Msoi the post Numero 1

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MSOI THE POST 7 Giorni in 300 parole POLONIA Trionfa la destra nazionalista con il Pis, partito antieuropeista e anti-immigrazione guidato da Jaroslaw Kaczysnski, che per la prima volta nella storia estromette la sinistra dal Parlamento. La premier designata Beata Szydlo sarà in grado di governare senza dover ricorrere ad alleanze grazie alla maggioranza assoluta dei seggi (non accadeva dal 1989).

GERMANIA In seguito alla decisione del governo austriaco di costruire una barriera al confine con la Slovenia a scopo “precauzionale”, Seehofer, leader dell’ala bavarese del partito della Merkel, promuove la chiusura della frontiera con l’Austria per ostacolare il flusso dei migranti nella regione. Dura la replica della Cancelliera, che sottolinea come l’adozione della misura provocherebbe tensioni nei Balcani, con il rischio di scontri armati. BREXIT Il ministro del tesoro britannico Osborne conferma la chiusura verso le riforme dell’UE e chiede maggiori garanzie per gli Stati membri che non hanno aderito all’euro. Merkel replica “La Gran Bretagna dovrebbe rimanere un membro UE e le sue preoccupazioni, se giustificate, sono anche le nostre.

FONDI EUROPEI Entro il 31 dicembre 2015 l’Italia dovrà impiegare quasi un quarto dei 28 miliardi messi a disposizione dell’UE per il ciclo di programmazione 2007-2013. Il Bel Paese, superato solo da Spagna e Portogallo in quanto a fondi ricevuti, è tenuto a presentare le certificazioni di spesa entro la fine del 2015, termine oltre il quale non potrà più usufruire del denaro inutilizzato. EMERGENZA MIGRANTI Al vertice UE- Balcani viene approvato in extremis l’accordo sul documento proposto dal presidente della Commissione europea Juncker in merito alla questione migranti. Il testo espone in 17 punti la linea politic che i Paesi concordatari dovranno seguire e prevede l’impegno dell’Europa a creare altri 100.000 posti nei centri di accoglienza situati lungo la rotta dei Balcani.

Negoziati TTIP Si è concluso a Miami lo scorso 23 ottobre un nuovo round di negoziati sul Trattato Transatlantico sul Commercio e gli Investimenti (TTIP). Cinque giorni di accese trattative tra le delegazioni di USA e UE, cui si sono aggiunti sindacati e ONG, nonché rappresentanti del mondo industriale di entrambe le sponde dell’Atlantico. Tre i pilastri sui quali le trattative si sono sviluppate: regole di accesso al mercato, armonizzazione normativa e regole commerciali. Ben più numerosi, invece, i motivi di tensione. Se dal punto di vista degli USA, infatti, il TTIP rischia di mettere pericolosamente in discussione gli equilibri di potenza del mercato interno americano, le apprensioni dell’UE si concentrano più sulla salvaguardia della normativa europea


sulla protezione dei consumatori, come ha sottolineato Ignacio Garcia Bercero, capo negoziatore UE. Ci si aspetta comunque che le negoziazioni subiscano un’accelerazione nei prossimi mesi, dal momento che il governo Obama considera vitale la loro chiusura entro la fine del suo mandato. Corsa alle Presidenziali Mercoledì 28 ottobre è andato in onda, sulla rete televisiva CNBC, il terzo dibattito del Grand Old Party (GOP). Dieci i candidati che si sono contesi l’attenzione e il favore dell’elettorato repubblicano dal palco di Boulder, in Colorado. Tasse, immigrazione, sanità sono tra gli argomenti sui quali il dibattito si è maggiormente concentrato. Ma non sono mancati battute e attacchi personali a dare colore allo scontro. Ben Carson, che arrivava a Boulder come favorito, ha mostrato una presenza a detta di molti sottotono rispetto alle aspettative. Anche l’altra grande star della contesa, Donald Trump, pare aver perso un po’ del suo smalto, scivolando tra l’altro quando pungolato su alcune sue passate dichiarazioni. Chi invece ha saputo capitalizzare sull’occasione di mercoledì è stato il giovane Senatore della Florida Marco Rubio, ora in vetta per consensi nella classifica di USA Today. Rivalità a parte, un punto sul quale tutti i candidati hanno insistito è stato l’attacco al fronte democratico, attacco al quale la candidata democratica di punta Hillary Clinton ha fatto eco con un caustico tweet: “Il dibattito del GOP l’ha reso chiaro. Non possiamo permetterci un repubblicano alla Casa Bianca”. JOHN KERRY IN ASIA CENTRALE Cinque giorni, cinque capitali. Kirghizistan, Uzbekistan, Kazakhstan, Tagikistan e Turkmenistan: per la prima volta nella storia un Segretario di Stato USA ha toccato tutte le cinque repubbliche centroasiatiche nel corso di una stessa visita ufficiale. Tra il 29 ottobre e il 3 novembre il segretario Kerry ha incontrato capi di stato e vertici diplomatici in una serie di incontri che arrivano, con un tempismo tutt’altro che casuale, proprio in un momento in cui gli USA hanno annunciato il quasi completo ritiro delle loro truppe dal vicinissimo Afghanistan, mentre il Medio Oriente è sempre più attraversato dalla minaccia ISIS. Sembra insomma che la visita sia parte di un progetto diplomatico volto a lanciare alla regione un messaggio ben definito: gli USA ci sono e sono disposti a impegnarsi a tutela della sicurezza dell’area, a condizione che i leader della regione garantiscano di imboccare la strada della tutela sostanziale dei diritti umani e politici, come invocato dallo stesso Kerry nella maggior parte dei suoi interventi.

RUSSIA-NATO: TURCHIA NUOVO FRONTE DI TENSIONE. “Il meeting di Vienna è stato un grosso passo avanti... Penso che oggi la soluzione sia quella di formare una coalizione [che intervenga] via terra. Tutti gli Stati aderenti alla NATO partecipano alla coalizione guidata unilateralmente dagli USA. Formalmente, il ruolo della NATO è quello di proteggere la Turchia in seguito agli accordi sulle armi chimiche.” Così afferma Aleksandr Grushko, rappresentante permanente della delegazione russa alla NATO, in riferimento ai rischi per la sicurezza interna dello Stato turco dopo la presa di posizione sulla questione delle armi chimiche nel 2013. In queste parole si percepisce la consapevolezza che la NATO debba farsi garante della sicurezza interna della Turchia, anche se in seguito Grushko sembra ventilare l’idea che gli USA non stiano realmente tentando di perseguire un sistema collettivo di sicurezza, ma la loro politica estera unilaterale lo stia, al contrario, minando. SERBIA E RUSSIA SEMPRE PIÙ VICINE La sfida della Russia di Putin alla NATO si fa sentire anche sul fronte balcanico: sono stati stanziati 5 miliardi di dollari per migliorare l’arsenale bellico serbo. Oltre che in campo militare, l’avvicinamento della Serbia alla Federazione emerge anche sul piano economico, con un accordo di integrazione dei sistemi ferroviari e un canale privilegiato di accesso ai visti d’ingresso. Da Mosca fanno sapere che l’accordo di libero scambio stipulato nel 2000 non risulterebbe a rischio se si concretizzasse l’adesione della Serbia all’UE. Rimane l’auspicio che il Partito Democratico di Serbia (DSS), molto vicino al Cremlino, possa riconfermarsi alla guida del Paese. STATUS QUO IN AZERBAIJAN In Azerbaijan si sono tenute le elezioni parlamentari: esse hanno riconfermato il partito uscente New Azerbaijan Party, che ha conquistato 70 seggi su 125. Ha pesato sul risultato l’assenza nel Paese di un osservatorio OSCE, dovuta alle severe norme interne emanate dal presidente, in un Paese nel quale gli avversari politici del partito di maggiorazna vengono incarcerati. CINA Fa scalpore il licenziamento del direttore dello Xinjiang Daily. L’accusa è di aver inserito all’interno del suo quotidiano commenti di presunta critica verso le politiche del governo. Le presunte critiche sarebbero inerenti alla lotta contro il terrorismo interno e l’estremismo religioso, riferendosi alla minoranza islamica degli uiguri


presente nella regione dello Xinjiang. Il motivo del licenziamento da parte del partito comunista, al quale il direttore Zhao era iscritto, è stato quello delle “violazioni disciplinari”, ossia l’essersi discostato dalle politiche del partito e averlo criticato. Firmata dichiarazione d’intenti tra Hollande e Xi Jinping, per porre le basi di un possibile accordo in occasione della Conferenza sui cambiamenti climatici che si terrà a Parigi a fine novembre. La dichiarazione si sviluppa in 21 punti, i quali mirano al raggiungimento di obiettivi come la diminuzione del riscaldamento globale e delle emissioni dei gas serra, dal momento che la Cina è tra i Paesi maggiormente inquinanti.

vate dalle forze della missione di pace AMISON, che in un paio d’ore hanno avuto la meglio. CIAD In base a quanto comunicato dal governo del Ciad e da alcune fonti militari, sarebbero almeno venti le vittime dei due presunti attacchi di Boko Haram a postazioni militari nella zona del lago Ciad del 1° novembre 2015. Durante lattacco un terrorista si è fatto esplodere, provocando 11 vittime civili; altri due terroristi sono stati uccisi dai soldati mentre si avvicinavano alla base militare del villaggio di Bamou. Nell’attacco all’appostamento miliare nel villaggio di Kaga Kinguirya sono morti altri 11 miliziani.

NIGERIA IL 27 ottobre 2015 l’esercito ha annunciato di aver liberato 338 persone in un’operazione contro Boko Haram nella foresta di Sambisa nel nord-est del Paese. Si tratta in gran parte di donne e bambini. ECONOMIA Negli scontri per liberare i civili sono stati uccisi 30 Notizia non nuova quella relativa all’andamento dell’e- militanti jihadisti e sono state recuperate armi e municonomia dell’intero oriente. Nelle settimane precezioni. denti, dopo il picco negativo della borsa cinese le altre l’hanno seguita a ruota. Lenta ripresa. COSTA D’AVORIO Il 28 ottobre 2015 il presidente uscente Alassane OutCOREA DEL SUD tara è stato rieletto con l’84% dei voti. Parte dell’oppoCina, Giappone e Corea del Sud cercano, anche se con sizione si è ritirata denunciando irregolarità. difficoltà, di dimenticare le passate ostilità. L’obiettivo comune è di sancire la pace e normalizzare gli scambi. TANZANIA Promettono nel summit di Seoul di stabilizzare i loro Il 31 ottobre 2015 è stata annunciata la vittoria del rapporti e la cooperazione. candidato del Partito della Rivoluzione (Ccm) John Le avversioni sono prevalentemente di origine territo- Magufuli con il 58% dei voti. riale, con il continuo contendersi delle isole Senkaku Il principale oppositore Edward Lowassa, candidato nel mar orientale cinese e la rivendicazione giapponese della coalizione dell’opposizione Unkawa, si è fermato dell’arcipelago di Takeshima attualmente sotto giurisdi- al 40% dei voti. zione Coreana. L’opposizione ha denunciato irregolarità e chiesto un Durante la 70esima assemblea delle Nazioni Unite, la nuovo conteggio dei voti, tutte istanze respinte dal Corea del sud ha sollecitato gli altri stati membri ad governo e dalla Commissione Elettorale. insistere per risolvere il problema del nucleare relatiNella regione semiautonoma di Zanzibar le elezioni lovo alla Corea del Nord. L’armamentario nucleare è un cali e regionali sono state annullate dalla Commissione problema riguardante tutti i paesi e l’obiettivo sarebbe Elettorale, che ha denunciato gravi violazioni. Il partito quello di raggiungere un accordo come quello stipulato d’opposizione Fcu ha protestato contro l’annullamencon l’Iran. to, accusando il governo di aver deciso in tal senso in SOMALIA Almeno 15 i morti e 30 feriti nell’attacco terroristico del 1° novembre 2015 all’albergo Safahi nel centro di Mogadiscio, rivendicato dagli estremisti somali Al Shabbab. Nell’attacco due autobombe hanno distrutto gran parte della costruzione. Un commando si è introdotto nell’edificio prendendo in ostaggio i clienti dell’albergo; in seguito sono intervenute le forze governative, coadiu

seguito a una probabile vittoria di quest’ultimo.

EGITTO Il 31 Ottobre alle ore 05:51 ora locale (04:51 in Italia) l’Airbus A321 della compagnia aerea russa Kogalymavia (ex Metrojet) partito da Sharm el-Sheik e diretto a San Pietroburgo è precipitato in una zona nel nord del Sinai. Non vi sono sopravvissuti. Il bilancio delle vittime è di


224 persone, di cui 17 bambini. Ancora non sono state accertate le cause dello schianto: le milizie locali di jihadisti rivendicano la respon sabilità dell’abbattimento dell’aereo, mentre le commissioni tecniche stanno verificando le scatole nere per eventuali guasti interni al velivolo. SIRIA Il 30 Ottobre 2015 all’Hotel Imperial di Vienna si è svolto un meeting tra delegati ONU, UE e di 17 paesi per negoziare possibili accordi politici in seno ai conflitti in Siria. Nessun rappresentante dell’opposizione al regime è stato convocato. Principale argomento di discussione, le sorti di Bashar Al-Assad, attualmente capo del regime di Damasco. Contemporaneamente a Douma, un sobborgo di Damasco, le forze del regime hannvo bombardato il mercato locale, uccidendo 57 civili e ferendone centinaia.

lanciati dalle Forze di Occupazione Israeliane (FOI). La sua morte va ad allungare la lista delle vittime: 14 persone morte, di cui 4 bambini, e più di 250 feriti - tra cui 5 giornalisti e 9 paramedici - solo nella settimana scorsa. L’autorità palestinese denuncia oltre 200 violazioni commesse nei confronti di mezzi e/o personale medico. IRAQ Dopo l’autorizzazione a procedere con bombardamenti mirati confermata alle forze russe, si levano in volo i primi F16 iracheni. “I nostri caccia hanno colpito con cura ed efficacia alcuni obiettivi strategici nella provincia di Anbar”: questa la dichiarazione di Ibrahim Al-Fadawi, capo della Commissione di Sicurezza irachena.

TURCHIA A seguito delle elezioni svoltesi il 1° novembre, il partito di centro-destra del presidente turco Erdogan (AKP) ha riottenuto la maggioranza assoluta in parlamento, conquistando 317 seggi su 550. La maggior forza di opposizione resta il partito popolare repubblicano CHP, con 134 seggi. Risultato non esente da proteste quello del partito filocurdo HDP, che ottiene a stento la rappresentanza in Parlamento con 59 seggi. Fonti: BBC, African Exspress, Reuters, Africa Express, Africa Rewiew, Internazionale, twitter.com/johnkerry, bioecogeo.com, truthdig.com, L’Express, The Guardian, Arabpress, A CURA DI: Simona Graceffa, Jean-Marie Reure, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Fabrizio Primon, Leonardo Scanavino, Silvia Perino Vaiga

IRAN Al via la fase preliminare dell’accordo sul nucleare raggiunto fra USA-Germania-Francia-Gran Bretagna ed Unione Europea (il “5+1”) che prevede, fra l’altro, la riduzione del numero di alcune centrifughe già attive sul territorio iraniano. PALESTINA La spirale di violenza non si arresta: muore in casa un bambino di 8 mesi soffocato dai gas lacrimogeni


di Sara Ponza

FAREWELL MY FURRY, CUBA 2.0 E ALTRE STORIE

L’annuncio di Barack Obama, avvenuto il 17 dicembre 2014, riguardante l’intenzione di porre fine all’embargo economico, commerciale e finanziario contro Cuba ha innescato molteplici reazioni. C’è chi vede in questa rivoluzione una possibilità di riscatto per Cuba e chi la considera la sconfitta di uno dei pochi Paesi rimasto anticapitalista. Le intenzioni di Obama di eliminare el bloqueo e di modificare lo status internazionale di Cuba devono essere ancora ratificate dal Congresso, ma le relazioni diplomatiche tra le due nazioni hanno già subito un netto miglioramento. Esempio emblematico del progresso dei rapporti internazionali è la riapertura delle ambasciate, rimaste chiuse per oltre mezzo secolo. Da qualche mese, inoltre, i cubani stanno usufruendo dei vantaggi correlati alla trattativa con gli USA (e con il resto del mondo): L’Avana e altre città importanti si sono connesse alla rete, sebbene costi 2 euro l’ora, circa un decimo dello stipendio medio nazionale. Al disgelo in corso si aggiungono le dimissioni di uno degli ultimi barbudos, il ministro dell’interno Abelardo Colomé Ibarra, soprannominato “Furry”, braccio destro di Fidel Castro e protagonista della rivoluzione cubana. Il 27 ottobre 2015 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deliberato, con una maggioranza decisiva, una risoluzione che potrebbe sancire la fine dell’embargo. I voti a favore sono stati 191, contrari Stati Uniti e Israele. La Casa Bianca ha motivato la sua votazione affermando che il documento non riflette lo spirito di cooperazione intrapreso tra Obama e il suo omologo cubano Raul Castro. La decisione ha generato enormi discussioni: in molti, infatti, speravano che gli USA fossero favorevoli al cambiamento o che almeno si astenessero. NEPAL, ELETTA LA PRIMA PRESIDENTE DONNA Il 28 ottobre 2015, per la prima volta nella storia del Nepal, una donna è stata eletta presidente. Bidhya Devi Bhandari ha 54 anni ed è la vice-presidente del Partito Comunista, eletta dal Parlamento di Kathmandu con 327 voti a favore su un totale di 549. L’elezione della neo presidente è considerata l’emblema del processo di cambiamento politico-istituzionale che nel Paese va avanti dal 2008, quando la monarchia è stata sostituita con una Repubblica parlamentare. Tuttavia, il ruolo presidenziale ha soltanto carattere cerimoniale: la carica di Presidente in Nepal è, infatti, una carica onorifica, mentre definire la politica interna ed estera del Paese è un compito che spetta esclusivamente al capo di governo, ruolo ricoperto da Khadga Prasad Sharma Oli, esponente dello stesso partito. Bidhya Devi Bhandari non è una figura nuova nelle file del Partito Comunista: arriva da una lunga militanza che ha condiviso anche con il marito, Madan Kumar Bhandari, noto leader comunista morto in un incidente nel 1993. Importante anche il ruolo che la neo presidente ha avuto nella stesura della Carta Costituzionale: frutto del lavoro di sette anni e di ben due Assemblee Costituenti, il nuovo testo, entrato in vigore lo scorso 20 settembre, ha di fatto completato il processo di transizione a Repubblica Federale dopo il rovesciamento della monarchia di quasi dieci anni fa. La stesura del testo ha visto un importante contributo da parte della neo presidente, la quale si è concentrata sulla norma che definisce le quote rosa in ingresso al Parlamento, garantendo così maggiore rappresentatività alle donne, e sulla disposizione che il Presidente o il Vicepresidente debba essere una donna. Un importante momento storico per il Nepal, segnato però da diverse contestazioni, in particolare da parte dei partiti regionali dei “madhesi”, l’etnia che vive nella fascia meridionale confinante con l’India: essi si sonno opposti con violente proteste già alla nuova Costituzione varata a settembre e hanno ora boicottato il voto.


di Benedetta Albano

NON CRISI MA RISORSA: I RIFUGIATI E LA GERMANIA

L’emergenza umanitaria dei rifugiati sta coinvolgendo l’intero continente europeo e mettendo alla prova le istituzioni comunitarie. In un clima di forte tensione sociale, la Germania ha compiuto una scelta radicale e decisiva: quella di lanciare un messaggio di tolleranza e accoglienza. Nonostante i quotidiani usino il termine “Fluchtingskrise” (letteralmente, “la crisi dei rifugiati”) per definire la situazione attuale, è sufficiente aprire le pagine di Die Zeit e ci si accorge di come per i tedeschi i rifugiati non siano una crisi, ma una risorsa umana: un’intera sezione del loro sito web è dedicata a smentire i luoghi comuni, raccontare storie personali e far capire ai lettori che termini come “crisi” o “emergenza” sono secondari rispetto all’importanza delle persone coinvolte. A livello locale, le piccole città sono molto attive nell’ambito dell’accoglienza: vengono organizzati festival cittadini, raccolte fondi e manifestazioni di supporto, con particolare attenzione verso i bambini più piccoli; l’aria che si respira è quella di un Paese conscio dei suoi limiti, ma che si impegna per superarli. Nonostante il governo centrale non abbia fornito risposte precise riguardo alle norme sulle concessioni del visto e alle quote di rifugiati che intende accogliere, la società civile ha preso una direzione radicalmente opposta: quella di organizzarsi per permettere ai rifugiati di trovare un nuovo Paese in cui stabilirsi e costruire una nuova vita. Le sfide sono naturalmente parecchie: la lingua, le differenze culturali, i problemi con le amministrazioni locali e i rari, ma esistenti, fenomeni di razzismo. In un’Europa che sembra dominata dalla paura e dal disincanto, però, i cittadini tedeschi si impegnano ogni giorno a vivere in una comunità e a lottare per permettere a tutti di condurre una vita dignitosa nel rispetto dei valori umani, mostrandoci come una soluzione sia sempre possibile.


IL FEUDO DI ĐUKANOVIČ. Un potere lungo 25 anni che ora è minacciato dalle proteste del popolo. Di Leonardo Scanavino Un uomo al potere ininterrottamente dal 1990 ad oggi, che ha ricoperto per quattro volte la carica di Primo Ministro, una volta di Presidente della Repubblica e con alle spalle due ritiri dal mondo della politica revocati a pochi mesi dalla loro proclamazione: oggi Đukanovič vede il suo potere traballare sotto le pressioni delle proteste di piazza. Un insieme variegato di movimenti politici di opposizione chiedono il passaggio ad un governo di transizione che porti il Montenegro a libere elezioni. Il 24 ottobre alcuni manifestanti hanno tentato di forzare il cordone della polizia per introdursi nel parlamento montenegrino, ma sono stati immediatamente bloccati. Di qui sono nati dei violenti scontri, nei quali la polizia ha tentato di disperdere la folla con l’uso di lacrimogeni; l’escalation che ne è derivata ha portato ad un numero di feriti pari a 15 tra i poliziotti e 24 tra i manifestanti, e all’arresto del leader di opposizione, Mandič, assieme ad un deputato del suo partito. Questi scontri sono culminati nelle proteste di piazza che durano da ormai più di un mese, proteste con le quali l’opposizione chiede di rivedere l’opportunità di un trattato con la Serbia che concederebbe maggiori autonomie amministrative alle aree serbe della nazione montenegrina a fronte di maggiori libertà nella determinazione dei confini tra i due Paesi, oltre alla già citata richiesta di elezioni democratiche. Il governo, da parte sua, accusa l’opposizione di essere manovrata dalla Serbia e dalla Russia con il fine occulto di ostacolare l’entrata del Montenegro nella NATO; per tutta risposta il Fronte Democratico (il principale movimento di opposizione) afferma che l’ingresso nella NATO non è incluso nelle motivazioni delle proteste di piazza. La situazione nel Paese resta tesa e la promessa di elezioni dopo un eventuale ingresso nella NATO - previsto per dicembre - non sembra essere credibile agli occhi dei movimenti di opposizione.

Di Matteo Candelari

La virata a destra della Polonia che preoccupa l’Europa

Le elezioni parlamentari che si sono tenute in Polonia domenica 25 ottobre hanno sancito la vittoria del partito nazionalista, conservatore e cattolico Diritto e Giustizia (PiS). Diritto e Giustizia, i cui membri al Parlamento Europeo appartengono al gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, con il 38% dei voti si è aggiudicato la maggioranza assoluta al Sejm, la camera bassa, conquistando 235 seggi su 460. Staccato di 14 punti il partito di Piattaforma Civica (Platforma Obywatelska, PO) che era al governo da 8 anni e di cui fa parte il Presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk.


Il dato più sorprendente è che per la prima volta dal 1989 la sinistra non avrà alcuna rappresentanza in Parlamento. Infatti, la coalizione della Sinistra Unita (Zjednoczona Lewica, ZL) non ha superato la soglia minima dell’8%. La neo premier Beata Szydlo è uno dei volti nuovi di Diritto e Giustizia, così come il Presidente della Repubblica eletto a maggio Andrzej Duda. Tuttavia il leader del partito rimane Jarosław Kaczyński, che non ha esitato ad utilizzare toni forti durante la campagna elettorale. La precedente politica di accoglienza ai migranti è stata ampiamente criticata. È stato promesso, inoltre, che l’età pensionabile per gli uomini scenderà dagli attuali 67 anni ai 65, e che saranno istituiti assegni familiari di 125 euro per ogni secondo figlio. Per quanto riguarda temi etici come l’aborto o la fecondazione assistita, Diritto e Giustizia punta a rafforzare la legislazione che rende tali pratiche sempre più difficili da applicare. E’ previsto, infine, l’innalzamento delle tasse per le banche e per le grosse società che operano in Polonia. Il modello a cui si guarda è quello dell’Ungheria di Viktor Orban, tanto che uno degli slogan di Diritto e Giustizia in campagna elettorale era “Portiamo Budapest a Varsavia”. Il pericolo che teme l’UE è proprio quello di un asse euroscettico Polonia-Ungheria. Anche i rapporti con Mosca si preannunciano difficili, dal momento che Diritto e Giustizia ha chiesto di aumentare la presenza della NATO e ha annunciato di voler incrementare la spesa militare fino al 2,5% del PIL.

Di Stefano Bozzalla Cassione

LIMA E IL MURO DELLA VERGOGNA

Il muro della vergogna, così viene chiamata la barriera che nella città di Lima, capitale del Perù, divide la povertà dalla ricchezza. Costruito a partire dagli anni Ottanta e concluso, con una lunghezza totale di 10 chilometri e un’altezza di 3 metri (compreso di filo spinato), pochi anni fa. Il muro divide una collina. Da un lato, è abitato dai cittadini più ricchi della città che hanno sfruttato uno degli sviluppi urbanistici più prestigiosi degli anni Cinquanta del secolo scorso (il quartiere di Las Casuarinas), dove ci sono ville che arrivano a costare svariati milioni di dollari con piscine e giardini sfarzosi. Dall’altro lato, abitano i cittadini più poveri (il distretto di San Juan de Miraflores): case costruite con plastica e legno, strade di terra e fango; spesso non c’è elettricità o acqua corrente. Questa muro, oltre a dividere il territorio geograficamente, divide una città dove le disparità economiche e sociali sono ancora molto evidenti e sentite. Cominciato negli anni Ottanta col pretesto di protezione contro il terrorismo e contro le invasioni del Perù, è diventato oggi un chiaro segnale di emarginazione e discriminazione. L’alto tasso di criminalità della zona povera e la paura dell’urbanizzazione di questi distretti sono usati oggi come alibi per mantenere alzato il muro, piuttosto che trovare soluzioni più umane. D’altronde alzare muri sta diventando una soluzione sempre più utilizzata per risolvere il problema della povertà; avviene, ad esempio, a San Paolo in Brasile, dove un muro divide la povertà della favela Paraisòpolis dal lusso del quartiere Morumbi. Quindi, nonostante le lamentele della parte povera del muro e dell’opinione pubblica, per ora le differenze e le paure vincono sulle soluzioni più sensate, contribuendo ad aumentare differenze e diffidenze.


ASPETTANDO LE ELEZIONI: SORPRESE E DELUSIONI TRA I REPUBBLICANI Di Francesco Turturro A un anno esatto dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, che si svolgeranno l’8 novembre 2016, il dibattito interno al Partito Repubblicano non accenna a placarsi. Tra i candidati in corsa per le primarie, Marco Rubio, Jeb Bush e Donald Trump sembrano essere i nomi sui quali l’attenzione mediatica ed elettorale si è concentrata di più. Coloro che pensano che il Grand Old Party abbia bisogno di un volto nuovo saranno sicuramente soddisfatti dei progressi di Marco Rubio. Il quarantaquattrenne senatore della Florida potrebbe rappresentare la novità di cui necessita un partito che non riesce a insediare un proprio esponente alla Casa Bianca da due legislature, senza contare che il suo legame con Cuba potrebbe portare voti dalla minoranza latino-americana. Nel terzo dibattito del GOP, tenutosi il 28 ottobre scorso, Rubio è parso il candidato più convincente; la sua retorica e il suo carisma hanno inoltre convinto il donatore miliardario Paul Singer a finanziare la sua campagna elettorale, preferendo il nativo di Miami ad un Jeb Bush che sta incontrando più difficoltà del previsto. Secondo i sondaggi, la popolarità dell’ultimo rampollo della “dinastia Bush” ha toccato il minimo storico e il momento in cui, la scorsa estate, sembrava il candidato con la maggior probabilità di vincere le primarie è oramai lontano. Bush ha attaccato Rubio definendolo inadatto alla carica di presidente e paragonandolo a Obama, ovviamente non per lusingarlo, ma per sottolinearne la poca esperienza. Rubio ha risposto a queste etichettando le accuse di Bush come tese a guadagnare consenso, non costruttive dal momento che i candidati per le primarie dovrebbero pensare a creare un Paese migliore e non rivalità studiate a tavolino. Chi, invece, procede speditamente nella propria corsa alle primarie è il vulcanico Donald Trump. Il suo messaggio, basato su temi caldi quali la regolamentazione dell’immigrazione e la necessità di far tornare gli Stati Uniti al ruolo di superpotenza, trova molti consensi: per il 26% dell’elettorato repubblicano è lui l’uomo giusto.


Di Chiara Zaghi

GREGOIRE AHONGBONON, IL BASAGLIA NERO La lotta per i diritti dei malati psichici in Africa

Nonostante esista un consenso formale della Comunità Internazionale sulla protezione dei diritti umani fondamentali, in Africa i malati psichici, che pagano il prezzo di una stigmatizzazione sociale imposta da credenze tradizionali, li vedono quotidianamente negati. In alcuni villaggi della Costa d’Avorio, del Burkina Faso, del Togo, del Benin e del Ghana l’epilessia e diversi problemi psichici sono considerati sintomi di possessione demoniaca. La tradizione africana ritiene che l’unica soluzione possibile sia allontanare questi individui per evitare contatti fisici di alcun genere con la popolazione e per assicurare che non si spezzi l’equilibrio sociale. Spesso i familiari dei malati mentali chiedono aiuto al capo del villaggio per interventi di guarigione e purificazione. Altri preferiscono affidare il malato a centri esterni al villaggio oppure a sette religiose, che spesso lo accompagnano in un bosco e lo incatenano. Gregoire Ahongbonon ha fondato nel 1983 in Costa d’Avorio l’associazione “Saint Camille de Lellis di Bouaké”, che ogni anno si occupa della reintegrazione di oltre 15mila malati psichici nella società e del ripristino della loro dignità. Attualmente ci sono 11 centri di accoglienza, distribuiti in diversi Stati, dove i pazienti sono accolti, protetti e curati. Si cerca di ridare loro la dignità anche attraverso l’insegnamento di alcuni lavori. I malati, infine, vengono riassegnati alla propria comunità e controllati periodicamente. Nel corso degli anni, alcune associazioni a livello mondiale – tra cui, in Italia, la Jobel Onlus di San Vito al Torre – hanno sostenuto l’iniziativa. Il problema del trattamento dei malati psichici in Africa è stato anche presentato da Ahongbonon stesso al padiglione Kip-Onu a Expo 2015. La funzione della “Saint Camille de Lellis di Bouaké” è anche importante come modello di cura delle malattie mentali, tema questo che viene ancora tralasciato dalle politiche sociali nella maggior parte dei Paesi africani.


Di Giusto Amedeo Boccheni

DISPUTE LATENTI NEL MAR DELLA CINA

Il 27 ottobre un cacciatorpediniere lanciamissili statunitense è avanzato fin dentro l’area navale rivendicata da Pechino con gli atolli artificiali eretti a largo delle isole Spratly. L’incursione, bollata come “provocazione” da Pechino, rappresenta una svolta nell’atteggiamento adottato dagli USA negli ultimi vent’anni nei confronti della politica espansionistica cinese sul tratto di mare della cosiddetta linea a nove tratti. La linea delimita un’area costellata di scogli, isolette e arcipelaghi disabitati, come le isole Spratly, le Parcel e le Diaoyu/Senkaku. Il problema del Mar della Cina dell’Est e del Sud, per anni considerato di secondo piano, ha assunto rilievo alla fine degli anni Settanta, quando un’indagine della UN Economic Commission for Asia and the Far East ha ipotizzato la presenza di ingenti risorse fossili nei fondali sottostanti. Da allora, Cina, Malesia, Filippine, Taiwan e Giappone si contendono le sue acque. Le aree di pretesa sovranità sono oggetto di frequenti invasioni reciproche, fonte di sdegno e dispetto per i governi e l’opinione pubblica. L’equilibrio economico e geopoltico della regione risente di queste tensioni. L’ipotesi di un’escalation militare, tuttavia, è vista con scetticismo dagli ossertìvatori internazionali. Nel meeting di fine ottobre a Pusan, a pochi giorni dall’accordo sul Trans-Pacific Partnership (TPP), Corea del Sud, Cina e Giappone hanno ripreso i negoziati per il RCEP, un accordo di libero scambio che dovrebbe coinvolgere 16 paesi asiatici e approssimativamente 3,4 miliardi di persone, senza che la questione territoriale venisse a galla. Nonostante le dispute territoriali, infatti , la stabilità geopoltica resta il presupposto dello sviluppo economico e commerciale della regione. Questo vale per Tokyo, che ha bisogno dell’ombrello protettivo statunitense, vale per Washington, che ha nella Cina e nel Giappone i principali detentori del proprio debito pubblico, vale per Pechino, che dalla prosperità economica dei propri vicini ha più da guadagnare che da perdere.

Di Emanuele Chieppa

LA CINA TENTA IL RADDOPPIO

Dopo più di 35 anni la Cina abbandona la politica del figlio unico: tutte le coppie potranno avere due figli, se lo vorranno. Nel 1969 la Cina era una società agricola povera con un tasso di natalità media di sei figli per donna. Per questo motivo nel 1979 si istituì la politica, a tratti crudele, del figlio unico. Ora, nella Cina industrializzata, il rapporto tra lavoratori e pensionati è di 1,6 ad 1 e ci si trova quindi a dover trovare soluzioni all’invecchiamento della popolazione e alla contrazione della forza lavoro. Probabilmente, tuttavia, il cambio di politica arriva troppo in ritardo, e c’è chi, come Stuart Gietel-Basten, un demografo dell’Università di Oxford, prevede che entro un decennio Pechino potrebbe addirittura introdurre politiche “pro-natalità”, con incentivi per le coppie che vogliono avere più figli. Incentivi che, secondo gli analisti occidentali, dovranno essere consistenti, visto l’elevato costo della vita in Cina, nonostante gli stessi cinesi rispondano che in Cina, in realtà, il costo per mantenere un bambino è 23.000 yuan (3.745 $) all’anno, in accordo con i dati Bloomberg (il costo per un bambino negli Stati Uniti è invece di $ 245.000). La Cina dovrà fare, in conclusione, ciò che anche il Giappone si rifiuta da sempre di accettare, ovvero importare la forza lavoro. Negli ultimi anni, la Cina ha timidamente permesso l’ingresso agli immigrati altamente qualificati, ma, al pari di molti paesi dell’Asia orientale, non è luogo in cui la diversità sia considerata una risorsa, tanto dai dirigenti, quanto dalla popolazione. C’è però chi, all’indomani della notizia diffusa dal governo di Pechino, deve correre ai ripari, come l’azienda giapponese di condom Okamoto Industries, che ha perso il 10% in borsa. Molte altre aziende che si occupano di prodotti per l’infanzia, invece, hanno avuto un uptick sul prezzo delle azioni.


TTIP E TPP. COSÌ SIMILI, COSÌ DIVERSI Uno è stato appena portato a compimento, dopo 5 anni di trattative e riguarda gli Stati rivieraschi del Pacifico (Stati Uniti, Giappone, Singapore, Australia, Nuova Zelanda, Brunei, Malesia, Vietnam, Messico, Cile, Perù e Canada). L’altro è, invece, un’incognita, negoziato in un clima di quasi segretezza, criticato su entrambe le sponde dell’Atlantico, difficilmente vedrà la luce prima della fine dell’anno, come inizialmente previsto. Stiamo parlando, naturalmente, del TPP (Trans-Pacific Partnership) e del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), i due accordi commerciali che costituiscono forse la più grande eredità del presidente uscente Barack Obama. Per capire la portata e il peso specifico che avranno questi trattati sulle economie interessate basta guardare i numeri in gioco. Nel caso del TPP sono coinvolti 12 Stati che insieme costituiscono il 40% del PIL globale. L’accordo costituisce uno sforzo da parte degli Stati Uniti di attuare il cosiddetto “rebalancing” verso Oriente, che altro non è che un tentativo di isolare, o quanto meno limitare, la Cina nella regione (la strategia di Pechino si fonda soprattutto su accordi bilaterali). Washington è riuscita ad ottenere l’inserimento di regole conformi agli standard internazionali in materia di ore di lavoro e salario minimo. Il TTIP è il negoziato fra Stati Uniti ed Unione Europea (ovvero il 45% del PIL globale). Fra i due accordi questo è il più contestato: le preoccupazioni sono molteplici, a partire dalle reali ricadute economiche. Secondo alcuni studi, infatti, entro il 2027 esso dovrebbe produrre un aumento di ricchezza nell’Eurozona pari a circa 450 dollari annui per famiglia, ma per chi contesta l’accordo questa previsione non tiene conto di molte variabili che potrebbero rendere risibili i vantaggi reali. I critici sono scettici, inoltre, sulle trattative poiché svolte a porte chiuse e vertenti su temi i cui contorni non sono ben definiti: sono in molti a chiedere più trasparenza. Di Daniele Pennavaria

PACIFICO DIMENTICATO

Il TPP ha risaltato nelle cronache internazionali per molti aspetti (link internazionale), anche se in particolare in qualità delle dimensioni delle economie che coinvolge e delle sue funzioni anti-cinesi. Viste le sue caratteristiche salienti e la policy americana in alcune regioni del Pacifico (link pivot to asia), spesso si dimentica che esso coinvolge anche altre realtà oltre al suo principale promotore a stelle e strisce. Tra queste tre Stati dell’America Latina - Messico, Perù e Cile - che, benché privi di un peso economico che li renda fondamentali per le funzioni dell’accordo, ricoprono un ruolo chiave per la completezza geopolitica della partnership pacifica. D’altra parte l’America del Sud sta attraversando un momento negativo dal punto di vista della crescita (link el pais) e i Paesi che sono riusciti a fronteggiare meglio la crisi hanno tutto l’interesse a non farsi coinvolgere da questo trend negativo. La prospettiva di questi Stati e i loro precedenti legami li hanno resi i perfetti candidati per la sponda latina del TPP, nonché i naturali promotori del progetto nella regione: il coinvolgimento della Colombia pare essere, infatti, solo questione di tempo. Tenendo presente che la sottoscrizione del TPP è ancora da sottoporre ai Parlamenti dei singoli stati, si possono comunque immaginare alcuni scenari per il futuro del Sud America.


Senza poter calcolare in modo certo l’impatto sociale, visto che alcune delle misure previste dal Trattato sono contestate in molti paesi (link contro il tpp), non è difficile prevedere che questo accordo porterebbe i Paesi coinvolti a distaccarsi dal resto della regione, creando una spaccatura con il Brasile, che resta un’economia da tenere in considerazione, malgrado le sue difficoltà, e prefigurando un distanziamento anche più netto dagli altri esclusi. L’alternativa a questo Sud America a due velocità sarebbe l’implementazione di un legame con l’area di libero scambio del Mercosur, già auspicato dalla presidentessa del Cile Michelle Bachelet. Ne risulta che il TPP potrebbe rivelarsi la formula adatta a rilanciare alcune economie ormai da troppo affossate e consolidarne altre fino ad ora in timida crescita, questo a patto che i singoli stati siano abili a mantenere le relazioni con la Cina, fino ad ora partner di rilievo per molti ed evidentemente infastidita dalle regole imposte dal Partenariato, e a gestire quelle che saranno le reazioni della società civile di fronte ad alcune clausole apertamente sgradite.

Di Fabrizio Primon

LA NUOVA REALPOLITIK DELLA RUSSIA

Per buona parte del 2015, l’attenzione dell’opinione pubblica nei Paesi occidentali è stata interamente assorbita dai recenti eventi che hanno visto l’Ucraina protagonista. In particolare, ci si è concentrati sul ruolo ricoperto dalla Federazione Russa all’interno dei processi politici del suo vicino. La Russia ha, infatti, cercato di influenzare sia le dinamiche politiche interne dell’Ucraina sia quelle riguardanti la sua politica estera. Per la sua condotta di matrice imperialista, portata avanti in aperta violazione delle più importanti norme del diritto internazionale, quali il rispetto dell’integrità territoriale, dei diritti umani e del principio di autodeterminazione dei popoli, la Russia ha ricevuto forti critiche da parte di molti leader dei Paesi occidentali. La Russia ha sempre considerato l’Ucraina come parte dei suoi interessi nazionali e come un tassello fondamentale per l’adempimento del suo progetto di ricreare una grande potenza internazionale; tale progetto implica la creazione della Eurasian Union. Per questa ragione, la Russia ha sempre cercato di mantenere il suo vicino sotto la propria sfera d’influenza. Oltre che alle pressioni politiche (esercitate dal Cremlino sia a livello territoriale sull’Ucraina sia a livello internazionale sulle organizzazioni internazionali di cui Kiev è membro), la Russia ha fatto ricorso anche a leve di tipo economico. Nonostante, infatti, ci sia un rapporto di mutua dipendenza economica fra i due Stati, la Russia ha sfruttato la propria superiorità soprattutto nel suo ruolo di monopolista nella fornitura di energia per minacciare l’Ucraina ogni qual volta si avvicinasse pericolosamente all’ Occidente, allontanandosi dall’Eurasian Union. Infine, a seguito della recente Rivoluzione Ucraina, la Russia non ha esitato a ricorrere all’intervento armato per salvaguardare i propri interessi strategici e per non perdere il controllo sull’intero territorio. Questa scelta non è stata frutto di una repentina svolta imperialista, ma di un processo che si è sviluppato all’interno di un disegno politico concepito durante la presidenza di Vladimir Putin.


Di Samantha Scarpa

Valzer con Bashar

Mentre si discute una possibile risoluzione pacifica dei conflitti in Siria, scontri e bombardamenti non si arrestano tra le strade di Damasco Venerdì 30 Ottobre all’Hotel Imperial di Vienna si è svolto un meeting multilaterale tra i rappresentanti esteri di 15 Paesi, dell’ONU e dell’Unione Europea per discutere circa la delicata situazione in Siria e tracciare le linee guida per una risoluzione pacifica dei conflitti che la attraversano.

Tra gli Stati presenti ai tavoli di discussione - Stati Uniti, Russia, Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Giordania, Libano, Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Iraq, Emirati Arabi Uniti e Cina - anche l’alleato principale del regime di Damasco, l’Iran, assoluta novità tra chi cerca di risolvere diplomaticamente il conflitto. Le forze ribelli al regime, invece, non sono state invitate. Fulcro della questione è stato il destino del leader del regime siriano, il presidente Bashar-al-Assad. Secondo la Russia, alleata del regime contro lo Stato Islamico, il coinvolgimento del presidente nel futuro del Paese è fondamentale. Stati Uniti, Turchia e Arabia Saudita si oppongono al regime e ne auspicano, al contrario, la caduta, ma propongono soluzioni molto diverse tra loro per ciò che concerne il ruolo di Assad. Dopo otto ore di discussione, la chiusura del meeting ha portato ad alcuni punti-chiave, approvati all’unanimità: primo tra tutti la necessità di un intervento umanitario e di un maggiore controllo da parte delle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti, inoltre, hanno inviato 50 consiglieri militari a sostegno delle forze ribelli al regime. Durante le trattative in Europa, alcuni missili lanciati dall’esercito regolare hanno ucciso almeno 57 civili e ne hanno ferito diverse dozzine nel mercato di Douma, sobborgo della capitale siriana. Attualmente, la situazione siriana è estremamente instabile. Dall’arrivo di forze militari russe a sostegno del regime verso la fine di settembre, ad esempio, almeno quattro ospedali sono stati bombardati dall’aviazione russo-siriana, mentre il gruppo Stato Islamico ha subito alcuni attacchi nelle aree vicino a Tadmur (Palmyra) da parte di caccia inviati dal Cremlino.


SINAI: IL LABORATORIO DELL’ORRORE Ogni anno migliaia di eritrei vengono rapiti e incatenati nelle case di tortura dell’Egitto nord-orientale e seviziati affinché le loro famiglie paghino riscatti tanto elevati da indebitarle per sempre Un Paese che conta appena cinque milioni di abitanti, poverissimo, privo di una costituzione e di un sistema giudiziario, dotato di un servizio di leva obbligatorio, schiavistico e senza limiti temporali, a partire dai sedici anni di età. È l’Eritrea, la giovane nazione da ventun anni in mano al presidente Afewerki, ossessionato dall’idea di un nuovo conflitto con la vicina Etiopia. Questa la giustificazione delle sue politiche dittatoriali. Secondo l’UNHCR, cinquemila eritrei fuggirebbero ogni mese da questa piccola striscia del Corno d’Africa, per lo più diretti verso le coste italiane: l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni stima che un terzo dei circa 75.000 migranti approdati nel nostro Paese nel corso del primo semestre 2015 provenga da questa terra. Eppure il viaggio verso la Libia è estenuante ed estremamente rischioso: ad aspettarli non solo i rischi climatici del Sahara, ma anche i trafficanti di uomini, che ne rapiscono a decine dai campi profughi del Sudan per poi trasportarli nelle case-tortura del Sinai. Qui i prigionieri sono seviziati con pratiche atroci per accelerare il pagamento di riscatti estremamente consistenti (40.000 dollari circa) da parte delle famiglie di origine. Si stima che negli ultimi cinque anni 50,000 eritrei siano passati tra le mani dei trafficanti del Sinai: 10.000 sarebbero stati uccisi. “Il loro passatempo preferito era appenderci per le mani al soffitto, come delle pecore. Poi ci bruciavano con una fiamma. - dichiara Germany Berhane, eritreo di 23 anni, catturato dagli uomini di Abu Omar nel 2013. - Un giorno mi hanno chiesto di ammazzare Wahid [una compagna di prigionia, nda]. Mi sono rifiutato. Allora mi hanno spezzato le dita delle due mani, una a una. [...] Pregavo Dio perché mi lasciasse morire in fretta”. La storia di Germany, con quella di altri, è stata raccontata dalle giornaliste Cécile Allegra e Delphine Deloget nel reportage del 2014 Voyage en barbarie. Esso denuncia il dramma di una regione estremamente instabile come quella del Sinai, costellata di cellule jihadiste fedeli al deposto presidente Morsi e in continuo conflitto con l’esercito egiziano, che tenta di estirparle con scarsi risultati. Per chi volesse approfondire, Voyage en barbarie sarà proiettato a Torino da gennaio a maggio 2016 nell’ambito della rassegna di Internazionale Mondovisioni. Maggiori informazioni: serenoregis.org.

Di Martina Scarnato

LA TURCHIA E IL COSTO DELLA LIBERTA’ Quando difendere i diritti umani “non porta da nessuna parte”

Le elezioni politiche tenutesi in Turchia il 1° novembre hanno decretato la vittoria del partito di centro-destra dell’attuale presidente Erdogan, l’AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), che ha conquistato la maggioranza assoluta. Ancora una volta, Erdogan ha saputo proporsi come una garanzia di stabilità in un Paese ancora scosso dai recenti attentati, dalla ripresa delle ostilità con il partito militante curdo PKK e la grave crisi della vicina Siria. Tuttavia, tale risultato è stato possibile anche grazie alle aggressioni violente contro i media dell’opposizione. Il “Sultano” Erdogan, infatti, ha voluto ancora una volta “vincere facile”. Secondo quanto riportato da diverse fonti, dieci giorni prima del voto sarebbero stati chiusi ben sette canali televisivi (come Bugun TV e Kanalturk TV) e molteplici sono stati gli attacchi alle redazioni dei giornali (come il Dogan e Hurriyet) ritenuti colpevoli di “incitare al terrorismo”, sospettati di collaborare col PKK o, ancora, quando di proprietà del massimo oppositore del Presidente, l’imam Fethullah Gulen. La censura non ha risparmiato neppure Internet: solo negli ultimi tre mesi sono stati chiusi 101 siti web. Sebbene il diritto alla libertà di stampa sia garantito dall’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dalla Turchia nel 1954, le violenze contro i giornalisti sono quotidiane. Di fronte a ciò, l’Europa stenta a prendere una posizione ferma nei confronti di un regime sempre più autorita


rio. Il presidente della Commissione Europea, Juncker ha dichiarato “ci sono due cose da fare: o gli diciamo che esistono questioni irrisolte su diritti umani e libertà di stampa, ma al momento questo non ci porta da nessuna parte, oppure cerchiamo di concentrarci sui passi concreti da fare. Ad esempio, la Turchia è d’accordo a fare tutto il possibile affinché i rifugiati restino sul suo territorio”. Intanto in Turchia le aggressioni ai giornalisti continuano anche dopo le elezioni: appena dodici ore dopo le prime proiezioni dei risultati, due giornalisti sono stati arrestati.

Di Giulia Mogioni

AFRICA AD EXPO 2015

Il bilancio di Expo 2015 è ancora da scrivere, ma tutti concordano nel ritenere storica la presenza dell’Africa, per il numero dei Paesi partecipanti (37) ma soprattutto per la qualità. L’Africa con ogni probabilità nel futuro avrà il compito di “nutrire il pianeta”. Infatti, essa detiene oltre il 50% delle terre coltivabili non ancora sfruttate e utilizza soltanto il 2% delle proprie risorse idriche rinnovabili, a fronte di una media planetaria superiore al 5%. Oggi l’agricoltura in Africa è tornata ad essere la risorsa principale e da almeno un decennio il continente sta vedendo crescere la sua popolazione, già oggi oltre il miliardo. La quota che l’Africa detiene nelle esportazioni agricole mondiali è però diminuita negli ultimi decenni: continua ad avere la resa agricola più bassa del pianeta a causa dell’arretratezza. Questi argomenti sono stati trattati da molti dei 37 Paesi africani dell’Expo. Per molti la partecipazione dei Paesi africani all’Expo sarà ricordata per l’hamburger di coccodrillo del padiglione dello Zimbabwe o per le figure variopinte che danzavano lungo il Decumano. Ma la presenza africana all’Expo è stata molto di più. Il Mali ha presentato la sua idea di innovazione contadina: l’agricoltura familiare come sistema che permette di valorizzare il territorio e di favorire la gestione sostenibile delle risorse naturali. Il Gambia ha raccontato della crescita delle micro, piccole e medie imprese nell’orticoltura per la sicurezza alimentare e la riduzione della povertà. Il padiglione del Sudan ha portato il visitatore a scoprire un progetto di irrigazione ad alta efficienza. Altri Paesi hanno, invece, scelto un’interpretazione del tutto diversa. L’Egitto, il Marocco e la Tunisia, ad esempio, si sono limitati ad una suggestiva rappresentazione della propria cultura; altri ancora hanno fatto dei loro padiglioni dei negozietti di artigianato. Risalta poi l’assenza di due Stati che, per popolazione e capacità economica, rappresentano i giganti dell’Africa: la Nigeria e il Sudafrica. Le ragioni sembrano questioni politiche.


IL PREMIO DI MANDELA A UN BLOGGER: CHI È RAIF BADAWI? A Nelson Mandela è stato conferito il Premio Sakharov 1988, quando era in prigione. E oggi, dopo 27 anni, a Raif Badawi è stato conferito lo stesso premio da detenuto. Di Lorenzo Gilardetti

Questo il tweet con cui Ensaf Haidar, presidentessa della Raif Badawi Foundation, ha commentato sul profilo dedicato a suo marito la proclamazione, da parte del Parlamento Europeo, del vincitore del prestigioso Premio Sakharov avvenuta il 29 ottobre scorso. Raif Badawi, 31 anni, è il creatore del sito Free Saudi Liberals, forum ideato per la discussione religiosa e politica in Arabia Saudita, che gli è costato un primo arresto nel 2008 per l’accusa di apostasia. Gli erano infatti state contestate alcune affermazioni considerate oltraggiose nei confronti dei valori islamici, oltre alla stessa possibilità di discutere il Corano, unica fonte (con la Sunna) per la Sharia, la legge della monarchia assoluta di Re Salman.


Rilasciato, Badawi è stato nuovamente arrestato nel 2012 e processato l’anno successivo, con la condanna a 700 frustate in 10 anni di reclusione e a una multa di 200.000 euro. La notizia ha però fatto il giro del mondo quando nel 2014 la pena è stata innalzata a 1000 frustate: 18 premi Nobel si sono schierati e hanno indirizzato appelli di scarcerazione allo Stato Saudita, sono nate campagne per la libertà di espressione in tutto il mondo a suo nome e Amnesty International, con altre associazioni per i diritti umani, ha aperto una petizione per la sua liberazione. Nonostante la mobilitazione internazionale, il 9 gennaio 2015 gli sono state inflitte pubblicamente le prime 50 frustate delle 1000 che la Corte Suprema ha confermato lo scorso giugno. La famiglia di Badawi vive in Canada e gli sforzi della moglie, della fondazione da lei istituita e dell’opinione pubblica mondiale hanno ottenuto, ad oggi, la posticipazione delle seconde 50 frustate. Martin Shulz, durante la proclamazione del Premio Sakharov, ha voluto provocatoriamente sottolineare che il giorno della cerimonia, prevista per il 16 dicembre prossimo, il blogger saudita è invitato al Parlamento Europeo di Strasburgo. Ma quella sedia, come quella di Mandela 27 anni fa, è destinata a rimanere vuota.


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