Msoi the post Numero 10

Page 1

MSOI thePost

22/1 - 5/2

www.msoitorino.org | twitter: @MSOIthePost | Fb: Msoi Thepost

MSOI the Post • 1


MSOI Torino

M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario MSOI Torino

MSOI thePost

MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di MSOI Torino, desidera proporsi come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulterà riconoscibile nel mezzo di informazione che ne sarà l’espressione: MSOI thePost non sarà, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

REDAZIONE: Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Giulia Andreose, Timothy Avondo, Daniele Baldo, Giulia Bazzano, Giada Barbieri, Lorenzo Bardia, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Stefano Bozzalla, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Alessio Destefanis, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Simona Graceffa, Luca Imperatore, Andrea Incao, Michelangelo Inverso, Daniela Lasagni, Giulia Mogioni, Silvia Peirolo, Daniele Pennavaria, Silvia Perino Vaiga, Emanuel Pietrobon, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Michele Rosso, Silviu Rotaru, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Martina Terraglia, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Francesco Turturro, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Le nostre copertine sono realizzate dall’artista Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino. org!


EUROPA

UNA PERICOLOSA RETROSPETTIVA Dopo le stragi di Parigi: le reazioni al terrorismo

Di Simone Massarenti

necessità di intervento da parte dei soccorsi, dato il freddo e la nevicata intensa che hanno interessato l’area.

sta seriamente riproponendo una “nuova cortina di ferro”, di diversa costituzione, ma con i medesimi risultati.

Il presidente francese François Hollande, in risposta al rischio concreto di altri attacchi, ha dichiarato lo stato di emergenza (ad oggi in vigore) per tutto il territorio nazionale e ha proposto la modifica di alcuni articoli della Costituzione.

Gli attentati hanno però scosso non solo le coscienze del governo francese, bensì tutti i governi nell’area UE, corsi ai ripari con misure di sicurezza “ad hoc”. La Germania, dopo la minaccia considerata “molto credibile” di una bomba nello stadio di Hannover in occasione della partita Germania-Olanda (quindi annullata), ha istituito misure di sicurezza straordinarie al fine di controllare il maggior numero possibile di persone, nonché fitti controlli dopo le 121 denunce di molestie pervenute da varie città del Paese dopo la notte di capodanno.

Ordinando poi la chiusura delle frontiere, al fine di controllare i flussi da e verso il territorio francese, Hollande ha indirettamente rimesso in discussione il trattato di Schengen, caposaldo dell’Europa unita. Le prime conseguenze negative di questa “strategia di difesa” si sono avute il 3 febbraio, quando centinaia di viaggiatori diretti in Francia sono rimasti bloccati per ore alle frontiere italofrancesi del Frejus e del Monte Bianco, con conseguenti code chilometriche (circa 90 minuti di attesa per il transito) e la

Il nuovo anno ha però portato con se dei colpi di scena che potrebbero radicalmente cambiare il quadro dell’immigrazione e della politica europea in genere: dal 4 gennaio, infatti, prima Svezia e Danimarca, poi Austria, hanno deciso di chiudere i confini, ipotesi al vaglio anche di Slovenia e Croazia. Questa pericolosa reazione a catena potrebbe portare conseguenze gravissime circa le libertà fondamentali garantite da Schengen e, a tal proposito, il vescovo di Vienna Christoph Shönborn ha affermato che si

Tutto ciò potrebbe avere ripercussioni anche sul piano politico mondiale. Queste strategie diminuiscono la possibilità di cooperazione fra le organizzazioni internazionali e di conseguenza si potrebbero creare blocchi internazionali tali da riportare la mente agli anni della Guerra Fredda. USA, Turchia, Russia, Francia, Inghilterra, Germania, Iran e Arabia Saudita stanno dominando la scena mediatica mondiale in queste settimane. Cresce di giorno in giorno il rischio che si creino contrasti tra gli schieramenti impegnati nella risoluzione della questione siriana e nella lotta all’ISIL. L’intervento dell’ONU, che ha “legittimato” l’azione militare contro il Daesh, ha comportato l’inizio di un gioco di strategie che potrebbe modificare la geopolitica mondiale.

Il 13 novembre 2015, la “notte più buia per Parigi”, ha sancito l’inizio di una nuova fase storica per l’Europa e per il mondo. I 130 morti degli attacchi terroristici che hanno colpito la capitale francese hanno scosso gli animi a tal punto da definire quella notte “l’11 settembre di Parigi”, un venerdì sera che cambierà, forse, le sorti degli equilibri internazionali.

I colpi dei kalašnikov dei terroristi “figli della libertà”, figli di un’Europa incapace di integrarli, continuano a vagare pericolosamente, minando il diritto alla libertà e ricostruendo muri che dopo l’89 sembravano abbattuti per sempre. MSOI the Post • 3


“THE RAPE CULTURE” Partire dai fatti di Colonia per educare l’Europa

Di Federica Allasia Sono trascorse tre settimane dalla drammatica notte del 31 dicembre, quando, davanti alla stazione centrale della città di Colonia, in Germania, la goliardia che generalmente contraddistingue i festeggiamenti per il nuovo anno ha lasciato il posto alla violenza. In assenza di una ricostruzione dei fatti precisa in grado di attestare una volta per tutte le responsabilità dei soggetti coinvolti, non resta che affidarsi alle oltre 650 denunce presentate alle autorità, stando alle quali centinaia di giovani uomini ubriachi, presumibilmente di origine araba o nordafricana, si sarebbero radunati nella piazza principale della città di Colonia, davanti alla stazione, per poi dividersi in gruppi e aggredire i presenti. Vicende analoghe si sarebbero verificate anche ad Amburgo, Stoccarda, Zurigo, Salisburgo ed Helsinki. L’inspiegabile inerzia delle forze dell’ordine, che non sono state in grado di fronteggiare le aggressioni, ha avuto come immediata conseguenza la sospensione dal servizio del capo della polizia tedesca Wolfgang Anders, accusato peraltro di aver coperto presunte responsabilità di richiedenti asilo coinvolti nei fatti di quella notte. L’8 gennaio gli inquirenti hanno identificato e fermato 32 persone di diverse nazionalità (tra cui anche un americano e tre tedeschi); tra i soggetti fermati, 18 sono richiedenti asilo, ma nessuno di loro è sospettato di molestie. Immediate le reazioni nella città, animata sin da subito da numerose manifestazioni che hanno coinvolto donne, militanti 4 • MSOI the Post

di partiti di estrema destra, ma anche rifugiati siriani intenzionati a discostarsi dall’accaduto e ad evitare strumentalizzazioni razziste. Inevitabilmente, però, i fatti di Colonia hanno generato un acceso dibattito politico-sociale in tutta Europa: si è assistito ad una strumentalizzazione del corpo della donna, divenuto luogo di contesa di un presunto scontro tra civiltà. Secondo alcuni, non si sarebbe trattato soltanto di un episodio di violenza di gruppo contro le donne, ma di un atto di disprezzo e di attacco rivolto all’intera Europa, quasi come se il corpo della donna rappresentasse simbolicamente quello violato dell’Occidente: gli aggressori sarebbero quindi “un branco di persone non integrate”, espressione di un modello di potere dominante, maschile e fortemente patriarcale, di un mondo arabo, che ha peraltro innegabilmente visto mutare la concezione della sessualità e dei rapporti uomodonna, in seguito all’incontro con l’Occidente. Le società arabe, imitando l’Europa, nel XX secolo iniziarono ad ammettere le donne nello spazio pubblico, ma spesso questo rappresentò un cambiamento troppo radicale per società abituate a concepirle nel solo spazio loro assegnato, quello domestico, appunto. Per gli uomini, le donne invadevano lo spazio di cui loro erano “padroni”, quello pubblico. Il loro tentativo di “occidentalizzarsi” affascinò gli uomini, ma allo stesso tempo li trovò impreparati e incapaci di rinunciare ai privilegi da sempre detenuti in qualità di incontrastati protagonisti dello spazio pubblico. Essi hanno dunque iniziato ad importunarle e a molestarle. Oggi permangono alcuni esempi di tale mentalità, frutto di un’e-

ducazione ad una società eterosessualizzata spesso lacunosa, ma quanto accaduto a Colonia, non è tanto la conseguenza della trasposizione del pensiero e delle usanze islamiche in territorio europeo, quanto un’estremizzazione di una cultura sessista da sempre presente nel Vecchio Continente. Secondo Dinah Riese, giornalista del quotidiano tedesco Die Tageszeitung, “Le molestie sessuali sarebbero espressione di una rape culture radicata nella società tedesca. Anche se molti non se ne vogliono rendere conto, in tutte le grandi manifestazioni in cui l’alcol abbonda, come il carnevale o l’Oktoberfest, le donne devono affrontare una triste realtà: essere toccate contro la loro volontà”. Una ricerca dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali ha, inoltre, evidenziato come 62 milioni di donne in Europa abbiano subìto violenza, e il record degli abusi si registra in Paesi come Danimarca, Finlandia, Svezia e Olanda, in cui i tassi di occupazione femminile risultano più elevati e le parità tra i sessi dovrebbero essere maggiormente garantite. Sebbene sia innegabile la necessità di fornire strutture che aiutino gli immigrati ad integrarsi e diventare cittadini più consapevoli all’interno dello Stato ospitante (a tal proposito il 13 gennaio la Germania, seguendo l’esempio della Norvegia, ha rilasciato la app “Ankommen”, per favorire il processo di integrazione dei migranti, fornendo loro anche informazioni sui valori tedeschi), la sfida più importante che l’Europa si trova ad affrontare è quella con se stessa.


NORD AMERICA L’ULTIMO STATE OF THE UNION ADDRESS DI OBAMA

Il Presidente difende le scelte di governo del Paese più potente del Mondo

Di Francesco Turturro Il 12 gennaio Barack Obama ha tenuto davanti al Congresso il suo ottavo e ultimo State of the Union address, il tradizionale discorso con cui il Presidente degli Stati Uniti esplicita gli obiettivi da raggiungere nell’anno successivo. Obama ha toccato, nella sua orazione, tutti i temi caldi della campagna elettorale in corso negli States – l’immigrazione e la guerra all’ISIS, i diritti dei lavoratori, un’economia sostenibile e l’emergenza climatica – con la serenità di colui che pensa che durante la propria amministrazione si sia lavorato bene per far fronte a questi problemi. Il Presidente rivendica con orgoglio la creazione di 14 milioni di posti di lavoro e reputa false le asserzioni di chi basa la pro-

pria campagna elettorale sull’idea che l’America sia in declino dal punto di vista economico e militare. “Gli Stati Uniti sono il Paese più potente al Mondo. Nessuna Nazione osa attaccare noi o attaccare un nostro alleato, perché quella sarebbe la strada per la loro rovina”, dichiara. Quindi il Paese non è debole come qualcuno vorrebbe far credere ed è, anzi, più che mai determinato ed essere lo Stato leader nella lotta contro coloro che minacciano la sicurezza dei suoi cittadini: l’ISIS. Tanto è stato fatto nell’ambito economico ma, ammette il Presidente, ancor di più si può e si deve fare. La crescita economica deve continuare, ma parallelamente devono essere ideate ed attuate riforme lungimiranti che assicurino un futuro splendente al Paese: migliorare l’istruzione scolastica (“Bene l’accordo bi-

partisan No child left behind, ma tutti devono potersi permettere di andare al college”); rafforzare – non indebolire – il Social Security and Medicare; continuare a lavorare per garantire il Minimum Wage; riconoscere i casi in cui le leggi che favoriscono le grandi aziende finiscono per sfavorire il popolo americano ed intervenire. Obama è inoltre orgoglioso del lavoro che sta facendo il suo esecutivo per sviluppare le energie rinnovabili e considera un imperativo continuare su questa strada. Ma c’è spazio anche per i rimpianti nel discorso di Obama: la chiusura di Guantanamo e la necessaria riforma delle armi sono problemi che, a causa dell’opposizione del Congresso, rimangono insoluti. MSOI the Post • 5


USA – IRAN: VECCHIE E NUOVE SANZIONI

Il clima disteso post accordo sul nucleare si rivela effimero

Di Alessio Destefanis Vienna, 16 gennaio 2016 - L’annuncio ufficiale della revoca delle sanzioni sul nucleare all’Iran è stato dato dall’alto rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri, Federica Mogherini, e dal ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif. Uno storico risultato, raggiunto dopo il comunicato dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (IAEA) che conferma il rispetto da parte del fronte iraniano degli impegni presi a luglio sul nucleare. Tali impegni erano stati definiti con la firma di un accordo tra l’Iran e sei potenze mondiali: i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, Francia) e la Germania. L’accordo prevedeva l’invio al di fuori del Paese del 98% del combustibile nucleare, la riduzione delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio e lo smantellamento del reattore nucleare di Arak. 6 • MSOI the Post

“L’Iran ha rispettato i suoi obblighi verso l’agenzia nucleare dell’ONU” ha dichiarato da Vienna il Segretario di Stato americano John Kerry, ordinando la revoca delle sanzioni anche da parte degli Stati Uniti. Il presidente americano Barack Obama ha provveduto a firmare l’ordine esecutivo, rendendolo noto tramite una dichiarazione ufficiale da parte della Casa Bianca. “L’accordo sul nucleare rappresenta una vittoria gloriosa per l’Iran” ha dichiarato il presidente iraniano Hassan Rohani. Il presidente israeliano Benjamin Netanyahu ha invece esternato la propria preoccupazione nei confronti di questa intesa, dichiarando che l’Iran continua ad avere forti ambizioni nucleari e confermando che Israele vigilerà sulla questione. Poco prima della conferma ufficial e dell a revoca delle sanzioni, il governo di Teheran aveva provveduto, tra l’altro, a rilasciare 5 cittadini americani: Jason Rezaian, capo dell’ufficio di Teheran del Washington Post, il pastore cristiano Saeed Abedini, l’ex Marine

Amir Hekmati, l’imprenditore Nosratollah Khosravi-Roodsari e lo studente Matthew Trevithick. Analogamente, gli Stati Uniti hanno liberato 7 cittadini iraniani detenuti nelle carceri statunitensi, annullando inoltre mandati di cattura internazionale contro 14 iraniani, colpevoli di aver violato le sanzioni americane. Un idillio, quello tra USA e Iran, destinato ad interrompersi in fretta. Il giorno successivo al raggiungimento di questo importante traguardo diplomatico gli Stati Uniti sono stati costretti ad applicare nuove sanzioni verso l’Iran, colpevole di non aver posto fine al programma balistico e di aver effettuato sperimentazioni missilistiche non autorizzate. Da Teheran giungono le smentite: “I missili non sono concepiti per le testate nucleari. Le misure adottate sono un tentativo di dare privilegi ai centri di potere di quanti, all’interno e all’esterno, avanzano richieste eccessive.”


MEDIO ORIENTE LA SIRIA È IL SUO POPOLO

Storie di una società distrutta dal silenzio delle sue tragedie

Di Samantha Scarpa SIRIA - A partire dal 2011, la guerra civile in Siria ha portato ad una carneficina tra le più rilevanti nella storia post-bipolarismo. Le “vittime”, intese come “chi perisce in una sciagura, in una calamità, in seguito a gravi eventi o situazioni” (Treccani), in Siria sono più di 250.000, ma ciò che solitamente si tende a non considerare è l’altro significato intrinseco della parola “vittima”; sempre secondo Treccani: “chi soccombe all’altrui inganno e prepotenza, subendo una sopraffazione, un danno, o venendo comunque perseguitato e oppresso”. Sotto questa definizione, le vittime salgono ad oltre 12 milioni. 12 milioni sono le persone che da 5 anni soccombono alle armi più efficaci che sia il regime di Bashar Al-Assad sia i suoi nemici continuano ad utilizzare: la violenza, la miseria e l’umiliazione. La violenza nelle regioni siriane è, probabilmente, la più imprevedibile e spettacolare arma a disposizione. Il suo punto forte è l’assenza di ogni limite nel suo impiego e l’assoluta facilità con cui essa viene universalmente legittimata, che sia un attacco del regime contro i ribelli, la coalizione internazionale contro i

gruppi del terrore o lo Stato Islamico nella conquista di città. L’ultima strage è avvenuta sabato 16 Gennaio, quando il gruppo Stato Islamico ha ucciso 135 persone - di cui 85 civili in un quartiere alla periferia di Deir Ez-zor, città strategica per la creazione di un corridoio naturale verso i possedimenti dei terroristi in Iraq. Altre 400 persone sono state sequestrate e deportate in regioni sotto controllo del “califfato”. In risposta, il 17 Gennaio l’aviazione russa ha colpito 45 jihadisti, uccidendo tuttavia altri 20 civili, di cui 14 bambini. Molto più subdola, al contrario, è l’arma della tortura, fisica e psicologica. Se nelle carceri siriane l’esercizio della tortura è all’ordine del giorno (si vedano le storie di Alexander Page), alla luce del sole è la presa per fame la strategia utilizzata dal regime di Assad. Il caso più eclatante è quello di Madaya, 40 km ad ovest di Damasco. Governata da forze ribelli al regime, l’ultimo cargo di alimenti e medicine arrivato in città risale al 18 Ottobre. Nei primi giorni di Gennaio, testimonianze di bambini in fin di vita, famiglie ridotte a mangiare gatti ed erbacce ed oltre 28 casi di decessi per malnutrizione ha fatto sì che le Nazioni Uni-

te trattassero con il regime per permettere l’arrivo di aiuti umanitari. L’11 Gennaio 44 camion della Croce Rossa hanno portato alimenti e medicine ad oltre 40.000 persone. Il segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon ha sottolineato, tuttavia, come altri 400.000 siriani abbiano bisogno nell’immediato dello stesso trattamento. Infine, il riscatto fuori dalla propria patria, l’ultima speranza per 11 milioni di siriani, si è rivelata una deprimente ed inutile delusione davanti all’intransigenza e alla brutalità dei Paesi da cui speravano di essere accolti. Brandon Stanton, ideatore del progetto “Humans Of New York”, ha provato a fare luce su alcune realtà che i rifugiati in Turchia e Grecia vivono quotidianamente. Il Dr. Hamo è un rifugiato siriano che “non può lavorare nelle università turche dove per insegnare usano i libri che ha scritto, deve svendere i suoi progetti ai turchi per sopravvivere e non può curarsi in ospedale senza un’assicurazione”. In occasione del discorso sullo State of Union il presidente americano Barack Obama ha accolto il signor Hamo come portavoce dei rifugiati siriani e gli ha promesso un nuovo futuro in America. MSOI the Post • 7


IL CALIFFO AVVERTE IL SULTANO. E ATTACCA ISTANBUL.

Di Martina Scarnato Il 12 gennaio, alle 9.20 circa ora italiana, un kamikaze si è fatto esplodere nel cuore della parte europea della di Istanbul, più precisamente nel distretto di Sultanahmet, uccidendo 10 persone, di cui 8 turisti, per la maggior parte cittadini tedeschi , e ferendone 15. L’attentato è stato compiuto da un cittadino siriano, ma nato in Arabia Saudita, di nome Nabil Fadli. Secondo le autorità turche, Fadli apparteneva allo Stato Islamico, ma non ci sono state rivendicazioni ufficiali. Da un anno a questa parte la Turchia è stata il teatro di numerosi attentati, tra i quali quello del 6 gennaio scorso, quando una donna kamikaze si era fatta esplodere proprio a Sultanahmet Meydani, uccidendo un poliziotto e ferendone un altro ( tuttavia, l’attentato era stato poi rivendicato dal partito Dhkp-c, di ispirazione leninista) Successivamente vi sono stati l’attentato del 5 giugno a Diyarbakir, che aveva fatto 4 morti e un centinaio di feriti; quello del 20 luglio, che aveva insanguinato la città di Suruc, a pochi chilometri dal confine siriano, facendo registrare 33 morti e centinaia di feriti, prevalente8 • MSOI the Post

mente curdi. Da allora gli scontri e gli attentati tra il governo turco e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) erano stati frequenti, fino ad arrivare all’attentato del 10 ottobre ad Ankara, in cui erano morte 102 e 400 erano rimaste ferite. Allora la responsabilità degli attentati era stata attribuita dalle autorità turche soprattutto al PKK e al Dhkp-c. Tuttavia, l’ipotesi ritenuta più plausibile era che il Daesh avesse voluto esportare il conflitto con i curdi in territorio turco, con il tacito appoggio del governo. Tuttavia, secondo l’esperto in geopolitica turca Daniele Santoro, che ha commentato i recenti fatti in un articolo pubblicato sulla rivista Limes , l’attentato del 12 gennaio potrebbe essere interpretato come una sorta di avvertimento per il cambio di strategia adottato dal presidente Erdogan. Secondo il New York Times, infatti, la Turchia avrebbe deciso di chiudere le frontiere meridionali confinanti con la Siria e di intensificare i controlli sul traffico di merci e persone. Fino ad ora, infatti, era stato ampiamente concesso il transito di combattenti jihadisti legati al Daesh e armi nel Paese. Questa decisione, dunque, non deve esser stata

vista troppo bene a Raqqa. Inoltre, l’attacco potrebbe essere stata una risposta al fatto che il governo turco voglia intervenire nel nord della Siria con gli Stati Uniti contro le forze del Daesh, con il fine di controllare il corridoio che porta da Cerablus ad Azez, lungo il confine siriano. Erdogan, infatti, avrebbe tutto l’interesse ad evitare che la zona cada nelle mani delle milizie curde YPG. Non da ultimo, l’ISIS avrebbe voluto colpire un distretto caratterizzato per l’abbondanza di monumenti, musei e moschee, frequentato per la maggior parte dai visitatori stranieri . Ciò vuol dire che l’obiettivo principale è quello di indebolire ulteriormente il turismo, che con i suoi $30 miliardi di entrate all’anno, è la principale risorsa economica del Paese. In conclusione, sembra che la situazione stia sfuggendo dalle mani di Erdogan, che da potenziale ( tacito) alleato del Daesh, potrebbe trasformarsi in un nemico dichiarato. Per riprendere le parole di Santoro, “non si può escludere che il “califfo” abbia voluto inviare un messaggio forte e chiaro al “sultano”.


RUSSIA E BALCANI LE PRESSIONI DI MOSCA SULL’ASIA CENTRALE

Alta concentrazione di soldati russi nell’area: lotta al terrorismo jihadista?

Di Daniele Baldo Nonostante il recente intervento in Siria e l’annessione della Crimea nella primavera 2014, la maggior parte dei militari russi fuori dai confini nazionali si trova nello Stato del Tajikistan. La Russia ha a disposizione un’ampia flotta di caccia e elicotteri, infatti circa 6.000 soldati stazionano nel territorio tagico e anche in Kyrgyzstan, nella base aerea di Kant. Il Cremlino sostiene che la massiccia presenza militare nei Paesi dell’Asia Centrale sia dovuta alla preoccupazione per l’aumento di minacce jihadiste legate al terrorismo lungo il confine con l’Afghanistan. In realtà, però, potrebbero però essere altre le motivazioni dietro la strategia militare russa: dai fatti emerge chiaramente come la Russia voglia affermare la propria influenza sull’intera regione. Il governo russo ha a tal fine provveduto ad espandere i propri confini di sicurezza ed a chiudere le frontiere, in particolare a quei migranti provenienti dai Paesi in cui ha costituito una presenza militare. Dal gennaio del 2015 Mosca ha anche introdotto misure più stringenti per il rilascio di visti ai migranti. È importante sottolineare che, oltre a rappresentare un problema umanitario,

la chiusura delle frontiere comporta anche problemi economici per i Paesi dell’Asia Centrale. Il Tajikistan è il Paese che dipende di più al mondo dagli introiti provenienti dall’estero. Il Kyrgyzstan è il secondo e l’Uzbekistan è in top ten. Restringere le migrazioni verso la Russia equivale in qualche modo a tagliare gli aiuti stranieri. Questa pressione, secondo Mosca, dovrebbe spingere i Paesi della regione ad entrare nell’Eurasian Economic Union, fondata nel 2014 da Bielorussia, Kazakhstan e Russia e diventata operativa il 1° gennaio 2015, giorno in cui Mosca ha dato il via al nuovo regolamento su visti e ingressi nel Paese. La EEU permette il libero scambio di merci e la circolazione di capitali e persone entro gli Stati membri. I cittadini di ogni Stato membro possono lavorare in qualunque Stato dell’Unione senza dover avere un permesso. La Russia vede la EEU come un modo per reintegrare gli ex-Stati sovietici e per trovare nuovi partner economici, a dispetto delle sanzioni europee e americane. Per addolcire l’accordo, la Russia ha offerto gas a basso costo all’Armenia e ha dato al Kyrgyzstan, unitosi ufficialmente ad agosto, un pacchetto di aiuti da 1 miliardo di dollari.

Il potere russo è comunque limitato. Tra il 2002 e il 2010 la popolazione russa è scesa di 2,3 milioni di persone, arrivando a 143 milioni, cosa che, ironicamente, rende il Paese dipendente dai migranti. Dal punto di vista economico, inoltre, Mosca si trova indebolita sia dalle sanzioni sia dal basso prezzo del petrolio, che le riducono gli spazi di manovra. Non c’è dunque da stupirsi che i Paesi dell’Asia Centrale siano alla ricerca di partner più stabili, come la Cina. Anche se la Cina non vuole impegnarsi militarmente nella regione e pur avendo un’economia sofferente negli ultimi tempi, il governo ha avviato il progetto “One Belt, One Road”, che cerca di collegare le economie dell’Asia Centrale con quella cinese. Grazie al progetto, Pechino otterrebbe un mercato per i beni cinesi e un accesso alle risorse naturali che potrebbe garantire alla Cina un consistente rifornimento di gas. I Paesi dell’Asia Centrale hanno comunque ancora dubbi riguardo la Russia e la sua EEU, ma la presenza militare e le misure restrittive contro i migranti non aiutano Mosca nella sua ascesa. Quest’anno, però, la Russia dovrà in ogni caso cercare di frenare la caduta della propria economia per poter mantenere una posizione di forza. MSOI the Post • 9


UNA RUSSIA BIVALENTE Viaggio nella Nazione dalla doppia realtà

Di Leonardo Scanavino Oggigiorno i media russi mostrano due ritratti paralleli del Paese. I canali televisi descrivono Putin come un abile capo di Stato che sfida Obama e muove la politica internazionale, applaudito e sostenuto dal suo popolo nei talk show della TV. In rete, al contrario, dilaga un forte malcontento, una massa di uomini e donne disperati che chiede maggiori tutele al suo Presidente. Due mondi diversi, questi, che potrebbero rispecchiare (ma con un bilancio invertito) la spaccatura tra l’86% dei sostenitori e il 14% dei critici del governo di Putin. L’ultimo rapporto - emesso dallo stesso ufficio di rilevazioni statistiche che nel 2011 aveva predetto l’esplosione delle proteste di piazza - evidenzia uno spostamento degli umori dei russi. Il numero di coloro che sarebbero disposti a partecipare a proteste di piazza è cresciuto del 15% nel 2015. Intanto, il partito di Putin, “Russia Unita”, ottiene risultati sempre meno brillanti nelle elezioni locali. La “Rivoluzione delle pellicce” del 2011, sostenuta dalle élites borghesi, potrebbe diventare una rivolta di massa, 10 • MSOI the Post

sostenuta da camionisti, dipendenti pubblici, casalinghe terrorizzate dai nuovi aumenti e pensionati sempre più impoveriti, ovvero da coloro che una volta costituivano il consenso popolare del Presidente. Il tenore di vita dei Russi, per la prima volta nell’era Putin, è franato. Il disagio socio-economico e le richieste di maggiore libertà civile alimentano il clima di protesta che già aleggia nell’aria. A questa situazione il governo risponde cercando di convincere la popolazione di appartenere ad una grande potenza, rinata dalle ceneri dell’Unione Sovietica. Tuttavia, la consapevolezza di vivere in un Paese disastrato è diffusa in ogni angolo della Russia, soprattutto in provincia. Nelle strutture pubbliche gli incendi sono all’ordine del giorno e i riscaldamenti si rompono regolarmente nel pieno dell’inverno; le varie calamità naturali, dalle alluvioni ai roghi nelle foreste, sono gestite in malo modo. La polizia è corrotta e non è raro che il controllo dei documenti si concluda con la restituzione solo dietro pagamento. Il carovita aumenta quotidianamente. In questo quadro si inseriscono i casi delle ultime settimane.

Un’anziana signora è stata arrestata per un esiguo furto di generi alimentari e successivamente è morta al distretto di polizia. Al pronto soccorso di Belgorod un medico ha ucciso un paziente dopo ripetute percosse. Quest’ultimo fatto, accaduto lo scorso 29 dicembre, è emerso solo in seguito alla pubblicazione di un video in rete: il tutto è avvenuto sotto gli occhi di tre infermiere che non hanno nemmeno tentato di fermare il medico, constatando solamente alla fine che il paziente era “diventato blu”. Le imminenti elezioni della Duma saranno l’unica valvola di sfogo per la popolazione, oppressa dai poteri forti di uno Stato centralizzato. “Il sistema politico ha quasi esaurito la capacità di resistenza, è molto fragile. La società è molto più scontenta che nel 2011 e non si riuscirà a piegarla con la paura e la repressione”, sostiene Nikolay Mironov, direttore del Centro delle Riforme Economiche e Politiche. La Russia sembra pronta a combattere al di fuori dei propri confini, ma non in grado di aiutare il suo popolo nelle necessità quotidiane.


ORIENTE

XI JINPING IN LOTTA CONTRO LA CORRUZIONE

L’ex viceministro della Pubblica Sicurezza condannato per tangenti: l’ultimo di una lunga lista

Di Simona Graceffa Li Dongsheng, ex viceministro della Pubblica Sicurezza cinese, è stato condannato pochi giorni fa a 15 anni di reclusione per aver accettato tangenti. Egli, accusato di corruzione ed abuso di potere, è solo l’ultimo di una lista che comprende, tra gli altri, l’ex Presidente del colosso energetico CNPC e l’ex Presidente del gruppo di informazione finanziaria 21st Century, sotto accusa per estorsione e ricatto. Nel mirino si trovano soprattutto dirigenti di grosse società pubbliche, ma vi sono anche molti privati. Forse sono state proprio le condanne di questi importanti personaggi che hanno portato il governo di Xi Jinping a concentrarsi sulla campagna contro la corruzione, nonostante il crollo della Borsa cinese (queste vicende sono fra le sue cause). La campagna ha come obiettivo quello di rendere “pulito” il Partito Comunista. È stata avviata dopo che sono state trovate coinvolte in vicende di

corruzione alte personalità, come il presidente di China Telecom (ed ex presidente di China Unicom, il più grande operatore mobile cinese) Chang Xiaobing. A capo dell’operazione l’ organo anti-corruzione del Partito Comunista, la Commissione Centrale per le Ispezioni Disciplinari, che opera in un ambiente di totale segretezza. I funzionari individuati come possibili soggetti corrotti vengono sottoposti a “Shuanggui” (una detenzione extragiudiziale priva di limiti temporali o procedure prestabilite), quindi costretti a confessare e poi consegnati al Pubblico Ministero. I metodi polizieschi e giudiziari non trasparenti stanno seminando paura nella società e ciò contribuisce al rallentamento economico. Alcuni, dopo essere stati sottoposti a inchieste, hanno addirittura scelto il suicidio. Ci sono anche stati casi di personaggi scomparsi per mesi, come Guo Guangchang, presidente dell’importante società di investimenti Fosun,

trattenuto dalla polizia per collaborare ad un’investigazione segreta. Dall’altra parte, è grazie a queste tecniche che la Commissione ha ottenuto ottimi risultati: dal 2013 sono stati puniti oltre 100mila funzionari. Il Partito, mettendo sotto accusa la nomenklatura, vuole mostrarsi deciso a combattere il virus della corruzione. Alcuni però suggeriscono che queste punizioni siano frutto di conflitti politici interni: lo scontro con la politica è, infatti, inevitabile in un Paese in cui anche le piccole aziende private sono controllate dal governo. Anche dopo l’apertura globale dei mercati cinesi, questo forte tasso di corruzione sia nel pubblico sia nel privato sta mettendo in luce la reale chiusura dell’economia. Questo è il motivo per cui Xi Jinping sta facendo di tutto per ripulire l’economia e confermarne l’ostentata efficienza, mettendo al primo posto eliminare la corruzione. MSOI the Post • 11


TENSIONE COREANA, TRA PALLONCINI E ORDIGNI NUCLEARI Prosegue la “Guerra Fredda” sul 38° parallelo

di Carolina Quaranta Corea del Nord e Corea del Sud si trovano dall’inizio del 2016 al centro dell’attenzione mediatica per importanti questioni relative alla loro politica internazionale. Il 6 gennaio Pyongyang ha annunciato di aver fatto esplodere un ordigno nucleare (che ha provocato un terremoto di magnitudo 5.1) e non una tradizionale bomba atomica, ma un ordigno termonucleare all’idrogeno dalla potenza decisamente maggiore, il 1° di questo tipo nella regione e il quarto esperimento nucleare del Paese negli ultimi 5 anni. La notizia ha inevitabilmente scatenato una valanga di reazioni da parte dell’intera comunità internazionale, USA e Corea del Sud in primis. In particolare, l’agenzia meteorologica sudcoreana Yonhap News nega di aver rilevato radiazioni attribuibili ad una bomba all’idrogeno e della stessa opinione sono gli esperti americani della Casa Bianca. Che il regime nordcoreano possieda le competenze per costruire un ordigno all’idrogeno è notizia che suscita molti dubbi, alimentati oltretutto dal fatto che la potenza dell’esplosione

12 • MSOI the Post

registrata è nettamente inferiore alla quella che scaturirebbe da una bomba H. Se ne dedurrebbe quindi che le immagini trasmesse dalla televisione di Pyongyang siano dei falsi. La mancata conferma sulla natura dell’ordigno non ha però attenuato i toni delle condanne dei principali Capi di Stato. Deciso l’attacco del degretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che fa notare come questo ennesimo test violi numerose Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Dal Giappone arrivano parole ancora più forti, che annunciano che la sfida della Corea del Nord non rimarrà senza conseguenze. Il ministro degli Esteri giapponese, Fumio Kishida, ha confermato la collaborazione del proprio Paese con i diplomatici di Stati Uniti e Corea del Sud, ora uniti per “rispondere alle azioni provocatorie della Corea del Nord”. Lo Stato non ha intenzione, infatti, di nascondere la politica di tolleranza zero che adotterà, adducendo come motivazione la vicinanza di Tokio alla regione interessata. Gli altri vicini di casa non sono di

diverso parere: una particolare nota di dissenso proviene dalla Cina, alleata di Pyongyang, ma ferma oppositrice di ogni esperimento nucleare. Seoul ha prontamente alzato il livello di allerta al confine, dove dal 1953 una zona demilitarizzata divide i due Stati. Soltanto due giorni dopo l’accaduto sono stati riattivati gli 11 altoparlanti disposti lungo la frontiera che, spenti nel mese di agosto per un tentativo di riavvicinamento, hanno ora ripreso a trasmettere ininterrottamente messaggi di denuncia contro il governo di Kim Jong-Un. L’esercito, infine, è pronto ad intervenire in caso di bisogno. Non mancano le alleanze strategiche con il governo statunitense, che possiede diversi basi nella Corea del Sud. Da una di queste un bombardiere americano è decollato per un volo di avvertimento sullo Stato nordcoreano Il livello di tensione si è ulteriormente alzato nelle ultime ore, quando, in risposta a tali eventi, il governo nordcoreano ha lanciato su Seoul circa un milione di volantini propagandistici trasportati da palloncini.


AFRICA

UN NUOVO PRESIDENTE A BANGUI

La Repubblica Centrafricana è chiamata alle urne nel caos della guerra civile di Jessica Prieto Lo scorso novembre Annick Girandin, segretaria di Stato francese allo sviluppo e alla francofonia (le truppe della Francia, sotto l’egida dell’U.E, cercano di mantenere la sicurezza nel Paese insieme alle forze dell’Unione Africana, ndr), aveva annunciato che entro la fine dell’anno in Repubblica Centrafricana sarebbero stati indetti un referendum costituzionale e, successivamente, il primo turno delle elezioni presidenziali. Il 13 e 14 dicembre scorsi i riflettori si sono dunque accesi sul Paese. Seppur in un clima di violenze, gli elettori hanno detto sì alle proposte referendarie. Tra queste, l’introduzione del termine massimo di due mandati presidenziali, che ha reso possibile l’indizione ufficiale delle elezioni. Il 30 dicembre, dunque, quasi 5 milioni di cittadini sono stati chiamati alle urne per il primo turno elettorale, ma per conoscere il nome del nuovo Presidente si dovrà attendere la seconda tornata, programmata per il 31 gennaio prossimo. I dati parziali sull’affluenza

dimostrano un generale entusiasmo tra la popolazione, desiderosa di lasciarsi alle spalle anni di instabilità e guerra civile. Attualmente, il Paese africano sta affrontando la più grave crisi della sua storia nazionale e si trova materialmente diviso in due comunità, separate dal fiume Ouaka. La riva orientale del fiume è occupata dalle milizie musulmane dei Séléka, mentre sulla riva occidentale sono stanziati i gruppi ribelli cristiani degli anti-Balaka. Gli scontri tra queste due fazioni devastano il Paese da più di due anni e mezzo. Le origini delle violenze risalgono agli anni novanta dell’Ottocento, quando la popolazione già periva sotto gli abusi e lo sfruttamento dei coloni. Anche dopo l’indipendenza, ottenuta nel 1960, la situazione non è migliorata e i Presidenti che si sono susseguiti hanno curato i loro interessi più di quelli dei loro cittadini, reprimendo con la violenza ogni tentativo di ribellione. Nel 2013 il colpo di stato dei Séléka ha fatto precipitare il Paese in una nuova guerra

civile. Senza una vera e propria organizzazione di governo, i miliziani musulmani si sono limitati a saccheggiare la popolazione, in particolare la comunità cristiana. Di fronte a tali violenze, i cristiani hanno risposto con altra violenza, organizzandosi in una milizia di autodifesa cristiana, gli anti-Balaka. Secondo le stime dell’ONU, negli ultimi anni sono morte a causa della guerra civile almeno 6.000 persone. Le elezioni potrebbero aprire uno spiraglio di luce alquanto effimero, poichè in molti concordano sulla possibilità che il nuovo Presidente eletto sia considerato illegittimo dalla maggior parte della popolazione e che il suo governo non possa durare a lungo. Inoltre, se ai profughi musulmani verrà impedito di votare, questo sarà un ulteriore motivo per non deporre le armi. A questo proposito, sono in molti ad auspicare uno sforzo da parte della comunità internazionale, affinché imponga il disarmo totale e un programma di riconciliazione nazionale.

MSOI the Post • 13


DADAAB: COLERA E PAURA

L’emergenza del campo profughi più grande del mondo di Chiara Zaghi L’epidemia di colera, esplosa in diverse località del Kenya dal dicembre 2014, ha raggiunto il campo profughi di Dadaab lo scorso novembre. Ad oggi si contano circa un migliaio di persone ammalate e si sono registrati 10 decessi. Quello di Dadaab è il campo profughi più grande al mondo e si trova nel deserto keniota, a circa 100 chilometri dal confine somalo, nel distretto di Garissa. Il campo è nato nel 1991 come soluzione temporanea per le famiglie che abbandonavano la Somalia a causa della guerra civile. Oggi è diventato una città che ospita circa 430.000 rifugiati e, oltre alle tende, comprende 52 scuole, 11 stazioni di polizia, migliaia di case di calcestruzzo e altri edifici, come la scuola guida, un hotel e alcuni negozi. Il colera è una malattia infettiva. Può essere contratto in seguito all’ingestione di acqua o alimenti contaminati da materiale fecale di individui infetti. Dopo un periodo di incubazione, che può durare da 24 a 72 ore, si avvertono i primi segni e sintomi del contagio. La malattia può essere curata con soluzioni per la reidratazio-

14 • MSOI the Post

ne orale o tramite flebo e antibiotici. Le scarse condizioni igienicosanitarie e l’assenza di impianti fognari efficienti e di acqua potabile, aggravate da settimane di piogge intense sul Paese, sono state la causa dell’epidemia esplosa in Kenya. A Dadaab l’organizzazione MSF (Medici Senza Frontiere) fornisce da 20 anni cure mediche e gestisce un ospedale con 100 posti letto e due postazioni sanitarie coordinate da personale keniota. Un gruppo di controllo dell’epidemia costituito dal personale dell’UNHCR, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite, ha collaborato con il Ministero della Salute del Kenya per verificare la diffusione della malattia. In particolare, MSF e UNHCR stanno lavorando per informare la popolazione sulle buone norme sanitarie da adottare e hanno igienizzato le case con soluzioni di cloro per prevenire un’ulteriore diffusione della malattia. Charles Gaudry, capo della missione di MSF in Kenya, ha dichiarato: “Mentre le misure immediate sono ora messe in atto per affrontare l’epidemia di colera, è fondamentale anche poter effettuare investimenti a lungo termine per migliorare le

condizioni di vita dei rifugiati e prevenire future epidemie”. Nell’aprile del 2015, dopo l’attentato all’Università di Garissa rivendicato dal gruppo terroristico somalo Al Shabaab, il governo keniota ha dichiarato di voler smantellare il campo profughi e ha mandato un ultimatum di tre mesi all’ONU. Questo ultimatum non è stato rispettato: rimandare i rifugiati in Somalia avrebbe significato provocare una catastrofe umanitaria. Dal 1991, infatti, la guerra in Somalia non si è mai fermata. Nel corso di questi anni l’instabilità del Paese ha reso possibile la nascita di gruppi jihadisti come Al Shabaab, che in più occasioni hanno attaccato il campo per rappresaglia. Sebbene alcuni funzionari del governo sostengano che questi attacchi siano appoggiati anche dai profughi stessi, essi, più che complici, dovrebbero essere considerati vittime. Gli operatori delle organizzazioni che lavorano nel campo ritengono che, in caso di smantellamento, moltissimi giovani con meno di 18 anni potrebbero diventare reclute di Al Shabaab, poiché non hanno un luogo sicuro in cui soggiornare.


SUD AMERICA I RE DELLA DROGA Pablo Escobar e El Chapo

Di Stefano Bozzalla Cassione È notizia recente che uno dei narcotrafficanti più ricercati del mondo, Joaquin Guzman, conosciuto come El Chapo, è stato ri-catturato a Los Mochis, una città del Messico. El Chapo era evaso nel luglio 2015 da una prigione di massima sicurezza, nella quale era stato rinchiuso soltanto un anno prima dalla polizia messicana in seguito ad un’operazione congiunta con la DEA. El Chapo, spietato narcotrafficant emessicano e capo del Cartello di Sinaloa, divenne “re della droga” nel 2003, dopo l’arresto del suo rivale Osiel Cardenas.s All’epoca gli Stati Uniti lo avevano definito il più potente trafficante di droga del Mondo, tanto da essere considerato il “Nemico Pubblico Numero Uno” (l’ultimo era stato Al Capone). La rivista Forbes parlò di El Chapo come di uno degli uomini più potenti e ricchi del mondo, con un patrimonio di oltre un miliardo di dollari. La DEA (Drug Enforcement Administration) considerava la sua popolarità e la sua influenza superiore a quella di Pablo Escobar: la sua organizzazione è riuscita, infatti, a sviluppare una rete di distribuzione che copre tutto il mondo.

L’ascesa al trono di El Chapo è stata segnata da una spietata guerra contro il Cartello di Tijuana (1989 – 1993), durante la quale si sono susseguiti omicidi, attentati e tradimenti, senza che però nessuno tra i capi dei cartelli rimanesse ucciso. El Chapo è riuscito ad accrescere il suo potere anche grazie agli sforzi che la DEA concentrava sulla cattura di Pablo Escobar in Colombia, riuscendo negli anni a sopravvivere alla massiccia operazione che il governo messicano aveva messo in piedi per eliminare i cartelli della droga. Guzman viene associato spesso alla figura di Pablo Escobar, noto narcotrafficante colombiano conosciuto come il “re della cocaina”, che riuscì ad accumulare un enorme patrimonio (stimato in 30 miliardi di dollari) e creò il Cartello di Medellin. Escobar iniziò ad avere successo e a farsi strada nel mondo del narcotraffico a metà degli anni ‘70. Costruì il suo impero colombiano con il ricorso spietato alla corruzione e all’intimidazione. La strategia plata o plomo consisteva nel non lasciare scelta a chiunque si trovasse sulla sua strada: lasciarsi corrompere o morire (“soldi o piombo”, appunto).

Nonostante la sua indole violenta, Escobar era considerato un eroe da molti abitanti di Medellin. Molto abile nel relazionarsi con il pubblico, riuscì a guadagnarsi la fama di benefattore dei poveri e di uomo sempre disposto ad aiutare il prossimo. Costruì stadi, scuole e ospedali e distribuì soldi in cambio di fedeltà. Pur macchiandosi di numerosi stragi, infatti, riuscì a creare intorno a sé una rete di protezione fornita dalla stessa popolazione di Medellin. Braccato dalle autorità, nel 1991 Escobar si consegnò spontaneamente per evitare l’estradizione negli Stati Uniti o l’assassinio da parte del Cartello di Cali, rivale con cui combatteva da tempo una sanguinosa guerra. Riuscì però a farsi rinchiudere nella prigione privata da lui stesso costruita, La Catedral, da cui continuò a gestire il suo impero, indisturbato e senza curarsi degli accordi col governo colombiano. Il 2 dicembre 1993 la guerra contro Escobar, portata avanti dai governi colombiano e statunitense, terminò con la sua uccisione per le strade di Medellin ad opera della polizia speciale colombiana. La sua morte è ancora avvolta nell’ombra e di fatto sancì, con la fine del re della cocaina, la fine del Cartello di Medellin e l’inizio dell’ascesa di El Chapo.

MSOI the Post • 15


COME COSTRUIRE LA PACE SE CROLLA IL RESTO?

Il difficile cammino della

Colombia fuori da un conflitto e attraverso una crisi

to degli investitori stranieri, che ora sono incerti riguardo la possibilità che il Paese mantenga una gestione ottimale della sua bilancia dei pagamenti.

di Daniele Pennariva La direzione verso la fine della guerra intestina che per oltre mezzo secolo ha afflitto la Colombia sembra essere stata individuata, come peraltro analizzato in modo approfondito nel precedente numero. Quello che preoccupa adesso è che cosa fiancheggi questa strada per la pace. A marzo si dovrebbero concludere le negoziazioni tra il governo Colombiano ed i guerriglieri delle FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane) sull’economia del Paese latinoamericano e vi sono grandi aspettative per il 2016, ma pessime notizie arrivano dall’economia mondiale. La Banca Mondiale, in un documento del giugno 2015, osservava come gli ultimi 20 anni di conflitto abbiano pesato sul reddito pro capite del Paese. Si stima che quest’ultimo avrebbe potuto essere oggi più alto del 50%. Se da un lato la prospettiva della pace rinvigorisce le speranze di crescita, dall’altro si presentano le conseguenze della recente caduta del prezzo del petrolio, che potrebbero sconvolgere i piani del governo di Juan Manuel Santos. Le previsioni di bilancio erano state fatte con una quotazione del greggio praticamente doppia rispetto a quella attuale e supponendo il suppor16 • MSOI the Post

Malgrado ciò, Gerardo Corrochano, direttore della sezione Messico e Colombia della Banca Mondiale, nel blog dell’organizzazione dedicato allo sviluppo sociale si esprime con toni ottimistici rispetto alle possibilità del Paese, sostenendo che il 2016 sarà “il momento della Colombia”. Ci sono però, secondo Corrochano, tre punti fondamentali per il massimo sfruttamento della ripresa socioeconomica: l’assicurazione dei diritti umani fondamentali, la soddisfazione delle necessità basilari dell’intera popolazione e

la condivisione della prosperità generata dal rilancio economico. Su queste basi si regge il “Patto di Alleanza con il Paese” che la Banca Mondiale intende attivare per gli anni fiscali dal 2016 al 2021 e che attuerà focalizzandosi su sviluppo locale, inclusione sociale e diversificazione dell’economia, promettendo di mantenere il tema della pace come trasversale al congiunto delle misure. Ovviamente anche dall’esecuti-

vo di Santos è prevista un’azione immediata a garanzia dello sviluppo e della conclusione del processo di pace. Le colonne de “El Espectador”, una delle massime testate giornalistiche nazionali, rivelano che il governo sarebbe in procinto di avviare una “Strategia di Risposta Rapida” gestita da un Ministero per il Post-conflitto istituito appositamente. Il dicastero sarà dotato di un budget di 470 milioni di dollari e dovrà articolare il piano nel corso di 10 anni. Appare però già evidente che un progetto che voglia davvero dare un nuovo corso all’economia, affossata dalla guerra, richiederà sicuramente delle risorse ben più ampie e la ricerca di ulteriori finanziatori suppone una seconda sfida per l’attuale governo.

La Colombia si trova a dover elaborare un nuovo corso economico e sociale, fronteggiando, oltre alla sfavorevole condizione dell’economia attuale e alla delicata fase di transizione alla pace, le devastazioni portate dall’uragano El Niño. È un momento che Antonio Esteves, uno dei massimi dirigenti all’interno di Goldman Sachs, definisce a livello mondiale come “l’inizio dell’anno più difficile della storia”.


EU MODEL 2016:

sono aperte le iscrizioni EU Model Torino 2016 è una simulazione su larga scala della procedura legislativa ordinaria dell’Unione Europea. Dal 21 al 24 marzo studenti universitari da tutta Europa si ritroveranno a Torino per impersonare Membri del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea al fine di lavorare su un progetto di regolamento o direttiva. Il tema – estremamente attuale – della nuova edizione della simulazione è l’adozione di

norme penali comuni sull’incriminazione dei foreign fighters. EU Model Torino 2016, esperienza unica in Italia, si articola in due fasi. EU Know rappresenta il momento di studio e approfondimento: rinomati accademici ed esperti metteranno le proprie competenze a disposizione dei partecipanti nel corso di conferenze, incontri e training session focalizzati sul tema specifico dei lavori. EU Make consiste nella si-

mulazione stessa, il cui fine è quello di adottare un atto normativo seguendo la procedura legislativa ordinaria. EU Model Torino 2016 si pone come valida attività formativa, che permette agli studenti non solo di avvicinarsi ai principali temi di dibattito politico europeo e di apprendere i meccanismi di funzionamento degli organi e delle istituzioni europee, ma anche di sviluppare la propria identità europea in maniera originale e divertente.

Per rimanere aggiornato sulle attività di MSOI Torino, visita il sito internet www.msoitorino.org, la pagina Facebook Msoi Torino o vieni a trovarci nella Main Hall del Campus Luigi Einaudi tutti i mercoledì dalle 12 alle 16.

17

MSOI the Post • 17


18 • MSOI the Post


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.