Msoi thePost Numero 19

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino

SPECIALE Il senso degli attacchi del Daesh all’Occidente


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Timothy Avondo, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Stefano Bozzalla, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Alessio Destefanis, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Luca Imperatore, Andrea Incao, Michelangelo Inverso, Daniela Lasagni, Andrea Mitti Ruà, Giulia Mogioni, Efrem Moiso, Silvia Peirolo, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


SPECIALE: THE KANSAN CITY SHUFFLE Il senso degli attacchi del gruppo IS all’Occidente

Di Martina Terraglia, Corrispondente dalla Giordania “Una mossa Kansas City è quando tutti guardano a destra e tu vai a sinistra” (Mr. Goodkat – Lucky Number Slevin). Effettuare una mossa Kansas City è un gioco di prestigio, è distogliere l’attenzione dal fuoco dell’azione per poterla portare a termine indisturbati e concludere lasciando tutti di stucco. Tenendo a mente questo concetto, analizziamo alcuni fatti. ATTACCHI

COMPIUTI

DA DAESH AI DANNI DELL’OCCIDENTE • 23 settembre 2014: due poliziotti vengono accoltellati a Melbourne, Australia. • 24 settembre 2014: rapimento e decapitazione di un turista francese in Algeria.

• 20 ottobre 2014: un soldato viene ucciso in Canada da un ragazzo appena arruolato da ISIS. • 22 ottobre 2014: attacco al Memorial nazionale della guerra di Ottawa (responsabilità non accertata). • 15 dicembre 2014: un uomo prende in ostaggio i clienti di una cioccolateria in Australia.

tentato di Parigi • 2 dicembre 2015: sparatoria a San Bernardino, California. • 28 dicembre 2015: un gruppo di turisti viene attaccato nel Dagestan, in Russia (responsabilità non accertata). • 22 marzo 2016: attentati di Bruxelles.

• 7 gennaio 2015: attentato di Charlie Hebdo.

Bilancio delle vittime: oltre 400.

• 5 maggio 2015: attentato suicida al Curtis Culwell Center, Texas. È

ATTACCHI COMPIUTI DA DAESH AI DANNI DI PAESI

il primo attacco agli Stati Uniti. • 22 agosto 2015: tetntato attacco a un treno lungo la tratta Amsterdam-Parigi, sventato. • 31 ottobre 2015: precipita sul Sinai il volo Metrojet 9268. • 13 novembre 2015: at-

AFRICANI, ARABI E ASIATICI • 2014: 15 attentati vengono compiuti a Baghdad e nelle zone limitrofe durante l’anno. • 20 marzo 2014: mentre ancora vengono portare avanti le operazioni di espansione e consolidamento in Iraq e le prime azioni in Siria, tre mili-

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tanti dello Stato Islamico aprono il fuoco in Turchia, nella città di Niğde (responsabilità non accertata). • 6 gennaio 2105: attentato suicida in Turchia (responsabilità non accertata). • 10 gennaio 2015: attentato suicida a Tripoli, Libano (responsabilità non accertata). • 12 gennaio 2015: rapimento di 21 Egiziani cristiani copti in Libia. La loro morte verrà confermata dalle autorità libiche il 14 febbraio.

lato Italiano al Cairo. • 17 luglio 2015: esplosione a Khan Bani Saad, Iraq . • 20 luglio: attentato suicida a Suruç, Turchia (responsabilità non accertata). • 20 agosto 2015: esplosione in Egitto, al Cairo. • 24 settembre 2015: attentato suicida alla moschea di Sana’a, Yemen. • 10 ottobre 2015: attacco ad Ankara, Turchia, durante una marcia della pace (responsabilità non accertata).

• 18 marzo 2015: attentato al Museo del Bardo, Tunisia.

• 18 ottobre 2015: due attentati suicidi a Ramadi, Iraq .

• 20 marzo 2015: attentato alla moschea di Sana’a, Yemen.

• 4 novembre 2015: attentati suicidi nel Sinai e in Bangladesh.

• 12 aprile 2015: attentato sul Sinai ad opera di un gruppo connivente.

• 12 novembre 2015: attacco suicida in Libano, a Beirut.

• 18 aprile 2015: attentato in Afghanistan.

• 13 novembre 2015: attentato suicida a Baghdad.

• 13 maggio 2015: attacco contro gruppo sciita a Karachi, Pakistan. • 22 maggio 2015: attacco alla moschea sciita di Qatif, Arabia Saudita. Intanto, un secondo attentato viene perpetrato ad Haditha, Iraq. • 30 maggio 2015: due attentati vengono portati a termine in Nigeria da Boko Haram, dichiaratosi sostenitore del sedicente Stato Islamico. • 26 giugno 2015: attacco simultaneo alla località turistica di Sousse, in Tunisia, e alla moschea sciita di Kuwait City, Kuwait. • 11 luglio 2015: un’autobomba colpisce il Conso-

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• 17-18 novembre 2015: attentato perpetrato da Boko Haram a Yola, Nigeria. • 24 novembre 2015: autobomba ad Al Arish, Egitto. In simultanea, si verifica un attacco a un minibus di guardie presidenziali in Tunisia.

co in Yemen, vengono uccisi il governatore di Aden e sei guardie del corpo. • 10-11-12 dicembre 2015: vari attacchi di Boko Haram a villaggi in Nigeria. • 28 dicembre 2015: nuovo attentato suicida di Boko Haram in Nigeria. • 1 gennaio 2016: sparatoria a Tel Aviv (responsabilità non accertata). • 2 gennaio 2016: lancio di un missile dal Sinai sulla città israeliana di Sderot. • 7 gennaio 2016: attacco al training center della polizia di Zliten, Libia. Attacco a un bus di turisti israeliani a Giza, Egitto. • 11 gennaio 2016: due attacchi in Iraq, uno nella città di Miqdadiyah e l’altro nel quartiere sciita di Baghdad. • 12 gennaio 2016: attentato suicida a Istanbul, nei pressi della Moschea Blu. • 13 gennaio 2016: attacco al Consolato Pakistano in Afghanistan. • 14 gennaio 2016: attacchi di Jakarta. • 31 gennaio 2016: attentato a Damasco. • 21 febbraio 2016: esplosioni a Damasco e Homs.

• 26 novembre 2015: sparatoria in una moschea sciita in Bangladesh.

• 25 marzo 2016: attentato in uno stadio nel villaggio di Iskanderiyah, Iraq.

• 28-29 novembre 2015: raid di Boko Haram nel Niger e in Nigeria.

Bilancio delle vittime: oltre 1.400.

• 5 dicembre 2015: attentato suicida di Boko Haram sull’isola di Koulfoua nel Lago Chad. • 6 dicembre 2015: attac-

Queste liste sono state stilate in accordo ai seguenti criteri: • Non sono stati considerati “attentati terroristici” gli


attacchi con scopo di conquista o le azioni di guerriglia vera, che farebbero salire notevolmente il bilancio delle vittime in Medio Oriente. • Gli attacchi di Boko Haram sono stati inseriti, in quanto il gruppo nigeriano ha dichiarato di essere affiliato di Daesh. Allo stesso modo, non tutti gli attacchi sono stati perpetrati da Daesh, ma spesso da gruppi ad esso affiliati. • Sono state considerate “atti di terrorismo” quelle azioni volte a fare il maggior numero possibile di vittime, a prescindere dalla loro riuscita. • Sono stati specificati i casi in cui la responsabilità degli attacchi non sia stata accertata. Negli altri casi, si tratta di azioni portate a termine dal gruppo IS, dietro sua ispirazione o da gruppi conniventi.

Nonostante gli attentati in Occidente siano numericamente inferiori rispetto a quelli perpetrati in Africa, Medio Oriente e Asia, l’opinione pubblica internazionale si è mobilitata maggiormente per i primi. Una simile discrepanza è di certo inaccettabile sul piano morale, ma può essere compresa: gli attentati negli Stati Uniti e in Europa, e in particolar modo quelli di Parigi e Bruxelles, hanno dimostrato come l’Europa non sia protetta da alcuna campana di vetro, suscitando sgomento e panico più profondi di quanto non fosse accaduto in seguito agli attentati di Madrid 2004 e Londra 2005. Dall’ondata di hashtag e discussioni online è emerso un cambiamento notevole dell’opinione pubblica, che sempre più facilmente addita Arabi e musulmani in toto come terroristi, o almeno appartenenti a una cultura di per sé totalitaria e fondamentalista. Ciò che viene dimenticato è come questo sia funzionale agli obiettivi dello Stato Islamico su

più livelli. Innanzitutto, l’attenzione attirata dagli attacchi all’Occidente permette al gruppo Stato Islamico di agire indisturbato in Medio Oriente, dove ad esempio mira a liberarsi di Hezbollah e Hamas per ottenere il controllo di Libano e Palestina. Inoltre, entra in gioco la logica del divide et impera: spingere l’opinione pubblica all’odio verso gli Arabi permette di: • destabilizzare la situazione sociale interna dei singoli Paesi, soprattutto in un momento in cui il numero di rifugiati dal Medio Oriente è destinato ad aumentare; • spingere a un’azione diretta in Siria e Iraq, dove Daesh avrebbe molte più possibilità di vittoria, laddove un attacco militare vero e proprio all’Europa sarebbe destinato al fallimento. È questo il trucco della Mossa Kansas City: stupire, gettare fumo negli occhi, e subdolamente colpire. D’altronde, “questa in particolare è in preparazione da […] anni” (Mr. Goodkat – Lucky Number Slevin).

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Intervista a Claudio Bertolotti La differenza può essere letta nella distanza tra al-Qa’ida e il cosiddetto Stato Islamico (o IS/Daesh). Una distanza che si muove sul piano ideologico e sulle finalità delle due realtà.

Claudio Bertolotti, PhD, collabora con l’ISPI dal 2014 e con ITSTIME, è analista strategico indipendente per il CeMiSS, docente di “Analisi d’area”, Subject Matter Expert per la NATO e ricercatore italiano per la “5+5 Defense Initiative” presso il CEMRES di Tunisi. Torino, 6 aprile 2016 Non è la prima volta che l’Europa è soggetta ad attacchi terroristici. I più recenti, quelli di Madrid 2004 e Londra 2005. Cosa c’è di diverso rispetto a Parigi e Bruxelles?

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Gli attacchi di Madrid e Londra, pur simili nella tipologia e nell’organizzazione a quelli di Bruxelles, erano riconducibili ad al-Qa’ida, un’organizzazione terroristica orientata al jihad globale contro il “grande Satana” - gli Stati Uniti e i loro alleati – accusati di occupare i Paesi musulmani, i luoghi sacri dell’Islam, ed essere una minaccia. Al-Qa’ida degli anni 2000 è un’evoluzione riformata del terrorismo classico, con cui però ha poco o nulla a che fare; in parte simile al terrorismo così come l’Europa lo aveva conosciuto negli anni ‘70 e ‘80, prevalentemente ideologico, portato a compimento da un’organizzazione cellulare e non strutturata su un modello organizzativo piramidale. Con i fatti di Parigi prima e di Bruxelles a marzo di quest’anno, le cose sono cambiate. IS/Daesh si è imposto come soggetto proto-statuale, grande differenza rispetto ad al-Qa’ida, con propria entità territoriale e politica, con un definito obiettivo politico – l’istituzione di un califfato islamico – e un definito

obiettivo sociale, attraverso la purificazione dell’Islam e delle terre musulmane. È un ‘Nuovo Terrorismo Insurrezionale’ (NIT – New Insurrectional Terrorism), non ha legami con quel terrorismo europeo degli anni ’70-‘80 e si pone in uno scenario di conflittualità globale - transnazionale e ‘denazionalizzata’ - attraverso definite finalità politiche: abbattimento di Stati e governi dell’area mediorientale, destabilizzazione del sistema delle Relazioni internazionali, revisione delle regole sociali, imposizione di un nuovo modello di riferimento (il califfato) e abbattimento delle alternative a esso. La natura del NIT non è di tipo unitario, bensì è dinamico e multidimensionale; e IS/Daesh è il campione di riferimento di questo nuovo fenomeno. IS/Daesh, ha così operato con propri elementi al di fuori dei confini del proprio “Stato”, andando a colpire il nemico al cuore della propria società e lo ha fatto attraverso un’imposizione di violenza, con decine e centinaia di morti e feriti, con jihadisti caduti nei combattimenti a Parigi e negli attacchi di Bruxelles, e ha portato a compimento con successo una serie di operazioni coordinate e simultanee. Ciò che è avvenuto è stato un


classico esempio di trasferimento di capacità tattica da un teatro operativo a un altro. Ma a differenza del passato, dove tecniche, tattiche e procedure venivano trasferite dall’Iraq all’Afghanistan, alla Siria o alla Libia, oggi l’evoluzione di una tecnica di combattimento maturata e collaudata nell’area del Grande o Medio Oriente si è imposta in Europa colpendo target di alto valore materiale e simbolico. Oggi, IS/Daesh, reagendo all’offensiva militare della Coalizione internazionale, della Russia e della Siria, ha spostato il campo di battaglia in Europa, attraverso un processo di internazionalizzazione e ideologizzazione del conflitto e sta creando le condizioni ideali all’interno delle quali operare attraverso il principio “azione-reazione”: la ricerca dello “scontro di civiltà”, l’Islam contro l’Occidente. Molti, guardando Daesh pensano di avere avanti un gruppo sostanzialmente disorganizzato che agisce solo utilizzando la violenza. A uno sguardo più attento, la situazione appare diversa: qual è la logica di guerra del sedicente Stato Islamico? Siamo di fronte a una ben calcolata “mossa dell’ubriaco”? IS/Daesh è tutt’altro che disorganizzato; o meglio, ha un’organizzazione minimale all’interno dei propri confini e ciò gli consente di avere il controllo del territorio, un relativo monopolio della forza, la capacità di governare alcuni milioni di persone e condurre operazioni militari. Per quanto invece riguarda le azioni portate a compimento all’esterno – in Europa, ma anche in Libia e in Tunisia – l’approccio cambia. Qui manca la capacità di coordinamento centrale, una strategia pianificata… e allora tutto viene demandato

all’iniziativa e alla capacità dei singoli, spesso formatisi con esperienze dirette in teatri operativi del Syraq oppure autodidatti attraverso il Web o soggetti europei (foreign fighters) rientrati in Europa attraverso i canali migratori, ecc... È questo un approccio relativamente nuovo per lo Stato islamico, che in parte si rifà al modello di jihad globale tipico di al-Qa’ida, caratterizzato da azioni individuali, non coordinate, che vengono rivendicate al momento della diffusione della notizia anche attraverso l’imposizione di quello che di fatto è

divenuto il premium brand del jihad contemporaneo (IS/Daesh). Con ciò, il fenomeno in esame ha saputo dimostrare una elevata capacità di adattamento, flessibilità operativa, e decentramento strategico delle operazioni al di fuori del territorio sotto il controllo del califfo al-Baghdadi. È una visione strategica ma priva di coordinamento, e questo la rende ancor più pericolosa poiché chiunque si sente investito dell’autorità di agire con violenza in nome di IS/Daesh. È possibile che gli attacchi in Europa, così spettacolari e spettacolarizzati, servano anche a distogliere l’attenzione da quanto avviene in Medio Oriente? La risposta potrebbe essere “sì”, ma solo se guardassimo dal nostro punto di vista. Dobbiamo,

invece, osservare il fenomeno dall’alto, senza lasciarci condizionare dalle emozioni. È necessario essere analitici e razionali. Gli attacchi a cui ci stiamo abituando servono ad attirare l’attenzione e lo fanno attraverso la spettacolarizzazione della violenza, che attira l’attenzione dei media e porta a una ricercata amplificazione mass-mediatica funzionale alla strategia comunicativa di IS/Daesh. Il risultato è una propaganda a costo zero poiché i risultati ottenuti galvanizzano i militanti e spingono nuovi adepti nelle braccia del califfato. Inoltre, sull’altro fronte, l’opinione pubblica occidentale che viene colpita nella propria quotidianità, chiede ai propri governi di agire in nome della sicurezza; ciò può portare a scelte politiche di limitazione di libertà per gli stessi cittadini (disposti a rinunciarvi in cambio di maggiore sicurezza, ma questo non avviene) oppure a un impegno o disimpegno militare, a seconda che il governo decida di abdicare alla violenza confidando in un allentamento della pressione (ciò che accadde in Spagna dopo gli attacchi di Madrid) oppure ancora a intervenire direttamente. Dunque, gli attacchi spettacolari in Europa non distolgono l’attenzione da ciò che avviene in Medio Oriente, ma hanno comunque effetti significativi sulla percezione della realtà poiché il pericolo appare sempre più vicino e incombente. È possibile che un altro scopo di simili attacchi sia minare la situazione sociale di Paesi che accolgono rifugiati, rendendoli più deboli? Ritengo che l’obiettivo sia il tentativo di destabilizzazione, attraverso l’istigazione alla diffidenza, il terrore,

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il disordine sociale. Le opinioni pubbliche dei Paesi che accolgono i migranti economici e i profughi, e quelli in cui è maggiore la componente di musulmani di seconda generazione, sono quelli più sensibili a questo tipo di pericolo. Ancora una volta, e non illudiamoci che sia l’ultima, il terrore ha investito casa nostra, la nostra quotidianità e i nostri simboli attraverso una serie di azioni spettacolari; una serie di episodi che confermano l’evoluzione di un fenomeno che è di tipo insurrezionale e transnazionale. In un certo senso, si potrebbe dire che l’Europa è sotto assedio, investita da una guerra senza quartiere dove la debolezza degli Stati si manifesta attraverso l’assenza di azioni di preventive e di contrasto efficaci. E il Belgio è l’esempio pratico di questa debolezza. Ciò che va compreso è che il fondamentalismo jihadista è giunto al cuore dell’Europa per colpirne i valori fondanti: la libertà,

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l’emancipazione, il progresso sociale e quello culturale. Una minaccia concreta e crescente, conseguenza del dinamismo comunicativo di IS/Daesh che va a soffiare sul diffuso disagio sociale. E il Belgio è, insieme ad altri Paesi europei, il vivaio di questo fondamentalismo latente e lasciato covare con troppa ingenua e complice incapacità, e che sta ora esplodendo, per emulazione, con un entusiasmo che deve farci rabbrividire. Quali sarebbero gli outcome di un military engagement dell’Europa? L’Europa non è pronta, né politicamente né militarmente, ma ciò non significa che non possa essere chiamata ad agire, anche attraverso lo strumento militare e l’uso della forza, in risposta di eventuali ulteriori azioni su suolo europeo. Premesso che è da escludere un coinvolgimento dell’Europa in quanto tale in un teatro operativo come quello del Syraq, è però probabile un suo formale ruolo in un prossimo intervento in Libia, dove il fenomeno IS/

Daesh, attraverso un’efficace opera di marketing e diffusione territoriale, mediante il metodo del franchising, è riuscito a far convergere istanze e gruppi locali verso il disegno strategico dello Stato islamico. Un vantaggio reciproco che passa attraverso il riconoscimento formale, benché svincolato da qualunque forma di coordinamento sostanziale. È vero dunque che un intervento militare avrebbe potenziali conseguenze sulla sicurezza dell’Europa e dei suoi cittadini; ma il non far nulla non porterebbe a un risultato di molto differente, poiché è probabile che la ricerca di attenzione mediatica da parte dei gruppi e dei singoli jihadisti che si riconoscono nello Stato Islamico – ma non da questo coordinati – possa indurre a colpire obiettivi remunerativi dal punto di vista dell’immagine, così da sfruttare i media come cassa di risonanza per la diffusione del panico. Intervista a cura di Martina Terraglia


EUROPA 7 Giorni in 300 Parole AUSTRIA Il ministro della Difesa austriaco Hans Peter Doskozil ha annunciato che, nel futuro prossimo, l’Austria “rafforzerà il controllo delle proprie frontiere mediante l’utilizzo di soldati”. Con la chiusura della rotta balcanica, a seguito degli accordi tra UE e Turchia, il Ministro prevede un aumento del flusso di migranti provenienti dal Mediterraneo centrale; nelle prossime settimane i militari verranno schierati al Brennero e presso il confine italiano. FRANCIA Panama verrà inserita da Parigi nella lista dei “Paesi non collaborativi” in seguito allo scandalo dei Panama Papers; il ministro delle finanze Michael Sapin proporrà agli altri Paesi OCSE di seguire l’esempio francese. Nello stesso periodo il Paese è rimasto bloccato a causa dell’ondata di scioperi contro la riforma del codice del lavoro, che ha provocato 650 km di code, servizi dimezzati e ritardi negli aeroporti. Infine, l’estuario della Loira è stato inondato da 380 mila litri di petrolio greggio fuoriusciti accidentalmente da una condotta sotterranea della Total presso Donges.

BREXIT, REFERENDUM IMMINENTE Quale futuro per il Regno Unito?

Di Benedetta Albano Il 23 giugno si deciderà, tramite referendum, l’uscita o meno della Gran Bretagna dall’Unione Europea. La discussione divide l’opinione pubblica: mentre sembra che la maggior parte degli inglesi si stia avviando verso il voto favorevole, è sempre più alto il numero di giovani che si dichiara contrario all’uscita. I motivi per cui gli inglesi preferirebbero uscire dall’UE sono principalmente di natura economica. Le interviste fanno emergere che i cittadini non si sentono rappresentati dalla Commissione Europea, la camera che propone la maggior parte delle leggi, ma che non è eletta direttamente. Inoltre, la crescita dell’immigrazione nel Regno Unito molti dei nuovi lavoratori sono cittadini UE - negli ultimi anni avrebbe reso le città principali (come Londra) invivibili, a causa dell’innalzamento dei prezzi e delle difficoltà a trovare un impiego. Infine, gli inglesi vorrebbero nuovamente la sovranità nazionale, che sentono lesa dall’Unione. Dall’altro lato del fronte ci sono innanzitutto i grandi banchieri e gli studi legali della City, che prevedono un’enorme crisi economica qualora la Gran Bretagna uscisse dall’Unione.

A sostegno dell’Europa anche i giovani e gli studenti, specie quelli di Students for Europe, una campagna nazionale organizzata all’interno delle università inglesi per spingere il risultato del voto verso la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione. I membri di Students for Europe sottolineano l’importanza di Bruxelles, specialmente per quanto riguarda le borse di studio e i fondi destinati alla ricerca; inoltre, mentre non negano la necessità di riformare l’Unione Europea, auspicano una riforma dall’interno, non un’uscita che cancelli gli anni di integrazione e le riforme portate avanti. La popolazione si divide dunque non solo per fasce d’età e di reddito, ma anche per zone geografiche: la Scozia e l’Irlanda del Nord sono pro-Europa (la Scozia vorrebbe addirittura proporre un secondo referendum, se si arrivasse alla Brexit), l’Inghilterra è maggiormente antieuropeista, insieme al Galles. È difficile prevedere il risultato di questo referendum, specie ora, nel pieno delle campagne volte a influenzare gli elettori: è però evidente che, qualunque sarà il risultato, l’Inghilterra dovrà affrontare delle profonde contraddizioni sociali in seno a se stessa, dato il forte coinvolgimento della società civile. MSOI the Post • 9


EUROPA GRECIA Riprendono le trattative tra la Troika e il Governo Tsipras. Le riforme previste prevedono tagli pari a 5,4 miliardi di euro nel triennio 2016-2018, ma restano ancora da definire i tagli alle pensioni, l’aumento delle tasse e le prospettive dei crediti bancari. Intanto sono cominciate, dal 4 aprile, le prime espulsioni di migranti: più di 200 persone sono state costrette a lasciare gli hotspot greci alla volta della Turchia. ISLANDA A seguito del voto di sfiducia promosso dal Parlamento e della petizione firmata da 16 mila islandesi per la sua destituzione, il primo ministro islandese Sigmundur Davi Gunnlaugsson ha dovuto abbandonare il proprio incarico. Secondo quanto rivelato dai Panama Papers, il Capo del Governo avrebbe infatti utilizzato, insieme alla moglie, una società offshore alle Isole Vergini Britanniche per eludere i controlli su un investimento di svariati milioni di dollari. OLANDA Non è passato il referendum indetto dal Governo, in seguito alla raccolta di oltre 400mila firme, riguardante la ratifica da parte del Parlamento olandese dell’accordo di associazione tra UE ed Ucraina. I voti contrari sembrano però essere più un messaggio all’Europa che sull’accordo: come espresso recentemente dal leader dell’UKIP Nigel Farage “Il rifiuto dei cittadini olandesi può trasformarsi in un grosso incentivo per i britannici a votare NO al referendum sulla Brexit”. A cura di Andrea Mitti Ruà 10 • MSOI the Post

FUGA VERSO LA LIBERTÀ Migranti in fuga dagli hotspot per paura del rimpatrio forzato

Di Simone Massarenti Dopo l’accordo siglato il 7 marzo scorso fra Turchia e Unione Europea circa il rimpatrio forzato di migranti non riconosciuti come aventi diritto all’asilo o come provenienti da zone di guerra, la situazione nell’Egeo si fa sempre più tesa. Nonostante l’azione delle forze NATO per contrastare il fenomeno del traffico di esseri umani, infatti, i flussi migratori sono continui e gli hotspot greci sono ormai al collasso. Il timore di un rimpatrio forzato, date le nuove misure adottate dall’UE, ha innalzato il livello di allarme fra i migranti, poiché Ankara non è in grado di garantire un adeguato livello di sicurezza a molti di loro (si pensi ai curdi). Questa tensione sta distruggendo non solo metaforicamente, ma anche nella realtà dei fatti, le barriere che delimitano gli hotspot greci: il 1° aprile, nel sito di Chios, diversi migranti sono fuggiti per paura di essere rimpatriati in Turchia. Come riportato dalla testata online Euronews, questi migranti “considerano un errore il rimpatrio forzato poiché la Grecia, come la Turchia, ospita un vero e proprio apparato di

contrabbando controllare”.

impossibile

da

Si calcola che sul suolo ellenico vi siano ad oggi 51mila profughi allo sbando, una minaccia anche per la sicurezza nazionale, date le difficoltà di controllare efficacemente tutto il territorio. Tuttavia, in alcuni momenti si è riusciti ad alleviare la tensione: lo scorso weekend, nell’hotspot di Atene, i giocatori della squadra dell’Olympiacos hanno portato il loro aiuto ai rifugiati. Esteban Cambiasso, ex calciatore dell’Inter attualmente nella squadra ateniese, ha dichiarato: “la situazione è terribile e molto delicata, ma l’azione volontaria di aiuto verso queste persone è importante, poiché permette ai rifugiati di soffrire meno”. Il porto del Pireo è ormai teatro di quella che sarà ricordata come una delle più grandi tragedie umanitarie, di fronte alla quale i decisori sembrano tentennare. Il 4 aprile sono iniziate le operazioni di rimpatrio dei rifugiati in Turchia e Amnesty International, da sempre al fianco dei rifugiati, si augura che ”la Turchia non effettui rimpatri in Siria”, poiché sarebbe una violazione dei diritti umani.


NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole MISSISSIPPI, RITORNO ALLA SEGREGAZIONE? STATI UNITI

Firmata dal Governatore Bryant una legge anti-LGBT

Martedì 5 aprile. Primarie nello Stato del Wisconsin. Ted Cruz e Bernie Sanders i vincitori con un vantaggio che supera il 50%. Martedì 5 aprile. Cambiamenti climatici e futuro dell’energia sono i temi discussi durante il The Future of Energy Summit di New York. “Quando parliamo del futuro dell’energia, in realtà stiamo parlando del futuro di ogni cosa”, ha dichiarato il segretario di Stato americano John Kerry, rivolgendosi alle grandi multinazionali e invitandole ad attuare una reale trasformazione energetica che comporti un minore utilizzo di combustibili fossili. Martedì 5 aprile. Secondo un sondaggio Reuters, 2/3 degli intervistati sarebbe favorevole alla tortura nel caso di accuse di terrorismo. Assumono quindi un dato statistico rilevante le recenti dichiarazioni di Trump sul tema e, in particolare, sul waterboarding. Mercoledì 6 aprile. Continua l’offensiva statunitense contro il gruppo IS. Il portavoce del Pentagono ha, infatti, dichiarato che durante un’operazione di target-killing è stato ucciso Abu Firas al-Suri, numero 1 di Jabat al-Nusra, filiale di al-Qaeda in Siria. Giovedì 7 aprile. Il segretario di Stato John Kerry incontra, in Bahrain, i sei ministri degli Esteri del Consiglio di Cooperazione degli Stati del Golfo Persico. La visita del Segretario americano è finalizzata a rendere concreti i preparativi per il vertice USAGolfo Persico, programmato

Di Alessandro Dalpasso Se venerdì 1° aprile i giornali in Mississippi avessero titolato “Volontà di ritorno alla segregazione in America”, tutti avrebbero pensato a un brutto scherzo dovuto al particolare giorno dell’anno. Invece, il 1° del mese l’organo legislativo del suddetto Stato ha messo nelle mani del Governatore Phil Bryant il Religious Liberty Accomodation Act (chiamato più comodamente HB1523), in attesa dell’approvazione e conseguente firma. Le reazioni non si sono fatte attendere né da parte della società civile né da diversi organi dello Stato: il giudice distrettuale Daniel Porter Jordan III ha infatti superato la legge che vieta alle coppie dello stesso sesso di adottare e ampliando la portata del celeberrimo “Obergefell v. Hodges” la Corte ha statuito che lo Stato non può interferire con i diritti e le responsabilità derivanti dal matrimonio, neppure in questo caso. Ciò nonostante, martedì 5 aprile Bryant ha firmato l’atto che, di conseguenza, è diventato legge a tutti gli effetti. A detta di molti la HB1523 è “la più radicale e maliziosa delle misure antiLGBT”, pensata in opposizione alla legalizzazione dei matrimoni

tra coppie omosessuali. Rappresenterebbe, quindi, “nient’altro che un tentativo di riportare in auge la segregazione negli Stati Uniti umiliando le minoranze sessuali e di genere, non facendo altro che privarle di ogni tipo di dignità nei confronti della legge” come ha dichiarato il portavoce della comunità LGBT del Mississippi. Ma qual è l’obiettivo della legge? Secondo i suoi sostenitori servirebbe a proteggere gli individui, certi tipi di business e le organizzazioni religiose che hanno delle obiezioni di tipo religioso ai matrimoni tra persone dello stesso sesso o transgender. Sul lato pratico però autorizza pratiche come la possibilità, per un proprietario di casa “religioso”, di negare l’affitto di casa sua a gay o transessuali o sfrattarli per la loro identità sessuale. Altro caso possibile: un datore di lavoro sulla sola base dell’orientamento sessuale del suo dipendente potrà licenziarlo senza nessun motivo ulteriore. In seguito alle discriminazioni, lo Stato potrebbe essere citato in giudizio. In tal caso, i diversi gradi di appello porteranno probabilmente la questione fino alla Corte Suprema che, secondo le leggi federali, dovrebbe giudicare a favore del richiedente.

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NORD AMERICA per il 21 aprile e durante il quale il presidente Barack Obama incontrerà, a Ryad, i leader dei Paesi del Golfo per discutere di cooperazione nel settore della difesa e della sicurezza. CANADA Venerdì 1 aprile. Il primo ministro canadese Trudeau incontra, per la prima volta in un bilaterale formale, durante il Nuclear Security Summit, l’omologo indiano, Narendra Modi. “I’m seeing that after you have become the Prime Minister there has been a new energy, a new dynamism in our relations”, ha dichiarato il Primo Ministro indiano. Justin Trudeau, ha successivamente confermato che si recherà presto in India, come richiesto dal leader Modi. Lunedì 4 aprile. Lo scandalo Panama Papers coinvolge la Royal Bank of Canada. Sarebbero più di 350 i canadesi menzionati nelle liste fornite al quotidiano Süddeutsche Zeitung e direttamente collegati al Mossack Fonseca. Tempestiva la risposta dell’amministratore delegato della RBC, David McKay : “It works within the law when setting up offshore accounts”. Diane Lebouthillier, ministro delle Finanze canadese, ha, tuttavia, reso noto l’immediato avvio di un’indagine. A cura di Erica Ambroggio e Alessandro Dalpasso

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NUCLEAR SECURITY SUMMIT

56 nazioni contro la minaccia terroristica nucleare

Di Alessio Destefanis Si è concluso venerdì 1° aprile, all’ombra degli attentati di Bruxelles, il Nuclear Security Summit. L’atteso vertice di Washington ha accolto oltre 50 Stati, intenzionati a confrontarsi sulla sicurezza nucleare e sul rafforzamento delle norme che ne dettano i confini. L’amministrazione Obama, ha ricordato lo stesso Presidente durante il vertice, ha da sempre cercato di evitare, per quanto più possibile, che strumenti nucleari potessero essere utilizzati con scopi di natura terroristica. Durante l’analogo summit di Praga del 2009, infatti, il presidente Obama illustrò uno specifico programma di disarmo e non proliferazione nucleare, rimarcando più volte come il rischio della minaccia terroristica nucleare fosse concreto e imminente. Di conseguenza, il leader americano richiese uno sforzo globale volto alla messa in sicurezza di tutti i materiali nucleari vulnerabili entro il termine di 4 anni, affiancando a ciò una strategia comune che ne contrastasse il commercio illegale. Durante l’incontro ai vertici appena concluso, le dichiarazioni del Presidente hanno chiaramente fatto riferimento a quanto già sostenuto nel vertice di Praga: “Ho invitato tutti i Paesi rappresentati in questo summit ad aderire a una discussione più ampia tra i rispettivi servizi di intelligence e di si-

curezza per prevenire attacchi terroristici, specialmente quelli con armi di distruzione di massa.” Con tali parole, Obama ha dunque invitato tutti i governi presenti ad una maggiore e più serrata collaborazione, che impedisca a organizzazioni terroristiche l’accesso ad armi nucleari e il loro conseguente utilizzo. I riferimenti alle possibili minacce non si sono rivolti, tuttavia, ai soli gruppi terroristi, ma anche ad attori statali. Sono, infatti, evidenti le preoccupazioni nei confronti dei pericolosi test nucleari nordcoreani. Obama, tuttavia, non ha tralasciato di menzionare i progressi già ottenuti nella lotta alla proliferazione nucleare. Lo smantellamento in più di 10 Paesi di depositi di uranio arricchito e plutonio e il potenziale positivo del negoziato concluso con l’Iran sono solo alcuni dei successi ricordati dal leader americano. Getta però ombra sul vertice di Washington l’assenza della Russia. I motivi dell’assenza russa sono riconducibili, in primo luogo, all’incremento dell’impegno USA per la sicurezza dell’Ucraina e nell’Europa dell’Est e, in secondo luogo – come riportato dal portavoce del Cremlino – allo scarso coinvolgimento riservato alla Russia nei lavori preparatori del summit.


MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole SIRIA Martedì 5 aprile un jet Sukhoi-22 appartenente all’arsenale del regime è stato abbattuto a sud di Aleppo da un gruppo di ribelli appartenenti con molta probabilità al fronte Al-Nusra. Tale attacco diretto metterebbe ufficialmente fine al cessate il fuoco previsto tra i gruppi di opposizione e il governo. Nella città di Aleppo numerose fazioni stanno attualmente tentando di conquistare più quartieri possibile; al nord i gruppi di opposizione stanno cercando di resistere alle milizie del gruppo Stato Islamico. LIBIA Uno dei tre governi libici, autoproclamatosi “Salvezza Nazionale” e con base a Tripoli, ha ritrattato le proposizioni ufficializzate due giorni fa sul sostegno al governo di Fayez Serraj, a sua volta appoggiato dalle Nazioni Unite. “La nazione deve essere salvaguardata dalla frammentazione e dalle divisioni [...] Metteremo l’interesse dello Stato prima di qualsiasi altra cosa” si leggeva nel comunicato stampa. Ancora un governo autoproclamato, con sede a Tobruk, si oppone fermamente al nuovo organo governativo. Serraj, arrivato a Tripoli via mare poco più di una settimana fa, conta sull’appoggio degli alleati occidentali per riunificare la Libia e sconfiggere le fazioni dello Stato Islamico che hanno già conquistato la città di Bengasi. EGITTO Nella giornata di Giovedì 7 aprile un vertice tra gli investigatori italiani ed egiziani è iniziato a Roma al fine di chiarire definitivamente le dinamiche dell’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni.

UNA VITTORIA SIMBOLICA

La conquista dell’antica città di Palmira da parte delle forze governative siriane. Un altro risultato concreto, in ambito negoziale, è il fatto che ormai in Siria sembra impensabile un governo di transizione senza Assad.

Di Jean-Marie Reure La riconquista dell’antica città di Palmira da parte dell’esercito regolare siriano è stata accolta con grande entusiasmo, se non vero e proprio giubilo, da parte dell’opinione pubblica occidentale. La “schiacciante vittoria” che ha permesso di estirpare le odiate bandiere nere dai muri degli antichi e “martoriatissimi” resti è stata quindi accolta con un “sospiro di sollievo”. L’Europa in particolare aveva un esiziale bisogno di risultati in una guerra che, sino ad ora, dopo Parigi e Bruxelles, si è dimostrata sempre più costosa in termini di vite e consensi politici. La vittoria delle forze governative, appoggiate dai bombardamenti russi, non solo pare sancire i risultati della conferenza di Ginevra ma conferma anche la Russia nel suo ruolo di alleato chiave. L’intervento militare di Putin, che non avrebbe dovuto prolungarsi oltre i 3 mesi, era infatti già arrivato a 6, con ingenti costi e nessun risultato concreto. Ora c’è Palmira e una quantomeno parziale smobilitazione delle truppe è possibile.

Se il valore simbolico di questa battaglia è evidente, tuttavia lo sono meno i concreti risultati di una guerra contro Daesh che ormai si protrae da lungo tempo. Usata come avamposto dai miliziani, la città era sostanzialmente deserta e di fatto i combattimenti sono stati di scarsa intensità: i seguaci di Al Baghdadi, infatti, si sono ritirati piuttosto velocemente, senza opporre grande resistenza. Inoltre, la furia iconoclasta dell’ISIS, secondo il direttore delle antichità siriane Maamoun Abdulkarim, ha comunque lasciato più dell’80% dei reperti intatti, il che dimostra come la distruzione dei reperti, assai pubblicizzata anche dal sedicente califfato, fosse più un’operazione mediatica che non un sistematico piano di eradicamento delle antiche vestigia. Potrebbe essere presto, dunque, per parlare di vittoria, come ha fatto il presidente Assad, e potrebbe perfino essere presto per compiacersi dei risultati ottenuti. La strada per Raqqa, presumibilmente il prossimo obiettivo delle truppe governative, è ancora lunga e i combattimenti più feroci sono ancora a venire. Palmira dunque rimane per ora il segno di una volontà di reagire a cui dovrebbero seguire altri e ben più importanti risultati affinché si possa parlare di una sconfitta di Daesh.

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MEDIO ORIENTE Lo Stato Italiano chiede alle autorità egiziane di fare luce su alcuni video riguardanti gli ultimi momenti di vita, i dati raccolti dalle celle telefoniche dei luoghi frequentati dal ragazzo, una copia del verbale di ritrovamento del cadavere e una chiara spiegazione sull’interesse delle autorità verso Regeni, soprattutto riguardo ad alcuni suoi incontri con il sindacato degli ambulanti.

YEMEN Giovedì 7 aprile l’organizzazione Human Rights Watch ha dichiarato, dopo un’attenta investigazione sul posto, che le due bombe esplose in un attacco Saudita il 15 marzo nel mercato di Mastaba erano state fornite dagli Stati Uniti d’America. I due attacchi avevano causato oltre 90 vittime, di cui 25 bambini. L’accusa è arrivata in contemporanea all’arrivo del segretario di Stato John Kerry per una visita agli alleati del Golfo; uno di questi, l’Arabia Saudita, ha portato avanti diversi raid aerei nei confronti delle popolazioni Houthi dal marzo 2015. A cura di Samantha Scarpa

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IL GOVERNO SBARCA A TRIPOLI

Serraj ottiene consensi e cerca stabilità per la Libia

Di Martina Scarnato Il 30 marzo il governo di unità nazionale, presieduto dal premier designato dall’ONU Fayez al-Serraj, è riuscito a sbarcare sulle coste libiche, ma per motivi di sicurezza si è dovuto insediare in una base navale poco distante da Tripoli. Allo sbarco sono seguiti scontri e tensioni tra diverse fazioni contrarie al nuovo governo. L’autoproclamato premier di Tripoli, il filo-islamista Khalifa Ghwell, tornato a Misurata dopo lo sbarco, avrebbe affermato che Serraj “ha due opzioni: consegnarsi alle autorità o tornare a Tunisi”, poiché il suo governo è “imposto dall’esterno e non voluto dai libici”. Anche Aguila Saleh, presidente della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, parte dunque dell’unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale, aveva affermato che prima di cominciare a governare effettivamente Serraj “avrebbe dovuto aspettare di avere la fiducia del Parlamento”. L’Unione Europea ha voluto far sentire tutto il suo appoggio al governo di unità nazionale applicando delle sanzioni nei confronti di Ghwell, del presidente del Congresso Abu Sahmain e di Aguila Saleh. Intanto, il governo Serraj ha cominciato a guadagnare consensi anche all’interno.

Secondo le stime, almeno 9 milizie su 10 lo appoggiano, così come almeno 23 città dell’ovest, tra cui Tripoli. Inoltre, altre 13 municipalità del sud hanno dichiarato il loro appoggio , invitando però ad “operare con urgenza”, per poter garantire la sicurezza alle frontiere, soddisfare i bisogni essenziali dei cittadini e porre fine agli scontri armati nel Paese. Anche la Compagnia petrolifera nazionale libica (NOC) e la PFG (Guardia degli Impianti Petroliferi) hanno affermato di voler collaborare con il nuovo governo. In effetti, sono diverse le sfide che il governo Serraj dovrà affrontare. La principale sarà costituire un governo unico dotato di effettività e riconoscimento (e non un “terzo polo” di potere), per poi poter condurre i negoziati con la parte orientale del Paese e metter fine alla divisione interna. Inoltre, secondo l’analista Mattia Toaldo, “la priorità di Serraj sarà controllare Tripoli e soprattutto le istituzioni economiche, a partire dalla Banca Centrale e dalla Società del Petrolio”. Tutto questo dovrebbe avvenire in breve tempo, poiché il rischio che il Daesh possa trarre vantaggio dall’instabilità è più che mai evidente. La strada verso la stabilità della Libia è appena cominciata.


RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole MACEDONIA La polizia macedone è stata accusata di tortura nei confronti dell’ex candidato presidente ed ex vicedirettore dei servizi segreti Ljube Boskoski. Inoltre, le forze dell’ordine sono state accusate di aver fatto scomparire delle intercettazioni chiave. Boskoski era stato arrestato nel 2011 per finanziamenti illeciti al suo partito, ma secondo molti le motivazioni del suo arresto erano prettamente politiche. NAGORNO- KARABAKH Il 5 aprile è arrivata una nuova tregua nel conflitto tra Armenia e Azerbaigian. I due Paesi hanno affermato che un documento per il “cessate il fuoco” è in preparazione. Tra il 4 e il 5 aprile hanno perso la vita circa 70 soldati armeni, mentre tra le forze governative di Baku si contano almeno 31 morti. La tensione aveva raggiunto il culmine sabato, con l’abbattimento di un elicottero azero. Il 6 aprile a Vienna si è tenuto un incontro sul Nagorno Karabakh, copresieduto da Francia, Stati Uniti e Russia.

RUSSIA La cooperazione tra Stati Uniti e Russia per il disarmo nucleare sembra giunta al termine. “Con l’attuazione del trattato START, le possibilità di riduzione degli arsenali nucleari a livello bilaterale con gli USA sono terminate”, ha dichiarato la portavoce del ministero degli Esteri.

KOSOVO EUROPEO

1° aprile 2016: entra in vigore l’Accordo di Stabilizzazione e di Associazione

Di Giulia Andreose L’Accordo di Stabilizzazione e di Associazione tra UE E Kosovo, negoziato tra l’ottobre 2013 e il maggio 2014, è stato concluso formalmente il 12 febbraio 2016 da Federica Mogherini, alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Johannes Hahn, commissario per la politica europea di vicinato e negoziati di allargamento, dal primo ministro kosovaro Isa Mustafa e da Bekim Çollaku, ministro kosovaro per l’integrazione europea e capo negoziatore. Il 1° aprile 2016 è entrato ufficialmente in vigore. Gli accordi di stabilizzazione ed associazione sono accordi bilaterali tra i Paesi richiedenti l’adesione e l’Unione, attinenti questioni politiche, economiche, commerciali o relative ai diritti umani. Con tali accordi, i Paesi richiedenti si impegnano ad adottare, nelle loro legislazioni interne, le riforme necessarie a conformare i propri ordinamenti all’acquis comunitario. Tale procedura non può avere una durata superiore a due anni. L’entrata in vigore dell’accor-

do istituisce un rapporto contrattuale che implica diritti ed obblighi reciproci e contempla un’ampia gamma di settori. In particolare, l’ASA si concentra sul rispetto dei principi democratici fondamentali e degli elementi essenziali che stanno alla base del mercato unico UE. Gli obiettivi principali per il Kosovo sono 3: l’adempimento dei criteri politici per creare un proprio Stato, il compimento delle riforme economiche che garantiranno l’integrazione del mercato kosovaro nella UE e, infine, l’attuazione di tutte le norme dell’Unione. Particolarità dell’ASA del Kosovo è quanto contenuto all’articolo 2: nessuno dei termini, né la definizione della convenzione né quella dei suoi allegati, costituisce il riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente. L’ASA non garantisce l’adesione né può obbligare gli Stati dell’Unione Europea a mantenere l’adesione del Kosovo nella loro agenda perché ancora 5 Paesi membri non ne riconoscono l’indipendenza. L’Unione Europea sosterrà i progressi del Kosovo attraverso la politica di stabilizzazione e di associazione messa a punto per promuovere la cooperazione coi paesi dei Balcani Occidentali e la cooperazione regionale. Al fine di sostenere le riforme necessarie, l’UE mette a disposizione dei Balcani Occidentali e della Turchia l’assistenza preadesione, per un importo pari a 11,7 miliardi di euro nel periodo 2014-2020, di cui 645,5 milioni destinati al Kosovo.

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RUSSIA E BALCANI Ora, l’obiettivo russo è far entrare nel processo di disarmo anche tutti gli altri Stati che possiedono armi atomiche, soprattutto i membri NATO alleati di Washington. Nel documento Panama Papers compare anche il nome di Vladimir Putin. Stando alle carte della società “Mossak Fonseca”, il premier russo sarebbe in possesso di una vasta rete di conti off-shore. Il capo della Commissione per la sicurezza e la lotta alla corruzione della Duma, Irina Yarovaya, ha definito queste rivelazioni “attacchi mediatici” nei confronti della leadership e del popolo russo.

UCRAINA La 28esima approvazione per l’accordo Unione Europea-Ucraina non è arrivata. I Paesi Bassi, che avevano richiesto di sottoporre la ratifica a decisione popolare, hanno espresso chiaramente la loro contrarietà con il 62 % dei “no”. Il referendum ha natura puramente consultiva e non è vincolante per l’accordo (entrato in vigore il 1 gennaio), ma tuttavia rappresenta una presa di posizione nei confronti di Kiev. Il presidente ucraino Petro Poroshenko ha ribadito che il Paese “continuerà il suo movimento verso l’UE”. A cura di Giulia Bazzano

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CAUCASO: IL NAGORNO-KARABAKH SI RIACCENDE Ancora scontri per l’enclave armena in Azerbaijan

rivendicandone l’indipendenza dall’Azerbaijan. Nonostante quest’enclave territoriale non sia mai stata riconosciuta ufficialmente , il Nagorno-Karabakh divenne così un terreno di scontri per il controllo dell’area che, solo nel conflitto combattuto tra il 1992 e il 1994, fece registrare 30.000 morti e milioni di profughi. Di Lorenzo Bardia Si riaccende la tensione per l’enclave territoriale del Nagorno-Karabakh. Sebbene un bilancio ufficiale sia ancora difficile da stilare, era dal 1994 che non si registravano scontri così violenti in questa regione dell’Azerbaijan, da decenni contesa da una minoranza secessionista armena. Secondo fonti locali, vi sarebbero diverse decine di morti tra i soldati delle due forze ed un elicottero azero sarebbe stato abbattuto. Il Nagorno-Karabakh è un’enclave territoriale dell’Azerbaijan. Regione montagnosa e strategica in tema di risorse naturali e posizione, essa è caratterizzata da una grande presenza di cristiani armeni, mentre la popolazione azera di fede musulmana è in minoranza (nel Paese le proporzioni sono opposte). Le divisioni interne alla popolazione emersero in maniera evidente già con il crollo dell’URSS. Gli armeni del Nagorno-Karabakh nel dicembre del 1991 votarono per l’indipendenza del territorio e, poiché la minoranza azera disertò per protesta il referendum, vinsero e si dichiararono Repubblica presidenziale,

La guerra terminò con una tregua piuttosto precaria che lasciò ampio spazio di influenza alla Russia, alleata di Erevan, e negli anni successivi ad altri scontri e ad altre tregue instabili. Ad oggi, parte del territorio dell’Azerbaijan, come il Nagorno-Karabakh e altre regioni limitrofe, è sotto il controllo delle forze militari armene e la situazione di crisi non sembra volgere verso una fine. L’invito ad evitare l’escalation è arrivato da tutta la comunità internazionale: il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, esortando al rispetto del cessate il fuoco, si è detto “particolarmente allarmato dal riferito uso di armi pesanti e dall’alto numero di vittime, tra cui civili”. Invito a stemperare la situazione di crisi è giunto anche da Washington, con il lavoro diplomatico del segretario di Stato Kerry, e da Mosca, che da sempre gioca un ruolo chiave negli interessi del Caucaso. La Turchia sostiene le ragioni di Baku. Erdogan, infatti, si è dichiarato convinto che il territorio conteso “un giorno tornerà certamente al suo padrone legittimo, l’Azerbaigian”. Intanto, la crisi continua.


ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole C I N A Anche la Cina è coinvolta nello scandalo Panama Papers, l’inchiesta sui conti segreti offshore pubblicata domenica scorsa dall’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) di Washington. Tra i nomi coinvolti risultano quelli di alcuni membri del Comitato Centrale, l’organo che controlla il Partito Comunista, e di un famigliare del presidente Xi Jinping. Sul Web, il governo cinese ha oscurato l’accesso al sito dell’organo che ha pubblicato la documentazione, così come oscurato è qualsiasi risultato di ricerca relativo alla parola chiave Panama Papers. È stato, inoltre, emesso un ordine di censura affinché, sulla stampa, ogni riferimento allo scandalo finanziario venga taciuto. V I E T N A M 7 aprile 2016. È stato eletto dal Parlamento vietnamita il primo ministro Nguyen Xuan Phuc: un’elezione formale, dal momento che era già stato scelto nel gennaio scorso come prossimo capo del governo.

LA “RIFORMA COSTITUZIOANALE” DI SHINZO ABE Entrano in vigore i Security Bills, le leggi in materia di difesa militare

Di Gennaro Intoccia, Sezione MSOI Napoli Quando gli alleati, al termine del conflitto mondiale, occuparono Tokyo, instaurarono il Quartier Generale delle Forze Alleate, che sotto il generale Mc Arthur, comandante supremo delle Forze Alleate, diresse il governo giapponese per mezzo di comandi e direttive. Nel 1946 l’intera Costituzione giapponese fu emendata e con l’Articolo 9, che interdiceva l’uso della forza come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, il Giappone restò privato di un esercito e del diritto sovrano alla guerra, fosse essa di offesa o di difesa.

Con il 90% dei voti dell’Assemblea nazionale, egli è ora alla guida del Paese con il segretario generale del Partito Comunista Nguyen Phu Trong e il presidente Tran Dai Quang, eletti la scorsa settimana.

Il 29 marzo 2016 sono entrate in vigore le disposizioni, approvate l’anno scorso dalla Dieta Nazionale del Giappone, volte a regolare le politiche di intervento armato della nona potenza militare mondiale. Per effetto della riforma, le Forze di Autodifesa Nazionale giapponesi potranno ora soccorrere un Paese alleato che versi in conclamate condizioni di difficoltà in un conflitto all’estero.

M Y A N M A R Il 6 aprile il neoeletto presidente birmano Htin Kyaw e il ministro degli Esteri Aung San Suu Kyi hanno ricevuto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, in quella

L’iter di approvazione della riforma ha suscitato vive proteste, soprattutto in seno al Partito Democratico, che attraverso i suoi portavoce ha rimproverato al premier Shinzo Abe di voler derogare alla Costituzione per

via interpretativa, svuotando di ogni contenuto precettivo l’Articolo 9. L’applicazione delle leggi di autodifesa collettiva è comunque sottoposta ad una serie di stringenti condizioni: che venga attaccato un Paese alleato, che il pericolo minacci la sicurezza nazionale e che l’uso della forza, pur limitata al minimo necessario, rappresenti l’unica maniera possibile di rispondere all’attacco. Un’associazione composta da oltre 400 avvocati ha depositato una petizione presso la Corte Distrettuale di Tokyo, con l’intento di contestare la legittimità costituzionale dei cosiddetti Security Bills. L’iniziativa legale rispecchia gli umori e le riserve di una parte consistente dell’opinione pubblica giapponese, che rifugge ogni svolta in chiave militarista del proprio Paese. Shinzo Abe non sembra però preoccupato dalle polemiche che animano il dibattito politico. Il Premier ha autorizzato l’apertura, il 4 marzo, di una stazione radar nel Mar Cinese del Sud, in prossimità di Taiwan. Una simile decisione sembrerebbe coincidere perfettamente con il disegno politico del Primo Ministro nipponico, che aspira a mettere in pratica una politica estera più “muscolare” nei confronti della Cina. MSOI the Post • 17


ORIENTE che è stata per lo Stato birmano la prima e visita ufficial dall’elezione del nuovo Governo. Durante l’incontro è stato confermato il rapporto di alleanza e cooperazione che vige tra i due Paesi, oltre alla volontà di proseguirlo nel tempo. Anche il ministro degli Esteri Gentiloni si è recato in visita in Myanmar, dove ha firmato con il presidente un accordo bilaterale di cooperazione culturale, scientifica e tecnologica volto a contribuire alla valorizzazione del patrimonio culturale birmano e allo sviluppo del settore turistico nel Paese. B A N G L A D E S H Lo scorso 25 febbraio era stato emesso un mandato d’arresto nei confronti di Khaled Zia, ex primo ministro e ora leader del Partito Nazionalista all’opposizione, con le accuse di appropriazione indebita di fondi e corruzione. La leader, che era agli arresti domiciliari, è stata rilasciata su cauzione martedì 5, cauzione riscattata da un tribunale speciale di Dhaka. Il rilascio è un segnale di distensione per la situazione del Paese, dove negli ultimi mesi i frequenti scontri tra le forze di polizia del governo e i sostenitori dell’opposizione hanno provocato numerosi feriti tra i civili. A cura di Carolina Quaranta

PROCESSO A KHALEDA ZIA La leader dell’opposizione in Bangladesh riconosciuta colpevole dell’attentato del 2015. tuttavia, si è offuscato negli anni, prima a causa delle accuse di corruzione, per le quali è stata rinviata a giudizio nel 2014, e poi per via delle accuse di coinvolgimento nelle manifestazioni sovversive degli scorsi mesi.

Di Giulia Tempo La leader del Partito Nazionalista del Bangladesh (BNP) Khaleda Zia, insieme ad altre 27 persone, ha ricevuto il 30 marzo scorso un mandato d’arresto per complicità nell’attentato avvenuto a Dacca del febbraio 2015: l’esplosione di una bomba uccise due persone e ne ferì 30. L’attacco mirava a causare uno sciopero dei trasporti in grado di paralizzare la città e faceva parte di una serie di episodi di violenza politica rivolti contro il governo di Sheikh Hasina. Zia, primo ministro del Bangladesh tra il 1991 e il 1996 e nuovamente tra il 2001 e il 2006, è ad oggi la principale esponente dell’opposizione parlamentare. La vita politica del Bangladesh è stata per anni teatro di rivalità tra lei e la premier attuale, entrambe legate a precedenti esponenti politici del Paese. Tra il 2004 e il 2006 la rivista statunitense Forbes collocò Zia tra le 100 donne più potenti al mondo, in virtù della carica ricoperta e del grande credito riscosso tra i sostenitori. Il prestigio di Zia,

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La premier Hasina ha sostenuto la responsabilità del BNP per le esplosioni incorse nel culmine delle manifestazioni antigovernative. Secondo il primo ministro, inoltre, l’opposizione avrebbe avuto il supporto dell’organizzazione politica islamista Jamaat-e-Islami, che in Bangladesh aveva assunto una configurazione partitica, finché la Corte Suprema non l’ha esclusa dalle elezioni del 2013. In seguito alla stesura del mandato da parte della corte giudiziaria di Dacca, il BNP ha indetto un movimento di protesta, attribuendo le accuse all’astio politico, sull’onda delle affermazioni della stessa Khaleda Zia. Il 5 aprile, come preannunciato dall’avvocato Sanaullah Miah, la leader del BNP si è presentata di fronte al tribunale di Dacca, dichiarandosi nuovamente innocente. Il giudice Kamrul Hossain Mollah, tuttavia, l’ha riconosciuta colpevole. Il Pubblico Ministero ha dichiarato ai giornalisti che, considerate le condizioni fisiche e l’età avanzata, sarà concesso alla condannata il rilascio dietro cauzione. Khaleda Zia non si è espressa pubblicamente in relazione al verdetto.


AFRICA 7 Giorni in 300 Parole NIGERIA

L’INFERNO DEL SUD SUDAN Dopo la guerra civile del 2013: emergenza sicurezza e crisi umanitaria

1 aprile 2016. Un militante di Boko Haram smentisce con un video la resa di Abubakar Shekau, leader del gruppo terroristico: “Non c’è tregua, non ci sono negoziati, non deponiamo le armi”. 3 aprile 2016. Durante un blitz dei militari nigeriani a Lokoja, è stato arrestato Khalid al-Barnawi, leader di Ansaru, gruppo terroristico in contrapposizione con Boko Haram. al-Barnawi nel 2011 uccise l’italiano Franco Lamolinara e due anni dopo Silvano Trevisan. KENYA 2 aprile 2016. Maratona di commemorazione, a Garissa, in ricordo delle 148 vittime dell’attentato terroristico del gruppo al-Shabaab avvenuto il 2 aprile 2015 presso lo University College. TANZANIA 1 aprile 2016. Un deputato della Commissione Parlamentare per gli Investimenti e 3 deputati del Comitato per i Conti degli Enti Locali, sono stati accusati di corruzione per aver chiesto tangenti alla Tanzania Electricity Supply Company Limited. REPUBBLICA DEL CONGO 4 aprile 2016. Nella capitale del Paese, Brazzaville, c’è stato uno conflitto a fuoco tra le forze armate e i miliziani Ninjas che hanno l’obiettivo di abbattere il regime del presidente Denis Sassou Nguesso. Alcuni civili si sono uniti alla guerriglia e il Presidente ha dato ordine all’esercito e alla polizia di

Di Jessica Prieto A 6 anni dalla fine della guerra civile tra il nord musulmano e il sud a maggioranza cristiana, il Sud Sudan si è costituito come Stato indipendente tramite il referendum tenutosi tra il 9 e il 15 gennaio 2011. L’annuncio della sua definitiva secessione è avvenuto il 9 luglio dello stesso anno. Da quel momento, quindi, il Sudan si è diviso in Repubblica del Sudan (detto anche Sudan del Nord) e Sud Sudan. Nonostante quest’atto sia stato riconosciuto da entrambe le parti, la guerra tra nord e sud continua. La principale ragione alla base di tale conflitto è la gestione degli approvvigionamenti petroliferi. Dall’indipendenza del Sud Sudan, infatti, ci sono stati diversi scontri tra i due Paesi per il controllo di aree petrolifere strategiche. Il Sud Sudan possiede l’80% delle riserve petrolifere, ma allo stesso tempo non dispone delle strutture necessarie alla commercializzazione del petrolio. Per questo motivo, il greggio viene convogliato da oleodotti nelle raffinerie del Sudan del Nord e, in assenza di un accordo tra i due Paesi, spesso il Sud ha dovuto rinunciare agli introiti derivanti dalle esportazioni petrolifere, danneggiando ulteriormente l’economia nazionale.

Oltre a questo, il Paese è afflitto da lotte intestine legate alla contrapposizione tra l’attuale presidente Salva Kiir, in carica dal 2011, e l’ex-vicepresidente Riek Machar, contrapposizione che coinvolge anche le loro rispettive etnie: i Dinka e i Nuer. Machar è stato allontanato dal governo nel 2013, accusato di aver complottato contro il Presidente. Gli ultimi dati trasmessi dall’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (OHCHR) non sono equivocabili: dal 2013 sono continuate le violenze sessuali, gli omicidi e i saccheggi, perpetrati sia dalle forze ribelli che sostengono Machar sia dall’esercito governativo. In particolare, si sottolinea come le truppe governative, nel tentativo di riconquistare territori caduti nelle mani delle forze ribelli, abbiano fatto ricorso alla “politica della terra bruciata”, eliminando la popolazione civile senza alcuno scrupolo. I rapporti del Centro Regionale ONU di Informazioni indicano come la crisi del Sud Sudan sia ben lontana da una possibile soluzione. Inoltre, secondo gli ultimi annunci di FAO e UNICEF, il Paese dovrà affrontare una delle più gravi crisi alimentari degli ultimi anni. MSOI the Post • 19


AFRICA sedare le rivolte. Le fonti governative hanno annunciato che la situazione è monitorata e hanno dichiarato responsabile dell’accaduto l’ex leader della milizia Frédéric Bintsamou. MALI 4 aprile 2016. Il governo del Mali ha ripristinato lo stato d’emergenza per mantenere la sicurezza del Paese, minacciata da un gruppo terroristico jihadista. Questa misura è stata presa in via cautelare e rimarrà in vigore per 10 giorni. E’ la terza volta in 6 mesi che il governo ha dichiarato lo stato d’emergenza per il medesimo motivo. REPUBBLICA CENTRAFRICANA 5 aprile 2016. Il procuratore di Parigi ha aperto un’inchiesta dopo l’accusa delle Nazione Unite riguardo a sospetti abusi sessuali avvenuti a Dekoa da parte di forze armate francesi tra il 2013 e il 2015. L’ONU avrebbe presentato un documento approfondito specificando il numero delle vittime, l’età di queste (molte minorenni) e il numero dei soldati francesi coinvolti. SUDAFRICA 6 aprile 2016. Il Presidente Sudafricano Jacob Zuma, condannato dalla Corte Suprema per aver utilizzato soldi pubblici per ristrutturare la sua villa, ha dichiarato che rispetterà la sentenza e risarcirà il dovuto. Il Parlamento sudafricano ha votato contro il suo impeachment.

A cura di Chiara Zaghi

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L’AFRICA E IL MONDO, PARTE PRIMA La Cina scopre il continente nero

Di Fabio Tumminello Lo scorso dicembre, a Johannesburg, si è tenuto il FOCAC, il Forum sulla Cooperazione Sino-Africana; protagonisti assoluti dell’incontro sono stati Jacob Zouma, il capo di Stato sud-africano, e Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese. Al termine della conferenza, il leader asiatico ha annunciato un piano per investimenti nello sviluppo del continente africano da 60 miliardi di yuan. Il FOCAC rappresenta solo l’ultimo passo di una già assodata collaborazione tra il continente africano e la Cina, iniziata negli anni ‘60 e, dopo una fase di flessione, tornata a rinsaldarsi all’inizio del XXI secolo. Gli investimenti cinesi si rivolgono soprattutto a Paesi come Sud Africa, Nigeria e Angola, ricchi di materie prime e risorse da esportare, in particolare petrolio e materiali ferrosi utili nell’edilizia civile. Nonostante il volume degli scambi sia quasi decuplicato in meno di vent’anni (tanto da rendere la Cina il principale partner commerciale del continente, superando UE e USA), il governo di Xi Jinping pare non volersi fermare qui. L’investimento promesso al termine del FOCAC non è solamente commerciale. Infatti, gran parte dei 60 miliardi annunciati andranno a finanziare la costruzione di infrastrutture ed edifici pubblici, sostenendo aziende locali private e statali. La decisione del governo cine-

se è motivata da una strategia politica e commerciale lungimirante: stabilizzando la situazione interna – anche attraverso una cooperazione militare sempre più stretta – e garantendo servizi e supporto logistico, la produttività e la quantità di materie prime estratte aumenterà, espandendo, di conseguenza, il volume degli scambi tra Cina ed Africa. È un investimento sul futuro dell’Africa stessa. Xi Jinping si è inoltre dimostrato attento alla questione umanitaria, stanziando più di 150 milioni di dollari per sostenere gli abitanti delle campagne a rischio carestia dopo il passaggio del ciclone El Nino. Questa solida collaborazione rischia però di collassare a causa di alcune contingenze storiche ed economiche sfavorevoli. Il crollo dei prezzi delle materie prime e del petrolio ha diminuito (e, nei peggiori casi, dimezzato) il potere d’acquisto dei Paesi africani, che ora non riescono più a sostenere la domanda di risorse della Repubblica cinese. Lo spettro di una nuova e devastante bolla immobiliare sta, inoltre, rallentando la crescita economica cinese e, nel giro di pochi mesi, la domanda di materie prime è crollata; ciò ha portato anche ad un taglio netto degli investimenti da parte del governo di Pechino. Molti osservatori sono però più moderati: non siamo di fronte a una crisi vera e propria, quanto piuttosto a un forte ridimensionamento delle relazioni tra Africa e Cina.


SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole ARGENTINA Secondo uno studio effettuato dall’Università Cattolica Argentina, la povertà in Argentina colpisce il 29% della popolazione. È risultato, inoltre, che l’aumento dei poveri e degli indigenti sia aumentato del 3% dall’inizio del 2016. L’accrescimento potrebbe derivare dalle nuove riforme operate dal governo Macrì, soprattutto quelle che coinvolgono il settore del welfare.

MERCOSUR: MEGLIO SOLI CHE MALE ACCOMPAGNATI? Bolivia e Mercosur, tra disagi politici ed economici

Di Stefano Bozzalla Cassione

Dallo scorso luglio la Bolivia è entrata a far parte del Mercosur come sesto membro, affiancando gli Stati fondatori BOLIVIA (Argentina, Brasile, Uruguay, Il presidente Evo Morales ha an- Paraguay) e il Venezuela (entranunciato che la Bolivia porterà to nel 2013). davanti alla Corte Internazionale dell’Aja il Cile. L’ogget- Il Mercosur (Mercato Comune to della disputa è un indennizzo Sudamericano) non ha mai goche la Bolivia richiede al Cile per duto di grande fama nel contila mancata fruizione delle acque nente sudamericano, faticando del fiume Silala. non poco nei tentativi di allargamento (vedi Cile e Messico, COLOMBIA Paesi a lungo corteggiati). 6 aprile 2016. Uno dei leader del La Bolivia, al contrario, ha dimoELN (Ejercito de Liberacion Na- strato fin da subito un grande tional) ha dichiarato l’intenzio- interesse, ottenendo nel 1995 ne di predisporre una pubblica lo status di membro associato. riconciliazione con il legittimo Con l’elezione a presidente di governo colombiano. L’incontro Evo Morales nel 2006, il Paese si terrà nel mese di giugno nella ha avviato dei cambiamenti, socapitale ecuadoriana Quito. prattutto di politica economica. Questi hanno permesso un avvicinamento ad altri leader sudamericani (Nestor, Kirchner, ma soprattutto Chavez), andando a rafforzare i rapporti con questi Paesi, al fine di favorire l’ingresso nel Mercosur. Il forte sviluppo economico registrato dalla Bolivia negli ultimi anni (in controtendenza rispetto ai vicini) ha contribuito a dare la spinta decisiva all’ingresso. BRASILE Il rischio di impeachement per la presidente brasiliana Dilma Roussef è sempre più concreto. “Ci sono serie prove a carico della Presidente che dimostrano

Il Mercato Comune Sudamericano, dal canto suo, si è aggiudicato la presenza di un Paese ricco di risorse naturali e di riserve energetiche, ma dipendente economicamente dal-

le esportazioni di materie prime e dalle importazioni di manufatti industriali. Come si diceva precedentemente, il presidente Morales (Bolivia), appoggiando un modello di sviluppo più centralizzato e statalista, ha favorito il riavvicinamento del suo Paese al Venezuela di Chavez e Maduro. Questa tacita alleanza tra i due Paesi ha fatto sì che si opponessero congiuntamente ad un accordo di libero scambio tra Mercosur e Unione Europea. Tale piano, molto ambito da alcuni Paesi membri, sarebbe contrario, secondo Morales, alle politiche di sviluppo. Inoltre, l’ingresso della Bolivia costringerà i Paesi membri a prendere una posizione sull’irrisolta questione “salida al mar” tra il Cile e la Bolivia, la quale rivendica la sovranità sulla regione di Antofagasta (attualmente territorio cileno, ma in passato boliviano). La contesa ha causato un inasprimento delle relazioni tra Mercosur e Alleanza del Pacifico, unione di cui il Cile è parte. L’ingresso della Bolivia, quindi, dimostra la volontà di espandersi del Mercosur è tutt’altro che finito, ma allo stesso tempo la situazione politica ed economica del nuovo membro potrebbe portare ad ulteriori divisioni e contrasti interni al blocco, deleteri e rischiosi per la sua sopravvivenza.

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SUD AMERICA una sua deliberata condotta dolosa tesa a minare le istituzioni federali. Ci sono già prove sufficienti per autorizzare una procedura di destituzione” ha affermato il relatore della Commissione Jovair Arantes. Nel caso in cui l’impeachement si verificasse, la Presidente potrebbe essere esautorata dal suo incarico per un massimo di 180 giorni. MESSICO La British Petroleum, colpevole di aver provocato la più grande catastrofe ambientale della storia americana, è stata condannata al pagamento di 20 miliardi di dollari. Un giudice federale messicano ha cosi chiuso il caso “Marea Nera”, relativo alla fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico avvenuta nel 2010.

THE PANAMA PAPERS

Nei Caraibi l’epicentro dello scandalo finanziario che coinvolge i potenti di tutto il mondo

Di Daniele Pennavaria Il 3 aprile il Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi (ICIJ nella sua sigla inglese) ha reso pubblica un’inchiesta riguardante le diramazioni di società offshore a partire dalla Mossak Fonseca, uno studio legale panamense. L’Espresso non esita a definirla “la più grande fuga di notizie della storia della finanza” ed effettivamente le cifre e i nomi presi in considerazione hanno una rilevanza inedita. Il sito della ICIJ parla di 2.6 terabyte di informazioni riguardanti i registri di oltre 40 anni. L’indagine segnala che le oltre 210.000 compagnie sono sparse per 21 diverse giurisdizioni, che consentono la fondazione di attività offshore.

PANAMA Dopo lo scandalo Panama Papers il presidente panamense Juan Carlos Varela ha dichiarato che l’esecutivo istituirà una commissione di esperti idonea a rafforzare la trasparenza dei sistemi finanziari e legali. A cura di Sara Ponza

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Anche se il portavoce della Mossak Fonseca afferma che la società non ha mai “agevolato o promosso operazioni illegali”, gli intrecci di proprietà all’interno di holding create a misura lasciano pensare a una complessa rete di evasione e riciclaggio. Nei documenti spuntano nomi eccelenti dei governi di tutto il mondo: Vladimir Putin – che non appare direttamente, ma che sembra al centro di una delle reti di società che coinvolge direttamente alcuni suoi amici personali, il padre di David Cameron, stretti collaboratori di Marie le Pen, il presidente ucraino Petro Poroshenko,

il re saudita Salman bin Abdulaziz Al Saud, il primo ministro islandese Sigmundur Gunnlaugsson, che avrebbe occultato milioni di investimenti nelle banche islandesi durante la crisi del 2008 e che per questo ha rassegnato le dimissioni il 5 aprile, e il neo presidente argentino Mauricio Macri. Internazionale riporta che 29 delle personalità coinvolte compaiono nella lista di Forbes delle persone più ricche del mondo. Nel complesso, gli istituti bancari e gli intermediari finanziari coinvolti sono più di 500, tra cui la britannica HSBCE e le elvetiche UBS e Credite Suisse, e hanno creato oltre 15.600 società di comodo in tutto il mondo per facilitare o nascondere le attività dei loro clienti. Al di là delle critiche e delle dimissioni, quello che sembra davvero destinato a cambiare é il destino dei paradisi fiscali. Sebbene gli esperti del settore ritengano che le mete dell’offshore si sposteranno semplicemente, é possibile che lo scandalo porti a una regolamentazione più stretta della creazione e gestione di fondi all’estero. Intanto si attende con impazienza e preoccupazione la pubblicazione della restante parte dei documenti, annunciata dalla ICIJ per l’inizio di maggio.


ECONOMIA WikiNomics Il Renminbi cinese tra le valute di riserva: quali conseguenze per i mercati?

BCE, PROSSIMA FERMATA L’IGNOTO La BCE taglia di nuovo i tassi, sullo sfondo di un peggioramento globale

Di Giacomo Robasto Dollaro Americano, Euro, Yen, Lira Sterlina. A queste note valute di riserva, che governi e banche centrali detengono per effettuare transazioni sui mercati internazionali, si aggiungerà dal 1° ottobre 2016 anche il Renminbi cinese, come annunciato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) il 30 novembre scorso. La scelta dell’FMI, frutto di una precisa analisi tecnica, riveste anche un notevole significato simbolico, che premia la significativa e duratura crescita economica del Paese. Quali sono dunque gli impatti che tale decisione avrà sui mercati internazionali? Internazionalizzazione delle imprese cinesi. A partire dal 2004, le imprese cinesi hanno incominciato gradualmente ad aprire conti correnti all’estero denominati in Renminbi, grazie all’autorizzazione concessa dal Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Questo passo ha permesso di incrementare il commercio estero negli anni seguenti e di rafforzare la presenza cinese nei mercati europeo e americano. A breve, le aziende cinesi saranno anche in grado di emettere obbligazioni sui mercati esteri con maggiore facilità, promuovendo così i propri prodotti e servizi in modo ancor più capillare.

Di Michelangelo Inverso Secondo la teoria economica generalmente accettata, in periodi di crisi l’unica cosa da fare è aumentare la liquidità sul mercato in modo che le imprese possano assumere, i dipendenti consumare e l’economia ripartire. Si chiamano misure anticicliche. Il meccanismo è il seguente: le banche centrali, in questo caso la BCE, investono denaro sul mercato azionario comprando titoli di società finanziarie. In questo modo, le banche ottengono ingenti capitali e possono concedere nuovi mutui e finanziamenti alle imprese, che, a loro volta, impiegheranno nella loro produzione e incrementeranno le vendite e così via, fino ad uscire dalla crisi. Ebbene, noi siamo ancora in una situazione economica estremamente fragile nonostante, per più di un anno, la BCE abbia investito 60 miliardi di euro in titoli al mese. Cos’è andato storto? Anzitutto, bisogna considerare che le misure monetarie espansive non bastano se non accompagnate da decise politiche economiche da parte dei governi. Questo Mario Draghi lo ricorda instancabilmente da diversi anni oramai. Inoltre, è assodato che, al di là dei proclami, l’UE abbia portato avanti

pessime riforme economiche, tant’è che i nuovi dati macroeconomici dell’Eurozona, già piuttosto contenuti, siano stati tutti rivisti al ribasso. Ma c’è una ragione meno palese per cui il Quantitative Easing di Draghi non ha avuto gli effetti sperati: il perverso intreccio tra banche, Stati e BCE. Essendo il settore bancario sostanzialmente privato, non deve rendere conto alle autorità politiche, ma ai propri azionisti. È evidente allora che, se queste dispongono di grande liquidità, non avranno alcuna intenzione di concedere investimenti a imprese e famiglie, dato che potrebbero essere insolventi entrambi. La cosa più razionale per le banche è, dunque, puntare su investimenti sicuri e, quindi, sui titoli di Stato. In questo modo tutta la liquidità passa nelle mani dei Paesi dell’Eurozona, che, però, viene usata per pagare tranche di debito pubblico e, quindi, rigirata alle banche e anche alla BCE. In questa assurda giostra, l’economia “reale” è tagliata fuori; ecco spiegato perché la ripresa non arriva mai e potrebbe, anzi, abbattersi una vera tempesta economica se anche stavolta Draghi fallisse. Questo è la sua ultima possibilità. Poi ci attende l’ignoto.

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ECONOMIA Maggiori liberalizzazioni nei settori controllati dallo Stato. Una naturale conseguenza dell’internazionalizzazione è rappresentata dalla spinta alla concorrenza in molti settori, che in Cina rimangono ancora sotto stretto controllo dello Stato. E’ quindi possibile che, negli anni venturi[,] alcuni settori chiave come quello dell’aviazione, delle telecomunicazioni e dell’energia vengano liberalizzati, attirando investitimenti e know-how stranieri a beneficio della crescita cinese e dei suoi partner commerciali. Politiche monetarie nuove in Europa e negli USA. L’ascesa del Renminbi come valuta di riserva è stata resa possibile anche grazie alla recente politica di deprezzamento della valuta, che ha favorito in primo luogo le esportazioni. Essa, inoltre, segna l’ingresso di un nuovo concorrente su scala globale, poiché a banche e investitori istituzionali e non - è offerta una alternativa in più per risparmi e investimenti. Quindi, il ruolo di primo piano dell’economia cinese, unito ai modesti tassi di crescita americana ed europea potrebbero indurre le banche centrali occidentali a rivedere la propria politica monetaria, per mantenere l’Euro e il Dollaro come valute di riferimento nelle transazioni internazionali.

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IL CROLLO DEL PREZZO DEL PETROLIO Secondo capitolo

Di Ivana Pesic Abbiamo visto come l’aumento dell’offerta abbia contribuito al crollo del prezzo del petrolio, ma perché la produzione è aumentata? C’è stato un periodo durante il quale le quotazioni del petrolio continuavano a salire, comportando preoccupazioni di natura economica per gli Stati importatori, cui andavano a sommarsi quelle di carattere geopolitico (lo scoppio della guerra civile in Libia, l’espansione dell’ISIS nella zona dei pozzi petroliferi nel nord dell’Iraq, le sanzioni imposte all’Iran, ecc.). Per questo motivo, molti Paesi iniziarono ad acquistare più barili, in modo da incrementare le scorte. In seguito all’espansione della domanda, i prezzi aumentarono ulteriormente, arrivando a toccare i 144 $/barile. Queste condizioni resero allettante, per alcuni Stati, l’idea di effettuare investimenti volti all’estrazione di idrocarburi sul territorio nazionale, operazione che, precedentemente, non risultava essere economicamente vantaggiosa. In Canada e negli Stati Uniti, alcuni produttori tentarono, allora, di correre ai ripari grazie ad una tecnica estrattiva chiamata fracking. Si tratta di un processo di fratturazione idraulica che, grazie alla trivellazione del terreno e all’iniezione di un

getto ad alta pressione di acqua mista a sabbia e prodotti chimici, permette di provocare l’emersione in superficie dell’idrocarburo. L’industria del fracking, molto criticata dagli ambientalisti, ha prodotto i propri investimenti sulla base della previsione che il prezzo del petrolio sarebbe rimasto in un range tra i 70 e i 130 $/barile. Nei due Stati citati in precedenza, sono stati spesi più di 5.000 miliardi di dollari per l’esplorazione e lo sviluppo, portando alla sovrabbondanza della materia prima. Il fracking è un procedimento costoso e, di per sé, poco redditizio: un barile prodotto in North Dakota comporta oneri sensibilmente più elevati rispetto a quello prodotto da un paese Opec che fa uso della tecnologia tradizionale (conventional). Se, in un periodo caratterizzato da prezzi elevati, l’estrazione risultava comunque essere conveniente, ora che il prezzo è sceso drasticamente, la sopravvivenza dell’industria americana del fracking è stata messa . in seria difficoltà Nel caso di mancata ripresa, il sistema bancario americano dovrà gestire il debito considerevole lasciato dalle molte società del settore divenute insolventi. Con ripercussioni sull’intera economia mondiale.


Per rimanere aggiornato sulle attività di MSOI Torino, visita il sito internet www.msoitorino.org, la pagina Facebook Msoi Torino o vieni a trovarci nella Main Hall del Campus Luigi Einaudi tutti i mercoledì dalle 12 alle 16.

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