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Liberazione Le bombe amiche

Liberazione

LE BOMBE AMICHE

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Liberazione è anche non dover fuggire dal proprio letto. Non stringere i denti quando senti i fischi delle bombe. Non pregare che l’esplosione riguardi qualcuno che non conosci. Liberazione è la fine della paura e dell’egoismo orrendo di chi si è salvato. È riuscire, alla fine, a festeggiare chi ti ha bombardato. Accettarlo è una delle più grandi e terribili prove di una democrazia che sarebbe nata.

Sono stati oltre un centinaio i bombardamenti angloamericani su Bologna. Il primo, il 16 luglio 1943, colpì via Agucchi, di notte, morirono in dieci, prime vittime di una guerra che alla fine uccise, a Bologna, 2481 civili. L’ultimo fu il 20 aprile 1945, fra San Ruffillo, la collina, via Parisio. Un giorno prima che a Bologna arrivassero gli alleati, i liberatori.

I bombardamenti iniziarono nove giorni prima del 25 luglio 1943, la caduta del fascismo. Sono continuati quando l’Italia era massacrata dai tedeschi e dai repubblichini. Il 25 settembre 1943, diciassette giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, vi fu la strage più grande: oltre mille morti e centinaia di feriti, in gran parte nel rifugio del Cavaticcio. In questo scadenzario di morti “inutili”, da bombe americane e inglesi, sta il senso diffuso di una città che, comunque, seppe capire con sangue e dolore da che parte stava il futuro di libertà.

Bologna resisteva a tutte le crudeltà. Il suo popolo si ammassava nei rifugi antiaerei e aspettava. Saranno diventati venticinque alla fine della guerra.

Le gallerie si mutavano in alloggi permanenti per chi la casa non ce l’aveva più. Athos Vianelli: «Brandine, pagliericci, piccoli mobili salvati dalle macerie, suppellettili consunte dall’uso, immagini di santi contrassegnano i miseri acquartieramenti di intere famiglie».

Bombardamenti e rifugi erano una mostruosa roulette. Palma Villani allora aveva vent’anni. «Mio babbo Giuseppe correva alla Casaralta con dei suoi amici. Gli altri andarono nel primo rifugio, lui in uno appena più distante. Quando uscì vide che i suoi amici erano morti tutti. Non si riprese mai più, si ammalò, andavamo per le medicine in bicicletta fino a Modena, ma in un anno morì.» Maledizione da guerra. «Noi avevamo un negozio di alimentari in via Roma, ora è via Marconi. Bombardarono la stazione e distrussero tutto. A fine guerra mi diedero 12mila lire. Ho solo pagato i debiti.»

Resistere è anche questo. Storie stranissime si incrociano. Giuseppe Dozza, capo del Cnl, il pomeriggio del 21 aprile 1945 rimandò a casa Mario Agnoli, il podestà trattenuto a palazzo d’Accursio. «Je suis le maire fasciste de Bologna», si era presentato al colonnello polacco Władysław Anders, appena insediatosi in municipio. «Le première fasciste j’ai connu», lo aveva salutato il militare. Il primo fascista conosciuto, gli altri erano tutti scomparsi dalla città. Agnoli era stato fascista della prima ora, poi si era ritirato come Leandro Arpinati, il leader dissenziente a cui si richiamava, era ricomparso come commissario prefettizio con il governo Badoglio, rimasto come podestà della Rsi. Anomalo in tut-

to. Il riconoscimento del Cln lo certificò mentre la guerra civile non era ancora finita.

Agnoli è il fascista che cerca di far sopravvivere, barcamenandosi, cercando un futuro anche per se stesso, una Bologna stretta fra la morsa nazista e i bombardamenti alleati. Fra la lunga agonia e la lunga liberazione. È l’organizzatore dei rifugi, dei soccorsi, degli sfollati. Tenta di ottenere il riconoscimento di una «Bologna città aperta», «bene che trascende i confini della città per divenire retaggio di tutte le genti», coprendo di lettere il feldmaresciallo Kesselring, tentando di raggiungere gli Alleati attraverso i cardinali Schuster di Milano e Nasalli Rocca a Bologna. Nell’autunno del 1944 è istituita la Sperrzone, la “zona chiusa”, all’interno dei viali di circonvallazione, non occupata dalle truppe tedesche. Diventa una città a parte, arriva a ospitare 600mila persone, tra residenti e sfollati.

«I contadini – scrive il comandante della piazza di Bologna, Frido von Senger und Etterlin – avevano fatto affluire il bestiame in città. Gli animali erano sistemati un po’ dovunque, negli androni, nei cortili e persino nelle chiese in attesa di essere macellati.»

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