insieme su un giornaletto locale di basket, unitamente a un bravissimo collega, Franco Vannini. Si chiamava “Il pivot” e l’editore era un tipo piccoletto e simpaticissimo, che lasciava puffi un po’ dovunque e figuriamoci se, impegnato com’era a dribblare i creditori, poteva trovare il tempo, e la materia prima, per allungarci una qualsiasi forma di compenso. Volontariato puro, però in un prestigioso ufficio proprio di fronte alla Sala Borsa (culla della pallacanestro bolognese, il Palasport era ancora di là da venire) che fungeva da redazione.
Sinché un giorno non ci fu più né l’editore, si fa per dire, né l’ufficio, e onestamente fu un peccato, perché quel foglio artigianale era tutt’altro che malvagio. Quella fu la nostra comune rampa di lancio. Un altro dato condiviso fu l’ingresso ufficiale nella professione. Lavoravamo entrambi a “Tuttosport”, io a Firenze, Gianfranco a Bologna, in uno stato di abusivismo totale, peraltro esteso ad altri eccellenti colleghi sparsi fra Torino e le redazioni periferiche. Sinché, un bel giorno la Finanza fece irruzione nella sede del giornale e impose all’editore di regolarizzare immediatamente tutte le posizioni “in nero”. Gianfranco e io, quindi, iniziammo il praticantato giornalistico nello stesso giorno, in illustre compagnia. Cito per tutti Pier Cesare Baretti che di “Tuttosport” fu direttore storico, per poi saltare il fosso e diventare dirigente autorevole della Fiorentina, sino a quando la sua passione per il volo lo condusse giovane a una morte tragica.
Che tempi, quei tempi. La comune passione per la boxe, che allora era una cosa seria, faceva sì che Gianfranco partisse da Bologna con la sua incredibile Anglia (vettura non memorabile, di cui doveva essere l’unico proprietario in Italia), valicasse la Futa, mi caricasse a bordo a Firenze e arrancasse lungo l’Aurelia sino a Roma, dove Giorgio Tosata (altro appassionato della noble art, anch’egli nato giornalisticamente a “Tuttosport”, poi trasferitosi a Roma al seguito di Antonio Ghirelli, come redattore capo del “Corriere dello Sport”) aveva procurato i posti a bordo ring per seguire le mitiche riunioni di Zappulla, protagonisti futuri campioni quali Teddy Wright e Rafiu King.
Che tipo era allora Gianfranco Civolani, non ancora Civ? Vulcanico, come poi è rimasto sino agli ultimi giorni. I molteplici interessi lo portavano a fruttuose scorribande in altri settori, dal teatro alla politica, ma scrivere era la sua molla primaria. Pubblicò un rarissimo libretto di poesie, dal romantico titolo Ferire d’amore. Non mi do pace di averlo perduto in uno dei traslochi. Riuscì persino a firmare un manuale di cucina, lui che pranzava con una mela e a cena saltava del tutto. E poi gli articoli, redatti a piena velocità, spesso improvvisati al telefono. Le interviste, un pezzo forte del suo repertorio, senza prendere un appunto. «Ma lei non scrive?» gli chiedeva perplesso l’intervistato, subito fulminato da un’occhiata luciferina.
«Non ne ho bisogno, io ricordo tutto.» Odiava, sin d’allora, le regole e le gerarchie. Era in effetti un magnifico lupo solitario, che per dare il meglio aveva bisogno di agire in assoluta libertà. Quando lasciai “Tuttosport” per tornare alla mia Bologna, destinazione Stadio, correva l’anno ’63, sì, quello che introdusse all’unico (sinora e chissà per quanto tempo ancora) scudetto rossoblù del dopoguerra. I colloqui con Fulvio Bernardini erano uno spasso, e Gianfranco e io tornammo a lavorare in coppia, lui per “Tuttosport” e io per “Stadio”.
Gianfranco era un po’ fissato con le nuove tattiche e le esponeva a Fulvio che lo smontava così: «A Gianfra’, tu non tè devi formalizza’ con due cose: i raddoppi e il 4-2-4». E poiché insisteva, Fulvio faceva l’offeso: «Non vorrai mica saperne di calcio più di me». E Gianfranco, a denti stretti: «Va bene, ammetto di saperne un po’ meno di te. Ma solo di te e di nessun altro, sia ben chiaro». Alla vigilia di quel campionato che fu drammatico (caso doping) e trionfale (scudetto nello spareggio contro la grande Inter all’Olimpico), fu con noi due che Bernardini si aprì in inattese confidenze. «Sinora abbiamo divertito e ci siamo divertiti. Adesso è arrivato il momento di vincere. E quindi dovremo essere più cauti. Niente di sensazionale, solo qualche ritocco. Fogli in marcatura diretta sul regista avversario, Bulgarelli dieci metri indietro, a centrocampo, a dettare i ritmi, Haller a ispirare le punte, Nielsen e Pascutti a cercare più spesso la porta. Saremo meno spettacolari e più concreti.» A “Stadio”, il capo redattore Bardelli capì al volo l’importanza e sparò il mio articolo in prima pagina.
A “Tuttosport”, dove del Bologna importava il giusto, l’articolo di Civolani finì in posizione anonima, con un titoletto di maniera. Gianfranco era furioso: «Massa di incompetenti, dovrebbero cambiare mestiere». Ma poi mi aggiunse: «Hai visto che a forza di pressarlo, Fulvio si è convinto dell’importanza della tattica?» La sentiva un po’ sua quella conversione, e forse non aveva torto.
Nei primi anni Settanta la televisione italiana scoprì, con colpevole ritardo, il talento comunicativo di Gianfranco e gli offrì una rubrica (molto gustosa, sul filo dell’ironia) nell’allora popolarissima Domenica Sportiva. E questo si collega a un’altra avventura automobilistica. Con Gianfranco alla guida (di un’Alfa GT, dai tempi dell’Anglia aveva fatto carriera) c’eravamo io e Oddone Nordio del “Carlino”, che anch’egli ha lasciato di recente. Destinazione Temi, dove giocava il Bologna di Pesaola. Civolani ci avvertì subito: «Facciamo presto a
dettare i servizi, perché io devo essere a casa in tempo per il collegamento con la Domenica Sportiva». Il Bologna perse di brutto e i tifosi al seguito contestarono vivacemente Pesaola, che già era stato accolto con sospetto, per aver preso il posto dell’amatissimo Oronzo Pugliese. Io e Nordio facemmo presente che potevano esserci sviluppi e dovevamo interpellare il petisso. Gianfranco ballava sui carboni ardenti, ma non poteva tirarsi indietro. Per fortuna, Pesaola fu lapidario. Alla nostra domanda: «Hai pensato di dare le dimissioni», ci guardò con commiserazione e sparò una delle sue battute fulminanti: «Siete matti? E se le accettano?». Di corsa in vettura, sull’autostrada, con Gianfranco che guidava come un ossesso, sotto una pioggia battente. Io e Nordio cercavamo di offrirgli alternative: «Fermiamoci a Roncobilaccio, noi ci facciamo due tortelloni, tu ti colleghi con la Domenica Sportiva e poi ci racconti». «I tortelloni giammai» urlava Civolani, accelerando ancora. Sinché a una curva l’auto andò… dritta, fece una repentina carambola fra i guardrail, e noi ci meravigliammo molto di trovarci tutti e tre più o meno illesi. Arrivò la Stradale, che, ancor prima di chiedere com’eravamo messi, spiccò una salatissima multa per eccesso di velocità, rendendo Gianfranco ancora più furioso. Ma tutto sommato la conseguenza più seria fu che Civolani si perse la Domenica Sportiva.
Fu col tempo che Gianfranco si fece conquistare dal fascino del teleschermo e dalla popolarità che ne derivava. Aveva seguito tutti i più grandi avvenimenti, sei Mondiali di calcio e due Olimpiadi, l’ultima volta che ci eravamo trovati insieme su una ribalta importante era stato in Messico ’86, ancora, in ruoli diversi, io per il “Guerin Sportivo”, lui per il “Corriere dello Sport – Stadio”, dove era approdato dopo la fusione, per rafforzare la redazione bolognese. Nelle tv e nelle radio locali divenne presto un’attrazione. Aveva l’istinto del geniale istrione, modulava la voce come un attore consumato, e poi c’era alla base la competenza maturata, oltre a una memoria
prodigiosa. Fu quello il periodo in cui Gianfranco Civolani divenne semplicemente “il Civ”, un’istituzione, una specie di padre nobile per Bologna e il suo sport.
Da oltre quarant’anni, il poliedrico Gianfranco era anche presidente-padrone di una squadra di basket femminile, che guidava con ferrea autorità, fra mille ostacoli, sostenendone in buona parte di tasca propria i crescenti oneri finanziari. Ne parlo malvolentieri, perché l’ultimo anno è stato felice sotto l’aspetto sportivo (la squadra è approdata in A/1), ma triste sul piano dei rapporti. Gianfranco è entrato in rotta di collisione con le sue giocatrici e, col carattere che aveva, naturalmente non è arretrato di un millimetro. Credo che quella vicenda l’abbia profondamente segnato dentro, in un momento in cui altri e più seri problemi lo assillavano. Così penso che un modo per ricordarne questa ulteriore benemerenza nei confronti dello sport bolognese andrebbe trovato. Fermo restando, purtroppo, che la gratitudine non è di questo mondo.
Insieme con le fitte presenze in tv e radio (le sue “pillole” erano imperdibili), Gianfranco avviò anche una serie di libri, ufficialmente sul Bologna e sui suoi personaggi, ma in realtà in forte misura autobiografica. Una tradizione: a Natale il nuovo libro del Civ non mancava mai. Come il panettone. So che ha cercato sino all’ultimo di mantenere l’impegno, anche nei giorni del dolore. Mi aspetto che l’ultima opera esca postuma per le prossime feste. Di quei libri, inizialmente editi da un comune amico e collega, Gianni Marchesini, io facevo sempre la prefazione. E l’ultima, lo confesso, uscita per Civ il mio Bologna. Dizionario rossoblù di Gianfranco Civolani, mi ha aiutato a mettere in fila i ricordi, in un momento in cui la commozione faceva aggio sulla lucidità. Al Civ, che era di solito assai parco di elogi, era piaciuta e, quando me lo disse, gli risposi: «Grazie, così mi fermo qui. Ormai mi sono stancato di parlar bene di te». Non immaginavo, non avrei voluto, che ci sarebbe stata un’altra volta. Ciao Gianfranco, e che la terra ti sia lieve.