MSOI thePost
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MSOI Torino
M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario MSOI Torino
MSOI thePost
MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di MSOI Torino, desidera proporsi come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulterà riconoscibile nel mezzo di informazione che ne sarà l’espressione: MSOI thePost non sarà, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost
REDAZIONE: Direttore Jacopo Folco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa e Davide Tedesco Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Giulia Andreose, Timothy Avondo, Daniele Baldo, Giulia Bazzano, Giada Barbieri, Lorenzo Bardia, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Stefano Bozzalla, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Alessio Destefanis, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Simona Graceffa, Luca Imperatore, Andrea Incao, Michelangelo Inverso, Daniela Lasagni, Giulia Mogioni, Silvia Peirolo, Daniele Pennavaria, Silvia Perino Vaiga, Emanuel Pietrobon, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Michele Rosso, Silviu Rotaru, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Martina Terraglia, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Francesco Turturro, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Le nostre copertine sono realizzate dall’artista Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!
EUROPA
IL GIUBILEO DELLA MISERICORDIA Un evento di portata storica nel cuore dell’Europa
Di Benedetta Albano Annunciato l’11 aprile di quest’anno, l’8 dicembre 2015 papa Francesco ha inaugurato il Giubileo della misericordia. Si concluderà il 20 novembre 2016 e ricorre nel 50° anniversario del Concilio Vaticano II. Per solidarietà alle recenti violenze della guerra civile, la prima Porta Santa è stata aperta a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, seguita da quella della Basilica di San Pietro in Vaticano, alla presenza del pontefice emerito Benedetto XVI. Dal punto di vista storico e dottrinale, la caratteristica principale del Giubileo è l’indulgenza plenaria, stabilita per la prima volta nel Giubileo del 1300 da Bonifacio VIII. Per ottenere l’indulgenza è necessario compiere il pellegrinaggio in una delle grandi basiliche giubilari e partecipare alla messa in una di esse, oltre a impegnarsi in opere di misericordia e carità. Un giubileo ordinario era già previsto dalla Chiesa per il 2025: è indubbio che il Papa abbia voluto lanciare un forte segnale, soprattutto per il tema scelto, in un momento di crisi per l’Italia e per l’Europa.
Proseguendo il percorso che aveva caratterizzato finora il suo pontificato, ha infatti indetto il Giubileo con particolare attenzione verso gli esclusi dalla società, cui si rivolge già nella lettera di indirizzo, in cui, inoltre, auspica che la Chiesa stessa riscopra “la ricchezza contenuta nelle opere di misericordia corporali e spirituali.” Bergoglio aveva dimostrato modernità e attenzione verso i più umili già durante la sua carriera di vescovo a Buenos Aires, compiendo poi – vescovo di Roma - atti straordinari rispetto alla tradizione della curia vaticana (pensiamo alle posizioni su divorzio, omosessualità, immigrazione, crisi economica e necessità di solidarietà all’interno della società civile). Ora sembra che voglia continuare la sua opera di modernizzazione della Chiesa, così da avvincinarla non solo ai fedeli, ma anche a chi - ormai disilluso – non vi si riconosceva più. Le conseguenze per la città di Roma sono evidenti, sia in positivo sia in negativo ed è impossibile non fare un confronto con il Giubileo del 2000, nonostante la cornice storica profondamente diversa: indetto da Papa Giovanni Paolo
II, aveva attirato nella capitale 25 milioni di fedeli, in una Roma ancora estranea agli scandali nell’ultimo anno e all’allarme terrorismo (dopo Parigi, neppure il Giubileo ha influito sul calo di prenotazioni registrato da alberghi e ristoranti). In un anno sono previsti dal Censis 33 milioni di fedeli, che pernotteranno principalmente nelle strutture convenzionate o low cost, ma una parte considerevole di essi sfrutterà anche soluzioni in nero. Il traffico aumenterà notevolmente, ma sono previsti percorsi come il Grande Raccordo Anulare Ciclabile, attivato proprio su richiesta di Bergoglio. Nulla di nuovo, se già Dante nell’Inferno riferiva la modifica della viabilità a Roma a causa dell’alto tasso di pellegrini durante il Giubileo del 1300. Un evento di questo tipo porta al suo interno enormi contraddizioni: dedicato alla misericordia e alla carità, è stato indetto da un’istituzione spesso al centro di scandali mediatici legati alle sue finanze; evento prettamente religioso, viene celebrato in uno Stato che mette a disposizione la sua capitale per un anno intero, una capitale disorientata, in cerca di punti di riferimento.
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DIFESA COMUNE EUROPEA Contro il terrorismo, tra stallo ed evoluzione adottata una Dichiarazione che prevedeva diverse misure, tra le quali una clausola di solidarietà fra gli Stati membri in caso di attacco terroristico, l’implemento di una strategia di sicurezza comune ed il rafforzamento dei controlli alle frontiere.
Di Giulia Ficuciello Mai come in epoca contemporanea la minaccia del terrorismo potrebbe apparire concreta. A partire dal 2001, con il triplice attacco negli USA, è stata avviata la cosiddetta war on terror, volta a combattere il terrorismo jihadista. La preoccupazione a tal riguardo è cresciuta anche in Europa e nel 2003 è stata varata la Strategia europea in materia di sicurezza, il cui scopo principale è la prevenzione dei conflitti, in uno scenario in cui le minacce sono latenti e non colpiscono solo obiettivi militari. Dal 2004, poi, anche l’Europa è stata vittima di attacchi terroristici contraddistinti dalla matrice islamica. Il primo si è verificato in Spagna l’11 marzo 2004 ai danni del sistema dei treni regionali di Madrid. Ha provocato la morte di 191 persone ed il ferimento di altre 2.057. Quella stessa notte, il quotidiano Al-Quds al-‘Arabi ricevette una rivendicazione dell’attacco da parte di AlQaeda. Nella missiva, la Brigata Abu Hafs al Masri accusava la Spagna di complicità con gli USA e il Regno Unito nella lotta contro l’Islam genericamente inteso. Il 18 marzo la Commissione Europea presentò un Action Paper contenente diverse proposte per la lotta al terrorismo. Il 25 marzo venne poi
Il secondo attacco ha interessato Londra il 7 luglio 2005, causando 52 morti. L’obiettivo dei quattro terroristi suicidi era il sistema dei trasporti pubblici: colpirono, simultaneamente, 3 treni e un autobus. Anche in questo caso a rivendicare l’attacco fu, il 9 luglio, la Brigata Abu Hafs al Masri, legata al gruppo di Al-Quaeda. Immediatamente dopo vi fu una riunione straordinaria del Consiglio Europeo in cui si affermarono l’impegno ed il dovere di combattere in modo unitario il terrorismo.
Il 7 gennaio 2015, a Parigi, i fratelli Kouachi hanno attaccato la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, provocando la morte di 12 persone. I due erano jihadisti franco-algerini membri di un gruppo affiliato ad AlQuaeda. Il 13 novembre 2015, sempre a Parigi, sono stati invece colpiti sei obiettivi compresi tra Saint Denis e il teatro Bataclan. Gli attacchi hanno causato la morte di 130 persone ed il ferimento di molte altre. In quest’ultimo
caso, la rivendicazione è giunta dall’ISIS. Il presidente Hollande ha invocato l’art. 42 TUE, chiedendo aiuto agli altri Stati membri attraverso “tutti i mezzi in loro possesso”. Il fatto che ad assumere un ruolo attivo di cooperazione militare con la Francia siano stati solo il Regno Unito e la Germania potrebbe spingere a constatare carenze nell’attuale politica di difesa comune. Dal 2005 la cancelliera tedesca Angela Merkel e l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy hanno più volte espresso il loro desiderio di creare forze armate europee unite, al fine di dar vita ad una politica di difesa più efficace. Un’importante evoluzione in materia di sicurezza comune si era avuta, in realtà, già nel 1992, con l’introduzione della PESC ad opera del Trattato di Maastricht. Il trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, mira a rafforzare tale ambito istituendo un Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza ed una politica di sicurezza e di difesa comune.
NORD AMERICA LIBERE ARMI IN LIBERO STATO Armi in USA: Obama furioso e Texas come il Far West
di Alessandro Dalpasso
Barack Obama ha, infatti, dichiarato, durante il suo discorso di fine anno, che non ha intenzione di attendere la prossima carneficina per decidere, ancora una volta troppo tardi, come comportarsi di fronte ad una strage perpetrata sul suolo statunitense da un cittadino statunitense con un’arma regolarmente acquistata negli Stati Uniti d’America.
“Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una milizia regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”. Così recita il Secondo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, che affonda le sue radici nella dominazione inglese e spagnola e che era l’unico strumento della popolazione americana dei primi decenni per difendere la propria casa, i propri beni e le proprie famiglie.
Muovendosi in questa direzione ha quindi promesso una serie di decreti esecutivi che dovrebbero rendere più difficile l’acquisto di armi da fuoco. In tal senso dovrebbe attuarsi la prima logica misura, ovvero il rafforzamento dei cosiddetti “background checks”, i controlli svolti in maniera preventiva per scoprire se il potenziale acquirente ha precedenti penali oppure, fatto ancor più grave, soffre di disturbi mentali o psicologici.
Ma sulla possibilità di possedere e portare armi in pubblico si sono susseguiti negli ultimi giorni annunci e provvedimenti discordanti. Il presidente
Dovrebbe, inoltre, diventare realtà una tassa, voluta a Seattle, nello Stato di Washington, che comporterebbe un aumento di 25$ per ogni arma e uno fra
i 2 e i 5 centesimi per ciascun proiettile, volta a rendere più costoso, e quindi meno accessibile, acquistare un’arma da fuoco ed i rispettivi colpi. Intanto, mentre si prepara questa stretta, in Texas è stata approvata una legge da vero Far West: sarà infatti possibile, per chiunque ne sia in possesso tramite regolare licenza, portare la propria arma da fuoco “open carry”, senza occultarla e in bella vista, come dei veri cow boy d’altri tempi. Nello Stato, infatti, è possibile passeggiare con la propria pistola nella fondina ed esistono già siti dove cercare il centro commerciale guns-friendly più vicino a casa (è permesso qualora l’esercente non decida di vietarlo).
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IL NUOVO VOLTO DEL CANADA
Le sfide fronteggiate da Trudeau, nuovo premier liberale del Paese
Di Silvia Perino Vaiga Il Canada ha un nuovo volto: giovane e liberale. Dopo quasi dieci anni ininterrotti di governo conservatore, il 19 ottobre scorso il Partito Liberale ha vinto le elezioni legislative, facendo del suo leader Justin Trudeau il secondo Primo Ministro più giovane nella storia del Paese. 43 anni, figlio dello storico leader progressista Pierre Trudeau, che fu a sua volta Primo Ministro per due legislature tra gli anni Settanta e Ottanta, il nuovo premier ha trovato il suo primo grande successo nel rilancio della formazione di centrosinistra. Alle precedenti elezioni, nel 2011, il Partito Liberale si era infatti accontentato di un terzo posto a lunga distanza dai partiti Conservatore e Socialdemocratico, rispettivamente prima e seconda forza del Paese. Ci sono voluti più di due anni, un fine lavoro di rinnovamento e una lunga campagna elettorale, ma ora Trudeau la sua prima scommessa l’ha vinta. La sua nomina è stata accolta con favore dentro e fuori i confini canadesi, dove questa svolta liberale si è declinata in un sostanziale rinnovamento dell’immagine del Paese. Il programma di go-
verno di Trudeau si ripropone, tra le altre cose, di imporre una svolta nell’ambito delle politiche ambientali, di implementare nuove politiche di accoglienza per i rifugiati e di lavorare alla legalizzazione delle droghe leggere. E a soli due mesi dalla sua investitura è già riuscito a soddisfare le più ambiziose aspettative su importanti palcoscenici. La Conferenza sul clima di Parigi dello scorso dicembre ha rappresentato il primo grande appuntamento internazionale per Trudeau, che si è posto tra i leader più ambiziosi nel contrasto al cambiamento climatico. La promessa è quella di ridurre le emissioni canadesi di più del 30% entro il 2030. La partita interna, che si giocherà tutta sulle politiche fiscali ed energetiche, impegnerà il Primo Ministro in un confronto con i leader regionali, non sempre disposti a cedere sui prezzi dei combustibili. Ma il vero colpo di genio, almeno a livello mediatico, il nuovo Premier l’ha messo in atto quando, il 9 dicembre, ha personalmente accolto al loro arrivo all’aeroporto di Toronto 163 rifugiati siriani, il primo gruppo dei 25.000 attesi in Canada entro la fine di febbraio. “Sbarcheranno dall’aereo come rifugiati, ma usciran-
no dall’aeroporto come residenti permanenti in Canada”: le parole di Justin Trudeau hanno fatto il giro del mondo, risuonando come uno scacco matto agli esempi di intolleranza mostrati da altri leader mondiali sullo stesso tema. Pur proponendosi come campione di accoglienza, il nuovo governo non manca tuttavia di raccogliere critiche sulla sua strategia in Medio Oriente, soprattutto in tema di contrasto ai terroristi dello Stato Islamico in Siria e Iraq. Il Canada ha infatti annunciato che ritirerà i suoi mezzi dalla campagna di bombardamenti aerei, per focalizzare i suoi sforzi su missioni di training alle forze locali: non esattamente la notizia che i suoi alleati si aspettavano, a partire dagli Stati Uniti, che considerano la campagna aerea come strumento di punta nella loro strategia. C’è chi afferma perfino che questa scelta rischia di incrinare i rapporti del nuovo governo con l’amministrazione Obama. Ma anche su questo punto Trudeau sembra già aver sfoderato una carta vincente, quando nei giorni scorsi ha annunciato che a marzo visiterà la Casa Bianca per una cena di Stato tesa a rinnovare e rafforzare i legami tra Canada e Stati Uniti.
MEDIO ORIENTE
LA CORTINA DI FERRO CALA SUL GOLFO Riyadh e Teheran: il nuovo capitolo di uno scisma che va oltre la religione
Di Samantha Scarpa ARABIA SAUDITA - La conclusione dell’anno 2015 aveva lasciato un sostrato di ottimismo internazionalmente condiviso per la situazione mediorientale. Oltre alle misure contro l’inquinamento globale prese da COP21 a Parigi, infatti, il mese di dicembre aveva visto concludersi le trattative di pace a Vienna sul futuro della Siria, l’approvazione di una risoluzione ONU in merito alla situazione politica di Damasco e, non meno importante, l’organizzazione di una coalizione politica con a capo l’Arabia Saudita di tutte le forze di opposizione al gruppo Stato Islamico. Pur tuttavia, proprio l’Arabia Saudita, la quale aveva recentemente concesso alle donne il diritto di voto per la prima volta nella storia, sembra aver accantonato bruscamente tutti i precedenti buoni propositi. Sabato 2 gennaio, infatti, 12 tribunali hanno condannato a morte 45 cittadini sauditi, un egiziano e un ciadiano per atti terroristici all’interno del Paese. Tra i condannati, oltre ad affiliati ad Al Qaeda e Daesh, anche 4 sciiti colpevoli, secondo l’accusa, di aver fomentato alcuni attacchi bomba dal 2011 al 2013.
La personalità che ha destato più scalpore tra i giustiziati è Nimr Al-Nimr, figura religiosa di spicco tra la minoranza sciita dell’Arabia Saudita. Famoso in tutto il Medio Oriente per i suoi discorsi contro la monarchia Saoud e l’oppressione degli sciiti nel Paese, l’incarcerazione di Al-Nimr aveva suscitato proteste e polemiche, spingendo il segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon a richiedere il perdono reale al monarca Sulman e la liberazione dell’ecclesiastico. Il giorno successivo all’esecuzione, centinaia di sciiti hanno marciato in segno di protesta verso la regione natale di Al-Nimr al canto di “abbasso la Monarchia Saoud”. A Teheran, invece, capitale dell’Iran sciita, alcuni manifestanti hanno attaccato l’ambasciata saudita e incendiato il consolato di Mashad Rizeh, ovest dell’Iran. Il presidente iraniano Hassan Rohani ha subito condannato gli autori delle violenze, giudicando tuttavia l’azione Saudita “non-islamica” e “fautrice di un danneggiamento d’immagine della monarchia stessa”. Molto più dure le parole dell’Ayatollah Khamenei, il quale ha affiancato l’Arabia Saudita al gruppo Stato Islamico su Twitter, aggiungendosi alle voci che accusano i
Saoud di supportare il terrorismo. Contemporaneamente, forti tensioni si sono registrate in tutto il Medio Oriente. Marce e manifestazioni - anche violente - sono arrivate fino alla regione musulmana del Kashmir. In Libano, Hezbollah ha fortemente condannato la condotta saudita. Le più gravi conseguenze, tuttavia, hanno avuto luogo in Yemen, dove il cessate-il-fuoco è stato interrotto e misure eccezionali, tra cui il coprifuoco, sono state adottate da parte del governo centrale. A causa della nuova instabilità, il prezzo del petrolio è salito di oltre il 2% in poche ore. In risposta all’assalto all’ambasciata a Teheran, l’Arabia Saudita ha interrotto ogni relazione diplomatica con l’Iran, intimando agli ambasciatori iraniani di rientrare in patria entro 48 ore. Dall’Occidente arrivano parole di biasimo verso le azioni del Paese sunnita, azioni che sembrano esprimere timore per le sempre più frequenti relazioni tra Nazioni occidentali e Iran, ufficializzati una volta per tutte dal trattato di disarmo nucleare dello scorso luglio.
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LA SCELTA DELLA PAROLA
Se poesia e letteratura diventano la voce della Palestina di Lorenzo Gilardetti Mahmoud Darwish aveva sette primavere nell’anno della nakba (il 1948), quando con i genitori lasciò il suo villaggio natale in Palestina, al-Birwa, per fuggire in Libano. Ci tornò un anno dopo, da clandestino, ma quel Paese non esisteva più: era stato fisicamente distrutto e così quel nome era scomparso, non aveva più il diritto di comparire neanche sulle carte geografiche. Dalle ceneri di quella infanzia segnata nacque la sua poesia. Fadwa Tuqan nel medesimo anno era, invece, una donna che aveva già vinto molte battaglie. Contro la società borghese palestinese della prima metà del ‘900, contro la mentalità secondo la quale le donne non potevano godere della libertà di movimento, avere rapporti sociali, incontrare amici. Fadwa si era posta delle domande e aveva capito da sé che quel mondo non faceva per lei, ma solo quando il fratello Ibrahim la iniziò alla poesia, ella trovò la vera strada per l’emancipazione. La poesia palestinese si divide convenzionalmente in quattro periodi: il Neo-Classicismo di inizio ‘900, il Romanticismo del dopo Balfour (1917), la Poesia Nuova negli anni della nakba e la Poesia della Resistenza dopo
la guerra del ‘67. La Tuqan nella sua produzione ne attraversa quasi tutte le fasi, ricalcandone i temi più importanti in un intreccio di stili col passare del tempo sempre più maturo e influenzato dalla laurea in letteratura inglese ad Oxford tra il ’62 e il ’64, traguardo che segna il passaggio della poetessa nei toni politici del disappunto verso l’oppressione israeliana. Il più giovane Darwish, invece, tra le altre cose anche giornalista e autore di libri in prosa, vive dall’esilio in terre straniere (Libano, Unione Sovietica, Cipro, Giordania, Egitto, Francia) il suo senso di appartenenza e la sua vicinanza alla Palestina, terra in cui precedentemente viene più volte arrestato, anche per la lettura di alcuni suoi versi in pubblico. Ciò che accomuna questi due poeti è una scelta: la scelta della parola. Entrambi hanno sostenuto la resistenza dei loro connazionali senza dover occorrere alle armi come unica risorsa possibile, sono stati duri verso le violenze dello Stato israeliano e hanno denunciato le condizioni dei palestinesi con versi che sono giunti in tutto il mondo.
“Abbiamo un Paese che è di parole. E tu parla, che io possa fondare la mia strada pietra su pietra. Abbiamo un Paese che è di parole. E tu parla, così che si conosca dove abbia termine il viaggio.” scrive Mahmud Darwish della sua patria, della sua “Palestina”, quando in origine altro non era che una parola, un’idea comune, quando la richiesta di essere riconosciuti e di delimitare i confini non era necessaria a definire la vera identità di un popolo. Ma se i due più grandi poeti della cultura palestinese sono scomparsi agli inizi degli anni 2000, oggi c’è chi segue le loro tracce con i loro strumenti di resistenza: sono uomini e donne di Gaza e rifugiati in campi del Libano che hanno scelto di scrivere per aderire al progetto “We are not numbers” - piattaforma digitale supervisionata da Euro-Mediterranean Human Rights Monitor -proposto da alcuni studenti universitari. È il racconto, scritto dall’interno, di storie della quotidianità vissuta nei territori occupati: voce di chi non vuole offendere, voce di qualcuno a cui non basta urlare per farsi sentire. Per ascoltarli: www.wearenotnumbers.org
RUSSIA E BALCANI LIMONOV, IL RITRATTO DELL’ANTIEROE La vita di uno tra i più “scandalosi” uomini del Novecento
di Lorenzo Bardia “Je suis un communiste indépendant” dice abbottonandosi una camicia raffigurante la bandiera americana. Era il 1986 e con questa manciata di parole, pronunciata con un forte accenno russo, Edouard Limonov si descriveva di fronte alle telecamere di un giovane Emmanuel Carrère. Venticinque anni dopo quest’intervista, lo stesso Carrère ha pubblicato una biografia romanzata dell’uomo, poeta e politico: “Limonov”. Edouard Veniaminovitch Savenko, figlio di un sottoufficiale del corpo di polizia segreta NKVD, nasce nel 1943. Dopo un’infanzia turbolenta passata nella periferia della città ucraina di Kharkov, il giovane Edouard capisce cosa vuole dalla sua esistenza: non passare indifferente tra le pieghe della Storia. Si trasferisce quindi a Mosca e inizia a dedicarsi alla poesia; sotto lo pseudonimo di Limonov diventa, nel giro di poco tempo, la punta di diamante di una cerchia di dissidenti del regime comunista. Nel 1970 è costretto a lasciare l’URSS e arriva a New
York. Mentre lavora come maggiordomo di un miliardario scrive il romanzo che lo porterà alla consacrazione: “Il poeta russo preferisce i giovani negri”, il primo racconto autobiografico dei suoi trascorsi di povertà con i clochard e di avventure sessuali della Grande Mela. Trasferitosi a Parigi nel 1981, è una voce rispettata nel coro degli intellettuali parigini e intraprende numerose collaborazioni con diversi giornali della scena culturale della Capitale. Con la caduta del Muro e la fine del regime dell’odiatissimo Gorbaciov, Limonov ritorna a Kharkov per rincontrare i genitori e gli amici d’infanzia. Pochi mesi dopo, però, prende una delle decisioni più controverse e criticate della sua vita: lo ritroviamo infatti accanto a Radovan Karadžić, a parlare di poesia e a sparare sui monti dei Balcani. Ai membri di una troupe televisiva francese dichiarerà con sdegno: “Permettetemi soltanto di dirvi che non sono un giornalista. Sono un soldato.” Tornato in Russia, Limonov fonda con Aleksandr Dugin il Partito Nazional Bolscevico, tentativo di sintesi tra alcuni aspetti del fascismo e alcuni del comunismo,
che di fatto si tradurrà in un manipolo di giovani skinheads della controcultura russa. Nel 2001 viene incarcerato per due anni con l’accusa di possesso illegale di armi e di aver cercato di costituire un esercito per invadere il Kazakistan. Uscito di prigione si avvicina ai liberali e diventa, assieme all’ex campione di scacchi russo Garri Kasparov, uno dei leader dell’opposizione al governo di Vladimir Putin con il movimento politico Altra Russia. Negli ultimi anni è il promotore della “Strategia 31”, una serie di proteste civili per il diritto della libertà di riunione, garantito dall’articolo 31 della Costituzione russa. Carrère dirà: “ho pensato che la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non solamente di lui, Limonov, non solamente della Russia, ma della storia di noi tutti dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.” Le pagine del libro confermano quest’idea attraverso le parole che pronuncia lo stesso Limonov: “Questo Paese è magnifico nei grandi momenti storici, ma qui non si condurrà mai una vita normale. La vita normale non fa per noi.” Di sicuro non per lui: poeta, politico, provocatore.
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LA RUSSIA FA PARLARE LE IMMAGINI Mosca diffonde i video dei raid: informazione o propaganda?
Di Giulia Bazzano È alle immagini della distruzione di decine di autocisterne in viaggio dalla Siria e dall’Iraq verso il confine turco che si affida il Cremlino per ribadire il suo impegno nella lotta all’autoproclamato califfato islamico. Un messaggio inequivocabile: la Russia non si sta allontanando dal suo obiettivo, ma sta colpendo duramente i punti nevralgici dell’ISIS. Durante una conferenza stampa a Mosca il generale russo Rudskoy ha parlato di un “indebolimento” del Daesh dovuto al collasso dei suoi introiti finanziari. La pressione aerea russa avrebbe colpito drasticamente le loro fonti dei guadagno, arrivando addirittura a dimezzarle. Sempre secondo le informazioni fornite da Rudskoy, infatti, gli introiti complessivi sarebbero passati da 3 a 1,5 milioni di dollari al giorno e ad oggi i raid iniziati il 30 settembre 2015 avrebbero distrutto ben 2.000 cisterne contenenti petrolio, 17 solo nell’ultima settimana. Il Ministero della Difesa russo fornisce altri numeri impressionanti, parlando di un contrabbando del sedicente Stato Islamico che ammonta a circa 200.000
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barili di greggio al giorno, documentato anche da immagini. Il contrabbando risulta essere essenziale per la sopravvivenza del Califfato e il suo indebolimento altrettanto essenziale nella lotta al terrorismo. Le fotografie svelano il percorso compiuto dalle autocisterne e la relativa meta. Il petrolio, proveniente sia dalla Siria sia dall’Iraq, giunge allo snodo di Zakho, cittadina curda, per poi raggiungere la Turchia: nonostante le deviazioni strategiche compiute dai contrabbandieri dell’oro nero, sarebbe proprio questa la meta finale.
La Russia avrebbe dunque fornito le prove del ruolo centrale della Turchia nel commercio petrolifero con gli jihadisti. Prove emblematiche, che dimostrano che la tensione tra Mosca e Ankara non sembra allentarsi: lo stesso presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, insieme ai suoi famigliari, era già stato accusato di commerciare con l’ISIS, mentre i Turchi erano stati defini-
ti “complici dei terroristi”. Per molti queste immagini sono pura propaganda, in gran parte mirata a mettere in ombra le pesanti critiche mosse all’operato russo, apparentemente orientato a colpire i ribelli al regime di Assad. A far discutere è anche l’altissimo numero di civili uccisi durante i raid russi: su Mosca piovono le accuse di associazioni come Amnesty International, che hanno parlato di crimini di guerra. Il direttore di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord, Philiph Luter, ha condannato gli attacchi russi, che sembrano “aver preso di mira i civili”, invece di concentrare la loro azione su importanti obiettivi militari. Al rapporto dell’ONG è poi seguita una denuncia di Human Rights Watch, che ha parlato dell’uso di bombe a grappolo (vietate a livello internazionale) in almeno 20 raid. Se il Cremlino aveva inizialmente liquidato queste accuse come “guerra mediatica”, ora è fermamente intenzionato a dimostrare l’efficienza del proprio operato: Mosca sembra non voler perdere il suo ruolo guida nella lotta al Daesh, punto fermo in un conflitto pieno di incognite.
ORIENTE
LA NUOVA STRATEGIA MILITARE PER LA MARINA CINESE PRENDE FORMA Il nuovo Libro Bianco rivela i piani della Repubblica Popolare
Di Emanuele Chieppa Il 26 maggio, l’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato cinese ha presentato il suo nuovo Libro Bianco . Il documento, intitolato “Strategia militare della Cina”, è il nono libro dal 1998, e da allora il quadro geopolitico ha subito un’evoluzione considerevole. Gli esperti hanno a lungo atteso un cambiamento radicale nella strategia militare della Cina, soprattutto per quel che riguarda l’impegno globale. Nella prefazione, il documento è caratterizzato da auspici positivi verso “il mantenimento della pace, il perseguimento dello svilluppo e la condivisione della ricchezza”. Il documento continua poi sottolineando come una guerra mondiale sia alquanto improbabile. Si prosegue poi, con la conferma del fatto che il PLA (People’s Liberation Army, l’esercito della Repubblica Popolare), nonostante Pechino ritenga un conflitto mondiale poco possibile, stia ampliando la sua capacità di difendere gli interessi della Cina al di fuori dei confini nazionali. La nuova legge antiterrorismo approvata a Pechino, infatti, permette alle forze speciali cinesi di intervenire all’estero solo quando necessario. Tuttavia, con
un aumento degli interessi della Cina a livello globale e il peso crescente della sua influenza, Pechino potrebbe trovarsi di fronte a sfide più difficili in aree come l’Africa e il Medio Oriente. Il più decisivo cambiamento descritto nel Libro Bianco è quello che riguarda la Marina del PLA, ritenuta di importanza fondamentale e uno dei quattro “critical security domains” (gli altri sono lo spazio, il cyberspazio e il nucleare) in cui la Cina deve aumentare le sue capacità. Il Libro Bianco prevede infatti un cambio di mentalità, ovvero l’abbandono di ciò che viene definito “the traditional mentality that land outweighs sea”: una svolta davvero rilevante nella politica strategica cinese. Citando ancora una volta il volume appena pubblicato: “It is necessary for China to develop a modern maritime military force structure commensurate with its national security and development interests, safeguard its national sovereignty and maritime rights and interests, protect the security of strategic SLOCs and overseas interests, and participate in international maritime cooperation[…]” Da queste dichiarazioni emerge che l’impegno della Marina
cinese sarà improntato anche verso la protezione delle sue navi in acque internazionali, dominate da più di 70 anni dalla US Navy: la necessità di “proteggere la sicurezza dei SLOCs strategici [linee marittime di comunicazione] e gli interessi all’estero” è tenuta in conto nella nuova strategia sulla protezione in mare aperto o open seas protection. La conferma della veridicità della strategia cinese annunciata è arrivata giovedì 31 dicembre da un portavoce del Ministero della Difesa, che ha divulgato ciò che si sospettava da tempo: la Cina sta costruendo una portaerei a Dalian con un dislocamento di 50.000 tonnellate. Il vascello sarà il secondo di questo tipo ad entrare nella flotta cinese, ma è il primo ad essere costruito interamente in Cina. È verosimile che questa seconda portaerei (che probabilmente non sarà l’ultima) giochi presto un ruolo chiave nelle missioni “open seas protection”. Ciò potrebbe rappresentare la conferma della volontà cinese di aumentare notevolmente la sua influenza in mare e di impegnarsi verso una strategia marittima più efficace nel proteggere gli interessi della Repubblica Popolare.
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LA SOLUZIONE FINALE AL PROBLEMA DELLE COMFORT WOMEN L’accordo siglato da Giappone e Corea del Sud non soddisfa tutti
Di Giusto Amedeo Boccheni Il 28 dicembre Fumio Kishida e Yun Byung-se, viceministri degli Esteri di Giappone e Corea del Sud, hanno raggiunto un accordo “finale ed irreversibile” a Seoul sulla delicata ed assai dibattuta questione delle comfort women, termine eufemisticamente usato per indicare le donne costrette a lavorare nei bordelli dall’esercito dell’Impero del Giappone negli anni dell’imperialismo. Si stima che circa 100.000 donne coreane ed un numero uguale di cinesi, taiwanesi, filippine e olandesi siano state vittime dei crimini di guerra perpetrati dai colonizzatori. Dalla prima testimonianza, nel 1991, 238 donne in Sud Corea hanno denunciato gli abusi subiti. Ad oggi le sopravvissute sono 46 e tra loro l’età media è di 89 anni. Ad agosto, il primo ministro giapponese Shinzo Abe era stato criticato per essersi espresso
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nei confronti delle vittime con insufficiente riguardo.
relazioni bilaterali tra i due Paesi possano progredire e migliorare.
Da quando, nel 1993, il segretario generale di Gabinetto Yohei Kono ha messo fine alla politica negazionista giapponese sull’accaduto, i Primi Ministri nipponici hanno ritualmente espresso le proprie “scuse” ed il “profondo rimorso” per i crimini di guerra commessi durante l’occupazione coloniale. Così ha fatto Tomiichi Murayama nel 1995, così anche Junichiro Koizumi nel 2005. Persino l’Imperatore, in occasione del 70° anniversario della sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, ha adottato le stesse formule.
Il governo conservatore di Park Geun-hye ha dovuto però fare i conti con l’opinione pubblica, che non è rimasta soddisfatta dei negoziati.
Abe ha posto rimedio sabato, con una lettera formale di scuse. Inoltre, il governo nipponico si è impegnato a devolvere ad un fondo a favore delle vittime circa 8,7 milioni di dollari, pur specificando che non si tratterebbe di un “risarcimento”. La condizione è che venga rimossa una statua a memoria delle vittime eretta dal Korean Council of Women Drafted for Sexual Slavery by Japan nel 2011 di fronte all’ambasciata giapponese a Seoul, in occasione del 1000° giorno di una protesta cominciata nel 1992. Gli Stati Uniti, che contano circa 80.000 delle proprie truppe stanziate in Giappone e Corea del Sud, hanno accolto l’accordo con entusiasmo, considerate l’assertività cinese e la corsa agli armamenti nordcoreana. Anche Ban Ki-moon, un tempo Presidente sudcoreano, ha espresso l’augurio che le
Le vittime superstiti non sono state preventivamente consultate e l’incontro del 29 dicembre organizzato con loro dai Viceministri degli Esteri ha avuto un esito infelice. Più che una riparazione finanziaria ed un’ammissione di colpa per il “coinvolgimento” delle autorità giapponesi nella commissione dei crimini da loro subiti, le anziane sopravvissute avrebbero preferito azioni concrete, come la modifica dei libri di storia utilizzati nelle scuole giapponesi. La corrente revisionista giapponese è, infatti, tutt’altro che ininfluente. Riunita nel movimento non partitico Nippon Kaigi, annovera tra i propri affiliati 289 su 480 membri del Parlamento e 15 membri del governo su 19, tra cui lo stesso Abe. Può darsi, insomma, che la soluzione non sia affatto definitiva, tanto più che il problema sarebbe risolto appena a metà. Il Ministro degli Esteri di Taiwan ha chiesto che scuse e riparazioni non siano limitate alla Sud Corea e il presidente Ma Ying-jeou, nel discorso di capodanno, ha ricordato le vittime dell’occupazione giapponese (1895-1945).
AFRICA
LA LIBIA E L’OCCIDENTE Dal colonialismo italiano ai giorni nostri Gheddafi, quando nel Paese fu proclamata la Repubblica Araba di Libia. I nodi centrali della contesa legale con il Bel Paese riguardavano i beni confiscati alle imprese e ai privati italiani nel 1970 e le richieste libiche di risarcimento per danni coloniali e di guerra. Di Giulia Mogioni Il Trattato di Losanna del 1912 stabilì che il territorio della Cirenaica e della Tripolitania diventava dominio italiano con il nome di Libia. Giolitti, infatti, intendeva riprendere la politica coloniale per far acquisire all’Italia un maggiore prestigio internazionale. Ma tale conquista non si rivelerà, con il tempo, un “buon affare”. Nell’età giolittiana, del resto, nessuno poteva immaginare che lo “scatolone di sabbia” (così veniva definito il Paese alludendo alla sua forma quadrangolare e al suo immenso deserto) contenesse un enorme tesoro, il petrolio, che venne scoperto solo nel 1959, quando ormai la Libia non era più una colonia italiana. Nel 1951 il califfo Idris Senussi aveva, infatti, proclamato l’indipendenza del Paese, instaurando il regime monarchico. In tale periodo, gli expatriates, soprattutto ex coloni italiani trapiantati, continuarono a figurare tra i notabili del luogo, e a gestire le proprie imprese. Le relazioni della Libia con l’Occidente e particolarmente con l’Italia divennero piuttosto difficili con il colpo di Stato del 1969 guidato da Muammar
Progressivamente, però, la Libia di Gheddafi si riaprì all’occidente. Emblematica la stipula, nel 2008, del Trattato di Bengasi di amicizia e cooperazione con l’Italia. La Libia divenne per il Bel Paese l’alleato perfetto sulla sponda nord africana, utile non solo per ottenere forniture di energia, ma anche per controllare i flussi migratori verso le coste europee. on la guerra civile libica e la morte di Gheddafi, la situazione divenne critica, con transito di armi, terroristi e trafficanti di droga. La situazione divenne pericolosa anche per i rappresentanti della Comunità Internazionale, come testimoniano l’attentato mortale del 2012 contro l’ambasciatore statunitense Chris Stevens e l’attentato del 2013 contro il console italiano Guido De Sanctis. In un’ottica di sostegno al Paese tramite la cooperazione internazionale, il G8 nel 2021 affidò all’Italia, in virtù del suo passato coloniale e della sua posizione strategica, l’incarico di formare le forze della polizia e dell’esercito libico, nonchè di guidare la ricostruzione del Paese sotto il governo di Alì Zeidan. Le imprese straniere non supportarono tale processo di sviluppo a causa dell’instabilità del governo.
Oggi la Libia è divisa in tre regioni: la Tripolitania, dominata dagli islamisti che si riconoscono nel governo di Tripoli; la Cirenaica, controllata dall’esercito del generale Khalifa Haftar, alleato con il governo di Beida e la Camera dei Rappresentanti di Tobruk (che sono le uniche due istituzioni libiche riconosciute dalla comunità internazionale); il Fezzan, diviso in aree tribali. Questa frammentazione si è ulteriormente aggravata dal 2014 per la presenza dello Stato Islamico, che punta a raggiungere i siti petroliferi per controllare il contrabbando del greggio e il traffico di migranti. Il 17 dicembre 2015 è stata firmata in Marocco un’Intesa per formare un governo di unità nazionale tra le delegazioni di Tobruk e Tripoli, sotto l’egida dell’ONU. Si cerca di trovare il modo di far dialogare le due fazioni per evitare che lo Stato Islamico abbia campo libero.
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VUDÙ, MAMAN E ACCOGLIENZA Il traffico delle prostitute nigeriane
Di Francesco Raimondi È la miseria a spiegare il costante flusso di donne che dalla Nigeria tentano di giungere in Europa attraverso il Sahara e lo stretto di Gibilterra, generalmente partendo da Benin City, nel sud del Paese. Un giro di prostituzione in costante aumento e che vede l’Italia come meta principale, stando ai dati pubblicati nel 2014 dalla Global Initiative Against Transnational Organised Crime. Sebbene l’economia della più popolosa nazione africana sia in una fase estremamente espansiva, infatti, la Nigeria è frenata nella sua corsa al benessere da una dilagante corruzione, che relega il settore primario del Paese ad un’agricoltura di sussistenza, incapace di far fronte al notevole aumento demografico. Eppure la consapevolezza di ciò che aspetta le migranti nel vecchio continente si è, negli ultimi anni, sempre più diffusa: Teresa Albano, responsabile g anti-traffickin della sezione italiana dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, afferma che “gran parte delle ragazze sanno ormai cosa vengono a fare”.
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D’altro canto, però, a tenere in costante scacco le giovani prostitute sono gli ingenti debiti contratti in patria per sostenere le spese del viaggio e, più ancora, il terrore dei riti vudù con i quali sono iniziate alla professione. Costrette prima della partenza dal baba-loa, una sorta di sciamano, a fornire alcuni elementi intimi (quali peli pubici, unghie, capelli) e a praticare terribili atti rituali - più di una ragazza ha dichiarato di aver dovuto divorare interiora di tartaruga, le donne sono infatti rese schiave della superstizione e del timore di ripercussioni religiose, oltre che fisiche, sulla propria famiglia, nel caso in cui tentino di fuggire al racket europeo. La rete di sfruttamento, una volta giunte a destinazione, è del resto fitta: una sorta di mafia ramificata e gerarchizzata, all’interno della quale un ruolo di spicco è ricoperto dalla maman, spesso un’ex prostituta, che accoglie nella propria casa sette-otto ragazze e si presenta loro come una figura ambigua: da un lato è materna, dall’altro ricorda loro, qualora non volessero piegarsi alle sue condizioni, il doppio vincolo (economico e religioso) che hanno stretto con l’organizzazione.
La maggioranza delle donne che vendono il proprio corpo in Italia (ovvero il 35% del totale, secondo la stima dell’Osservatorio Tratta della Regione Lombardia) proviene proprio dalla Nigeria, con un’altissima concentrazione in Piemonte, Lombardia e Veneto.
Le realtà di sostegno per le ragazze in difficoltà nel nostro Pa ese sono, tuttavia, numerose. Tra queste, il Gruppo Abele, l’associazione fondata da Luigi Ciotti nel 1965 ed operante a Torino, snodo fondamentale per le centinaia di nigeriane che giungono nel nostro Paese come vittime di tratta e prostituzione. Cristina Masino, una delle responsabili del suo progetto di accoglienza, dichiara: “Molte delle donne con cui lavoriamo raccontano di essere arrivate attraverso quelli che i media definiscono viaggi della speranza. Giungono spaurite, affamate, con gli occhi spenti di chi è stato tradito, illuso e massacrato. L’incontro con qualcuno che si prende cura di loro le fa sentire accolte, sostenute, non giudicate, spesso le trasforma; col tempo gli occhi tornano a brillare, i volti si addolciscono ed arrotondano: è un nuovo inizio”.
SUD AMERICA GUERRIGLIA IN COLOMBIA La minaccia delle FARC
Di Giulia Botta Da oltre mezzo secolo, la Colombia è teatro di una sanguinosa lotta intestina condotta dalle Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane - Esercito del Popolo, più note con gli acronimi di FARC o FARC-EP, contro il governo del Paese. Tale conflitto è causa di tensioni sociali, politiche ed economiche che hanno risvolti, anche internazionali, dovuti al coinvolgimento delle FARC nel traffico di cocain . a Si cerca da tempo di debellare il business del narcotraffico ,anch egrazie all’appoggio degli Stati Uniti. Dal 2002, le FARC sono state inserite dagli USA nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, in quanto accusate di gestire il traffico di circa il 50% della cocaina a livello mondiale e oltre il 60% delle spedizioni di droga verso gli USA. Secondo il Ministero della Giustizia americano, dietro alle FARC si muoverebbe un mercato della cocaina da ben 25 miliar-
di di dollari, che rende questa organizzazione uno dei gruppi guerriglieri più ricchi al mondo. Inoltre, stando alle affermazioni di Jorge Noguera, capo della polizia segreta colombiana, le FARC oggi “sono diventate un sindacato multinazionale del crimine” e gli introiti derivanti dai traffici illeciti forniscono una delle principali fonti di finanziamento per le loro attività rivoluzionarie. Organizzazione guerrigliera comunista di ispirazione marxista-leninista, le FARC sono state fondate nel 1964, ma trovano le loro radici in un periodo ancora precedente, quello de La Violencia, brutale guerra civile cominciata nel 1948 e promossa dalle forze socialiste contro le frange conservatrici, cattoliche ed elitarie della società. 200.000 furono le vittime di questa guerra, caratterizzata da un violento vortice di insurrezioni e atti criminali, dall’occupazione di vaste zone rurali e da esperimenti di autorganizzazione contadina. In risposta alla cruenta repressione del governo, i ribelli fondarono le FARC, braccio armato del Partito Comunista sotto la leadership di Manuel Marulanda, detto Tirofijo (“mirino infallibile”). Resistenza, lotta armata e guerriglia mobile sono gli strumenti del gruppo; il suo obiettivo è quello di sovvertire l’ordinamento statale ed instaurare una de-
mocrazia popolare e socialista. Dal 1964 si sono susseguiti scontri ed episodi di guerriglia ed è stato consistente l’aumento del numero dei ribelli, oggi circa 16.000. Di questi il 30% sono minorenni e solo nel febbraio 2015 è stato introdotto un limite all’età necessaria per l’ingresso, fissata a 17 anni. Diversi (ma fallimentari) sono stati i tentativi di apertura al dialogo e di ricerca di soluzioni diplomatiche, a partire dai Dialoghi del Caguán, colloqui di pace aperti nel 1998 dal presidente Andrés Pastrana, fino ad arrivare alle trattative avviate a L’Avana nel 2012 tra Cuba, FARC e governo colombiano, finalizzate alla “costruzione di una pace stabile e duratura”. Soltanto il 24 settembre 2015 è stato infine siglato uno storico accordo a L’Avana, alla presenza di Raul Castro, tra il presidente della Colombia, Juan Manuel Santos, e il leader delle FARC, Timoleón Jiménez. Fissato il 23 marzo 2016 come ultimatum per il “cessate il fuoco”, si giungerà a firmare una pace faticosamente inseguita per tre anni dopo mezzo secolo di guerra civile. L’intesa prevede, inoltre, l’istituzione di tribunali speciali per il giudicare sui crimini di guerra commessi da entrambe le parti, tra cui sequestri, torture, deportazioni, abusi sessuali.
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LA CHERNOBYL BRASILIANA
Mariana, 5 novembre 2015: crollano 2 dighe contenenti rifiuti tossici. giornale del Brasile “O Globo”, lo descrive così: “Tutto è morto. Adesso il fiume è un canale sterile coperto di fango”.
Di Andrea Incao Nella città di Mariana, nello Stato di Minas Gerais, il 5 novembre del 2015 sono crollate 2 dighe contenenti rifiuti tossici. Verrà ricordato come il più grande disastro ambientale che il Brasile abbia mai dovuto patire sulle proprie terre. Il noto fotografo brasiliano Sebastiao Salgado, in un’intervista al principale
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Il fango arancione frutto delle operazioni minerarie, che prima del crollo era contenuto nelle dighe, si è riversato nel Rio Doce (Fiume Dolce). 250.000 persone sono rimaste senza acqua potabile e sono stati contaminati campi agricoli e foreste. Dalle prime indagini si teme che i materiali possano percorrere l’intero corso del fiume (500 km) ed andare a sfociare nell’Oceano Atlantico. Il rischio più grande è che i 60 milioni di metri cubi dei composti fangosi (cosiddetti ether amines), solidificandosi, creino danni permanenti
all’ecosistema, modificando la fertilità dei campi e cambiando il sistema fluviale. Dilma Rousseff dovrà fare i conti anche con questo evento che ha portato il Brasile tra i primi Paesi più inquinati al mondo: primo nella deforestazione, terzo nell’uso di fertilizzanti, quarto per numero di specie animali a rischio. Prima di questo disastro si attestava era all’ottavo posto per le acque inquinate. Il Premier brasiliano ha aperto il proprio discorso alla 21° conferenza delle Nazioni Unite dedicata al clima assicurando che vi saranno punizioni severe per tutti i responsabili di questa tragedia ecologica.
IL GRUPPO PIEMONTESE GAVIO SBARCA IN BRASILE 529 milioni di euro investiti per acquisire la quota di maggioranza di Ecorodovias
Di Andrea Incao, Il gruppo piemontese Gavio ha acquisito il 41% della società brasiliana delle autostrade Ecorodovias per 529 milioni di euro. È il nuovo azionista di maggioranza relativa a discapito dello storico propietario, la famiglia Almeida, la quale vede scendere le proprie partecipazioni al 39,5%. Gavio aggiunge così gli 860 chilometri di rete autostradale brasiliana ai circa 400 chilometri di autostrade nel nord-ovest italiano già detenuti in portafoglio, dotandosi di una importante piattaforma per lo sviluppo delle attività nel Sud America. Il presidente Beniamino Gavio
batte così la concorrenza delle rivali Atlantis e Vinci, grazie al rapporto di fiducia che lo lega alla famiglia Almeida. Questi ha dichiarato: “abbiamo investito su un gruppo che conosciamo e che come noi si occupa di concessioni, costruzioni e logistica e l’abbiamo fatto diversificando il rischio Paese convinti che il Brasile, nonostante l’attuale momento di difficoltà ,abbi abuone prospettive di medio termine. Questo non significa che non abbiamo fiducia sull’Italia, visto che abbiamo appena investito 600 milioni in società partecipate operanti in Italia”. Il gruppo Gavio, che conta oggi 5.600 dipendenti e 3,9 miliardi di euro di fatturato aggregato nel 2014, si rende quindi partecipe di una delle
maggiori acquisizioni di un’azienda italiana all’estero nel 2015.
MSOI thePost Torino Ogni settimana un focus sulle nostre attività
EU Model Torino 2016 è una simulazione su larga scala della procedura legislativa ordinaria dell’Unione Europea. Dal 21 al 24 marzo studenti universitari da tutta Europa si ritroveranno a Torino per impersonare Membri del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea al fine di lavorare su un progetto di regolamento o direttiva. Il tema – estremamente attuale – della nuova edizione della simulazione è l’adozione di
norme penali comuni sull’incriminazione dei foreign fighters. EU Model Torino 2016, esperienza unica in Italia, si articola in due fasi. EU Know rappresenta il momento di studio e approfondimento: rinomati accademici ed esperti metteranno le proprie competenze a disposizione dei partecipanti nel corso di conferenze, incontri e training session focalizzati sul tema specifico dei lavori. EU Make consiste nella si-
mulazione stessa, il cui fine è quello di adottare un atto normativo seguendo la procedura legislativa ordinaria. EU Model Torino 2016 si pone come valida attività formativa, che permette agli studenti non solo di avvicinarsi ai principali temi di dibattito politico europeo e di apprendere i meccanismi di funzionamento degli organi e delle istituzioni europee, ma anche di sviluppare la propria identità europea in maniera originale e divertente.
Per rimanere aggiornato sulle attività di MSOI Torino, visita il sito internet www.msoitorino.org, la pagina Facebook Msoi Torino o vieni a trovarci nella Main Hall del Campus Luigi Einaudi tutti i mercoledì dalle 12 alle 16.
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