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MSOI Torino
M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario MSOI Torino
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MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di MSOI Torino, desidera proporsi come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulterà riconoscibile nel mezzo di informazione che ne sarà l’espressione: MSOI thePost non sarà, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione.
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EUROPA
CAMBIARE SI PUO’ L’Università ungherese apre le sue porte ai rifugiati
Di Simone Massarenti
Migrazione, migranti, immigrati, rifugiati sono parole che da mesi si ripetono nei dossier sui tavoli dei governi europei. La Comunità Europea si trova in difficoltà di fronte ad una crisi che sta portando a ripetuti contrasti fra i vari Paesi, che vedono sempre più vicina unarisoluzionepersonale,adiscapito di una soluzione comune. Se ciò dovesse avvenire, la conseguente sospensione del trattato di Schengen rappresenterebbe la fine del progetto comune europeo.
Nel periodo compreso tra il 17 settembre e il 17 ottobre 2015 in particolare, l’attenzione mondiale si concentrò sull’Ungheria di Viktor Orban. Questi, per fronteggiare l’esodo di massa dovuto ai conflitti in Medio Oriente, propose la costruzione di un muro di “cinta” lungo i confini dell’intero Paese, con massicci controlli da parte delle milizie ungheresi ai varchi d’ingresso nel Paese. La proposta fu però solo l’inizio di una serie di iniziative propagandistiche del governo ungherese, con una campagna pubblica a dicembre contro l’integrazione in cui i migranti venivano dipinti come criminali. Le polemiche furono molto diffuse e sentite, l’UNHCR,
agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, intimò all’Ungheria di “astenersi da pratiche e politiche che promuovono odio e intolleranza”.
I primi mesi di questo 2016 sono stati accompagnati da una nuova scia di stragi del mare lungo le coste della Grecia e della Turchia, nonché da nuove dichiarazioni di Paesi come la Svezia, la Danimarca ed altri, desiderosi di chiudere definitivamente i rapporti con questa Europa ritenuta fragile; ma com’è, ad oggi, la situazione dell’accoglienza dei migranti in Ungheria?
Per sintetizzare la situazione della Nazione balcanica oggi, potremmo riferirci alla celebre citazione di Eraclito “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, poiché la politica di accoglienza dei migranti sta progredendo, attraverso le azioni di volontari e di privati, molto rapidamente. È dell’8 febbraio scorso, infatti, la notizia che la Central European University di Budapest terrà ogni sabato un corso riservato esclusivamente a rifugiati e richiedenti asilo, al fine di garantire loro una adeguata formazione per un futuro inserimento nel mondo del lavoro.
Il progetto prevede l’insegnamento di materie come l’economia, la matematica, il diritto, la filosofia e l’inglese, affinché ogni migrante, proveniente da Paesi dove la guerra ha sepolto ogni speranza per un futuro libero e prospero, possa acquisire le basi per vivere e non sopravvivere. Tramite l’università, infatti, i migranti possono stringere amicizie e trovare contatti utili per un futuro impiego, un’occasione concreta per inserirsi nel tessuto sociale ungherese.
Grande soddisfazione da parte dei partecipanti a questo progetto, riassunta nelle parole di Basil Hararah, un ragazzo fuggito dall’inferno di Gaza. Nella sua intervista, riportata dalla testata online Euronews, afferma “avevo sentito dire spesso che l’Ungheria non era il posto migliore dove andare. Però sono qui da 7 mesi e non si sta poi così male”.
Visto il successo del progetto di Open Learning Initiative vi è la volontà da parte dei promotori dell’iniziativa di darle un seguito. Come spiega Prem Rajaram, infatti, è importante integrare i migranti, al fine di evitare il conflitto sociale che le difficoltà relative alla loro accoglienza potrebbero comportare. MSOI the Post • 3
LE UNIONI CIVILI IN EUROPA La situazione delle unioni civili a livello europeo
Di Benedetta Albano Mentre in Italia il tema delle unioni civili è oggetto di un acceso dibattito pubblico solo di recente, nella maggioranza degli altri Paesi europei sono state attuate varie soluzioni nel corso degli ultimi anni.
Innanzitutto è importante ricordare la definizione giuridica del termine “unione civile”: unione civile: “l’unione civile è una forma di convivenza fra due persone, legate da vincoli affettivi ed economici, che non accedono volontariamente all’istituto giuridico del matrimonio, o che sono impossibilitate a contrarlo, alle quali gli ordinamenti giuridici abbiano dato rilevanza o alle quali abbiano riconosciuto uno status giuridico”.
In numerose direttive europee il tema delle unioni civili viene menzionato in quanto l’Unione ambisce da sempre a fornire ai suoi cittadini un livello di protezione equo e paritario. Gli unici 7 Paesi che ancora non hanno emanato una legislazione al riguardo sono Bulgaria, Italia, Polonia, Romania, Slovacchia, Lettonia e Lituania. 4 • MSOI the Post
Negli altri Paesi europei ci si è mossi verso una direzione comune, garantendo alle coppie omosessuali gli stessi diritti delle coppie eterosessuali.
Pionieri sono stati l’Olanda e il Belgio, che hanno riconosciuto il matrimonio fra individui dello stesso sesso rispettivamente nel 2001 e nel 2003 (e successivamente la possibilità di adozione). La Danimarca è stata il primo Paese al mondo a riconoscere le unioni civili alle coppie omosessuali, già nel 1989, ma il matrimonio è stato reso possibile solo nel 2012. Dal 2008 al 2015, infatti, sono stati compiuti i passi di omologazione più importanti per i Paesi europei, con una diffusa approvazione del matrimonio omosessuale, seppure con contestazioni, specialmente in Francia e in Irlanda.
Il tema dell’adozione resta, invece, più delicato, e, infatti, non è regolamentato nella maggior parte degli Stati dell’Est, cosìo come l’utero in affitt , possibile quasi esclusivamente nel Nord Europa.
Quanto all’Italia, la mancanza di una legislazione precisa riguardo al tema delle unioni civili rende il nostro Paese inadeguato rispetto agli standard sociali proposto dall’Unione Europea. L’attuale DDL Cirinnà bis è diviso in due capi; il primo riguarda solo le unioni omosessuali, mentre il secondo disciplina le convivenze di fatto fra coppie sia omosessuali sia eterosessuali. Finora è stato approvato soltanto dalla Commissione giustizia del Senato ed è attualmente in discussione in Parlamento. Se il testo venisse approvato, l’Italia si unirebbe ad Austria, Germania, Ungheria e Croazia nella rosa di Paesi che riconoscono le unioni civili e i diritti dei cittadini omosessuali. La possibilità di adozione, inoltre, in Italia sarebbe prevista, con la legislazione attualmente in discussione, solo in forma di stepchild adoption, ma la discussione in Italia è attualmente molto accesa riguardo ai temi della famiglia e dell’adozione.
NORD AMERICA
COME TI ELEGGO UN PRESIDENTE Un’analisi del sistema elettorale statunitense
di Alessandro Dalpasso Il processo che porta alla nomination presidenziale negli Stati Uniti è forse il più complesso, lungo e costoso del mondo, e non c’è da meravigliarsene se lo si analizza da vicino. Ogni quattro anni, infatti, i candidati, sia quelli in corsa per il Partito Repubblicano, sia coloro che competono per il Partito Democratico, si sfidano in ciascuno dei 50 Stati cercando di ottenere il maggior numero di vittorie. Riducendo ai minimi termini il concetto, questo significa che chi ottiene il maggior numero di vittorie (le quali corrispondono poi al maggior numero di delegati nella convention finale del proprio partito) si guadagna la nomination per poter concorrere come candidato unico per la Casa Bianca.
In questa prima fase sono fondamentali due istituzioni cardine del sistema elettorale americano, ovvero i caucus e le primarie. I caucus sono meeting locali finanziati dai partiti, in cui i membri si incontrano per discutere ed esprimere il supporto per un determinato candidato. Le primarie sono vere e proprie votazioni (pagate dallo Stato, accessibili solo a chi è iscritto nelle liste del partito e segrete) per eleggere i propri candidati. Il sistema elettorale americano è però indiretto: il Presidente non viene eletto direttamente dai cittadini, ma da 538 Grandi Elettori. Il numero di questi Grandi Elettori, eletti su base statale, è pari alla somma dei deputati e senatori di ciascuno Stato. Quindi i cittadini esprimono sì una preferenza per il candidato, ma in realtà stanno esprimendo il proprio voto in favore del gruppo di Elettori
associati a quello specifico candidato. Per i voti dei cittadini, cioè i cosiddetti “voti popolari”, viene fatto un conteggio Stato per Stato con un sistema maggioritario secco chiamato winner takes all (“chi vince prende tutto”). Il candidato che ha più voti potrà così contare su tutti i Grandi Elettori di quello specifico Stato. In quest’ottica, quindi, il candidato che riesce a far eleggere almeno 270 Grandi Elettori; questi, in via teorica, dovrebbero votare per lui va alla Casa Bianca. Ogni Stato ha diritto ad avere due Grandi Elettori più alcuni altri, tanti quanti sono i deputati mandati alla Camera dei Rappresentanti. Siccome il numero dei rappresentati della Camera dei Deputati varia a seconda della popolazione, più lo Stato è grande più rappresentanti ha. MSOI the Post • 5
Elezioni USA: quale rappresentante per quali cittadini? Quale conclusioni trarre dagli ultimi sondaggi?
Di Simone Potè A partire dal 1 febbraio, col caucus in Iowa, gli USA sono entrati ufficialmente nel periodo, lungo quasi un anno, delle elezioni presidenziali. In questa prima fase, che va fino a metà giugno, si assiste allo svolgersi in ogni Stato di primarie e caucus. Ad oggi disponiamo dei risultati delle prime due votazioni, ossia il caucus in Iowa del 1 febbraio e le primarie nel New Hampshire del 9 febbraio. Come interpretare i risultati ottenuti fino ad ora, tenendo conto dell’importanza dei primi sondaggi nella determinazione del futuro Presidente degli Stati Uniti d’America? Dal lato dei repubblicani, il vincitore in Iowa è stato Ted Cruz (27.6%), che ha battuto lo strafavorito Donald Trump (24.3%). I due candidati rappresentano le posizioni più estremiste del Partito Repubblicano. Tuttavia, l’estremismo delle dichiarazioni che hanno reso famoso Trump differisce da quello a carattere fanatico-evangelico, contro l’aborto e la procreazione assistita, di Ted Cruz, per supportare la candidatura del quale è stato addirittura istituito un “national prayer team”. L’elettorato
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dell’Iowa era particolarmente favorevole per Cruz, con un 56% dei cittadini che si dice “fortemente protestante” e un 67% dei votanti che si dichiara evangelico. Questo spiega il successo del candidato nel primo caucus, immediatamente smentito nel New Hampshire (11.6% contro il 35.3% di Trump). Commentando i risultati, lo stesso presidente Obama in questi giorni si è rivolto alla Nazione e ha dichiarato di non avere dubbi sulla sconfitta finale di Trump, confidando nel fatto che “i cittadini sanno che la Presidenza è una cosa seria, non un reality show”. Tuttavia, gli effetti del primo caucus e, forse, della dichiarazione di Obama, sembrano palesarsi: il 17 febbraio, Cruz è riuscito a superare Trump nei sondaggi su scala statunitense. Questo trend altalenante conferisce dunque una rinnovata importanza ai prossimi risultati dei caucus. Dal lato dei democratici, la sorpresa si chiama Bernie Sanders. Il senatore del Vermont ha registrato infatti un sostanziale pareggio di fronte a Hillary Clinton nel primo caucus. È un risultato enorme, se consideriamo l’importanza dell’apparato Clinton nel panorama politico
statunitense e le risorse iniziali, completamente sbilanciate in termini quantitativi e qualitativi: a questo riguardo, Sanders accusa la Clinton di essere “il burattino di Wall Street”, per via della natura dei suoi finanziamenti. La sua “vittoria morale” nei confronti della Clinton in Iowa sarebbe però poco indicativa: l’elettorato di Sanders è principalmente quello giovanile, sovrarappresentato nell’Iowa rispetto agli Stati Uniti in toto. Tuttavia, la schiacciante vittoria di Sanders nel New Hampshire (60% vs 38%), con la maggioranza di voti in tutte le categorie di età, dimostra come Hillary Clinton non sia del tutto al sicuro. Come si spiega questa vorticosa crescita in popolarità di un sedicente “socialista” negli Stati Uniti, roccaforte del liberismo economico? Una possibile risposta è quella fornita in una recente dichiarazione da Yanis Varoufakis, ex Ministro delle Finanze in Grecia. Parafrasando: così come nel suo caso, l’elettorato non è diventato di colpo socialista; semplicemente si rende conto del buon senso di proposte che mirano a un ritorno ai basici principi liberal-democratici e sono portate avanti da qualcuno che non intende, nonostante le sue opinioni ideologiche, operare una radicale transizione verso il socialismo.
MEDIO ORIENTE
IL ‘’GRANDE GIOCO ‘’DELL’AFGHANISTAN TRA NEGOZIATI DI PACE E L’ISIS.
USA annulla il ritiro di militari, Kabul non tratta con Taliban , ISIS si rafforza Di Emiliano Caliendo, Sezione MSOI Napoli Ai tempi del Grande Gioco tra l’impero russo e britannico per accaparrarsi l’Afghanistan, il viceré inglese dell’India sir John Lawrence descriveva così il Paese: ‘’è come una scarpa che ferisce solo chi la porta: la potenza che occupa il Paese è anche quella contro cui la popolazione si solleverà’’. Una descrizione puntuale se rapportata alla situazione odierna. Il passaggio, nel gennaio del 2015, dalla missione ISAF delle forze NATO a quella no combat, “Resolute Support” per l’addestramento delle forze di sicurezza afgane non è stato accompagnato dalla pacificazione del Paese. La situazione conflittuale è esemplificata dal recente rapporto dell’UNAMA sulla protezione dei civili nei conflitti: il 2015 è stato l’anno più violento per l’Afghanistan dal 2009, con 11.002 vittime civili (3.545 morti e 7.457 feriti). Le responsabilità si dividono così: il 62% è vittima degli elementi non governativi, il 17% dei filogovernativi e infine il 4% dei residui bellici. Il restante 17% non ha per ora un colpevole acclarato. Il direttore della National Security Agency (NSA), James Clapper, ha sintetizzato la crescente preoccupazione per l’instabilità del Paese asserendo ‘’per l’Afghanistan c’è il rischio di tracollo politico nel 2016’’.
L’amministrazione Obama ha dunque sospeso il ritiro di soldati dal Paese previsto per l’ottobre scorso, stabilizzando il numero di soldati americani a 9.800, coadiuvati da 1.600 militari italiani e tedeschi. Il mancato ritiro delle truppe americane è confermato da un’indiscrezione del Guardian, secondo il quale è previsto il dispiegamento di un battaglione di 800 uomini nella provincia meridionale di Helmand, zona a forte presenza talebana. I talebani controllano oggi un terzo del territorio, circa 400 distretti. La notizia della morte del mullah Omar ha però esasperato le lotte intestine, facendo emergere due fazioni: quella più forte e intransigente del mullah Mansour; l’altra, più ‘moderata’, di Abdul Manan Niazi, fratello del precedente leader del gruppo. Lungo la linea di confine tra Pakistan e Afghanistan troviamo un terzo gruppo, i talebani pakistani del Tehreik-i-Taliban capeggiati dal mullah Fazlullah. I militanti del califfato controllano la provincia di Nangarhar e sono in competizione con l’altra storica organizzazione salafita della regione, Al Qaeda, nonchè con i talebani afgani. Le scissioni fra i talebani pakistani hanno, invece, contribuito alla nascita di un nuovo elemento nella galassia insurgens: Wylayat-Khorasan, la “filiale” afgano-pakistana dell’ISIS. Ad essa ha aderito anche il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, operante nel
nord del Paese. Le forze afgane, non riuscendo a prevalere militarmente sulle forze talebane e salafite, hanno dovuto delegare ai droni americani la maggior parte delle azioni militari. Intanto proseguono a fasi alterne i negoziati per la pacificazione del Paese condotti dal Quadrilateral Coordination Group (QCG), formato da Afghanistan, Usa, Pakistan e Cina. Il nodo centrale è la partecipazione dei taliban al tavolo negoziale. La precondizione dell’ufficio di Doha, coordinamento in Qatar del gruppodelmullahMansour,èilritiro di tutte le truppe straniere. A ciò si aggiunge la preoccupazione interna ai taliban di mostrarsi abbastanza intransigenti da non perdere il sostegno dei propri militanti. L’incontro del 13 febbraio ad Islamabad tra gli Alti Delegati di talebani, Pakistan e Afghanistan è servito a stabilire una road map per un nuovo incontro del QCG entro marzo che includa anche la presenza talebana. Pacificazione del Paese e nationbuilding sono le sfide che attendono il presidente afgano Ghani che intanto in questo Grande Gioco moderno sta stringendo accordi di cooperazione economicacommerciale con Russia e Cina.
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BREVE STORIA DEI FRATELLI MUSULMANI Parte prima di tre: l’Egitto
DI Martina Terraglia, Corrispondente dalla Giordania Dopo la Primavera Araba, i Fratelli Musulmani hanno cercato di prendere il controllo della situazione in Egitto e Tunisia. Il discorso sulla Fratellanza non può essere esaurito in poche battute, poiché le dinamiche delle sue relazioni con il palazzo sono apparse variegate. In generale, è possibile individuare tre modelli: Egitto, Palestina e Giordania. I Fratelli Musulmani nascono nel 1928 ad opera di Hasan al-Banna’. In un Egitto solo formalmente indipendente dalla Gran Bretagna, si fanno sentire spinte nazionalistiche che assumono connotazioni differenti, talora seguendo modelli occidentali, talora con un ritorno all’Islam come matrice prima di identità culturale, storica e nazionale. Proprio in questa corrente si inseriscono i Fratelli Musulmani: l’Islam è come a un principio olistico, che investe quindi tutti gli aspetti della vita del singolo e della comunità. L’islamizzazione della società è un processo che deve partire dal basso: da qui, l’azione di scolarizzazione intrapresa non solo nelle moschee, ma anche nei caffè. In un primo momento 8 • MSOI the Post
la dimensione politica dell’Islam viene messa in secondo piano, ma la situazione sia destinata a cambiare. Forti di una struttura interna ben organizzata e ramificata, i Fratelli Musulmani si presentano alle elezioni del 1942: sebbene siano scesi in politica, i Fratelli Musulmani non si sono ancora costituiti in un partito. Questa loro virtuale assenza determinerà un rapporto ambivalente col governo, che, a seconda delle necessità contingenti, ha oscillato dalla cooptazione alla messa al bando della Fratellanza. Si sviluppa un’ala più radicale, influenzata soprattutto dagli scritti di Sayyid Qutb. Il pensiero di Qutb fungerà da cardine per lo sviluppo successivo del movimento, che diverrà più radicale e critico non solo nei confronti della società occidentale, ma anche di Nasser e del suo fallimentare tentativo di socialismo arabo.
Negli anni ’90, con Mubarak, i Fratelli Musulmani scendono ancora una volta nell’arena politica, candidandosi alle elezioni e cercando di penetrare e comprendere meglio la nuova società egiziana. Alla fine degli anni ’90 si abbatte una nuova ondata di repressione, a causa della nascita di movimenti islamisti, ancor più violenti e militanti, ai quali i Fratelli Musulmani vengono accomunati. Da questo momento, sebbene abbiano assunto i tratti dell’opposizione al regime, i Fratelli Musulmani non hanno mai dimostrato chiaro appoggio
ad altri movimenti rivoluzionari. Nonostante questo atteggiamento tiepido, dopo la caduta di Mubarak nel 2011, i Fratelli Musulmani ottengono la vittoria alle elezioni del 2012 con Muhammad Mursi. Vincente si è dimostrato proprio la posizione defilata durante le proteste: la Fratellanza non ha cercato di rubare la scena ad altri movimenti con slogan islamisti, dimostrando invece appoggio agli obiettivi principali della rivolta. Eppure, nel luglio del 2013 Mursi viene deposto da un colpo di stato. Quali le cause del fallimento? La ragione principale va individuate nell’incapacità della Fratellanza di instaurare sane relazioni politiche con gli altri partiti ed esponenti politici. I Fratelli Musulmani hanno ben presto dimostrato eccessiva brama di potere, non riuscendo pertanto a confrontarsi o ad allearsi con le altre forze politiche o con l’esercito. Inoltre, non sono stati pronti ad inglobare nel governo anche gli altri blocchi rivoluzionari, voltando le spalle a un’eterogeneità che avrebbe garantito risultati importanti: hanno agito come una monade in cui venisse data più importanza alla lealtà verso i membri del movimento, piuttosto che alle capacità politiche e tecniche. Infine, il fallimento va imputato anche al tradimento degli ideali della Fratellanza: non islamizzazione della società totale e a partire dal basso, ma calcolate mosse e alleanze, unite a un sistema di governo molto occidentalizzato. Il sogno di al-Banna’ del ritorno all’Islam come principio olistico del vivere è stato dunque infranto dall’ultima guardia dei Fratelli Musulmani, che, tradendo se stessi, hanno perso la propria identità e l’Egitto.
RUSSIA E BALCANI OMICIDIO LITVINENKO: CHI HA PERMESSO TUTTO QUESTO? L’inchiesta inglese getta un’ombra sul presidente Putin
Di Giulia Bazzano
Dopo dieci anni e numerose difficoltà diplomatiche sembra essersi conclusa l’inchiesta sulla morte di Aleksandr Litvinenko. Inevitabili le ricadute sui rapporti tra Russia e Regno Unito, dove l’ex agente del KGB morì il 23 novembre 2006.
Nel rapporto compare anche un altro nome, quello di Vladimir Putin. Il coroner conclude affermando che i due agenti avrebbero agito con il “probabile” beneplacito del Presidente e dell’ex direttore dell’FSB, Nikolaj Patrushev. A portare il giudice a queste conclusioni è stata la difficile reperibilità del polonio 210: se ne può entrare in possesso solamente grazie all’accesso ad una centrale nucleare, opzione plausibile per militari, servizi segreti e individui vicini ai “‘poteri forti’”. Sebbene Owen abbia parlato di “probabilità”, queste affermazioni colpiscono il Presidente in un momento delicato per la Russia, impegnata militarmente in Siria e in un contesto di instabilità economica. Il premier David Cameron è arrivato a parlare di un “omicidio commissionato da uno Stato”.
Il rapporto di 300 pagine a cura di Sir Robert Owen, il coroner che si è occupato del caso fin dalle indagini preliminari, concorda, infatti, con le dichiarazioni fatte dallo stesso Litvinenko dopo l’avvelenamento da polonio 210. Gli esecutori materiali sarebbero Andrej Lugovoy e Dmitry Kovtun, due ex agenti segreti per i quali Mosca non ha mai concesso l’estradizione, nonostante l’insistenza delle autorità inglesi. Litvinenko aveva mostrato all’opinione pubblica l’altra faccia della Russia, denunciando corruzione e collusioni con gruppi mafiosi e mostrando i retroscena dello scontro tra i separatisti ceceni e il governo. Secondo Owen questo sarebbe stato sufficiente per costituire il movente dell’omicidio, un deterrente per tutti gli oppositori politici.
Le risposte dal Cremlino, che ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nell’omicidio, non si sono fatte attendere. Il portavoce del Presidente ha sarcasticamente parlato di “sense of humor britannico”. Più dirette le parole del ministro
degli Esteri Lavrov, che ha parlato di “caso politicizzato”. Il diretto interessato Lugovoy, oggi deputato della Duma e insignito da Putin di una medaglia d’onore, ha infine bollato le accuse come “assurde”. La Russia non ha quindi cambiato la propria posizione, nonostante da Londra arrivino già segnali concreti: il ministro degli Interni Theresa May ha convocato l’ambasciatore russo per contestare la “mancanza di cooperazione” nelle indagini da parte di Mosca e per chiedere di far luce sul ruolo dell’FSB (Servizio Controspionaggio Federale) . Il rapporto, secondo Mosca, non rende conto dei fatti, ma rispecchia pienamente le “posizioni anti-russe” inglesi, che mirano a contenere gli interessi del Cremlino considerati antagonisti a quelli occidentali. Entrambi gli Stati hanno parlato di conseguenze, ma secondo The Guardian la conclusione dell’inchiesta non porterà a nuove sanzioni. Tuttavia, il clima di tensione creatosi tra i due governi potrebbe mettere in pericolo il coordinamento della lotta al terrorismo internazionale. MSOI the Post • 9
IL RUOLO CURDO NELLA TRANSIZIONE AL MULTIPOLARISMO L’asse russo-curdo è davvero sintomo ‘Nuova Guerra Fredda’?
Di Emanuel Pietrobon
mediatico in Occidente.
Il 10 febbraio 2016 è stata aperta a Mosca la sede di rappresentanza del Kurdistan occidentale, con lo scopo di “trovare una soluzione multipartisan alla crisi siriana”. Ciò ha causato, però, un ulteriore deterioramento delle relazioni con Ankara.
Il principale attore della causa curda era, ed è ancora oggi, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, noto sotto la sigla PKK, formatosi durante la Guerra Fredda e ispirato allo spontaneismo armato marxistaleninista. Secondo Turchia, Unione Europea e Stati Uniti (ma non secondo Russia e Cina) il PKK è un’organizzazione terroristica.
Pochi giorni prima di questo evento sono iniziati i bombardamenti dell’esercito turco contro le postazioni curde in Siria impegnate nella lotta al Daesh e alle forze opposte ad Assad. Vi è poi l’eventualità che l’intervento militare turco si estenda ad azioni di terra, coordinate con le forze saudite, per detronizzare Bashar alAssad. Il Kurdistan è una regione di circa 475mila km quadrati fra Turchia, Iraq, Siria e Iran e ospita il più numeroso popolo senza nazione insieme a quello rom. Gli Stati che lo circondano, tradizionalmente in contrasto tra loro, sono accomunati dalla storica repressione dell’autonomismo curdo, perpetrata in particolar modo in Turchia. Soltanto con l’avvicinamento di Ankara all’Unione Europea tale situazione ha avuto risalto 10 • MSOI the Post
Ma l’asse russo-curdo è davvero qualcosa di ascrivibile al contesto di ‘Nuova Guerra Fredda’, di cui ha parlato pochi giorni fa, alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, Dmitrij Medvedev? Non proprio. La storia curda e quella russa si legano nel XIX secolo, quando i crescenti tentativi del Sultanato di omologare le minoranze alla realtà ottomana causano le prime rivolte nel Caucaso. Lo Zarato, nel contesto delle guerre russo-turche, foraggiò le nascenti animosità curdoarmene, col fine di indebolire il rivale dall’interno. Non è certo un fatto casuale il documentato arruolamento di curdi tra le file dell’esercito russo nel corso della Guerra di Crimea.
È solo con l’inizio del Bipolarismo e l’affermazione del PKK come movimento-guida della causa curda che si assiste al riavvicinamento con la Russia, all’epoca Unione Sovietica. Mosca, secondo il defunto Aleksandr Litvinenko, avrebbe avuto un ruolo fondamentale nel finanziamento e nell’addestramento dell‘organizzazione. Il fondatore Abdullah Ocalan è infatti sarebbe stato formato ideologicamente, militarmente addestrato e finanziato dal KGB. Le relazioni sono riprese in modo ufficiale soltanto nell’ultimo anno, con l’acuirsi della guerra civile siriana, nella quale i Curdi sono subentrati unendosi alle forze governative. Contemporaneamente, la repressione in Turchia è aumentata a dismisura: basti pensare al recente maxi-arresto di alcuni accademici dichiaratisi favorevoli ad un appeasement con i Curdi. Considerata la molteplicità di attori e interessi in gioco in Siria, potrebbe paventarsi l’inizio di una caotica era multipolare.
ORIENTE
L’AUSTRALIA E LO SPETTRO DELL’IMMIGRAZIONE
Aumentano le proteste contro i centri di detenzione nelle isole del pacifico
Di Simona Graceffa Da qualche tempo, ormai, il problema migranti non riguarda più solo gli Stati europei, ma anche l’Australia. Sebbene essa venga considerata da molti come il Paese “perfetto”, non solo a livello naturalistico ma anche a livello economico e sociale, iniziano ora a rivelarsi i suoi punti deboli. Nel 2001 l’Australia ha stretto un accordo con l’isola di Nauru in virtù del quale, in cambio di circa 20 milioni di dollari australiani da investire in sviluppo, l’isola si impegna a costruire centri di detenzione per migranti. Il report dell’organizzazione internazionale per i diritti umani Human Rights Watch condanna l’Australia. La politica del governo australiano sull’immigrazione prevede la “detenzione” nelle isole di Nauru e di Manus (Papua Nuova Guinea) degli immigrati richiedenti asilo avvistati al largo delle coste. Tale sistema sarebbe, secondo l’organizzazione, basato su “abusi”. Alla fine del 2015 anche Amnesty International ha denunciato il governo di Canberra per la detenzione dei migranti in isole distaccate e per il pagamento
degli scafisti al fine di non farli sbarcare nel Paese. Tutto ciò è documentata da un episodio avvenuto sulla frontiera marittima: gli agenti frontalieri hanno pagato l’equivalente di 29.000 euro ai trafficanti di esseri umani per cambiare rotta e dirigersi verso altri Paesi. Si ritiene peraltro che vi siano stati altri casi simili. Anche l’Alta Corte appoggia queste politiche, considerando legittimi i periodi indefiniti di detenzione, e con una sentenza ha previsto il rimpatrio nell’isola di Nauru di 267 persone, arrivate in Australia soprattutto per sottoporsi a cure mediche. Molti erano minorenni e 37 erano neonati. Ovviamente, era impossibile non immaginare quale sarebbe stata la conseguenza: una scia di proteste che sta facendo tremare l’intero Paese. Migliaia di persone sono scese nelle piazze per manifestare contro queste grosse falle nella tutela dei diritti umani. Le isole sono inaccessibili e segrete ed è addirittura previsto il carcere per chi riveli le circostanze della detenzione dei migranti. L’ingresso è vietato anche ai membri delle Nazioni
Unite e le informazioni si hanno solo tramite testimonianze. Le condizioni sono disastrose. Mentre attendono risposta per la loro richiesta di asilo, i migranti vivono ammassati in tendoni di plastica, in pessime condizioni igienico-sanitarie. Sono stati denunciati anche abusi e violenze sessuali. Per l’Australia “quello che succede a Nauru, rimane a Nauru”, ma nonostante ciò le notizie circolano e il Paese si sta mettendo in cattiva luce di fronte all’intera comunità internazionale. ONG e Nazioni Unite hanno invitato l’Australia a cambiare politica: quella portata avanti attualmente viola diverse norme internazionali. Basterebbe davvero poco per risolvere la situazione, ma, forse per i recenti attacchi terroristici, forse per la smania di mantenere l’”ordine” interno, l’Australia non cede. Il premier Malcom Turnbull si giustifica spiegando che questo è il metodo migliore per scoraggiare l’immigrazione clandestina e per evitare morie in mare di persone alla ricerca di una vita migliore verso l’Australia. MSOI the Post • 11
IL “MIRACOLO” DEL LAOS
L’espansione economica del Laos e le mire della Cina Di Gennaro Intoccia, Sezione MSOI Napoli Dopo le violente devastazioni provocate dalla sanguinosa guerra civile in Vietnam, il Laos si appresta a diventare un punto cardine nel quadrante dell’estremo oriente. Il Paese vive un decennio di straordinaria crescita economica generata dagli assidui impegni della classe politica di determinare una graduale apertura verso il mercato globale, così da evitare scompensi. Nel 2015 il reddito pro-capite si è attestato intorno ai 2.000 dollari, un valore nettamente superiore a quello registrato nel 1986 che si aggirava intorno ai 100 dollari. Passate in sordina, le ultime elezioni in seno al Partito Comunista Laotiano hanno assegnato nuove incarichi e nominato Segretario Generale l’attuale Vice-Presidente dell’esecutivo, Bounnhang Vorachith. Il Segretario avrà l’arduo compito di affrontare le nuove sfide politiche che si profilano all’orizzonte, sfruttando la prossima presidenza del Laos all’ASEAN (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico) per mettere alla prova le doti diplomatiche
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del Paese nell’intrecciare rapporti commerciali con i vigili vicini e per vedersi riconosciuti i notevoli passi avanti compiuti in campo economico. La nuova classe dirigente è maggiormente filo-cinese rispetto ai suoi predecessori e mira a tessere rapporti economici più consistenti con la Cina. In ragione dell’importanza che il Laos assume nella produzione regionale di energia idroelettrica, il Paese è entrato nell’orbita di attrazione cinese. Vientiane ha promesso a Pechino la fornitura di energia idroelettrica attraverso la costruzione di decine di dighe sul fiume Mekong, attirando le ire del Vietnam in quanto il fiume è una primaria risorsa per l’attività di pesca. La diffidenza di Hanoi verso il sodalizio tra Ventiane e Pechino, potrebbe esacerbarsi. Vietnam e Cina sono coinvolti in una controversia internazionale, in cui Hanoi rivendica l’uso economico esclusivo di porzioni di mare dove Pechino ha autorizzato la costruzione di una piattaforma petrolifera. La Cina, d’altronde, risulta primo investitore nel Laos, in special
modo nella regione meridionale, dove il capitale è prevalentemente impiegato nella progettazione ed esecuzione di grandi opere pubbliche e nella costruzione di alberghi lussuosi e ristoranti. Ora, inoltre, ha intensificato gli scambi diplomatici con il vicino Laos per rimodellare la sua strategia militare nel Pacifico. L’obiettivo è quello di accelerare l’isolamento degli Stati Uniti nel Pacifico, mutando gli equilibri di potere. Le grandi sfide che attendono il governo laotiano passano per la risoluzione di un profondo dissidio interno al Partito Comunista. Si ritiene necessario comporre la lite fra filo-cinesi e filo-vietnamiti che incarnano differenti visioni del ruolo dello Stato soprattutto in campo economico, al fine di presentare proposte politiche largamente condivise. Infine, Bounnhag Vorachith ha annunciato una poderosa offensiva contro la corruzione che ha investito illustri personaggi del panorama politico, come il Ministro delle Finanze e il Governatore della Banca Centrale. Obiettivo ritenuto necessario per potersi affermare con credibilità in uno scenario regionale non privo di tensioni.
AFRICA
GLI ABUSI DELLA MISSIONE MINUSCA 120 caschi blu impegnati in Repubblica Centrafricanaaccusati di abusi sessuali
ha annunciato la pubblicazione per febbraio di un resoconto di tutte le denunce sporte a partire dal 2015, che includerà la nazionalità dei soldati coinvolti.
di Jessica Prieto Nell’aprile del 2014 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato all’unanimità la missione MINUSCA (UN Multidimensional Integrated Stabilisation Mission), un mandato internazionale che prevedeva lo stanziamento nella Repubblica Centrafricana di 10.000 militari, tra cui 240 osservatori militari, 200 funzionari e 1.800 membri del personale di polizia. Secondo il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, l’intervento avrebbe portato “al popolo della Repubblica Centrafricana il necessario e meritato supporto in forma immediata, concreta e sostenibile”. L’intervento internazionale prevede operazioni sia nella parte occidentale del Paese, dove si lavora per rendere nuovamente attivi servizi pubblici come scuole e ospedali, sia nelle zone centrali, dove invece è ancora necessario il dispiegamento di forze di polizia per garantire la sicurezza dei civili e affrontare la crisi degli sfollati. La popolazione subisce infatti da
anni una lotta per il potere che vede contrapporsi le due fazioni dei Seleka, prevalentemente di fede musulmana, e degli Anti-Balaka, in maggioranza estremisti cristiani e animisti. Ad oggi, tuttavia, la missione MINUSCA, insieme all’azione dei peacekeeper francesi e di contingenti militari inviati dall’Unione africana, ha ottenuto risultati limitati e il Paese sta ancora vivendo una delle più gravi crisi umanitarie a livello globale. A mettere ulteriormente in discussione l’efficacia e la legittimità della missione è stato un rapporto confidenziale stilato dall’ONU. Il documento denuncia presunte violenze sessuali perpetrate da alcuni militari francesi a danno di minori in un centro per sfollati situato nell’aeroporto M’Poko, nella capitale Bangui. Altre testimonianze sono state raccolte nella città di Bambari, dove alcune ragazze hanno sostenuto di essere state costrette ad avere rapporti sessuali coi militari congolesi in cambio di generi alimentari. Ad oggi sono stati verificati 69 casi di violenza e il rappresentante del Segretario Generale Banbury
Accuse simili pesano ancora di più perché rivolte alle forze internazionali di pace dell’ONU, il cui codice di condotta vieta esplicitamente qualsiasi “atto immorale di violenza o di sfruttamento sessuale, fisico o psicologico contro la popolazione locale”. L’ONU ha perciò istituito nel giugno dell’anno scorso un’inchiesta esterna indipendente per verificare i fatti ed estirpare questo “cancro interno alla missione”. Dal 2013 diversi militari sono stati rimpatriati e il 4 febbraio è stata annunciata la sospensione di altri 120 caschi blu. Allo stesso tempo, però, una portavoce delle Nazioni Unite ha cosigliato di non lasciarsi ingannare dalla possibile strumentalizzazione di simili notizie, che spesso si diffondono proprio quando le azioni dei caschi blu entrano in contrasto con interessi politici locali. Lo stesso Ban Ki-moon chiede che questi scandali, riguardanti solo una parte del contingente, non compromettano il prezioso lavoro delle forze di pace, indispensabile per riportare la sicurezza in un Paese per troppo tempo straziato dalla guerra.
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SUD-SUDAN: UN CONFLITTO SENZA FINE Le riflessioni di chi ha “fatto campo” nel Paese
Di Francesco Tosco La cooperante Antonella Cerrano, capo progetto nella zona di Wesr-Equatoria in SudSudan della ONG italiana CUAMM - Medici con l’Africa ha conosciuto da vicino la realtà del Paese. Il Sudan del Sud è nato come Stato indipendente il 9 luglio 2011, grazie a un referendum in cui il 98% della popolazione ha votato per l’indipendenza e la scissione dal Sudan. Il referendum arrivava in seguito alla prima e alla seconda guerra civile sudanese, durate rispettivamente dal 1955 al 1972 e dal 1983 al 2005. Dopo 39 anni complessivi di guerra civile, la pace di Naivasha poneva le basi per il processo di separazione del Sud del Sudan dallo Stato centrale, istituendo anche una Costituzione provvisoria che rimase in vigore fino al referendum di sei anni dopo. Nonostante abbia ottenuto l’indipendenza, il Paese, dal dicembre del 2013, sta vivendo un nuovo conflitto. Un tentato colpo di Stato infatti ha infatti diviso il Sud-Sudan. Il presidente attuale, Salva Kiir, nel luglio del 2013 aveva sollevato dal suo incarico il vicepresidente
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Riech Machar a causa di forti contrasti. Quest’ultimo si è quindi posto a capo dei ribelli sud-sudanesi che dal 2013 si scontrano contro l’esercito regolare per il controllo del territorio. La cooperante italiana ha spiegato che il conflitto attuale si sviluppa su tre piani, formalmente distinti ma sostanzialmente dipendenti. Il primo piano è quello politico, che vede lo scontro tra il Presidente e l’ex vicepresidente. Il secondo è quello etnico e riguarda le lotte tra l’etnia Dinka e l’etnia Nuer, di cui i due leader fanno rispettivamente parte. Infine, il terzo conflitto verte sul controllo delle risorse economiche sul territorio. Lo scontro tra i ribelli e lo Stato centrale è proseguito senza esclusione di colpi fino al luglio 2015, quando, sotto l’egida della comunità internazionale, i due leader hanno siglato un trattato di pace nella capitale Juba. L’accordo prevedeva la cessazione delle ostilità, la demilitarizzazione della capitale e la formazione di un governo di transizione entro 90 giorni. Tale governo avrebbe dovuto essere rappresentativo degli equilibri etnici del Paese e portare al più presto a regolari
elezioni. A cinque mesi dalla firma dell’accordo, il governo di transizione non era ancora stato formato. L’impressione è che la firma del trattato da parte del Presidente sia stata volta a limitare le sanzioni internazionali, piuttosto che motivata da una reale volontà di conciliazione. A ottobre del 2015 il Presidente, con atto unilaterale, senza consultare l’opposizione e violando di fatto le norme costituzionali, ha suddiviso il Paese in 28 Stati anziché in 10. Questa iniziativa è stata ufficialmente giustificata come una devoluzione del potere in favore di una più solida pace etnica e tribale. Ma secondo l’opposizione e gli osservatori internazionali questa mossa non serve ad altro che a mettere sotto il controllo dell’etnia del Presidente alcune regioni in precedenza in mano all’opposizione. Il futuro del Paese è incerto, minacciato dalla fame e dalla guerra che non accenna a terminare. Decenni di conflitti hanno tenuto sotto scacco la popolazione, impedendo qualsiasi forma di sviluppo sociale, culturale ed economico.
SUD AMERICA
“IL SEGRETO” DI MAURICIO MACRI Ovvero: come riportare l’Argentina in Occidente attraverso trattati e rimborsi
Di Michelangelo Inverso In ogni telenovela che si rispetti il protagonista (o l’antagonista) ha un piano che tenta di attuare passo dopo passo. La vicenda dei “Tango Bonds”, se non fosse una questione geopolitica, ne avrebbe tutti i requisiti. In primo luogo un burrascoso passato. Com’è noto, nel 2001 il default argentino rese carta straccia i propri titoli di Stato e subì la cacciata dal mercato internazionale del credito. Successivamente, il governo Kirchner intavolò una serie di trattative per rimborsare parte dei propri debiti con circa il 70% dei propri debitori, che accettarono. Coloro che non accettarono il piano di ristrutturazione, i “fondi avvoltoi”, ricorsero al Tribunale di New York. Nel 2014 il giudice Griesa diede loro ragione. In secondo luogo un piano esplicito con espliciti risultati. Nelle ultime settimane, il neopresidente argentino ha concluso un primo accordo di rimborso con circa 50mila creditori “avvoltoi” italiani, rimborso che, secondo Il Sole 24 Ore, vale circa 1,35 miliardi di euro, circa il 150% dell’investimento originario. Non a caso, proprio in questi
giorni, il premier italiano Matteo Renzi sarà il primo capo di Stato europeo a recarsi in Argentina dopo le elezioni che hanno stravolto la politica sudamericana. Non si tratta solo una visita di cortesia: sicuramente si parlerà di futuri investimenti e del preludio ad una nuova partnership con l’UE dopo anni di gelo tra Vecchio e Nuovo Mondo. In terzo luogo un esplosivo piano “segreto”. Se fin qui la politica di Macri è abbastanza esplicita, forse non tutti sanno del MERCOSUR. Esso è un’organizzazione regionale fondata nel 1991 da Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay, il cui obiettivo era quello di sviluppare un’unione politica ed economica in Sud America fondata sul libero mercato e a trazione statunitense. Ma dopo il 2001 e la vittoria del “fronte bolivariano” in tutte le Nazioni fondatrici, il Mercosur divenne lo strumento per allontanare il Sud America dalla politica di Washington e incanalarlo su binari protezionistici e socialisti, in linea con i governi di Argentina, Brasile e Uruguay (e del Venezuela, che è entrato nell’accordo nel 2012). Contemporaneamente, i Paesi sul Pacifico del Sudamerica sviluppavano un’altra area di scambio in linea con gli USA, l’Alle-
anza del Pacifico, modellata sui principi che, a suo tempo, orientarono il Mercosur. Tale alleanza non ha conosciuto particolari intoppi negli anni, al contrario del concorrente, e recentemente è stata integrata nel TTP. Mauricio Macri ha espresso più volte il suo desiderio di integrare il Mercosur con l’Alleanza del Pacifico. È qui che scatta l’ambizioso piano di Macri: rimborsare i creditori internazionali certamente sarebbe, agli occhi dell’Occidente, un grande successo per il nuovo inquilino della Casa Rosada, ma riuscire a riportare il Sud America sotto l’ombrello di Washington sarebbe un colpo da maestro, che verrebbe sicuramente ricompensato con la riapertura dei rubinetti del credito per l’Argentina e non solo. Prima di Mauricio Macri, solo Carlos Menem era riuscito a ottenere un appoggio incondizionato per l’Argentina da parte di America ed Europa, ma si è visto come finì la festa nel 2001. Ogni telenovela che si rispetti ha tuttavia un lieto fine: i buoni vincono, i cattivi perdono. A questo punto non resta che chiedersi se Mauricio Macri sia buono o cattivo. MSOI the Post • 15
VIAGGIO ATTRAVERSO IL MESSICO Da Cuba al Messico: il viaggio di papa Francesco in Sudamerica
Di Daniele Pennavaria Papa Francesco è stato impegnato, in questi giorni, nel suo primo viaggio apostolico del 2016. Dopo una breve ma importante tappa a Cuba, dove si è incontrato con il Patriarca della Chiesa ortodossa Kirill, ha compiuto un percorso attraverso diversi Stati del Messico. La visita ha una notevole rilevanza nel contesto attuale del Paese, come si deduce dai luoghi che Bergoglio ha scelto di visitare. Primo tra questi è il Palazzo Nazionale di Città del Messico, dove finora non era mai stato ricevuto un Pontefice. Il presidente messicano Peña Nieto ha fatto tutto il possibile per sfruttare la rilevanza mediatica dell’evento, sebbene nelle passate visite apostoliche il Paese abbia sempre mantenuto una posizione distaccata, senza mostrare ostilità ma salvaguardando il suo laicismo. La scelta di destinare al Pontefice un’accoglienza diversa da quelle precedenti, con le quali lo si vedeva semplicemente nel suo ruolo di capo di Stato – ruolo che pochi governi prendono come unico riferimento – sembra essere un chiaro messaggio da parte dell’esecutivo alla maggioranza cattolica della popolazione. Dopo il ricevimento nella capitale, 16 • MSOI the Post
papa Francesco ha raggiunto alcune delle località chiave del contesto socioculturale messicano. Il viaggio nello Stato di Chiapas e la visita a Ciudad Juarez vogliono mettere in risalto alcune delle tematiche critiche e sempre attuali dello Stato centroamericano: l’integrazione delle comunità indigene e l’emigrazione verso gli Stati Uniti. Il tema della difesa della popolazione indigena e della salvaguardia della sua cultura é stato ricorrente nelle varie tappe. Per quanto riguarda l’eufemisticamente difficile rapportodifrontieratraMessicoe USA, il Papa ha voluto esortare entrambe le parti a mettere al primo posto i diritti umani, ma resta un’incognita se verrà colta l’occasione per recepire nella pratica e nella legge le ottime intenzioni. Un aspetto del percorso del Papa che è andato incontro a critiche è stata la scelta esclusiva di località governate dal Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), il partito di Peña Nieto. La strada tracciata per papa Francesco sembra voler ripercorrere i successi del PRI, toccando i problemi troppo importanti perché siano nascosti ed evitando quelli che metterebbero davvero in imbarazzo il governo centrale,
perché troppo a lungo ignorati (per esempio quelli locali). Non c’è stato dunque spazio, in questi sei giorni, per il gossip riguardo al matrimonio del Presidente messicano (accusato di aver fatto pressioni su membri influenti della Chiesa cattolica messicana per invalidare le precedenti nozze della sua consorte), o per casi molto più gravi di corruzione. Il Pontefice ha fatto rientro il 18 febbraio a Roma. Il suo viaggio apostolico è stato ricco della carica morale che caratterizza le esternazioni di Francesco I, con le denunce al sistema del narcotraffico e alle sue conseguenze e con la volontà di mettersi in prima linea, insieme ai meno fortunati. Dal punto di vista politico, le scelte sue e soprattutto dello Stato messicano si sono dimostrate in controtendenza solo per l’accoglienza dei genitori degli studenti della Scuola Normale di Ayotzinapa, scomparsi nel settembre 2014 e sul cui caso non è ancora stata fatta chiarezza. Il governo ha accettato, in conclusione, di dimostrarsi meno laico per qualche giorno, in cambio dell’appoggio di una figura che sicuramente riscuote consenso in una porzione considerevole della popolazione.
MY EXPERIENCE AT THE EU MODEL TORINO Only 31 days to EU Model Torino 2016 – Applications are open
diametrically opposite view of the issue from my own. It was a challenging task, but I think I achieved good results. During the 4-day Conference, I had the chance to debate with a remarkable number of likeminded MEPs and create a coalition opposed to the alliance of major parties. Eventually – and unfortunately –, we lost, but I am glad that the approved regulation – which included a quota system for the reallocation of asylum seekers among the Member States – proved to be not so far from the Agenda of the EU Commission drawn up some months later. By Luca Bolzanin Last year, when I was asked to participate in EU Model Torino, I was a little bit hesitant, because I did not have much experience in Model Conferences and I was lacking in knowledge of EU law. Nonetheless, having to deal with a sensitive issue as the EU immigration policy, I knew it would be a great chance to improve my personal skills in public speaking, team working, and negotiation and to further develop my identity as a European citizen.
Thanks to these lectures, I was able to deepen my knowledge of the manifold aspects of the process of FRONTEX’s marine surveillance. The simulation itself was even better! I had to impersonate a Member of the European Parliament (MEP) with a
Apart from the actual work, I feel fortunate to have met so many new, smart, and nice people, with whom I am still in touch and whom I hope to see again this year at the EU Model Torino 2016. My experience at the EU Model Torino 2015 was amazing and I am looking forward to joining it again!
The conferences of the EU Know − the learning phase of EU Model −, focused on EU borders and immigration policy, were really interesting and captivating and gave me the priceless opportunity to have a valuable confrontation with inspiring professionals from FRONTEX, professors, and researchers. Per rimanere aggiornato sulle attività di MSOI Torino, visita il sito internet www.msoitorino.org, la pagina Facebook Msoi Torino o vieni a trovarci nella Main Hall del Campus Luigi Einaudi tutti i mercoledì dalle 12 alle 16. MSOI the Post • 17
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