Msoi the post Numero 11

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MSOI Torino

M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario MSOI Torino

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MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di MSOI Torino, desidera proporsi come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulterà riconoscibile nel mezzo di informazione che ne sarà l’espressione: MSOI thePost non sarà, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione.

REDAZIONE: Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Giulia Andreose, Timothy Avondo, Daniele Baldo, Giulia Bazzano, Giada Barbieri, Lorenzo Bardia, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Dario De Martino, Alessio Destefanis, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Simona Graceffa, Luca Imperatore, Andrea Incao, Gennaro Intoccia, Michelangelo Inverso, Daniela Lasagni, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Giulia Mogioni, Silvia Peirolo, Daniele Pennavaria, Silvia Perino Vaiga, Emanuel Pietrobon, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Michele Rosso, Silviu Rotaru, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Martina Terraglia, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Francesco Turturro, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Le nostre copertine sono realizzate dall’artista Mirko Banchio

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EUROPA

SE QUESTA È L’EUROPA

Perché rischiamo di generare un nuovo Giorno della memoria

Di Andrea Mitti Ruà Il 27 gennaio il mondo si è fermato per ricordare ciò che Primo Levi definì come “la pagina del libro dell’Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria”. Tuttavia, alcuni tratti dell’Europa odierna non possono non ricordare quella che fece da sfondo allo sterminio. È presente, oggi come allora, un sistema di quote in base al quale accettare o meno gli emigrati: nel 1939 solamente 27.000 profughi tedeschi su 309.000 richiedenti asilo vennero accolti dagli altri Stati, meno di uno ogni 11 pretendenti. Il metodo con cui Danimarca e Svizzera sequestrano i beni ai rifugiati non è variato rispetto a quello che durante la Seconda Guerra Mondiale veniva praticato nei confronti dei deportati nei campi di concentramento. Il rifiuto che 77 anni fa venne opposto da Cuba, Stati Uniti e Canada ai quasi 1000 profughi ebrei in fuga dal nazismo sul transatlantico St. Louis non è così diverso da quello che viene opposto adesso dai Paesi dell’Unione agli esuli delle

diverse primavere arabe. Tutto il lavoro, i sacrifici e la volontà dimostrati per superare il crollo dell’economia sembrano scomparsi di fronte a questa nuova crisi, più umana e meno legata alla ricchezza, percepita come meno urgente nelle “stanze dei bottoni”. C’è chi ancora antepone il valore della vita a quello del debito pubblico. Nikos Xydakis, ministro aggiunto alla Cultura in Grecia, ha recentemente affermato: “Nonostante siamo ancora, per il sesto anno consecutivo, in recessione economica e la disoccupazione sia oltre il 25%, non lasceremo annegare queste persone, né affonderemo i loro barconi. Sicuramente sarà problematico, ma ci riusciremo”. Purtroppo non sono in molti a fargli da eco; la soluzione adottata da Bruxelles, per esempio, è quella di impedire la partenza dei barconi dalla Turchia dietro veri e propri pagamenti, senza poter conoscere le sorti di queste persone né come Ankara bloccherà le imbarcazioni. Nel frattempo a Calais è tornato ad aleggiare lo spettro dei ghetti ebraici del secolo scorso. Davanti

alla Manica “vivono” infatti 6.000 persone in una distesa di tende e baracche improvvisate che è stata rinominata New Jungle. Sospesi in questa terra di nessuno, gli esuli siriani sono di fatto abbandonati a loro stessi; poca acqua, scarsità di cibo e condizioni igieniche spaventose si accompagnano alle spedizioni punitive dell’estrema destra francese e alle cariche della polizia, pronta a fermare chiunque cerchi di fuggire da questa sorta di “discarica sociale”. Anche l’artista britannico Banksy ha voluto denunciare la situazione con un graffito: Steve Jobs, con sacca in spalla e computer in mano, affresca un muro della New Jungle per ricordare a tutti che il padre del defunto fondatore della Apple era egli stesso un profugo siriano. Oggi come 70 anni fa, l’Europa è chiamata a decidere delle vite di centinaia di migliaia di persone, scegliendo tra la sopravvivenza dei profughi (ma anche della memoria e dell’Unione stessa) e l’impassibilità, una decisione che influenzerà il giudizio della Storia. MSOI the Post • 3


QUANDO EMIGRARE DIVENTA ANCORA PIU’ CARO La ricetta danese ai flussi migratori

Di Fabio Saksida La Danimarca era già stata al centro dei dibattiti della comunità internazionale, a causa delle sue politiche migratorie, lo scorso Settembre. Con un’inserzione mirata, pubblicata sui quotidiani libanesi, il governo danese rendeva noto agli aspiranti rifugiati delle maggiori difficoltà in cui sarebbero incorsi se avessero scelto come meta d’immigrazione proprio la Danimarca. Tra queste, riduzione del 50% dei sussidi ai richiedenti asilo, maggior difficoltà nell’ottenere un permesso di soggiorno definitivo, obbligo di conoscenza della lingua danese nonché impossibilità di ricongiungimento familiare entro il primo anno. La strategia dei disincentivi ha trovato il suo apogeo lo scorso 26 Gennaio, quando il Parlamento danese ha approvato una legge, da più parti contestata, con cui si autorizza la confisca dei beni mobili in possesso dei rifugiati che eccedano il valore di 10.000 Corone, pari a circa 1350 Euro, oltre ad avere esteso da uno a tre anni il periodo d’attesa per il ricongiungimento con i familiari dai Paesi d’origine. Il provvedimento era stato preannunciato lo scorso Dicembre ed aveva da subito sollevato un vero e proprio vespaio. Tanti erano stati coloro che si erano schierati contro. “E’ stata considerata meschina e crudele e alcuni oppositori hanno chiesto se il governo sequestrerà anche i beni d’oro dei rifugiati”. Così si era espresso 4 • MSOI the Post

sulla proposta Zachary White, ricercatore dell’Università di Copenaghen che si occupa di integrazione e politiche d’asilo. Riecheggiano, non tanto velatamente, i soprusi perpetrati dai nazisti ai danni dei perseguitati durante la II W.W. Critiche a parte, la legge è stata approvata con un’ampia maggioranza, precisamente con 81 voti a favore e 27 contrari. Era stata proposta dal governo liberale in minoranza, con l’appoggio dei tre alleati di centro-destra nonché del partito socialdemocratico: un progetto, quindi, condiviso dalla maggior parte dello spettro politico danese. Analizzata più dettagliatamente, si nota come la norma consentirà alle autorità danesi di perquisire vestiti e bagagli dei richiedenti asilo e di coloro che risiedono tutt’ora illegalmente in Danimarca, con l’obiettivo, oltre alla sicurezza, di trovare e confiscare beni che possano coprire l’accoglienza. Una modalità quindi con cui il rifugiato contribuisce alle spese di mantenimento erogate dallo Stato nei suoi confronti. Sono esclusi dalla confisca i beni necessari al mantenimento di un modesto standard di vita (orologi, telefoni cellulari…) nonché quelli di valore affettivo, purché di valore non considerevole. Quest’ultimo punto non era presente nella versione iniziale del provvedimento legislativo ed è il risultato, oltre all’innalzamento

della soglia di confisca che originariamente ammontava a 3.000 Corone, delle numerose revisioni e modifiche cui è stato sottoposto. Anche se inusuale, la scelta danese non rappresenta un’eccezione nel panorama delle politiche migratore europee. Una legge analoga è in vigore nei lander tedeschi di Baviera e Baden-Württemberg e in Svizzera. Nonostante il sequestro di beni di valore sia pensato per ammortizzare le spese statali, l’impatto finanziario della misura potrebbe avere conseguenze molto limitate in quanto si parla di soggetti il cui patrimonio, nella maggioranza dei casi, è già stato depauperato dai costi di trasferimento. Sembra quindi che la ratio legis sia di mandare un messaggio deterrente ai richiedenti asilo, piuttosto che di sequestrare effettivamente i loro beni. Al pari quindi, anche se in modo nettamente più risoluto, dell’inserzione nei quotidiani libanesi. A livello internazionale forti critiche si sono sollevate da Amnesty International, mentre il Parlamento Europeo ha richiesto un’audizione urgente per ricevere spiegazioni dalla Danimarca sul testo di legge. La Commissione europea, invece, ha fatto sapere che la confisca dei beni ai richiedenti asilo “è compatibile” con la normativa internazionale “solo se è proporzionata e necessaria”.


NORD AMERICA I CAPRICCI DI DONALD TRUMP

Il litigio tra il miliardario candidato e Fox News offusca il VII dibattito del GOP

Di Erica Ambroggio Giovedì 28 gennaio il pubblico americano ha assistito, in diretta sul canale Fox News, al settimo dibattito targato Grand Old Party, a pochi giorni dal caucus dell’Iowa. Una serata insolitamente tranquilla, concentrata sulla politica e meno sul reciproco scambio di insulti. L’assenza del miliardario Trump, da alcuni punti di vista, ha dunque fatto la differenza. Il conservatore più controverso d’America ha portato avanti la sua battaglia contro la rete televisiva Fox News e la conduttrice Megyn Kelly, criticata per aver posto domande troppo faziose durante il primo dibattito repubblicano. Il miliardario non solo ha ignorato l’invito al dibattito, ma ha anche organizzato, in perfetta sincronia, un evento parallelo di raccolta fondi per i veterani, che ha fruttato un risultato di 6 milioni di dollari. Non si può dire, tuttavia, che gli avversari presenti abbiamo sfruttato a loro vantaggio l’azzardo di Trump. Le diverse opinioni politiche hanno dominato la scena per gran parte della serata; al contempo, l’assenza del miliardario è stata l’altra grande protagonista del dibattito.

L’atmosfera è riuscita a ravvivarsi solo sui temi particolarmente amati dal newyorkese Trump: immigrazione e sicurezza dei confini. Argomenti sui quali Ted Cruz, che non ha risparmiato sottili allusioni all’assenza di Trump (“Ringrazio i candidati presenti che così mostrano il loro rispetto per i cittadini dell’Iowa”), si è dovuto difendere dalle accuse mosse dal candidato Marco Rubio. Al centro delle polemiche, l’appoggio di Cruz a un piano di riforma dell’immigrazione che non prevede l’espulsione dal Paese degli immigrati sprovvisti di documenti. In risposta, il candidato sotto accusa ha dichiarato: “Possiamo costruire barriere, triplicare la polizia di frontiera, ma ciò che manca è la volontà politica, perché troppi democratici, e, purtroppo, troppi repubblicani, non vogliono risolvere il problema”. Cruz ha, quindi, negato le accuse di Rubio, nonostante la moderatrice Kelly gli avesse appena mostrato un video dal quale si deduceva l’esatto contrario. Lo stesso Rubio, si è dovuto difendere da accuse simili, portate avanti dal candidato Jeb Bush, che lo ha definito “un bugiardo”. Dal canto suo, Bush ha ricordato il proprio impegno nella ricerca di una soluzione

alla situazione degli 11 milioni di ispanici senza documenti presenti in Florida durante il suo mandato di governatore. Rand Paul e Chris Christie, dopo aver spalleggiato Rubio nelle accuse rivolte a Cruz, non sono stati grandi protagonisti della serata pur avendo avuto, grazie al forfait di Trump, maggior tempo a disposizione per esprimere le proprie opinioni. Ugual sorte per John Kasich, ex governatore dell’Ohio, e per un Ben Carson, secondo i sondaggi, praticamente invisibile. Un dibattito, dunque, per alcuni definito addirittura noioso, dal quale ci si sarebbe aspettati qualcosa di più e durante il quale il pubblico sembra aver percepito pesantemente l’assenza di Trump, che ha così condotto il proprio comizio in parallelo al dibattito della Fox, non liberando i colleghi dalla propria ombra. Nessun nuovo elemento, quindi, sui temi di sanità, sicurezza e immigrazione, solo una spericolata corsa alla credibilità. Nel frattempo, nonostante le consuete divergenze, su uno specifico punto tutti i candidati continuano ad essere uniti e concordi: sconfiggere Hillary. MSOI the Post • 5


LA SFIDA DEMOCRATICA DOPO L’IOWA Viene dall’interno il pericolo più grande per il Partito Democratico?

Di Alessandro Dalpasso All’indomani dei caucus dell’Iowa, primo appuntamento della stagione delle primarie democratiche, Clinton Vs. Sanders si conferma una di quelle sfide all’ultimo voto a cui ci ha abituati la politica americana nelle ultime tornate elettorali. Unica particolarità è che, questa volta, il pericolo più grande per i democratici viene dall’interno del partito stesso. Clinton contro Sanders non è, infatti, una sfida ordinaria. Si scontrano, da una parte, la più alta espressione dell’establishment, l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton: il cognome gioca il suo ruolo, così come una politica estera spesso favorevole all’interventismo; senza contare l’appoggio all’Obamacare e il sentimento di favore nei confronti delle grandi istituzioni di Wall Street. Dall’altra, si schiera il senatore del Vermont, Bernie 6 • MSOI the Post

Sanders, l’unico socialistademocratico a correre per la presidenza: a differenza della rivale, Sanders riempie le piazze, sostenuto soprattutto da giovani, se non giovanissimi, al primo voto, che vedono in lui una speranza di cambiamento rispetto alla politica americana degli ultimi anni. In un primo momento, Sanders era ritenuto un incubo per i democrats, che lo consideravano un pericolo troppo grande nel caso di una sua eventuale nomination; per lo stesso motivo, i repubblicani continuano a sperare che alla fine sia lui a vincere. Nonostante la battuta d’arresto dell’Iowa, la corsa di Sanders potrebbe comunque prendere la piega auspicata dal Grand Old Party: la quasi parità con la Clinton, un’impresa che rimane notevole, potrebbe, infatti, bastare a innescare una spinta a cascata sugli altri Stati e far apparire Sanders un candidato

credibile non solo per la nomination Dem, ma soprattutto per la corsa alla Casa Bianca. Dall’altro lato, però, molti analisti ritengono che avere un candidato che per sua stessa ammissione si definisce socialista, e che quindi si situa ancora più a sinistra di Obama, potrebbe essere rischioso a novembre, anche ammesso lo svantaggio del Partito Repubblicano nei consensi a livello nazionale. Passando invece alla vincitrice dei caucus dell’Iowa, Hillary Clinton, un fattore gioca a suo diretto vantaggio: la politica estera. Potendo contare su un’esperienza da Segretario di Stato molto apprezzata, nonché aiutata dalle critiche interne rivolte all’attuale Presidente proprio in questo campo, la Clinton potrebbe, infatti, far leva su questo aspetto contro Sanders, criticato proprio per alcune sue idee sulla politica estera anche da Obama durante l’ultimo Stato dell’Unione.


MEDIO ORIENTE

LE MARIAGE CHRÉTIEN QUI VA SAUVER LE LIBAN? L’accord de soutien réciproque entre Geagea et Aoun pour les élections présidentielles libanaises

Di Lucky Dalena, Corrispondente dal Libano Dans un Pays où les blessures de la guerre civile saignent encore, la seule réponse est une classe politique capable de les soigner. Malheureusement, ce n’est pas le cas du Liban. La crise des déchets et celle des réfugiés syriens fuyant une des guerres qui ont éclaté au proche orient, ne sont que la cerise sur un gâteau d’instabilité. Avec un gouvernement parfaitement figé (ou presque) sur un principe confessionnel, le Pays de cèdres démontre sa faiblesse politique en faisant preuve d’incapacité à élire un président de la République après 19 mois et plus d’une trentaine de tentatives d’élection. Les partis étant divisés, après les manifestations de 2006 en raison de l’intervention de la Syrie dans la guerre civile, la séparation sur base religieuse semblait être seulement un héritage du passé. Les alliances 8 mars et 14 mars rassemblent plusieurs partis, sans une séparation nette au niveau des confessions. Le bloc chrétien, par exemple, est divisé en deux, avec les phalangistes

du côté des sunnites et le Courant Patriotique Libre - le deuxième parti au pouvoir - avec les chiites de Hezbollah. Les raisons, encore une fois, sont historiques et on les retrouve dans les chroniques de la guerre civile.

la scène politique. Maintenant, le pouvoir de choisir est aux mains des autres partis, notamment les sunnites du Courant du Futur, dirigés par Saad Hariri (fils de Rafic Hariri, le Premier Ministre assassiné en 2006) et les chiites de Hezbollah.

Le 18 janvier dernier, finalement, on a entrevu une lueur dans cette histoire de vide politique : avec une tempête en toile de fond, le leader des Forces Libanaises, le chrétien Samir Geagea (alliance 14 mars) a confirmé son appui à la candidature à la présidence de Michel Aoun, le leader chrétien de l’alliance adversaire.

L’autre candidat, Suleiman Frangié, est dans la même coalition que Aoun et il garde sa candidature (qui jouit encore du soutien de Hariri) en raison de la trahison de son collègue et ami qui a décidé de s’allier avec l’assassin de son père. Nasrallah, le leader de Hezbollah, a pour sa part fait savoir que son parti va soutenir le candidat favori, en tant que candidat naturel pour le mouvement. Mais, selon les analystes politiques libanais, rien n’est encore dit.

Une réconciliation historique qui choque pour ceux qui se rappellent encore la « guerre d’élimination » de 1990 entre l’armée, commandée par Michel Aoun, et les militants des Forces Libanaises, dont Geagea est le chef. En même temps, si les deux leaders se tendent la main en oubliant le passé, le conflit et les assassinats, il reste à voir si les autres partis vont faire la même chose. Lorsque Geagea et Aoun coupent un gâteau pour célébrer une réconciliation historique, la stupeur règne sur

La prochaine séance électorale est censée être dans une semaine et on ne sait pas encore comment on en sortira. Le mariage n’est pas encore fait : les mariés sont prêts, mais leurs familles ? Serontelles capables de panser leurs blessures et oublier la douleur pour le bien du Pays? MSOI the Post • 7


UNA QUESTIONE DI SOLDI Limitazioni economiche alle NGO in Medio Oriente

Di Martina Terraglia, Corrispondente dalla Giordania Quando parliamo di NGO, la prima immagine che richiamiamo alla mente è sicuramente quella dei ragazzi di Amnesty o Emergency che chiedono donazioni per le strade. In realtà, le NGO – non governmental organization – sono delle entità molto più complesse. Le NGO sono organizzazioni private che agiscono negli ambiti del sociale e dello sviluppo umano, dipendendo quasi completamente da donazioni private e beneficenza. In Medio Oriente, come in tutte le zone “calde” del pianeta, le NGO rappresentano ormai una realtà importante, al punto da poter influenzare le politiche interne del Paese. Proprio in questo senso va letta la critica mossa nel 1996 dalla Lega Araba alle NGO, accusate di interferire con le operazioni di sicurezza. Accuse simili sono state sollevate anche dall’India di Indira Ghandi, che identificava nelle NGO la lunga mano dell’FBI, ma anche da Putin, che le ha definite come agenti stranieri, una velata accusa di spionaggio. Per limitare l’ingerenza delle NGO nelle politiche interne dei singoli Paesi, sono state studiate leggi che le colpissero sul piano

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economico, al fine di paralizzarne l’azione: da qui lo sviluppo di mezzi di controllo da parte dei governi sui fondi provenienti dall’estero. Conseguentemente, le NGO si sono trovate di fronte a due possibilità: o rischiare il fallimento o snaturarsi, accettando il controllo statale e standard tecnici sempre più rigidi, pur di ottenere i fondi. Se è vero che la maggior parte delle organizzazioni ha optato per la seconda via, è anche vero che solo le grandi NGO internazionali sono state in grado di resistere: ciò anche a causa di una scarsa capacità tecnica che affligge le organizzazioni locali più piccole, spesso non in grado di adeguarsi agli standard richiesti dai donors. Tuttavia, va anche sottolineato come l’adeguarsi a determinati standard abbia fatto sì che le NGO venissero percepite dalle comunità locali come entità che, pur di perseguire una predefinita agenda, fossero disposte a portare avanti azioni a volte completamente sconnesse dalle realtà in cui operavano. Sebbene questa affermazione non possa essere considerata vera per tutte le organizzazioni, è indubbio che apre la strada a una lunga serie di critiche: tra queste, spiccano quelle sulla trasparenza. Sorge

spontaneo

un

dubbio:

chi monitora l’operato delle NGO? Da un lato va riconosciuto che non esistono chiari criteri standardizzati per valutare la risposta umanitaria di un’organizzazione internazionale. D’altro canto, se è il governo a decidere come e se verranno ripartiti i fondi, nessuno verrà accusato di gonfiare i salari o il budget amministrativo. Tipico è il caso della Palestina. In Palestina si contano oltre 5.000 NGO. Dopo Oslo 1993, la società civile palestinese ha fatto sempre maggiore affidament osui fondi provenienti dall’estero e impiegati attraverso le NGO. Fatah e ANP hanno iniziato a considerare la società civile in puri termini economici, addirittura affidando a propri esponenti – o loro familiari – la fondazione di nuove NGO per poter accedere a quei fondi. In questo modo, si è creata una situazione in cui attivisti civili siano anche esponenti di partiti politici, minando i principi di trasparenza e accountability. Eppure, se le problematiche sono imputabili, almeno in parte, a un rigido controllo governativo sui fondi destinati alle NGO, possono essere incolpate solo queste stesse del venir meno di tali principi?


RUSSIA E BALCANI BROKEN RUSSIA

Le sanzioni occidentali e la fine del modello di crescita di Putin

Di Giulia Andreose L’economia russa sta attraversando una gravissima crisi ed il primo ministro Dmitri Medvedev ha deciso di tagliare la spesa pubblica del 10%. I risparmi complessivi dovrebbero essere pari a 700 milioni di rubli, circa 9,16 miliardi di dollari. I conti pubblici di Mosca sono fortemente sotto pressione e i tagli potranno riguardare diversi ambiti. I fattori più rilevanti che hanno determinato questa situazione sono il forte calo del prezzo del petrolio e l’effetto combinato delle sanzioni imposte nel settembre 2014 dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti sui prodotti gas-petroliferi e sui dazi previsti dalla Russia stessa sulle importazioni di prodotti alimentari. La Russia deriva circa il 50% delle sue entrate dalla vendita di prodotti energetici e basa le sue previsioni di bilancio pubblico sul prezzo del petrolio. Questo oggi ha raggiunto i 90 dollari al barile, mentre il budget del 2016 è stato studiato su circa 50 dollari al barile. A parità di altre condizioni, quando il prezzo è più alto (un anno fa era circa 100 dollari al

barile) il bilancio pubblico va in surplus, quando è inferiore (oggi è circa 39 dollari al barile) va in perdita: più è basso il prezzo, maggiore sarà la perdita. Inoltre, in questi giorni il valore del rublo, affossato dal crollo del prezzo del barile, è sceso ai minimi storici contro quello del dollaro statunitense. La Banca Centrale di Russia ha fissato il tasso ufficiale per la valuta nazionale a 76,6 rubli per $1, ma in realtà sono 77 rubli ad essere scambiati con $1 e questa debolezza della moneta comporta difficoltà a mantenere un adeguato livello di importazioni. Le sanzioni economiche imposte da Unione Europea e Stati Uniti per la “destabilizzazione” dell’Ucraina hanno ulteriormente aggravato il quadro. Sono drasticamente calate sia le esportazioni russe, con l’effetto di ridurre il reddito nazionale, sia le importazioni, con l’effetto di rendere introvabili o comunque molto più cari i beni importati dall’estero (effetto questo amplificato dal blocco per ritorsione delle importazioni russe sui beni alimentari occidentali). Le sanzioni penalizzano fortemente le aziende europee (soprattutto tedesche e italiane)

che esportavano in Russia, un mercato da 300 milioni di potenziali clienti a due ore di aereo. Molto meno penalizzate, invece, le imprese americane, il cui interscambio commerciale con la Russia è limitato. L’impianto strutturale del modello di crescita di Putin sembra in esaurimento. Quando, salì al potere, i prezzi alle stelle di gas e petrolio consentirono di finanziare un’alta spesa pubblica che stimolò i consumi e consolidò il potere del nuovo leader, ma non venne avviata nessuna vera riforma di modernizzazione dell’economia. Ciò avrebbe implicato anche una liberalizzazione della società, una reale lotta alla corruzione e la fine dei privilegi degli oligarchi, al fine di rendere sostenibile nel tempo un certo livello di crescita. Il Cremlino spera che entro i prossimi sei mesi abbiano fine, almeno in parte, le sanzioni occidentali e che l’economia russa possa avere una ripresa. Per questo ha moltiplicato i gesti distensivi verso i Paesi europei, cercando di dimostrare che Mosca sta facendo tutto quanto in suo potere per l’applicazione degli accordi di Minsk sull’Ucraina. MSOI the Post • 9


LA MOLDAVIA SCENDE IN PIAZZA Proteste e scontri in un Paese diviso tra europeisti e filorussi

Di Giulia Bazzano

socialisti o Nostro Partito.

Dopo quasi tre mesi senza un esecutivo, il 20 gennaio il governo dell’europeista Pavel Filip ha ottenuto la fiducia dall’organo legislativo con 57 voti favorevoli su 101. La stessa conferma non è arrivata, però, dall’opinione pubblica, che ha accompagnato il sì al governo dell’ex Ministro delle Tecnologie Informatiche con grandi proteste. A Chisinau, alcuni manifestanti sono riusciti a sfondare i cordoni di polizia, facendo irruzione in Parlamento.

Finora, il volto europeista della Moldavia non ha di certo regalato una buona immagine di sé. Vlad Filat, l’ex premier che per anni ha dominato la scena ed è stato il principale fautore dell’avvicinamento all’Europa, è stato accusato di corruzione per oltre 250 milioni di dollari. Il “sogno europeo” di una parte dei Moldavi è stato tradito da un governo che non ha saputo garantire giustizia ed equità, sebbene la popolazione, dopo la firma dell’Accordo di Associazione con l’Unione Europea, sperasse in una maggiore trasparenza.

La decisione di affidare l’incarico a Filip, presa lo scorso 16 gennaio dal presidente Nicolae Timofti, aveva già suscitato grandi polemiche: migliaia di manifestanti erano scesi in piazza per convincere il Presidente a cambiare rotta, accusando le istituzioni di corruzione e chiedendo a gran voce nuove elezioni. Pavel Filip, convinto europeista, ha in programma un ”sostanziale avvicinamento a Bruxelles”: un punto in agenda sgradito ad un Paese in cui le richieste di accostamento alla Russia di Putin si fanno sempre più insistenti. Alle proteste, infatti, hanno preso parte anche partiti filorussi, come quello dei 10 • MSOI the Post

Le proteste di gennaio non sono una novità in Moldavia: anche nel corso del 2015, in un clima di crescente crisi economica e di fronte a continui scandali, la popolazione aveva manifestato il suo dissenso, rendendo evidente la pressante necessità del cambiamento, in un Paese dove le decisioni politiche sono influenzate da potenti oligarchi. Episodi come la scomparsa di quasi 800 milioni di euro dalle casse dello Stato – quasi un ottavo del PIL della Moldavia - hanno fatto da catalizzatore, in un’escalation di tensione

culminata con la caduta del governo di Valeriu Strelet lo scorso 29 ottobre. I tre mesi di tempo per formare un nuovo esecutivo concessi dalla Costituzione sono finiti e le nomine di Vlad Plahotniuc e Ion Paduraru sono state respinte. Anche dopo la nomina di Filip, le opposizioni reclamano nuove elezioni e chiedono di tornare alle urne, proprio come prevede la Costituzione stessa al termine dei tre mesi. Le due anime della Moldavia europeista e filorussa - convivono forzatamente e una consistente fetta della popolazione guarda con nostalgia al tempo dell’URSS. La missione di peacekeeping russa in Transnistria, Stato de facto indipendente sul quale però Chisinau continua a voler esercitare la sua sovranità, è un altro elemento simbolico della tensione che sembra dividere il Paese. Questa crisi potrebbe ripercuotersi sui rapporti tra Mosca e Bruxelles, rivelandosi come l’ennesima frattura dell’Europa orientale, uno scenario geopolitico dove lo scontro est-ovest continua a riproporsi in forme sempre nuove e sempre più articolate.


ORIENTE

KIM NON SI PREOCCUPA ED AMA LA BOMBA

Le sanzioni della Comunità Internazionale a 15 giorni dal nostro ”summary” razzo a lunga gittata paventato da Kyodo news (che citava un anonimo ufficiale giapponese).

Di Giusto Amedeo Boccheni È passato ormai quasi un mese da quando la Repubblica Popolare Democratica di Corea, meglio conosciuta come Corea del Nord, ha annunciato il suo quarto test nucleare. Stando a Pyongyang si tratterebbe di una bomba H, ma secondo gli esperti il sisma di magnitudo 5.1 rilevato il 6 gennaio suggerisce l’utilizzo di un semplice ordigno a fissione. Comunque sia, il test ha ottenuto il suo effetto: Kim Jong Un ha potuto felicitarsi del grande successo della Vera Corea nel suo percorso verso una riunificazione pacifica e indipendente dalle mire imperialistiche americane. Le reazioni di sdegno e condanna della comunità internazionale hanno dato lustro alla sua immagine, che l’8 gennaio, in occasione del suo compleanno, è stata celebrata in tutto il Paese. All‘inizio del 2012, Pyongyang ha proiettato in orbita un “satellite per le comunicazioni”, dimostrando, secondo Stati Uniti e Sud Corea, di essere in grado di lanciare missili balistici intercontinentali. Il Ministro della Difesa della Corea del Sud, tuttavia, ha preferito non alimentare le voci dell‘imminente lancio di un

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, dopo che un B-52 ha sorvolato i cieli coreani la Camera dei Rappresentanti ha votato quasi all’unanimità l’inasprimento delle sanzioni economiche. Kim ha risposto proponendo l’espansione dell’arsenale nazionale, che, secondo stime cinesi, arriverà a contare nell’arco dell’anno 40 testate nucleari. Nel frattempo, il Forum Economico Mondiale ha ritirato l’invito a unirsi al consesso di Davos precedentemente rivolto alla Corea del Nord, assente dal 1998. Le speranze delle compagnie sud-coreane di poter investire nelle infrastrutture di prossima costruzione tra Corea del Nord e Russia e di recuperare così un ruolo in un quadro economico dominato quasi esclusivamente dalla Cina sono quindi sfumate. Ulteriori scompensi economici potrebbero seguire un aggravio del regime sanzionatorio da parte delle Nazioni Unite. L’ambasciatore giapponese alle Nazioni Unite, Motohide Yoshikawa, ha sollecitato il Consiglio di Sicurezza perché adottasse subito le misure necessarie. Tuttavia, sebbene il Consiglio abbia preso in considerazione il problema, la Cina non dà avallo alle sanzioni. Il 27 gennaio John Kerry e Wang Yi, Ministro degli Esteri cinese, hanno concordato sull’impellente necessità di una nuova risoluzione, ma Pechino

ha affermato di non voler mettere a repentaglio la stabilità della regione provocando nuove tensioni. Sebbene, infatti, la corsa agli armamenti nordcoreana non sia gradita al gigante dell’Estremo Oriente, la prospettiva di un conflitto resta la meno accattivante, in quanto comporterebbe un ingente flusso di rifugiati ed il consolidamento dell’influenza statunitense sulla penisola coreana. Yukiya Amano, direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA), Lassina Zarbo, segretario esecutivo dell’Organizzazione del Trattato sulla Messa al Bando Totale degli Esprimenti Nucleari (CTBTO), e lo stesso Ban Kimoon hanno condannato con fermezza il test nucleare. Esso è una violazione delle risoluzioni 1718, 1874, 2087 e 2094 e, se si fosse trattato di bomba H, lo sarebbe pure di una normativa rispettata dal 1996. Secondo il Comitato per i diritti Umani in Corea del Nord (HRNK), infine, i lavori per il test nella base di Punggye-ri sarebbero stati effettuati da prigionieri politici provenienti dal vicino kwanliso (campo di prigionia) numero 16, senza che venisse loro fornito alcun mezzo di schermatura dalle radiazioni.

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IL “PIVOT TO ASIA “ DOPO LA VITTORIA DI TSAI ING-WEN A TAIWAN

Cina e Stati Uniti dopo la vittoria del Partito democratico progressista a Taipei Di Gennaro Intoccia, sezione MSOI Napoli

bia geopoliticamente tra Cina e Stati Uniti?

Dopo più di cinquant’anni di dominio indiscusso del fronte nazionalista sulla politica di Taiwan, il partito democratico progressista, capeggiato dall’attuale presidente Tsai Ingwen, ha ottenuto il 56% dei voti ed ora il neoletto Presidente ha un lungo percorso politico da percorrere, costellato di difficoltà e compromessi da siglare.

Taiwan vanta anni di consapevole fiducia, consacrata da numerosi trattati, nei confronti di Washington. La Casa Bianca sfrutterà il cambio di passo di Tsai Ing-wen per perfezionare la strategia di contenimento rivolta al principale rivale in Asia e nel Pacifico, dove gli Stati Uniti anelano a stabilire la propria egemonia.

Taiwan vive un momento di stagnazione e c’è il forte rischio di accentuare la tendenza negativa dei dati sulla disoccupazione, in particolar modo nel settore dell’impiego giovanile. Tutto ciò sarebbe causato, secondo gli esperti, da notevoli voragini nei fondi pensione e nell’esiguità degli importi dei salari nei rapporti di lavoro subordinato. Il Paese ha sempre manifestato il desiderio e l’intenzione politica di ridurre l’indipendenza economica e commerciale dalla Cina. Nonostante gli sforzi, tuttavia, il primo partner economico per Taiwan rimane proprio la Cina di Xi-Jinping. Trasponendo però la delicata questione sino-taiwanese nello scenario Pacifico, che cosa cam-

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La Cina ha abbandonato il tradizionale atteggiamento cauto, presentandosi con convinzione sulla scena internazionale. Dopo l’annessione della Crimea ad opera di Putin, ed in seguito alle discusse sanzioni imposte dalla comunità occidentale alla Russia, Xi –Jinping ha siglato un miliardario accordo per il rifornimento di gas con Mosca, consentendo alla Cina di ottenerlo via terra. Forte dell’appoggio russo, i cinesi hanno mobilitato le loro ricchezze nel potenziamento dell’apparato militare e nella costruzione di una moderna portaerei. Per la Cina, la dipendenza di Taiwan dal proprio mercato rappresenta una solida base su cui costruire una nuova strategia di contrasto alla marina statunitense, che naviga lungo gli

avamposti dell’isola di Okinawa. Si ricordi che il 14 Marzo del 2005 il Congresso comunista cinese ha emanato il famoso Anti-secession Law act, con cui addirittura si autorizzavano l’esecutivo e la Commissione Militare Centrale a usare la forza, qualora la pace tra Pechino e Taipei giunga al punto di rottura. La questione principale, in grado di generare forti tensioni internazionali, è il dominio sulle isole Senkaku, su cui i cinesi reclamano la sovranità, in aperto contrasto con il Giappone che si ritiene il naturale erede delle contese terre insulari. La Cina aspira a diventare, per emarginare Obama in estremo oriente, una potenza regionale, capace di tessere relazioni diplomatiche con i propri vicini. Obama potrebbe non consentire un cambio di strategia in Asia che spodesti Washington dal ruolo di potenza egemone. Per questo motivo, Washington vede Taiwan come pilastro portante della risoluta politica di contenimento di Pechino nel Pacifico, ma è anche necessario considerare i mutamenti geoeconomici che hanno spostato l’asse finanziario e commerciale globale verso i mercati delle tigri asiatiche.


AFRICA

MALAWI: PROIBITI I MATRIMONI TRIBALI INFANTILI Il no del capo tribale ai matrimoni tra bambini Il record mondiale di matrimoni combinati tra minorenni è detenuto dal Niger: qui il 76,6% delle spose registrate in un anno non ha ancora raggiunto la maggiore età.

Di Sara Corona Il suo nome è Inkosi Kachindamoto ed è un’anziana leader tribale del distretto di Dedza, al centro del Malawi, che ha recentemente annullato 330 matrimoni infantili riguardanti 175 bambine e 155 bambini: un atto controcorrente per il quale la BBC ha definito la Kachidamoto una degli eroi del 2015. Il fenomeno dei matrimoni infantili è largamente diffuso in Africa (così come in altri Paesi in via di sviluppo) e tocca soprattutto le donne: i numeri stimati sarebbero 60 milioni di matrimoni forzati nel mondo, 146 Paesi in cui le ragazze possono sposarsi al di sotto dei 18 anni e 52 dove il matrimonio è consentito prima dei 15 anni. Nei casi in cui la legge lo impedisce, a volte il fenomeno si verifica comunque per vie traverse, come nell’esempio del Malawi, dove i matrimoni civili sono consentiti solo ai maggiorenni, ma molte famiglie aggirano l’ostacolo ricorrendo alle cerimonie tradizionali per far sposare i loro figli.

La povertà è uno dei motivi principali della scelta: il peso del mantenimento di un figlio è spesso insostenibile per le famiglie e, nei Paesi in cui vige la pratica della dote, la famiglia dello sposo è disposta ad accettarne una più ridotta se la ragazza è giovane: così i genitori danno in spose le figlie da bambine per pagare di meno. Tendenzialmente, le minorenni vengono date in moglie a uomini molto più vecchi di loro. In Africa centrale e occidentale, 1/3 delle spose bambine è di almeno 11 anni più giovane del proprio marito, ma si registrano anche casi di matrimoni tra minorenni e uomini fino ai 70 anni. Un’ulteriore possibile causa del fenomeno è l’esistenza del prezzo per la sposa, ovvero il corrispettivo inverso della dote, versato dallo sposo alla famiglia della ragazza, pratica diffusa in tutto il mondo ma soprattutto nel continente africano. Spesso occorrono anni di lavoro perché un uomo possa permettersi di pagare la somma richiesta, che è più alta per una sposa giovane. La richiesta di spose giovani è maggiore perché in tal caso è più probabile che le ragazze non abbiano contratto l’HIV, o altre malattie sessualmente trasmissibili, e perché saranno fertili più a lungo. Esistono inoltre delle superstizioni secondo cui le vergini possono curare l’AIDS (attualmente l’Africa è il conti-

nente più colpito dalla malattia). In questo modo il virus si diffonde molto rapidamente, da uomini più anziani e sessualmente attivi alle rispettive giovani spose. I matrimoni infantili hanno come immediata conseguenza l’abbandono scolastico, che innesca un circolo vizioso: i giovani hanno più difficoltà a trovare lavoro e spesso sono quindi costretti ad accettare impieghi umilianti e in condizioni di sfruttamento, alimentando così il ciclo di povertà da cui provengono. Per quanto riguarda le ragazze, esiste anche un rischio altissimo di morte per parto, 5 volte più probabile per le bambine al di sotto dei 15 anni che per le ventenni, con una percentuale di morte del feto maggiore del 73% secondo l’Agenzia per la Popolazione dell’ONU (UNFPA). Le bambine non sono fisicamente pronte alla gravidanza e questo comporta complicazioni molto frequenti che condizionano lo stato di salute e anche l’integrazione della giovane madre nella società. In questo contesto, l’azione intrapresa da Inkosi Kachindamoto in Malawi assume una valenza rivoluzionaria: in quanto capo tradizionale, ha esercitato il potere di sciogliere i matrimoni infantili disconoscendo le pratiche culturali e religiose che li hanno permessi. “Non voglio che i giovani si sposino prima del tempo” - ha dichiarato Kachindamoto “devono andare a scuola, nessun bambino dovrebbe essere lasciato a casa a far nulla o costretto a fare le faccende domestiche. L’istruzione offre loro un futuro”.

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LA LIBERTÀ DI SCRIVERE Ancora persecuzioni e violenze a danno dei giornalisti in Africa Di Fabio Tumminello Il 29 gennaio due giornalisti europei, corrispondenti in Burundi del quotidiano francese Le Monde, sono stati arrestati in un blitz delle forze di sicurezza governative mentre intervistavano degli oppositori del presidente Pierre Nkurunziza.

Questo evento ha riportato al centro dell’attenzione la condizione dei giornalisti in Africa, spesso oggetto di persecuzioni, arresti e violenze. Non è la prima volta che accadono simili fatti: il 20 agosto scorso a Juba, in Sud Sudan, un giornalista locale è stato assassinato con modalità che fanno pensare a un’esecuzione premeditata.

Per fornire un quadro dettagliato della situazione, Reporter Sans Frontières, una ONG impegnata a tutelare la libertà di stampa nel mondo, ha stilato il World Press Freedom Index. L’indice, che tiene conto non solo delle condizioni in cui i giornalisti lavorano, ma anche del controllo che il governo ha sui media, descrive uno stato di cose tutt’altro che roseo: nelle ultime posizioni

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si collocano, infatti, i Paesi del Corno d’Africa, come Somalia ed Eritrea (il Paese con meno libertà d’informazione al mondo) e del Maghreb, ma anche Sudan e Guinea; in generale, gran parte degli Stati africani si trova nella seconda metà della classifica.

Le ragioni di questa situazione critica sono numerose. I conflitti interni e le tensioni locali rappresentano una minaccia sempre maggiore per i giornalisti, i quali spesso si trovano nel mirino dei governi e di organizzazioni terroristiche come Boko Haram o Al-Shabaab, che considerano i reporter delle vere e proprie minacce. In particolare, i giornalisti freelance sono quelli che rischiano maggiormente la vita, non avendo alcun tipo di appoggio logistico e trovandosi spesso coinvolti in seri pericoli. Inoltre, per tutelare la sicurezza nazionale e per tentare di tenere sotto controllo una situazione di costante instabilità, molti governi adottano politiche volte ad aumentare i controlli e a militarizzare gli organi di polizia interna, limitando enormemente la libertà di informare e di es-

sere informati.

Vi sono, però, delle eccezioni. Una di queste è rappresentata dalla Namibia, un Paese “giovane”, che si è reso indipendente dal Sudafrica soltanto nel 1990, in rapida espansione economica e sociale. La coscienza civile dei suoi abitanti, frutto di anni di lotta all’apartheid e di volontà di indipendenza, è talmente forte da aver reso la Namibia uno degli Stati più liberi e democratici non solo dell’Africa, ma anche del mondo: si trova infatti alla 17° posizione della classifica stilata dal RSF, sopra a nazioni come Svizzera, Francia e Spagna.

Nel complesso, comunque, cominciano a vedersi timidi miglioramenti: secondo i dati proposti da RSF, a parità di abusi complessivi è diminuito il numero delle vittime. L’ostacolo più difficile da superare resta in ogni caso la mancanza di normative efficaci sul tema, che si pongano a tutela dei giornalisti e della loro libertà di raccontare la realtà.


SUD AMERICA

ZANZARE COMBATTENTI GENETICAMENTE MODIFICATE L’esperimento in Brasile: “diminuisce dell’80% la prole delle zanzare Zika, Dengue e Chikungunya”

Di Andrea Incao Gli scienziati di una società del Maryland specializzata in biologia sintetica hanno messo in atto un esperimento dai risultati strabilianti. Hanno, infatti, ottenuto una diminuzione dell’80% di aedes aegypti (le zanzare portatrici del virus Zika), liberando ogni giorno circa 100.000 esemplari di zanzare maschio geneticamente modificate in grado di uccidere la prole prima che raggiunga l’età adulta.

Il virus Zika, riapparso in Brasile nella primavera scorsa, comporta per l’individuo colpito una semplice infezione: febbre per circa una settimana e qualche sfogo cutaneo. I casi realmente allarmanti riguardano le donne in stato di gravidanza, per via delle malformazioni che il virus è in grado di causare ai feti delle future madri colpite. Da aprile ad oggi, infatti, il Ministero della Sanità brasiliano ha registrato oltre 3.500 casi di microcefalia infantile (rara condizione

neurologica per la quale la testa del bambino è significativamente inferiore rispetto alle teste degli altri bambini della stessa età e sesso).

Margaret Chan, direttrice generale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, ha dichiarato: “Il virus Zika è una minaccia di proporzioni allarmanti, si sta diffondendo in maniera esplosiva”. Il continuo espandersi del virus ha messo in guardia anche Anthony Fauci, capo del National Institute for Allergy and Infectious Disease: “Sono già 24 i Paesi colpiti dal virus tra America Latina e Caraibi, temiamo possa arrivare negli Stati Uniti”.

Intanto, il New York Times dà voce a critiche e dubbi. Si teme un’errata valutazione dell’impatto in natura di questa nuova specie di zanzara, creata in laboratorio: non solo potrebbe non essere davvero efficace contro le zanzare “pericolose”, ma potrebbe addirittura renderle

più letali.

La società del Maryland, comunque, non è l’unica che sta portando avanti progetti “anti-Zika”: a Rio de Janeiro si sta cercando di infettare le zanzare con un batterio di nome Wolbachia per renderle innocue. Anche in questo caso, tuttavia, le controindicazioni sembrano essere molte e molto rischiose.

“Non venite alle Olimpiadi” questo l’appello rivolto alle donne in stato di gravidanza dallo staff del presidente Dilma Rousseff. Aggiungendo però, che le Olimpiadi non sono in pericolo ed il loro svolgimento assicurato, in quanto, d’altronde “Ci sono zero rischi se non sei una donna incinta”.

È notizia dell’ultima ora che l’OMS ha intenzione di dichiarare lo stato d’emergenza internazionale ed utilizzare per la prima volta il fondo per le emergenze istituito dopo l’epidemia di Ebola. MSOI the Post • 15


UN TRENO CHIAMATO DEFAULT Mauricio Macri corteggia i creditori dell’Argentina a Davos

Di Michelangelo Inverso

I creditori che rimasero fuori dall’accordo furono i cosiddetti fondi avvoltoi (hedge found), che, in seguito al fallimento, comprarono a prezzi stracciati i titoli di Stato oggetto di default (alcuni dei quali gravati da interessi superiori al 100%), con l’intenzione di costringere l’Argentina alle condizioni di emissione.

Come annunciato durante la sua campagna elettorale, il neoeletto presidente argentino Mauricio Macri si appresta a “normalizzare” le relazioni con l’Occidente dopo il quindicennio dei Kirchner. E così, a distanza di qualche mese, sembra arrivato il primo twist sul palcoscenico internazionale, direttamente dal palco del World Nel 2014 il tribunale di New York Economic Forum di Davos. Ma emise una sentenza che dichiarava illegali i pagamenti di Buenos Aires occorre aprire una breve parentesi. ai creditori sottoscrittori dell’accordo Nel 2001 l’Argentina dichiarò del 2005, se lo Stato non avesse prima il fallimento a seguito di errate rimborsato gli hedge found che non politiche monetarie, trovandosi avevano sottoscritto. così nell’impossibilità di onorare La conseguenza fu il rovesciamento i propri debiti. Le conseguenze del tavolo degli accordi: coloro che furono disastrose e i successivi avevano sottoscritto richiesero lo governi rifiutarono di pagare un stesso trattamento e la conseguenza debito che consideravano illegittimo. fu un aggravio dei pagamenti, che Come pena, fu impedito al Paese un attualmente corrisponderebbero a normale accesso al credito finanziario circa il 3% del PIL argentino. internazionale (per esempio, si vietò È qui che si inserisce l›ambiziosa la vendita di titoli di Stato). manovra di Macri. Alla conferenza Nel 2005 il governo Kirchner aprì una svizzera egli ha, infatti, rassicurato serie di trattative con i creditori. la platea, affermando che il suo Esse si conclusero con l’impegno a governo intende mettere fine al lungo rimpiazzare il 76% dei vecchi titoli contenzioso con i creditori esclusi. con altrettanti nuovi, con un valore Questo significherebbe rimborsare il nominale più basso e con scadenze debito nominale, più tutti gli interessi penali, per entrambe le categorie di più lunghe. 16 • MSOI the Post

creditori. Macri, promettendo il rimborso dei propri debiti, gioca una doppia partita. Da un lato, intende mostrarsi in veste di interlocutore per il mondo finanziario occidentale, al fine di riaprire i rubinetti del credito per l’Argentina; dall’altro, spera di consolidare il proprio consenso interno, la cui base è composta soprattutto dalla grande imprenditoria privata e finanziaria, che ha assoluto bisogno dell’apertura ai mercati finanziari internazionali. Macri dunque gioca la carta del vecchio default per ottenere credibilità con l’estero. È prova di ciò già solo il fatto di essere stato a Davos, da cui l’Argentina era assente da 12 anni poiché proprio in quella sede si riuniscono anche i rappresentanti dei fondi avvoltoi disprezzati dai governi Kirchner. La partita sarà tutt’altro che semplice, considerando che il 3% del PIL, per un Paese dipendente dalle esportazioni di materie prime che attraversa un periodo di crisi, è tutt’altro che un‘inezia. Occorrerà che il Presidente stia attento, perché certi treni passano una volta sola. Ma per l’Argentina non è il caso del treno chiamato Default.


EU MODEL 2016: applications are open

Are you passionate about European politics? Are you eager to put your debating, negotiating, and teamwork skills to test? Are you looking for an authentic international experience? Then EU Model Torino 2016 is the place to be! EU Model Torino 2016 is a large-scale simulation of the EU law making procedure. From March 21st to March 25th students from all over Europe will convene in Turin in order to impersonate Members of the European Parliament and Members of the Council of the European Union with the purpose of drafting a European regulation or decision. The topic of the simulation is the rapprochement of national legal systems with respect to common criminal laws on the incrimination of foreign fighters.

EU Model Torino 2016 consists of two different phases. The first phase is called EU Know and it represents the moment of study and learning. During the academic year, the project will include a number of events such as conferences and seminars in which students will discover the main topics of the European debate from the viewpoint of scholars and experts who will

Members of the Council of the European Union. The staff of M.S.O.I. will be playing the role of the European Commission. The project is thus designed to embrace the two typical moments of scientific learning: analytical on one hand, empirical on the other.

contribute their expertise and competence. All these events are intended to facilitate dialogue and debate. This is why the audience will be playing an active role in the discussions between students and experts. The second phase, which is called EU Make, is the simulation of the functioning of the European institutions. The participants will debate two legislative proposals and simulate EU lawmaking by acting as Members of the European Parliament or

and an invaluable experience, whose primary aims are to let the participants deepen their knowledge of the main topics of European political debate, improve their understanding of the functioning of European institutions, and develop their European identity.

EU Model Torino 2016 is therefore a unique opportunity

For further information and the application form please visit the official website www.eumodeltorino.org.

Per rimanere aggiornato sulle attività di MSOI Torino, visita il sito internet www.msoitorino.org, la pagina Facebook Msoi Torino o vieni a trovarci nella Main Hall del Campus Luigi Einaudi tutti i mercoledÏ dalle 12 alle 16. MSOI the Post • 17


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