Questo volume è stato realizzato grazie al prezioso contributo di
SERGIO BARDUCCI
RINCORSI DAL VENTO
STORIA DI UNA LUNGA AVVENTURA
SULLE SALITE DELLA ROMAGNA
Quando il morale è basso, quando il giorno sembra buio, quando il lavoro diventa monotono, quando ti sembra che non ci sia più speranza, monta sulla bicicletta e pedala senza pensare a nient’altro che alla strada che percorri.
sir arthur conan doyleRINCORSI DAL VENTO
LA BICICLETTA
Per noi romagnoli la bicicletta è da sempre un mezzo di locomozione privilegiato, praticamente dalla sua invenzione. Certo, non quella immaginata dal grande genio Leonardo da Vinci nel 1490 ma il primo prototipo del 1884, quello realizzato dall’inglese John Starley, universalmente riconosciuto come il primo vero antenato della bicicletta moderna.
Possederne una agli inizi del secolo scorso era un lusso che solo pochi potevano permettersi. Gli italiani le ammirarono estasiati al primo Giro d’Italia del 1909 ma piano piano, magari anche vecchia e malandata, la bicicletta è entrata in tante famiglie romagnole fin dagli anni Trenta.
Mia nonna Adelina, ad esempio, è in sella alla sua pesante bicicletta nera che ha sfamato cinque figli e contribuito allo striminzito bilancio dei suoi genitori.
Classe 1920, Lina – come tutti la chiamavano – faceva la pescivendola ambulante; “Commerciante ittica” si direbbe oggi.
In sostanza ogni giorno, verso la tarda mattinata o il primo pomeriggio, a seconda del rientro in porto delle barche dei pescatori, lei arrivava sulla banchina e, senza mai mollare la sua preziosa bicicletta appositamente trasformata da fabbro del paese con due ampi portapacchi – uno davanti e uno dietro – si avvicinava ai pescherecci e contrattava con i pescatori ormai esausti dopo una notte passata in mare, a
tirare su pesanti reti e governare quelle piccole imbarcazioni con le vele al terzo.
«Dammi tre chili di quelle saraghine, Mario. Quanto me le fai pagare?»
«Almeno mi devi dare cento lire al chilo!»
«Sei matto? Se do cento lire a te, a quanto le dovrei vendere per guadagnarci qualcosa? Non se ne parla neanche; sessanta lire bastano e avanzano.»
«Ma no Lina, dai. Così non ci prendo neanche le spese.»
«Che spese avrai mai? Te vai ancora a vela, mica quelli là che hanno montato il motore!»
«E la mia fatica?»
«La tua? E la mia? Te adesso vai a dormire mentre io dovrò pedalare tutta la giornata, casa per casa fino a Villalta, Sala o Gatteo. Se non riesco a venderle tutte dovrò arrivare anche a Cesena. Tornerò a casa quando sarà buio. Dai, dai, smettila di fare storie e dammi quelle saraghine!»
Non aveva ancora trent’anni Lina ed era piuttosto piacente, con un sorriso brillante che quando lo sfoderava le illuminava il volto e accendeva quei due splendidi occhi verdi. Era la sua arma segreta per convincere anche i “fornitori” più riluttanti.
La contrattazione proseguiva più o meno allo stesso modo con altri pescatori, fino a quando le ceste della sua bicicletta non si riempivano di cefali, sgomberi, qualche triglia e poche sogliole; quelle erano pregiate e pochi avevano i soldi per comprarle.
Terminati i “negoziati”, nonna Lina partiva per il suo solito giro nelle zone di campagna.
Non sempre i suoi clienti avevano denaro contante per pagarla e allora si ricorreva all’antico sistema del baratto:
quattro o cinque uova, un pollo, qualche zucchina o pomodoro e altri prodotti del lavoro contadino. Era per questo che la nonna portava sempre con sé una grande borsa di tela, ricavata dai vecchi pantaloni del nonno, che appendeva alla bicicletta. Mentre la cesta si svuotava del pesce venduto, la borsa si riempiva di ortaggi e altri generi alimentari, per poi trovare una collocazione più sicura in una delle ceste ormai vuote. Sui pedali, possiamo dire, mia nonna Lina aveva fondato e gestito la sua “azienda”.
Anche mio padre, o meglio – come si dice da queste parti – mio babbo, aveva una vecchia bicicletta acquistata da un lontano parente di città. Ce la invidiavano i vicini di casa che per questo ci consideravano privilegiati, se non addirittura “ricchi”.
Nel dopoguerra, si sa, le ristrettezze economiche erano la norma e anche una vecchia bicicletta da donna, un po’ scolorita e arrugginita, poteva diventare una sorta di “status symbol”.
Con quella il babbo andava dappertutto: al lavoro, al bar verso sera, a comprare il pane quando poco prima di mezzogiorno tornava dal cantiere.
A volte mi portava con sé.
Per esempio quando andavamo a trovare i parenti di mia mamma, a Ronta, un piccolo borgo con poche case alla periferia di Cesena.
Si partiva alla mattina presto: mio padre ben saldo sulla sella, mia madre elegantemente seduta con le gambe unite a lato sul portapacchi posteriore, con un cuscino del salotto di casa sotto il sedere, per attutire i contraccolpi delle strade dissestate.
Io, invece, sedevo sul “cannone”, che per me era come un trono. In realtà, essendo una bicicletta da donna, non
aveva un cannone vero e proprio, ma mio padre – da buon artigiano – ne aveva costruito un surrogato utilizzando un pezzo di legno opportunamente sagomato per incastrarsi con precisione tra i tubi del telaio, diventando così il sedile sul quale mi poggiavo, aggrappandomi alla parte interna del manubrio.
«Tieniti stretto, mi raccomando – mi diceva il babbo sorridendo – che adesso si vola, vedrai.»
E così la famiglia si metteva in viaggio per la visita domenicale ai parenti: 15 chilometri per andare e 15 chilometri per tornare. Il babbo pedalava di buona lena e in poco più di un’ora si arrivava a destinazione.
Al ritorno facevamo prima, perché la leggera pendenza della strada aiutava ad acquistare velocità o, qualche volta, a riposare le gambe del babbo che lasciava andare la bici senza pedalare.
Era inevitabile che la bicicletta mi “entrasse nel sangue” e nel tempo diventasse la mia più grande passione.
Ogni volta che salivo in sella, per un giro turistico con gli amici o una “sgambata” in solitaria, mi tornava alla mente il sorriso del babbo e quella sua solita frase: «Tieniti stretto, che adesso si vola», e incominciavo a pedalare incurante della fatica e delle salite: «Mi tengo stretto babbo, guarda: adesso si vola».
PEDALARE INSIEME
Non ero il solo, ovviamente, a coltivare questa passione, tanti come me trovavano nella bicicletta lo strumento per liberarsi dagli stress quotidiani, per godersi qualche momento di solitudine, per lasciar scorrere i pensieri, per incontrare gli amici, insomma per godere di tutti quei benefici che derivano da una sana pedalata su strade poco trafficate. La bicicletta come strumento di libertà, come a inizio secolo scriveva il faentino Alfredo Oriani:
Il piacere della bicicletta è quello stesso della libertà, forse meglio di una liberazione andarsene ovunque, ad ogni momento, arrestandosi alla prima velleità di capriccio, senza preoccupazioni come per un cavallo. La bicicletta siamo ancora noi, che vinciamo lo spazio e il tempo; stiamo in bilico e quindi nella indecisione di un giuoco colla tranquilla sicurezza di vincere; siamo soli senza nemmeno il contatto colla terra, che le nostre ruote sfiorano appena, quasi in balia del vento, contro il quale lottiamo come un uccello. Non è il viaggio o la sua economia nel compierlo che ci soddisfa, ma la facoltà appunto di interromperlo o mutarlo, quella poesia istintiva di una improvvisazione spensierata, mentre una forza orgogliosa ci gonfia il cuore di sentirci così liberi…
Una passione, la nostra, rafforzata dalle gesta epiche di alcuni campioni e miti del ciclismo.
Due fra tutti – oltre al nostro caro e mai dimenticato Marco Pantani che resterà per sempre nei nostri cuori di tifosi e di concittadini – i grandi Gino Bartali e Fausto Coppi: atleti indomabili e infaticabili ma anche uomini straordinari, capaci di farci sognare per le epiche gesta sulle impervie salite del Giro e di regalarci pregevoli esempi di umanità, di lealtà, di sportività e rispetto. Nel 1947 “l’Airone” – come avevano soprannominato Fausto – vinse anche il Giro di Romagna, facendocelo sentire ancora più vicino.
Nel 1965, cinque anni dopo la sua prematura scomparsa, decidemmo di costituire un gruppo sportivo che mantenesse vivo il suo ricordo e che si ispirasse a quei valori profondi di lealtà che lui aveva saputo trasmetterci.
Dapprima facevamo brevi pedalate in pianura, spendendo più tempo a parlare di ciclismo piuttosto che a praticarlo. Poi, visto che le gambe ci seguivano e l’allenamento ci consentiva di osare ogni fine settimana di più, cominciammo ad affrontare le dolci salite attorno a Cesenatico, e già arrivare a Longiano, Sogliano o Montetiffi diventava una sfida che ci esaltava ogni volta che riuscivamo a scollinare.
E al ritorno, giù a vantarci dell’eroica conquista:
«Dì, burdell, oggi sono arrivato a Roncofreddo. Mi dovevate vedere. Andavo su per la salita di Santa Paola che non sudavo neanche!»
Le esagerazioni, si sa, non sono solo una prerogativa dei pescatori, anche noi ciclisti non scherziamo affatto.
«Cosa vuoi che sia arrivare a Roncofreddo! Non c’è bisogno che ti vanti tanto. E io, che sono arrivato su, fino a Sogliano, che cosa dovrei dire?»
Da notare che Roncofreddo è a 314 metri di altitudine, Sogliano a 362.
I più temerari, il sabato mattina partivano decisi a scalare il più impegnativo percorso per Montetiffi, a 428 metri sul livello del mare. Ma in quell’occasione la “gita” prevedeva un fuori programma, che ormai era diventato invece una tappa fissa: un piatto di tagliatelle al ragù, come Dio comanda, alla Locanda di Nonna Maria, l’unico ristorante di quella piccola località.
Ovviamente a bagnare quelle tagliatelle fumanti sarebbe servito anche qualche bicchiere di buon Sangiovese: «Bevete e mangiate, ragazzi – ci diceva la signora che portava quei piatti invitanti – tanto in discesa non vi batte nessuno!».
E così, in realtà, stavano le cose. Dopo la fatica della salita, il ristoro abbondante e un riposino post prandiale, in discesa andavamo come dei fulmini, e a Cesenatico si arrivava nel tardo pomeriggio con la mente sgombra e la pancia piena.
Il “club” dei ciclisti della Fausto Coppi andava piano piano allargandosi.
Sarà stato per la passione della bicicletta che cresceva coinvolgendo anche chi su una sella non era mai salito (complici le telecronache al Giro d’Italia di Adriano De Zan o il Processo alla tappa di Sergio Zavoli e Gianni Brera), sarà perché si era sparsa la voce della “pausa tagliatella”, ma il gruppetto sparuto del sabato mattina si stava via via infoltendo.
Avevamo bisogno di una sede, un luogo dove riunirci, pianificare le uscite, discutere sulle nuove tecnologie applicate alle biciclette, confrontarci sulle varie esperienze… ma
i soldi erano pochi e di prendere appositamente un locale in affitto non se ne poteva nemmeno parlare.
Anche riunirsi a turno a casa di uno o dell’altro ci sembrava cosa inopportuna: avremmo dovuto fare i conti con la prevedibile irritazione delle nostre signore e solo il pensiero ci suggeriva di evitare il rischio di scatenare rimbrotti o discussioni.
L’unica possibilità restava quella del Bar del Corso.
Era lì che ci trovavamo ogni domenica mattina, verso le sei, prima di partire per una pedalata sulle strade della provincia.
A quell’ora le saracinesche del bar erano ancora abbassate e i pescherecci che affollavano le banchine del Porto Canale erano già usciti in mare. L’atmosfera era serena, la vista straordinaria per la bellezza di questo angolo della città.
Giubbini leggeri per ripararsi dal freddo, la prospettiva di affrontare le dolci pendenze delle prime colline e poi i riposanti declivi con il vento a sferzarti il viso, qualche sosta nelle osterie di campagna per rifocillarsi e magari riposarsi un po’ prima di ripartire con le gambe leggermente più pesanti per quel bicchiere di vino che avremmo dovuto evitare… Insomma, una domenica mattina di straordinaria pace e tranquillità.
Al ritorno poi, un caldo caffè del Bar del Corso avrebbe favorito i commenti del dopo giro, seduti ai tavolini che si affacciavano sul Porto Canale, a quell’ora oramai scaldato dal sole e riempito dal vociare e dalle imbarcazioni dei marinai che erano rientrati dalla lunga notte di pesca.
Che cosa avremmo potuto chiedere di più?
A fondare quel sodalizio ciclistico, in cui ovviamente sarei subito entrato a far parte anche io, furono in otto: Gaeta-
no Freschi, Tarcisio Pedulli, Vito Pagan, Gianfranco Casali, Guerrino Ciani, Giovanni Berlati, Domenico Razzani e Gianpietro Stignani, a cui via via si aggiunsero altri amanti della bicicletta.
Di tutti noi, Gaetano Freschi era quello più legato a Fausto Coppi, quello che più di altri aveva subìto il fascino delle sue imprese e della sua sportività.
Per una serie di fortuite coincidenze era entrato in contatto e poi diventato amico, con il mitico Giuseppe De Grandi, meglio noto come “Pinella”, il più apprezzato meccanico del ciclismo del dopoguerra, che aveva avviato la sua carriera come corridore.
Era lui il meccanico di fiducia di Fausto Coppi, dopo esserlo stato per Martano e Cipriani, Gino Brizzi, Giovanni Valetti, il celebre Costante Girardengo e lo stesso Gino Bartali.
Nel 1952 passò alla Bianchi e nacque il sodalizio con il mitico Coppi.
Per lui gestì tutte le biciclette costruite su misura del campione: settanta, in totale, ovvero cinquantatré da corsa e diciassette da pista.
È proprio una di queste biciclette, costruite per il “Campionissimo”, che Gaetano Freschi riuscì ad acquistare grazie all’intercessione di Pinella De Grandi. Era infatti consuetudine della Bianchi mettere in vendita le biciclette dei suoi atleti una volta concluso il loro utilizzo per le gare.
Freschi acquistò la bici di Coppi per la cifra di novantaduemila lire e in sella a quel gioiello iniziò orgogliosamente a sfrecciare su tutte le strade, non solo della Romagna, suscitando in tutti i ciclisti ammirazione e un poco di malcelata invidia.
Novantaduemila lire, a quei tempi, non erano certo poca cosa ma Gaetano, con un po’ di sacrifici e mettendo mano ai risparmi di una vita, riuscì a entrare in possesso di quel prezioso gioiello, l’equivalente di una filante Ferrari, che in quegli anni aveva già vinto le corse più prestigiose guidata da piloti del calibro di Alberto Ascari o Juan Manuel Fangio: Mille Miglia, 24 Ore di Le Mans, Gran Premio di Gran Bretagna, di Germania e d’Italia a Monza.
La rossa Gran Turismo, disegnata da Pininfarina, era il sogno di ogni appassionato di automobili, un oggetto del desiderio alla pari della Bianchi di Fausto Coppi per i ciclisti.
Fu proprio in sella a quella preziosa bicicletta che nell’agosto del 1955 affrontò una trasferta a Roma, per assistere al mondiale di ciclismo su strada e incontrare l’amico De Grandi e il grande campione: il suo idolo Fausto Coppi. Con lui c’era un giovanissimo Gianfranco Casali, appena quindicenne, che in seguito sarebbe diventato un inseparabile compagno di pedalate.
GIOVANNI
VALETTI IL CAMPIONE DIMENTICATO
Classe 1913, Giovanni Valetti è uno dei campioni del ciclismo italiano quasi sconosciuto ai più. Quinto al suo primo Giro d’Italia nel 1936, come capitano della Frejus, fu una fastidiosa quanto insidiosa spina nel fianco di un grande di tutti i tempi come Gino Bartali, un anno più giovane di lui, diventato professionista l’anno precedente.
Bartali vinse quel Giro del ’36 in cui esordì Valetti sorprendendo tutti. Era una matricola fra i professionisti, ma si impose nelle varie tappe dando filo da torcere e pensiero a molti.
L’anno successivo la maglia rosa fu ancora di Bartali, ma Valetti lo aveva tampinato molto da vicino laureandosi vice-campione ad appena 24 anni.
Nel 1938 toccò al ragazzo di Vinovo conquistare il gradino più alto del podio, non solo al Giro d’Italia ma anche al Giro di Svizzera.
Quella italiana fu una vittoria un po’ più facile del previsto, perché il regime fascista aveva obbligato Bartali a correre il Tour de France – che vinse – insieme ad altri 11 italiani di prestigio, fra cui due romagnoli: il cesenate Mario Vicini (Gaibéra) e il forlivese Glauco Servadei. Della squadra italiana facevano parte anche Vasco Bergamaschi, Aldo Bini, Enrico Mollo, Jules Rossi, Giordano Cottur, Augusto Introzzi, Giuseppe Martano, Settimio Simonini e Nello Trogi. Valletti concluse il Giro in 112 ore, 49 minuti e 28 secondi.
Il ciclista torinese era in grande spolvero, la sua preparazione atletica era in progressione, come pure la forma fisica e la condizione psicologica: anche il Giro del 1939 lo vide vincitore e questa volta davanti a Bartali e Mario Vicini, che concluse al terzo posto. Fu la sua consacrazione.
A causa di una brutta caduta, Giovanni era stato costretto a saltare la Milano-Sanremo, vinta da Bartali; al Giro di Toscana aveva sofferto pesantemente sul passo del Sugame e Bartali lo aveva superato conquistandosi nove minuti di vantaggio. Ma in quel Giro del ’39 le cose andarono diversamente.
I cronisti dell’epoca raccontarono con diversi entusiasmi la lotta in testa al gruppo, che vide protagonisti Giùanin e Ginaccio, ovviamente il grande favorito: Bartali indossò la maglia rosa già alla seconda tappa, ma il giorno dopo Valetti accorciò le distanze recuperando due minuti, a cui si aggiunsero 28 secondi nella cronometro del Terminillo. Quella montagna e quella gara a cronometro stavano diventando il simbolo dello scontro sportivo fra i due. Nel Giro del ’37 Bartali aveva soffiato la maglia rosa a Valetti, ma questa volta il piemontese la strappò al toscanaccio.
Nella cronometro di Gorizia Bartali perse solo 2’09” sul suo rivale e passò dal 3° al 2°, posto ma il vantaggio di Valetti aumentò a 3’59”. Tutto sembrava pronto per il tripudio sulle Dolomiti. Sul passo Rolle, Bartali scattò con prepotenza staccando i suoi rivali nella tappa Cortina d’Ampezzo-Trento e arrivò al traguardo con otto minuti di vantaggio su Valetti.
Cos’è Bartali – scriveva Orio Vergani sul “Corriere della Sera”
del 16 maggio 1939 (nda) – adesso sulla strada che sale sulle abetaie vegliate dai Giganti della Montagna? Una piccola macchia verde che la folla affacciata agli spalti riconosce da lontano ogni volta che la strada gira fra gli abeti. Bartali non si vede più. Va su, come un più leggero dell’aria, a conquistare il traguardo di Passo Rolle fra gli abbaglianti nevai che spingono le loro labbra candide sin sulla strada a baciargli la ruota.
Ma Giovannino Valetti non intendeva mollare e sul passo del Tonale decise che quello sarebbe stato il momento di salutare tutti. Scattò inseguito da Bartali e accompagnato dal suo prezioso compagno di squadra: Gino Brizzi. I tre staccarono il gruppo di un minuto e mezzo. Bartali forò e si attardò a cambiare la ruota, ma poco dopo anche Valetti ebbe la stessa disavventura. I due si diedero battaglia fra discese e salite. Sul Tonale Giùanin aveva oltre 5 minuti su Bartali, che recuperò in discesa ma perse ancora terreno all’Aprica, dove il distacco salì a 6’45”. Il Ginaccio si consolò con l’arrivo in volata a Milano, nell’ultima tappa, ma il Giro era di Valetti che si confermò il più forte degli scalatori.
Pochi mesi dopo lasciò la Frejus per passare alla Bianchi insieme ai compagni di squadra Gino Brizzi e Cino Cinelli, con l’intento di vincere il suo terzo il Giro d’Italia. Le cose non andarono però come sperato e la “corsa” del 1940 la vinse un giovanissimo Fausto Coppi; lui fu costretto ad accontentarsi di un mortificante 17° posto.
La Bianchi lo licenziò l’anno successivo e lui si accasò alla Olmo, dove restò fino al 1943, ma del Valetti dei duelli epici
con Bartali non rimase che il ricordo e nel 1948 – alla ripresa dopo la guerra – partecipò senza squadra alla Milano-Sanremo. Quella fu la sua ultima competizione; una carriera conclusa con 16 vittorie fra cui 2 Giri d’Italia, 1 Giro di Svizzera, 6 tappe al Giro d’Italia, 2 tappe al Giro di Svizzera.
I tifosi, è risaputo, dimenticano presto i loro idoli e Giovanni Valetti finì inesorabilmente nell’oblìo.
A lui, 16 anni dopo la sua scomparsa, Lucio Lionello e Damiano Monaco hanno dedicato un film intitolato Valetti, il campione dimenticato, un documentario che racconta la vita e la carriera del protagonista delle mitiche sfide del cosiddetto “ciclismo romantico degli anni Trenta”.