3 minute read
Liberazione L’ultimo aprile di guerra
Liberazione
L’ULTIMO APRILE DI GUERRA
Advertisement
Liberazione. Il 21 aprile 1945 per Bologna fu la storica Liberazione dai tedeschi, dal nazismo, dai fascisti, dal fascismo. Da uomini e orrori. Fu anche la quotidiana liberazione dai bombardamenti alleati, dalla paura, dalla fame, dalle miserie, dalle vergogne. Fu esplosione di sentimenti.
Liberazione è onore ai 2064 partigiani assassinati. Sono le donne che cominciano a deporre fiori e foto in piazza Nettuno, i semi da cui poi sorgerà il sacrario. È la fine delle bombe lanciate dagli aerei americani e inglesi, puntavano alla stazione ferroviaria, alle centrali tedesche, uccisero anche 2481 bolognesi. È lo scoprire che si può finalmente tornare ad amare guardando al futuro. Sono i baci per strada a sconosciuti in divisa o scesi dalle montagne, è la chocolate chiesta agli americani, è lo stupore di vedere quanto gli altri, anche in guerra, fossero tanto messi meglio di noi.
È l’addio a Pippo, l’aeroplanino monoposto che seminava morte e a cui Pupi Avati dedicò un film. Le ragazze bolognesi cominciarono a innamorarsi ballando Glenn Miller e scoprendo che era pure lui morto in guerra, swing, boogie woogie, Moonlight Serenade, In the Mood. Feste nei palazzi dove erano i comandi tedeschi e nei primi baladur rossi. Venne il jazz, nelle cantine degli studenti. Il 21 aprile è il ritorno alla vita. Nello stesso mitico giorno della fondazione di Roma.
Liberazione è anche il pensiero a chi è stato ammazzato, a combattimenti finiti. Il sindacalista cattolico Giuseppe Fanin, i preti, le lapidi in alcune parrocchie completano quelle partigiane in tante strade. Gente come Lionello Matteucci, non fascista ma proprietario di terre, suo figlio Nicola fu fra i fondatori del Mulino, liberale durissimo, prima tesi in Italia su Gramsci.
E Leandro Arpinati, il federale che non aveva aderito alla Repubblica di Salò, aveva protetto prigionieri alleati fuggiti e partigiani: fu ucciso il 22 aprile 1945, da una «volante rossa».
Sono i partigiani che nel Dopoguerra sono scappati nei Paesi comunisti, costruendo anche là un’epopea di maschia solidarietà e illusioni perdute.
Liberazione sono le truppe polacche del generale Anders, che alle 6 del mattino del 21 aprile entrano per prime in città. «La vostra libertà è la nostra libertà.» Il primo sindaco, Giuseppe Dozza, fondatore del Pci, li onorò con una lapide a porta Mazzini. Odiavano i russi che li avevano massacrati in accordo con Hitler nel ’39. Furono fatti aspettare a San Lazzaro prima di farli marciare su Bologna nelle bande partigiane comuniste. Un cimitero bianco li ricorda. In patria li attendeva Stalin, l’Europa tradita nella spartizione di Yalta.
Una folla immensa si radunò in piazza, le campane suonarono a stormo. Spuntano bandiere italiane. Partigiani portano prigionieri tedeschi disfatti. I fascisti sono scomparsi. «Mia madre in guerra calò venti chili», scrisse Aldo Ferrari in un libro splendido, I giorni di Bologna: Kaputt, nel 1980, quando la stazione era di nuovo massacrata da una bomba. Luca Goldoni racconta: «Le alunne del ginnasio che si ravvivavano le labbra sfregandovi contro il bordo
rosso dei quaderni», mentre i ragazzi «fumavano foglie di vite seccate, avvolte nella carta leggera dei foglietti del calendario». Gianni Leoni sfila attraverso i luoghi dove la vita pur continuava, dai caffè concerto, bombe permettendo, a «quelle case» dove «si pregano i Signori di voler usufruire dell’orinatoio sito all’interno della casa e non lordare la pubblica via».
Eroismo, erotismo, sopravvivenza. Le donne che facevano le staffette come Irma Bandiera, massacrata mentre attendeva un bambino. Quelle che si arrabattavano tutti i giorni a portare in tavola qualcosa e, come scrisse Franca Varignana, «a non far crescere i figli nell’odio». La «voglia di pane» narrata da Ciro Soglia, che fu capo dei partigiani e di una «Unità» altrettanto eroica. Liberazione è tanti, tanti onori. E molti oneri dimenticati.