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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino SPECIALE:
LA RIFORMA DELLE STATE-OWNED ENTERPRISE
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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino
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N u m e r o
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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!
SPECIALE: LA RIFORMA DELLE STATE-OWNED ENTERPRISE
Di Luca Bolzanin Cosa sono le SOE Prima di intraprendere un lungo e complesso viaggio nel mondo delle imprese di Stato cinesi, è necessario inquadrare il soggetto al centro di questa trattazione. Le State-Owned Enterprise cinesi (d’ora in poi, SOE) sono gruppi di imprese e aziende la cui proprietà è interamente - o parzialmente - in mano al governo centrale o ai governi locali. Le SOE sono ufficialmente divise in due gruppi in base alla loro importanza strategica e alle loro dimensioni. Il primo è il gruppo centrale di 53 imprese conosciute come “la spina dorsale delle imprese di Stato”, tra cui figurano molte delle società cinesi più grandi, come Sinopec, China Mobile e State Grid. Il secondo gruppo, invece, comprende le restanti imprese, che spaziano dalla produzione di alluminio alla ricerca sui materiali. Queste imprese operano in quelle che il Consiglio di Stato ha identificato come le sette “industrie strategiche” nelle quali lo Stato manterrà un “controllo assoluto” (difesa, elettricità, petrolio, telecomunicazioni, carbone, aviazione e trasporti) o nelle otto “industrie fondamentali” dove lo Stato manterrà una “forte influenza” (macchinari, elettronica, tecnologie informatiche, automobili, acciaio, metalli non ferrosi, chimica e costruzioni).
Rientrare in uno di questi due gruppi implica godere di un certo prestigio. Le imprese centrali hanno, infatti, rango ministeriale o vice-ministeriale. I top manager di queste imprese ricoprono, quindi, posizioni equivalenti ai Governatori provinciali e ai Ministri, mentre i dirigenti delle restanti SOE hanno rango dipartimentale. Il rango governativo conferisce importanti privilegi politici per i dirigenti, che, grazie a ciò, sono in grado di rivendicare benefici per le loro imprese o opporsi a politiche che danneggino le loro industrie. Inoltre, questi privilegi includono, l’accesso a documenti di vario grado di classificazione, l’invito a incontri con funzionari di pari rango e l’opportunità di partecipare ai gruppi di ricerca e formazione della Scuola Centrale del Partito, porta d’ingresso per una futura carriera in politica. La nascita delle SOE e la prima fase di riforme Le SOE nascono negli anni Ottanta nell’ambito delle riforme promosse da Deng Xiaoping per snellire la burocrazia, sclerotizzatasi in epoca maoista. Le imprese di Stato vengono, quindi, create dalle ceneri di alcuni Ministeri nei settori strategici sopraccitati, da cui ereditano sia gli enormi patrimoni finanziari e beni immobili sia il personale, i sistemi previdenziali e i debiti. Data la natura ambigua delle SOE, già nel 1994, al Quarto plenum del XIII Comitato centrale MSOI the Post • 3
imprese smisero di investire.
del Partito Comunista Cinese (d’ora in poi, PCC), il governo cinese annunciò il suo piano di trasformare le SOE in imprese moderne con “chiari diritti di proprietà, responsabilità e poteri definiti chiaramente, separando le imprese dal governo”. Iniziarono in quegli anni le prime riforme, con diverse iniziative di ristrutturazione industriale ispirate allo slogan zhuada fanxiao (“tieni il grande, lascia andare il piccolo”), che combinavano la privatizzazione di molte piccole e medie imprese con la creazione di oligopoli gestiti dallo Stato. A partire dal Quarto plenum del XV Comitato centrale del PCC, tenutosi nel 1999, il sistema di partecipazione azionaria delle good company (le imprese orientate al profitto) diventò il principale veicolo di implementazione della riforma della proprietà delle SOE, mentre per le bad company (le imprese responsabili della previdenza e in cui si concentrano i debiti) il controllo rimase saldamente in mano allo Stato. Da questa prima fase di riforme derivarono pesanti riduzioni dell’occupazione, con un crollo del numero dei lavoratori da 70 milioni nel 1997 a 35 milioni nel 2007. In questo modo, però, nei primi anni Duemila, le SOE aumentarono mediamente la redditività, riducendo il gap rispetto alle imprese private, che, dal canto loro, conquistavano gradualmente quote di mercato sempre più ampie. La situazione cambiò con la crisi finanziaria globale. Nel 2009, le banche furono indotte a aumentare i prestiti alle SOE, che li utilizzarono prevalentemente nella costruzione di nuovi impianti, senza curarsi delle necessità commerciali. Lo stimolo alimentò il boom della costruzione di nuove fabbriche, abitazioni e infrastrutture. La domanda di beni dalle imprese di Stato salì temporaneamente e i profitti crebbero. Ma, già dall’anno successivo, gli istituti di credito limitarono i prestiti a causa delle preoccupazioni per il debito dei governi locali in aumento. Il settore immobiliare si raffreddò e la spesa per le infrastrutture diminuì. Di conseguenza, le 4 • MSOI the Post
Nel 2013, secondo dati ufficiali, circa il 42% delle SOE era in perdita. Un trend che ha continuato a ripetersi negli anni successivi. L’anno scorso, i profitti delle SOE sono diminuiti ulteriormente, con perdite del 6,7%. Secondo l’ultimo rapporto del Ministero delle Finanze, tra gennaio e aprile si sono registrati aumenti dei profitti solo nelle industrie di trasporti, petrolchimiche e farmaceutiche, mentre le aziende del settore petrolifero e delle costruzioni hanno visto calare i ricavi. I settori in perdita sono, invece, quelli del carbone, dell’acciaio e dei metalli non ferrosi. Il passivo delle SOE a fine aprile era di 11 triliardi di euro (n.d.r., un triliardo equivale a mille miliardi), in crescita del 18,3% rispetto ad aprile 2015 e del 3,5% dall’inizio dell’anno. Si tratta di un dato di estrema rilevanza, considerato che il PIL cinese è previsto attestarsi poco sopra i 9 triliardi di euro. Il ruolo della SASAC e le prime riforme di Xi Nel 2003, il Consiglio di Stato promulgò le “Misure transitorie per il trasferimento dei diritti di proprietà delle SOE” e, cinque anni più tardi, l’Assemblea Nazionale del Popolo approvò la “Legge sui patrimoni delle imprese di Stato”, attribuendo alle State-invested enterprise (gruppi di imprese o aziende in cui lo Stato investe o di cui è proprietario) la responsabilità della gestione degli asset delle altre SOE. Sempre nel 2003, venne creata la State-owned Assets Supervision and Administration Commission del Consiglio di Stato (SASAC), la prima - e unica - autorità di supervisione delle SOE. La SASAC, alla sua fondazione, gestiva - in accordo con il Dipartimento dell’Organizzazione - la selezione dei dirigenti di 189 SOE. Il Dipartimento dell’Organizzazione, invece, nominava (e nomina tutt’oggi) autonomamente i vertici delle 53 SOE centrali. Inoltre, l’Autorità di vigilanza è stata incaricata di approvare le fusioni e le quotazioni delle imprese di Stato, nonché di redigere progetti di legge relativi alle SOE. Nel corso degli anni, SASAC ha rinforzato lo status di élite delle SOE, perseguendo una politica di “cresci o muori” che ha motivato le SOE a ricercare il consolidamento. Solo lo scorso anno, la SASAC ha approvato almeno 6 fusioni di grandi imprese. Tra queste, ha rilevato considerevolmente quella tra COSCO e China Shipping Group, che ha dato vita alla compagnia di trasporti marittimi più grande al mondo. All’inizio di quest’anno, la SASAC controlla 106 capigruppo, che a loro volta controllano centinaia di imprese associate e sussidiarie. I
leader
comunisti
credono
che
SOE
più
grandi siano più competitive a livello globale, identificando nelle economie di scala lo strumento per coltivare i campioni nazionali e nelle fusioni un modo per eliminare la “competizione cattiva” tra gruppi industriali di Stato rivali. Yukon Huang, ex direttore nazionale cinese alla World Bank, ha affermato in proposito: “Quando i leader cinesi guardano oltremare alle cosiddette economie di mercato, non riescono a cogliere che le grandi imprese e le grandi fusioni non sono salutari per l’economia”. Le fusioni, infatti, possono anche creare problemi, come l’eccesso di personale, la sovrapposizione di competenze o lo scontro tra dirigenti. Ad ogni modo, e in linea con le precedenti amministrazioni, il fine ultimo delle nuove riforme continuerà ad essere quello di “rafforzare, ottimizzare e ingrandire” le imprese di Stato, rinunciando alle privatizzazioni e alla chiusura delle SOE in perdita. Relativamente a quest’ultimo punto, spaventa la prospettiva dei licenziamenti di massa, che Pechino teme possano
esasperare le tensioni sociali. Per la dirigenza cinese è meglio fondere le SOE più fragili in robusti conglomerati piuttosto che abbandonare le imprese di Stato alla bancarotta, lasciando milioni di persone senza lavoro.
Pochi mesi dopo il suo insediamento, Xi Jinping ha dato inizio ad una nuova fase di riforme centrata su tre ambiti: la promozione delle proprietà miste, lo sviluppo di un sistema aziendale moderno e il miglioramento della supervisione e della gestione del capitale di Stato. La Decisione adottata in occasione del Terzo plenum del XVIII Comitato centrale del PCC, tenutosi nel mese di novembre del 2013, ha elaborato queste proposte. Primo, il governo cinese non ha insistito sulla proprietà maggioritaria statale, eccetto per le industrie strategiche, prospettando una riduzione delle partecipazioni statali nelle altre imprese e favorendo la quotazione delle stesse. Secondo, si dichiara che le SOE saranno classificate in tre gruppi a seconda del loro ruolo nell’economia nazionale: le SOE “commerciali” si concentreranno sulla massimizzazione dei profitti; le SOE “funzionali” si focalizzeranno sul completamento di obiettivi strategici e su grandi progetti; le SOE “pubbliche” assicureranno la fornitura di beni pubblici e infrastrutture. Terzo, il ruolo della SASAC cambierà da agenzia governativa a tutto tondo responsabile del personale, delle attività e degli asset a regolatore incaricato della gestione del capitale di Stato. Il XIII Piano quinquennale e le ultime proposte di riforma Nell’ottobre scorso, la leadership cinese si è raccolta a Pechino per il Quinto plenum del XVIII Comitato centrale del PCC. L’obiettivo primario era l’approvazione della Proposta per il XIII Piano quinquennale - il primo dell’amministrazione di Xi Jinping -, che guiderà la Cina dal 2016 al 2020. Xi ha investito notevole capitale politico in questo progetto, presentandosi come il leader della trasformazione, presiedendo il gruppo di
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stesura della Proposta e esponendola al plenum - compito che generalmente spetta al Premier. Il nuovo Piano riflette appieno la sua linea politica di promozione di una crescita sostenibile. Questo quinquennio infatti, secondo Xi, sarà cruciale per riparare alle ineguaglianze in termini di sperequazione, degrado ambientale e alle sfide demografiche. Con un’economia che sta crescendo più lentamente rispetto agli ultimi 25 anni, diversi economisti sostengono che la riforma delle SOE sia il singolo passo più importante per la ristrutturazione dell’economia cinese. “La riforma delle SOE, il debito, la sovraccapacità e le ‘imprese zombie’ sono tutte questioni profondamente interconnesse”, ha detto Jianguang Shen, capo economista della Mizuho Securities Asia. Durante il XIII Piano e oltre, la nuova tornata di riforme dovrebbe trasformare gradualmente le SOE in competitori più efficienti. Sono, inoltre, previsti investimenti anche nelle imprese private, fatto che preannuncia possibili partnership pubblicoprivate in alcuni settori. Secondo i dati raccolti da documenti governativi, nel 2014 i sussidi alle imprese quotate ammontavano a circa 4 miliardi di euro. La dimensione reale delle sovvenzioni è, però, certamente più grande: molti sussidi, infatti, vengono elargiti anche a imprese non quotate, mentre le SOE beneficiano anche di vantaggi nonmonetari come bassi tassi di interesse e sconti su terra, elettricità e acqua. Pechino cerca anche di ridurre la dipendenza della sua economia dall’industria pesante e dalle costruzioni. Le SOE, tuttavia, sono mal attrezzate a incontrare la domanda nei settori emergenti dei servizi, proprio gli ambiti a più rapida crescita nell’economia cinese. La conversione di alcune imprese di Stato permetterebbe loro di concentrarsi sull’innovazione e di produrre beni serviceoriented, che, a loro volta, potrebbero generare un circolo virtuoso di riforme-rinnovamenti-altre riforme, ma gli ostacoli rimangono numerosi. Un
altro
ambito
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particolarmente
rilevante
riguarda il reclutamento di manager secondo le regole del mercato. Come confermato da Peng Huagang, vicesegretario generale della SASAC, il governo cinese sta per lanciare un pacchetto di riforme pilota per alcune SOE, che include assunzioni dei dirigenti sul mercato, combinate a metodi di retribuzione market-oriented (bonus e stock option). A tal proposito, si stima che entro il 2020 tutte le cariche dirigenziali saranno ricoperte da individui provenienti dal mercato del lavoro (n.d.r, nel 2015, la Xinxing Cathay International Group è stata la prima SOE centrale ad avere un manager selezionato dal CdA, anziché dal Partito). Per dare un ulteriore slancio al piano di riforme delle SOE, a seguito dell’approvazione del Piano quinquennale avvenuta a marzo, il 18 maggio scorso il Consiglio di Stato ha rilasciato un programma dettagliato per una più chiara demarcazione tra i ruoli dello Stato e delle SOE e per un’accelerazione del processo di deregolamentazione da parte della SASAC. Oltre a ciò, verranno istituite 30 nuove società di investimento di Stato che agiranno come “cuscinetti” tra governo e mercato e che verranno sottoposte al controllo della SASAC, che dovrà spostare il suo focus dall’amministrazione aziendale alla supervisione degli asset al fine di rendere le imprese veri operatori di mercato e migliorarne l’efficienza, evitando il coinvolgimento diretto del governo nelle attività aziendali. Ogni società di investimento sarà posta a capo di un certo numero di imprese nella stessa industria. Grazie a questo pacchetto di riforme, che taglierà i costi e incrementerà l’efficienza, si prevede che i profitti delle SOE centrali aumenteranno di oltre 1,3 miliardi di euro entro la fine del 2017. Se davvero Xi Jinping riuscirà a mantenere le sue promesse, o almeno buona parte di esse, potrà essere accostato a buon diritto al “grande riformatore”, Deng Xiaoping. E, inoltre, ciò vorrà dire che ci troveremo dinnanzi ad una Cina profondamente diversa - si badi, economicamente, non politicamente -, più vicina all’ideale di fuguo qiangbing (Stato ricco e forte).
EUROPA 7 Giorni in 300 Parole FRANCIA 28 giugno. Il Senato ha dato il primo via libera alla nuova Loi Travail fortemente voluta dal primo ministro Manuel Valls e dal presidente Francois Hollande, scatenando le ire dei sindacati che sono scesi in piazza per manifestare il proprio dissenso; secondo alcuni, infatti, questa versione della legge sarebbe ancora più dura di quella approvata in precedenza dall’Assemblea Nazionale, nella cui aula è atteso il voto finale per il 20 luglio.
GRAN BRETAGNA 28 giugno. Migliaia di persone hanno manifestato a Trafalgar Square per esprimere il loro dissenso all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Nonostante la forte pioggia e la cancellazione dell’evento da parte degli organizzatori per motivi di sicurezza, i londinesi hanno deciso di partecipare per sottolineare la loro volontà di restare dentro l’Unione. In questo senso si è mosso anche il sindaco neo eletto della capitale Sadiq Khan chiedendo maggiore autonomia per la city e uno spazio apposito al tavolo delle trattative tra GB e UE. Intanto, il primo ministro scozzese Nicola Sturgeon ha incontrato il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz e quello della Commissione europea Jean-Claude Juncker per discutere una soluzione
U.E. SENZA U.K.
Con il 51,9 %, del Leave tutti si domandano quali saranno le conseguenze
Di Giulia Ficuciello Come la Bank of England aveva previsto, l’immediata conseguenza è stato il crollo della sterlina ai minimi storici dal 1985. Il cambio euro-sterlina è subito diminuito del 10% e le borse finanziarie mondiali hanno subito un forte calo, arrivando anche al -8%. Da Edimburgo arriva subito il comunicato del primo ministro Nicola Sturgeon che dichiara “noi siamo europei” e la promessa di un referendum sull’indipendenza dal Regno Unito. In Irlanda del Nord si invoca invece un referendum per la riunificazione dell’isola e si ha paura delle conseguenze che la Brexit avrà sulla loro economia. Un 24 giugno, dunque, iniziato con le dimissioni di Cameron e proseguito con notizie altrettanto gravi. Ma questi sono solo i primi effetti di quello che sarà un processo lungo almeno 2 anni per la definitiva uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Per ora manca il primo atto di impulso: la formale richiesta di uscita. Cameron ha infatti affermato di voler attendere le primarie del suo partito ad ottobre per compiere tale atto, in modo che a farlo sia proprio il nuovo Primo Ministro. Ciò che ora sembra chiaro a tutti è che il fronte del Leave
sia frammentato e poco deciso. Molte garanzie erano state date durante la campagna referendaria e molte promesse erano state fatte. Tuttavia alcune di queste sono già state disattese, in particolare per ciò che riguarda la somma di 350 milioni di sterline annui devoluta all’UE e che Farage aveva promesso di investire nella sanità. Egli ha infatti dichiarato di non poter garantire questo reinvestimento, nonostante sia stato il cavallo di battaglia della sua campagna per il Leave. Questo voto ha diviso il Regno Unito. Da un lato Scozia ed Irlanda del Nord nettamente a favore del Remain, dall’altro lato si è evidenziata una spaccatura intergenerazionale. Infatti a fronte del 75% dei giovani che hanno votato per la permanenza troviamo il 61% degli ultrasessantenni favorevoli all’uscita. Le reazioni dei leader dell’Unione Europea sono state unanimi e compatte. Juncker e Tusk hanno affermato che ora non si torna indietro, il Regno Unito deve uscire subito dall’UE. Bisogna ricordare però che il referendum consultivo avuto luogo il 23 giugno non ha, in quanto tale, valore vincolante. Dovrà essere il Parlamento britannico a ratificare la volontà espressa. MSOI the Post • 7
EUROPA sul mantenimento della Scozia all’interno dell’Unione. “Se c’è un modo per far sì che la Scozia possa rimanere nell’Ue, sono determinata a cercarlo” ha dichiarato la Sturgeon.
LA SPAGNA SENZA GOVERNO
Il Paese iberico ancora senza una maggioranza
ITALIA 28 giugno. Si è conclusa a tarda sera la votazione presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per l’assegnazione dell’ultimo posto rimasto nel Consiglio di Sicurezza per il biennio 2017/2018; Svezia, Bolivia, Etiopia e Kazakistan saranno ’ affiancate dall Italia nel 2017 e dall’Olanda nel 2018. Questa insolita quanto rara soluzione è stata trovata dopo 5 lunghissime ed inconcludenti votazioni terminate in perfetta parità, 95 voti a testa, il che ha portato i ministri degli esteri dei rispettivi Paesi ad accordarsi per una soluzione comune. “E’ stata una dimostrazione di unità europea” ha commentato il ministro Gentiloni.
Di Simone Massarenti
SPAGNA 27 giugno. Vittoria inaspettata per il Primo ministro uscente Mariano Rajoy alle elezioni politiche spagnole, il cui partito ha ottenuto 137 seggi sui 350 disponibili nel Congresso, posizionandosi quindi davanti a PSOE, Podemos e Ciudandos. La vittoria tuttavia non ha consegnato al premier i numeri necessari per avere la maggioranza in Senato, problema per cui è stato paventato il ritorno alle urne entro la fine dell’anno. “Tornare davanti agli elettori per le chiusure di alcuni” ha commentato Rajoy “sarebbe una follia che la Spagna non dimenticherà per molti anni” cercando quindi di governare anche se in minoranza.
I cittadini spagnoli, infatti, hanno riconfermato le volontà del dicembre scorso, con una “vittoria mutilata” del PP di Mariano Rajoy con il 4% in più dei consensi (33% e 137 seggi) ma senza una maggioranza forte, dati i risultati degli altri partiti. Il PSOE si conferma secondo partito del Paese con 85 seggi (rispetto ai 90 del precedente congresso). Il partito di Iglesias Podemos continua a inseguire, fallendo il sorpasso sul PSOE e rimanendo quindi forza di minoranza della sinistra spagnola. Fanalino di coda Ciudadanos, che perde consensi e si assesta al 12,9%. Il PP però conquista la maggioranza in Senato, sottraendo l’Andalusia al PSOE.
A cura di Andrea Mitti Ruà
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Il 26 giugno scorso si sono tenute in Spagna le elezioni politiche per la nomina del governo, dopo il flop delle politiche di 6 mesi fa. La nuova chiamata alle urne del popolo iberico ha però confermato la frammentazione del Paese, con una persistente incertezza fra gli elettori.
Le reazioni sono state immediate, con le rivendicazioni di Rajoy circa il “diritto di governare” già
durante la notte fra il 26 e il 27 giugno. Dura inoltre la critica verso il PSOE e Ciudadanos, additati come i fautori di questa continua instabilità: “tornare per la terza volta alle elezioni sarebbe una follia che la Spagna ricorderebbe per anni”. Di tutt’altra natura, invece, le reazioni di Iglesias, leader di Podemos, il quale afferma come questo risultato sia una netta sconfitta per la sinistra spagnola, dato che, nonostante l’alleanza con Izquierda Unida, il partito non ha guadagnato neanche mezzo punto percentuale rispetto alla precedente tornata elettorale. Dal 28 sono in corso le trattative fra i vari partiti e il premier Rajoy, anche se la situazione rimane tesissima. Il portavoce del PSOE Antonio Hernando conferma il mancato appoggio del partito alla nomina di Rajoy premier; la medesima linea viene seguita da Alberto Rivera, leader di Ciudadanos, che ribadisce il “categorico no a un governo guidato dall’ex premier”. Entro il 19 luglio, giorno della costituzione del Parlamento, Rajoy dovrà formare un esecutivo, così da poter ufficializzare il nuovo governo il 23 luglio davanti al Re.
NORD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole STATI UNITI 26 giugno. John Kerry, in visita ufficiale in Europa, ha incontrato a Roma il Ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. All’indomani del voto britannico, le prospettive globali sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea sono state tra i temi al centro dell’incontro. Il Segretario di Stato ha sottolineato come sia necessario rispettare la decisione del popolo britannico. A margine della visita, Kerry ha incontrato anche il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in visita di Stato a Roma, per poi volare, l‘indomani, a Bruxelles e a Londra. 27 giugno. La Corte Suprema ha dichiarato incostituzionali le leggi sull’aborto dello Stato del Texas, introdotte nel 2013 dall’allora governatore repubblicano Rick Perry. Le norme prevedevano standard molto severi per i medici e le cliniche abilitate all’aborto, limitando di fatto le possibilità di accesso all’interruzione volontaria di gravidanza. Non si è fatta attendere la reazione della candidata democratica alla presidenza Hillary Clinton, che ha definito la sentenza “una vittoria per tutte le donne”. 28 giugno. La Camera ha licenziato il suo rapporto sull’attacco al consolato americano di Bengasi che, l’11 settembre 2012, è costato la vita all’ambasciatore Christopher Stevens e ad altri tre cittadini statunitensi, mettendo fine a una delle più lunghe indagini del Congresso. Dalla relazione finale non emergono prove di colpevolezza per l’amministrazione Obama,
LA SVOLTA AMBIENTALISTA DI TRUDEAU
Le nuove politiche di regolamentazione ambientale all’ombra della foglia d’acero
Di Alessandro Dalpasso C’è stato un tempo, meno di un lustro fa, in cui la leader dei Verdi canadesi, Elizabeth May, poteva affermare che il “Canada è la Corea del Nord dei diritti ambientali”. Non si trattava di un’iperbole: nel 2014, il Paese ha addirittura vinto il Colossal Fossil, non esattamente un premio ambito. Si tratta infatti del “riconoscimento” assegnato al Paese che si è peggio distinto nella lotta al cambiamento climatico. Non sorprende che proprio al Canada fosse stata assegnata questa poco onorevole medaglia. Nel 2011 il governo allora in carica ne aveva fatto il primo Stato parte a ritirarsi dal Protocollo di Kyoto; poco dopo è seguito l’abbandono della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Desertificazione. La politica conservatrice degli ultimi governi – sin dall’insediamento del primo governo di minoranza nel 2006 e più rigorosamente dopo la formazione di un governo di maggioranza nel 2011 – ha fatto sì che la politica del Canada sui temi ambientali seguisse un copione già scritto: la priorità è stata spianare la strada al settore delle energie non rinnovabili. Il depotenziamento della legislazione ambientale è stato il passo successivo. Dai primi anni ‘90 il Canada dispone di
un’ampia legge-quadro, il Canadian Environmental Assessment Act, che disciplina tutti gli aspetti legati alle valutazioni d’impatto ambientale. Nel 2012 il Parlamento l’ha alleggerita, riducendo da 40 a 3 il numero di dipartimenti e agenzie incaricati delle revisioni ambientali. Nel frattempo, intervenendo sul National Energy Board Act, sono stati assegnati maggiori poteri al governo per bypassare le agenzie indipendenti. Le cose sono radicalmente cambiate con l’insediamento del governo liberale guidato da Justin Trudeau: «La revisione dei processi ambientali e normativi del Canada farà in modo che le decisioni siano basate su scienza, fatti e prove”, ha dichiarato il 26 giugno scorso il ministro dell’Ambiente e per i Cambiamenti Climatici Catherine McKenna. A fronte di una situazione diventata insostenibile, a maggior ragione dopo la firma e la ratifica dell’Accordo di Parigi, il governo canadese ha infatti deciso di applicare un maggiore controllo sull’impatto ambientale dei progetti (come ad esempio lo sfruttamento delle sabbie bituminose nella provincia dell’Alberta e la costruzione di oleodotti, tra cui il pipeline Keystone XL) che sono stati sostenuti dal precedente governo conservatore. MSOI the Post • 9
NORD AMERICA né per Hillary Clinton, allora Segretario di Stato. Anne Stevens, sorella dell’Ambasciatore, ha inoltre dichiarato che imputare alla Clinton la responsabilità dell’attacco altro non sarebbe che una inutile strumentalizzazione. 30 giugno. Il Presidente francese François Hollande ha annunciato il suo sostegno alla Clinton per la corsa alla presidenza. Dalle colonne del quotidiano Les Echos, Hollande ha affermato che “la miglior cosa che i democratici possano fare è eleggere Hillary Clinton”. Non manca poi un affondo al rivale repubblicano Trump, la cui elezione, si legge, “complicherebbe le relazioni tra Europa e Stati Uniti”.
CANADA 29 giugno. Il Primo Ministro Justin Trudeau ha fatto gli onori di casa all’annuale North American Leaders Summit. Quello che giunge dai leader di Canada, Stati Uniti e Messico è un messaggio di unità per la regione: “Le relazioni tra i cittadini delle nostre tre nazioni sono sempre state forti, anche quando i rapporti tra governi non erano del tutto amichevoli”. Su questa prospettiva pesano tuttavia le ombre del nazionalismo e del populismo, prima fra tutte la propaganda protezionista di Donald Trump. A cura di Silvia Perino Vaiga 10 • MSOI the Post
DOPO IL REGNO UNITO CI PROVA IL TEXAS? Dopo Brexit adesso il Texas vuole l’indipendenza
Di Alexander Virgili, Sezione MSOI Napoli Dopo il risultato del referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, che ha colto i più alla sprovvista, molti osservatori internazionali hanno ritenuto quasi fisiologico che i numerosi movimenti autonomisti e antieuropeisti tra gli Stati membri si siano fatti risentire. Ben pochi, tuttavia, avrebbero pensato che si sarebbero fatti sentire anche oltreoceano.
Uniti. Infatti, per circa 10 anni, dal 1836 al 1846, il Texas si è autogovernato, dopo essersi dichiarato autonomo dal Messico successivamente alla rivoluzione texana e prima di richiedere l’ingresso come Stato agli Stati Uniti d’America. I supporter contemporanei dell’indipendenza si rifanno, tuttavia, a dati più aggiornati: il Texas, con i suoi 27 milioni e mezzo circa di abitanti, rappresenterebbe da solo la decima economia al mondo.
È il caso del Texas, in cui il leader del Movimento Nazionalista, Daniel Miller, ha colto l’occasione per rilanciare il suo progetto secessionistico. Miller ha infatti affermato, riguardo al voto britannico, che “le forze della paura hanno perso” e che “è ora importante per il Texas guardare alla Brexit come ispirazione ed esempio di come i texani possano prendere in mano il proprio destino”.
Già nel 2012 il Movimento Nazionalista texano aveva raccolto 125.000 firme per l’indipendenza. La richiesta fu negata dal governo federale di Washington, ma i suoi promotori non si sono dati per vinti e hanno continuato a crescere, anche mediaticamente, raggiungendo circa 219.000 like su Facebook: più di quelli di Partito Repubblicano e Democratico del Texas messi insieme.
Rimane da chiedersi perché proprio il Texas. Questo Stato, oltre a essere il più grande per superficie territoriale, può vantare un passato di repubblica indipendente e autonoma rispetto agli Stati
Adesso, con la vittoria del Leave al referendum britannico, Miller ha fatto richiesta formale al governatore del Texas, Abbott, per un referendum texano per l’indipendenza.
MEDIO ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole GIORDANIA 27 giugno. Daesh rivendica la responsabilità per l’esplosione al confine con la Siria, alle porte del campo profughi di Rukban. L’attacco, risalente alla scorsa settimana, ha causato 7 vittime e 13 feriti tra le forze militari di guardia nell’area. Il gruppo terroristico ha postato il video di un’auto in corsa che si fa esplodere vicino al posto di blocco.
IRAQ 26 giugno. Dall’esercito iracheno arriva la dichiarazione della liberazione definitiva e completa di Fallujah, occupata dalle forze Daesh da gennaio 2014, dopo un’operazione durata un mese che ha lasciato 60.000 sfollati. Il primo ministro Haider al-Abadi in visita alla città liberata ha giurato che Mosul sarà la prossima a essere sottratta al controllo dei terroristi.
ISRAELE 26 giugno. Scontri violenti tra fedeli e forze di polizia alla moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, feriti almeno 7 palestinesi. Secondo il rapporto della Mezzaluna Rossa sono stati ricoverati per effetti dei lacrimogeni, ferite da armi antisommossa e percosse. Causa delle proteste l’ammissione di visitatori di fede ebraica
L’INFERNO YEMENITA
Non basta il ramadan a fermare il conflitto
Di Lorenzo Gilardetti Non accenna a placarsi la guerra che negli ultimi mesi ha lacerato lo Yemen: il 26 e 27 giugno scorsi hanno fatto registrare più di 100 nuove vittime, dimostrando che tutti i piani diplomatici previsti e messi in atto fino ad oggi non sono serviti. Nella sola giornata del 26 gli Houthi, i ribelli, hanno conquistato l’area di Qubaita e hanno successivamente messo nel mirino una base aerea nella provincia di Lahj, a sud dello Yemen: qui gli scontri con le forze governative hanno quindi provocato 41 morti, mentre nel nord, per attacchi a schieramenti omologhi, se ne contano altri 16 tra ribelli e soldati. Il fulcro più sanguinoso dell’incubo in cui si è ritrovato il Paese è stata però la città di al-Mukalla, nello Yemen meridionale, dove il 27 una serie di sette attacchi, tra cui due attentati, ha colpito anche alcuni civili. In questo caso a rivendicare gli atti terroristici è stata una frangia locale del sedicente Stato Islamico, che ha dichiarato di avere come obiettivi uffici delle forze dell’ordine yemenite, checkpoint, caserme e uomini dell’intelligence.
Le autorità hanno segnalato almeno 43 vittime e decine di feriti, ma il bilancio è salito nei giorni seguenti. Dalle prime ricostruzioni sembra che gli attacchi siano stati orchestrati per colpire contemporaneamente, e che quindi mentre un gruppo sparava a salve dopo un’irruzione in una stazione della polizia, una bomba giungeva ad un posto di blocco nascosta in una scatola di cibo per l’Iftar, ovvero il pasto che interrompe il digiuno nei giorni del Ramadan. Queste 48 ore di inferno arrivavano mentre i negoziati per la pace in Kuwait tra governo e ribelli sciiti Houthi, che si protraggono da due mesi, stanno per essere sospesi per il mancato raggiungimento di accordi: gli Houthi chiedono la garanzia di un governo di unità nazionale, mentre il governo, forte dell’appoggio del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, esige che i ribelli lascino le città conquistate (tra le quali la capitale, Sana’a) e procedano al disarmo. Nella settimana antecedente agli attacchi, il segretario dell’ONU Ban Ki-Moon era stato in Kuwait per esortare le due parti, ricordando lo stato critico in cui si trova il Paese, che dopo 15 mesi di conflitto piange 6.000 vittime, più della metà civili.
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MEDIO ORIENTE al sito sacro durante il Ramadan. SIRIA 23 giugno. Le forze democratiche siriane entrano a Manbij, roccaforte Daesh nel nord della Paese. Dopo numerosi tentativi, la coalizione guidata dai curdi riesce ad avanzare. Decisivo il supporto delle forze aeree statunitensi con un’offensiva aerea che ha facilitato l’avanzata delle forze.
TURCHIA 28 giugno. Tre uomini aprono il fuoco sulle forze di sicurezza all’aeroporto di Ataturk, nella capitale. In seguito si fanno saltare in aria, causando 41 vittime e oltre 230 feriti. Secondo le autorità, diverse prove indicherebbero la responsabilità di Daesh dietro gli attacchi suicida, ancora da confermare.
YEMEN 24 giugno. La delegazione yemenita, in Kuwait per trattative di pace con i rappresentanti delle Nazioni Unite, chiude a ogni possibilità di un accordo con gli Houthi finché i ribelli sciiti non ritireranno completamente le forze dai territori occupati. A cura di Clarissa Rossetti
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FALLUJAH È LIBERA!
Daesh perde terreno in Siraq, ma continuano gli scontri a Raqqa e Mosul
Di Martina Scarnato Un mese dopo dall’inizio della battaglia per la sua riconquista, l’esercito iracheno ha annunciato nella giornata del 26 giugno di aver “liberato totalmente” la città di Fallujah, in mano al Daesh dal gennaio del 2014. La notizia della sua liberazione ha incontrato l’immediata approvazione del Pentagono che, comunque, ha avvertito circa i rischi connessi alla presenza di “sacche di resistenza”. Fallujah è una città dal forte valore simbolico per gli uomini del Califfato, poiché si tratta della prima città irachena conquistata da quest’ultimi. Contemporaneamente, è in corso anche la liberazione della città siriana di Manbij, di grande importanza strategica poiché si trova su uno snodo stradale che collega la Turchia a Raqqa. Secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, ormai il Daesh starebbe perdendo il controllo dei territori in Siraq e sarebbe sulla difensiva. Negli ultimi mesi, infatti, l’Isil avrebbe perso circa il 20% dei suoi territori in Siria e la prossima città a cedere potrebbe essere proprio la “capitale”, Raqqa. Secondo l’inviato USA per la coalizione internazionale anti-ISIS Brett McGurk, la strategia adottata dalla coalizione internazionale, che prevede princi-
palmente attacchi aerei sincronizzati e collaborazione con l’intelligence, si starebbe rivelando vincente. Inoltre, i raid, colpendo i depositi finanziari del Califfato, ne avrebbero diminuito notevolmente anche le risorse economiche. Ciò è dimostrato dal fatto che il Daesh sarebbe stato obbligato a cambiare strategia, intensificando le operazioni a bassa intensità militare. Nel gennaio del 2014 le forze irachene avevano riconquistato la città di Ramadi, non senza causare la conseguente fuga degli abitanti. Uno degli obiettivi principali del governo siriano è la conquista della provincia di Deir-al Zour, strategicamente cruciale per la presenza di giacimenti di petrolio e perché permette di collegare Raqqa e Mosul. Queste due città costituiscono due degli obiettivi principali dell’esercito iracheno e già da fine maggio ha intrapreso delle azioni militari accanto alle Forze Democratiche Siriane guidate da una coalizione formata da miliziani curdi e arabi sostenuta dagli Stati Uniti. La situazione non è ancora ben definita: 10 giorni fa, infatti, quando sembrava che le forze del governo di Damasco fossero in vantaggio, il Daesh ha organizzato una controffensiva cacciando le milizie fuori dalla provincia della capitale, a circa 40 km dalla città.
RUSSIA E BALCANI 7 Giorni in 300 Parole BOSNIA ERZEGOVINA 24 giugno. La cooperazione transfrontaliera promossa dall’Unione Europea è arrivata anche a Sarajevo. Il programma, che mira ad intensificare i rapporti all’interno della regione balcanica, è suddiviso in cooperazione interregionale e cooperazione delle macroregioni. Il delegato bosniaco al comitato delle regioni UE, Mujo Hodric, ha dichiarato che “queste iniziative aiutano a risolvere i problemi quotidiani” e che “i Balcani hanno una responsabilità l’uno verso l’altro”. L’intero progetto è gestito in maniera autonoma dagli enti locali, anziché dalla delegazione UE. La cooperazione si estende ad ambiti come sanità, università, e molti parlano della costituzione di una vera e propria Euroregione. CROAZIA 24 Giugno. Dopo lo scioglimento del parlamento di Zagabria, arriva il verdetto finale: si tornerà alle urne in autunno. La prospettiva del voto anticipato sottolinea l’impossibilità di creare un nuovo governo, date le coalizioni politiche attuali. Anche l’opinione pubblica si è schierata a favore di questa opzione.
SERBIA 27 giugno. Durante una conferenza stampa, il premier Alexander Vucic ha commentato
UE: RINNOVATE SANZIONI ECONOMICHE ALLA RUSSIA Cipro, Grecia e Italia con Mosca per una sospensione
Di Giulia Andreose Il 21 giugno il Consiglio dell’Unione Europea ha deciso di prorogare per altri 6 mesi (fino a gennaio 2017) le sanzioni economiche previste per la Russia a causa dell’assenza di progressi nella risoluzione del conflitto in Ucraina. Alla notizia del rinnovo Kiev ha tirato un sospiro di sollievo, in quanto il fronte europeo è sempre meno compatto e il timore che alla Russia siano fatti sconti è sempre maggiore. Infatti il 17 giugno, durante il forum economico a San Pietroburgo, il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha espresso il suo parere contrario alla proroga, posizione peraltro condivisa anche da Grecia, Cipro e Ungheria. I settori coinvolti dalle restrizioni (che riguardano importazioni ed esportazioni) sono principalmente quelli finanziari, petroliferi e militari: l’accesso ai mercati finanziari europei è stato bloccato ai 5 principali operatori russi, tra cui Sberbank e VTB e lo stesso vale per i mercati delle più grandi compagnie energetiche (Gazprom, Rosneft e Transneft) e dei produttori di armamenti (Rosoboronexport, MiG e Kalashnikov). Inoltre è stata vietata alle aziende europee la vendita di tecnologia per le prospezioni e per
l’estrazione petrolifera. Sono sospesi tutti i programmi di cooperazione economica e la Banca europea per gli investimenti non potrà finanziare operazioni in tutto il territorio della Federazione. Esistono altre sanzioni UE molto meno dannose per Mosca, quelle conseguenti all’annessione illegale della Crimea: divieto di importazione di prodotti locali, sospensione di fornitura di tecnologia per la comunicazione, blocco degli investimenti e del finanziamento di attività locali, chiusura dei servizi turistici. Queste misure incidono principalmente sul territorio della Crimea, ma rappresentano per Mosca un atto d’accusa da parte dell’UE, che “continua fortemente a condannare questa violazione del diritto internazionale, che rappresenta una sfida all’ordine della sicurezza internazionale”, come si legge nel fact sheet pubblicato dal Servizio per l’azione esterna dell’UE. Presto si potrebbero vedere gli effetti della Brexit anche in questo ambito, considerato che in più occasioni la Gran Bretagna si è espressa a favore del mantenimento delle sanzioni imposte contro la Russia nel 2014 a seguito della crisi ucraina ed è sempre stata uno dei Paesi che le hanno sostenute più fermamente.
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RUSSIA E BALCANI l’uscita dall’UE del Regno Unito, mostrando il timore che un sentimento antieuropeista emerga anche nel suo Paese, il cui ingresso nell’Unione è ormai prossimo. Il Primo Ministro, incaricato di formare il nuovo esecutivo, ha parlato della possibilità di sottoporre il quesito direttamente alla popolazione con un referendum. L’esecutivo serbo si mostra comunque determinato a continuare il suo cammino europeo. 29 giugno. A Belgrado, in un’azione condotta da Europol, sono state arrestate circa 40 persone accusate di essere trafficanti di esseri i uman . Sono stati arrestati anche 580 migranti accusati di collusione con i trafficanti e favoreggiamento. I media serbi hanno sottolineato come quest’operazione non sarebbe stata possibile senza l’aiuto tempestivo delle polizie di frontiera degli altri Paesi balcanici. RUSSIA 24 giugno. Le elezioni del 18 settembre 2016 si avvicinano, e il progetto Elezioni aperte dell’ex oligarca Mikhail Khodorjovskij sembra procedere. Il leader del movimento ha affermato: “conquisteremo il potere, se non in queste elezioni, in futuro”. Segnali poco incoraggianti arrivano invece dagli altri movimenti di opposizione. La Coalizione Democratica, nata per riunire le principali forze di opposizione, sembra essersi arresa, ed una sorte analoga è toccata al partito Parnas che ha dovuto rinunciare alle primarie online a causa dell’attacco di un hacker. A cura di Giulia Bazzano
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IL GRANDE MALE DELL’ARMENIA La visita ufficiale di papa
Di Elisa Todesco La scorsa settimana, fra il 24 e il 26 giugno, si è tenuta in Armenia la prima delle visite ufficiali che vedranno impegnato papa Francesco nel Caucaso. Tra fine settembre e inizio ottobre sono previste, invece, le visite in Georgia e in Azerbaijan. Al centro di questi viaggi è l’obiettivo, da parte del Papa, di incentivare il dialogo come soluzione dei conflitti, mentre è in atto “una terza guerra mondiale a pezzi”. La parola è stata infatti un elemento fondamentale anche in questa prima visita: il Pontefice si è riferito nuovamente (e ufficialmente) agli avvenimenti che nel 1915 hanno insanguinato l’Armenia con il termine “genocidio”. Il Metz-Yeghérn, il “Grande Male”, come in lingua armena si denota la strage che ha causato la morte di un numero di persone stimato fra 800.000 e 1.5 milioni, non può essere ignorato o negato, afferma il Papa. Il massacro armeno è stata la prima delle “immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose” e dal non-interventismo delle grandi potenze. Tuttavia, l’accento posto sul genocidio armeno non è stata l’unica stoccata in direzione della Turchia. Durante l’incontro con
Francesco in
Armenia
il catholicos Karekin II, il capo supremo della Chiesa Apostolica Armena, il Papa ha invocato nuovamente la riconciliazione fra la popolazione turca e quella armena, affinché sia possibile anche in regioni cariche ditensionicomeilNagorno-Karabakh costruire un futuro basato sulla pace e non sulla vendetta. Più aspri e diretti, invece, i toni del Catholicos sulla questione Nagorno-Karabakh: riferendosi ai bombardamenti che hanno distrutto villaggi e causato la morte di vittime innocenti, l’uccisione e la tortura di civili, Karekin II ha chiesto alla Turchia di finire “l’isolamento illegale” dell’Armenia e di non supportare ulteriormente l’Azerbaijan. Infine, è stata firmata da entrambi i capi una dichiarazione comune relativa alla disapprovazione dello stato delle minoranze etniche e religiose (specialmente per quanto riguarda la situazione dei cristiani in Medio Oriente), che ha unito le due Chiese nel cordoglio per le vittime innocenti. Nonostante non sia stato fatto un riferimento esplicito al terrorismo islamico, papa Francesco e Karekin II hanno definito inaccettabile nascondersi dietro giustificazioni e ideali religiosi per commettere tali atti, condannando l’estremismo religioso e l’odio da esso generato.
ORIENTE 7 Giorni in 300 Parole
CINA 25 giugno. Riavvicinamento tra Cina e Russia: Putin ha sottolineato l’importanza di avere interessi in comune, sottoscrivendo accordi sul fronte commerciale, cooperativo ed economico, aventi come oggetto la stabilità in Asia centrale, la fornitura di grano russo alla Cina e la proprietà intellettuale sulle produzioni missilistiche. Questa interazione non è casuale, ma propedeutica al prossimo G20 che si terrà appunto in Cina. COREA DEL NORD 29 giugno. Il potere di Kim Jongun è sempre più forte. A maggio durante il Congresso del Partito dei Lavoratori, il Leader aveva già aggiunto la carica di Presidente del Partito a quella di Primo Presidente della Commissione Difesa. Il Parlamento coreano inoltre, ha recentemente varato un nuovo organismo, il Comitato per gli Affari di Stato, la cui direzione è stata affidata allo stesso dittatore, permettendogli così di avere un controllo ancora più capillare nella gestione dello Stato. FILIPPINE 30 giugno. Rodrigo Duterte ha giurato come Presidente delle Filippine. L’ex procuratore di 71 anni, sindaco per lungo tempo della città meridionale di Davao, resterà in carica con un mandato di 6 anni. Il suo programma anticrimine
AUNG SAN SUU KYI IN THAILANDIA
Gli sforzi per proteggere gli immigrati birmani da abusi sul lavoro
Di Emanuele C. Chieppa Aung San Suu Kyi, ministro degli Esteri e leader de facto della Birmania, è arrivata in Tailandia il 23 giugno per una visita di 3 giorni, con l’intenzione di vagliare attentamente la situazione di milioni di birmani che vivono e lavorano in Thailandia nell’industria del pesce e nei servizi. Questa è la seconda trasferta del premio Nobel, dopo quella in Laos a maggio, ed è la prima volta in 24 anni che un leader birmano si reca in veste ufficiale in Tailandia. Molti di coloro che hanno lasciato il Myanmar negli anni del regime militare hanno trovato rifugio in Tailandia come manodopera a bassissimo costo per l’industria del pesce. In molti casi le ONG hanno denunciato condizioni di lavoro estreme e tattiche di pesca illegali. L’UE si è attivata negli ultimi due anni ammonendo la Tailandia e minacciando un embargo sui prodotti ittici per le continue violazioni del Regolamento IUU (Irregular Unreported Uregulated fishing), che impone standard precisi ai Paesi importatori di pesce nell’UE. Proprio in una fabbrica di lavorazione del pesce presso Bangkok, Aung San Suu Kyi ha incontrato alcuni lavoratori birmani. Dalle dichiarazioni di Htoo Chit, direttore della
Thailand-based migrant rights group Foundation for Education and Development, emerge che questi sarebbero stati scelti tra quei pochi che godono del salario minimo ufficiale e di condizioni di lavoro accettabili. L’ufficio di Aung San Suu Kyi ha in seguito rilasciato una dichiarazione in cui il Ministro asseriva di conoscere molto bene i problemi che i lavoratori del Myanmar devono affrontare in Tailandia: molti tra loro, specie se clandestini, corrono il rischio di diventare vittime di una tratta di esseri umani che spesso conduce ai ponti dei pescherecci o ai bordelli. La leader birmana si è inoltre detta delusa per non aver potuto salutare tutte le persone che l’aspettavano sotto la pioggia battente, cantando l’inno nazionale birmano e sventolando bandiere. Il 24 Aung San Suu Kyi ha incontrato il generale Prayuth Chan-o-cha, capo della giunta militare che controlla la Tailandia, e in una conferenza stampa congiunta ha dichiarato che sono stati raggiunti accordi tra i due Paesi per la protezione dei lavoratori birmani. Ha anche comunicato che è stato pianificato il rimpatrio di migliaia di rifugiati birmani e che per loro verranno creati dei posti di lavoro ad hoc. MSOI the Post • 15
ORIENTE ha subito suscitato scalpore, allarmando anche il Vaticano. Il nuovo Leader prevede infatti la reintroduzione della pena di morte, la possibilità da parte delle forze di polizia di sparare ad altezza uomo e ricompense per tutti coloro che riescano a intercettare i ricercati.
VERTICE SHANGHAI COOPERATION ORGANIZATION 2016
Molti impegni e grande entusiasmo per il meeting SCO in Uzbekistan
GIAPPONE 29 giugno. Il primo ministro Shinzo Abe, per mettere il suo Paese al riparo dall’incertezza economica post-Brexit, ha chiesto al governatore della Banca del Giappone di creare ulteriore liquidità per mantenere stabili gli istituti di credito. Il Governo e la stessa Banca Centrale si impegneranno inoltre in un continuo monitoraggio del valore dello yen per tamponare se necessario, eventuali perdite nel tasso di cambio.
MALAYSIA 27 giugno. Il primo ministro malaysiano Najib Razak, è stato assolto dalle recenti accuse di corruzione. Tornato al governo, il leader ha deciso di avviare un secondo rimpasto di governo, schierandosi con i tradizionalisti e licenziando molti membri dell’Organizzazione Internazionale dei malaysiani uniti (UMNO), il partito di maggioranza nel Fronte Nazionale.
A cura di Alessandro Fornaroli
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Di Tiziano Traversa L’incontro annuale della Shanghai Cooperation Organization (SCO), fondata nel 2001 allo scopo di favorire la .cooperazione internazionale in materia di sicurezza, economia e cultura, si è tenuto tra il 23 e il 24 giugno a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, che quest’anno festeggia i 15 anni nell’Organizzazione. I Paesi membri hanno approvato la proposta di ammissione di India e Pakistan, il cui ingresso effettivo sarà discusso durante il 2017. L’ingresso dell’India, fortemente voluto dalla Russia, aprirebbe a interessanti prospettive economiche e potrebbe facilitare l’ammissione dell’Iran, la cui adesione è stata respinta e che per il momento deve accontentarsi dello status di osservatore. I delegati presenti hanno a lungo discusso dell’assetto economico dell’area euroasiatica e di eventuali piani di azione. Altro tema principe del meeting è stato quello della sicurezza. Tutti i Paesi si sono detti disponibili a potenziare le proprie relazioni diplomatiche al fine di costruire rapporti solidi e distesi. La discussione ha riguardato in
particolare il Pakistan, che, a causa dei recenti disordini sul confine afghano e in generale dei frequenti episodi di violenza a sfondo terroristico, resta, agli occhi di molti, incapace di dare garanzie di stabilità. Il rappresentante del primo ministro Hussain ha dichiarato che il governo sta facendo il possibile per venire a capo del problema. Il presidente cinese Xi Jinping è arrivato a Tashkent in anticipo per avere il tempo di incontrare il suo omologo uzbeko Karimov, con il quale ha definito gli accordi economici per sviluppare il settore energetico. Il presidente Putin ha auspicato un miglioramento delle relazioni bilaterali con l’India e con la Cina, storici partner commerciali della Russia. Egli, inoltre, durante la sua permanenza, si è a lungo intrattenuto con il premier indiano Narendra Modi e subito dopo la fine del vertice è volato in Cina per un incontro con Xi Jinping. I presidenti hanno concordato che l’ingresso dell’India porterà una notevole stabilità nell’Organizzazione e renderà possibile la realizzazione della “grande Eurasia”: un progetto al quale Mosca e Pechino lavorano intensamente da lungo tempo.
AFRICA 7 Giorni in 300 Parole
SUDAFRICA E GERMANIA: ARMI IN ARABIA SAUDITA - Parte III Gli armamenti colpiranno lo Yemen e potrebbero essere forniti ad al-Qaeda
NIGERIA 23 giugno. Allarme di Medici Senza Frontiere sulle condizioni del campo profughi di Bama. La struttura ospita circa 24.000 persone di cui 14.000 bambini. Quel che dovrebbe servire come riparo per le famiglie fuggite dalla violenza di Boko-Haram si sta rivelando una tragedia umanitaria. Tra maggio e giugno 2016 sono morte almeno 200 persone per fame e malattia. LIBERIA 30 giugno. Le forze di pace delle Nazioni Unite in Liberia passano il testimone alle forze armate di Monrovia e si ritirano. Il lungo processo di transizione è terminato ed ora la sicurezza del Paese è affidata totalmente alle forze di polizia locali addestrate dai Caschi Blu.
Di Sara Corona Arabia Saudita, al-Kharj, territorio wahabita. Qui il colosso industriale tedesco Rheinmetall ha indirettamente finanziato, all’inizio di quest’anno, la costruzione di una fabbrica di armamenti con la collaborazione del Sudafrica, il quale a sua volta ha instaurato con l’Arabia Saudita un accordo di cooperazione internazionale che si caratterizza soprattutto come reciproco sostegno militare.
SUD SUDAN
La Saudi Press Agency ha dichiarato che l’accordo è stato realizzato “in relazione al terrorismo regionale che minaccia la sicurezza e la stabilità” dei due Paesi. Molte, però, sono le critiche da parte dell’opinione pubblica, in quanto Sudafrica e Germania hanno effettivamente finanziato la produzione autonoma di armi da parte di un Paese accusato di violazioni dei diritti umani e fortemente sospettato di affiliazioni con gruppi terroristici jihadisti.
28 giugno. Una nuova ondata di violenza ha visto come protagonisti diversi gruppi armati tra cui l’Esercito Ribelle di Liberazione del Popolo Sudanese. Le stime parlano di 40 morti tra i civili e 4 vittime tra le forze di polizia. Inoltre altri 10.000 persone hanno abbandonato le loro
L’Arabia Saudita ha da secoli aderito al wahabismo ed è attualmente impegnata a combattere contro gli sciiti Hutu in Yemen. Poiché anche l’organizzazione terroristica al-Qaeda è schierata contro gli Hutu, in quanto anch’essa è di religione sunnita wahabita, fonti di nume-
rose intelligence ritengono che i sauditi siano suoi alleati, e forniscano loro armi e appoggio militare. L’Arabia Saudita è accusata anche di finanziare e favorire il sedicente Stato Islamico (tra gli altri, lo suggeriscono BBC e Foreign Policy Journal). Nel conflitto yemenita sono coinvolti numerosi Paesi, tra cui, oltre all’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il Sudan, il Kuwait, il Bahrein, l’Egitto e il Marocco, che in Yemen perpetrano gravi violazioni dei diritti umani. La guerra ha già provocato più di 6.000 morti (di cui 3.000 civili), 25.000 feriti, un milione di sfollati, al cui aumento concorrono gli aiuti delle potenze europee ai Paesi orientali belligeranti. Poiché la guerra in Yemen ha richiesto all’Arabia un intenso impiego di velivoli e truppe, tamponati con acquisti di emergenza all’estero, il nuovo stabilimento Rheimetall di al-Khari ha valore strategico, in quanto a determinerà l’autosufficienz del Paese nel rifornimento di armamenti. Non è ancora chiaro se queste armi siano destinate all’esportazione. Esiste però il rischio che gli ordigni prodotti in Arabia Saudita con i finanziamenti tedeschi possano finire nelle mani di gruppi terroristici come al-Qaeda e il gruppo IS.
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AFRICA dimore e i loro averi e andranno ad ingrossare ulteriormente il numero degli sfollati.
SOMALIA 25 giugno. Nel centro della capitale, Mogadiscio, gli Shabaab somali hanno portato a termine un attacco terroristico. Un auto-bomba è esplosa all’entrata dell’hotel mentre 4 attentatori armati entravano nell’edificio. Dopo aver preso ostaggi sono stati uccisi dopo intensi scontri con le forze di polizia. Il bilancio è di circa 15 morti e 25 feriti. 30 giugno. Vicino alla capitale, nella città somala di Lafole, un autobus carico di persone è saltato in aria a causa di un ordigno comandato a distanza. Hanno perso la vita 18 persone. L’attentato non è ancora stato rivendicato, ma tutto lascia pensare che sia ad opera di AlShabaab. REPUBBLICA DEL CONGO
DEMOCRATICA
24 giugno. Le forze di sicurezza congolesi hanno annunciato l’arresto di 75 persone colpevoli di aver stuprato diverse donne nei pressi del villaggio di Kavumu. I presunti miliziani arrestati facevano capo ad un deputato locale, un certo Batumike. Dalle testimonianze, gli stupri sono stati perpetrati ai danni di circa una trentina di giovani donne ed il motivo sarebbe stato quello di ottenere una sorta di protezione soprannaturale.
A cura di Francesco Tosco 18 • MSOI the Post
UN CONTINENTE IN MOVIMENTO L’altra faccia delle migrazioni in Africa
Di Fabio Tumminello Le rotte del Mediterraneo non sono le uniche vie attraverso cui milioni di persone cercano la salvezza. L’Africa infatti è, in questo periodo storico, un mosaico di popolazioni in fuga, in cerca di futuro, spinte da persecuzioni, guerre, fame e povertà. L’instabilità della zona del Corno d’Africa rappresenta una delle situazioni più gravi, sia sotto l’aspetto umanitario sia sotto quello sociale. Un numero consistente di etiopi e somali si rivolge a nord, superando il Sahara per giungere sulle sponde del Mediterraneo e da lì in Europa, ma la maggior parte di essi, senza mezzi e senza contatti, si disperde nelle nazioni vicine. L’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, ha stimato che solamente in questa regione si spostano ogni anno quasi 200.000 persone. In Sudan, Kenya e Tanzania la maggior parte dei campi profughi è al collasso e gli aiuti umanitari non sempre bastano a garantire la sopravvivenza di coloro che vi abitano. A ciò va aggiunto che, in Paesi come il Sudan, la crisi migratoria si mescola a una più diffusa instabilità sociale: spesso i campi profughi, che accolgono indistintamente uomini di etnie
e religioni diverse, vengono assaliti da integralisti jihadisti che operano nella zona, ma anche da guerriglieri e bande armate. Una simile situazione la troviamo anche negli Stati dell’Africa Occidentale: qui il pericolo rappresentato da Boko Haram nel nord della Nigeria e sul confine con il Niger ha causato decine di migliaia di sfollati, che si sono riversati in Camerun, Togo, Benin e Ciad. Più a sud, l’obiettivo non può che essere il Sud Africa, lo Stato più industrializzato e stabile della regione. A causa di politiche sul tema molto rigide e di un’accoglienza spesso inadatta, tra aiuti insufficienti e una generale diffidenza per i migranti, questo Paese non rappresenta però una buona scelta per coloro che provengono da nazioni estremamente povere come Malawi, Congo e Angola. Per ora, tanto le singole nazioni quanto le organizzazioni internazionali faticano a trovare una soluzione al problema, ormai diffuso nell’intero continente. Dove falliscono gli aiuti umanitari, inadatti a risolvere un fenomeno di tale portata, forse potrebbero riuscire una risoluzione politica e un maggior sforzo di cooperazione, così com’è avvenuto con gli accordi di ricollocazione tra Mali e Mauritania.
SUD AMERICA 7 Giorni in 300 Parole PACE E PROSPERITÀ NEL PAESE DI ESCOBAR ARGENTINA 29 giugno. Le indagini partite dai Panama Papers arrivano a coinvolgere un altro collaboratore stretto di Mauricio Macri, Néstor Grindetti, ex responsabile delle finanze pubbliche di Buenos Aires. BRASILE 29 giugno. Continuano le proteste contro le Olimpiadi che si svolgeranno a Rio. Nello stato del Mato Grosso, nel sud est del Paese, è stato arrestato un manifestante che ha tentato di spegnere la torcia olimpica mentre sfilava per le strade. 27 giugno. Joao Santana, il pubblicitario che lavorò alle due campagne presidenziali di Dilma Rousseff, è stato arrestato per corruzione ed ha ammesso di aver ricevuto pagamenti non dichiarati né al Comitato di Giustizia Elettorale né al Fisco.
CUBA 26 giugno. Si avvicinano grazie al disgelo sia Russia sia Cina, che annunciano collaborazioni nel settore dell’industria dei trasporti. Pechino ha annunciato che le auto elettriche cinesi saranno assemblate in una sede cubana, mentre i russi produrranno veicoli per servizi taxi. Il ministro cubano dell’industria, Salvador Pardo, ha sottolineato l’importanza che avranno nel contesto del disgelo i finanziamenti stranieri nel settore automobilistico.
Il Presidente Santos tra FARC, Alleanza del Pacifico e rielezioni.
Di Stefano Bozzalla Cassione La Colombia, Paese noto al mondo soprattutto per il commercio di caffè, per il narcotraffico e per la lotta decennale dei guerriglieri delle FARC, è guidata da 6 anni da Juan Manuel Santos, arrivato ora a metà del suo secondo mandato di Presidente. Eletto per la prima volta nel 2010, dopo essere stato Ministro della Difesa per una legislatura, è a capo di un Paese coinvolto in una guerra interna sanguinosa e apparentemente senza fine. Adotta subito una politica meno violenta di quella del suo predecessore, cercando di condurre una trattativa di pace, difficile e laboriosa, direttamente con il comandante delle FARC, Rodrigo Londono Echeverri. Questa trattativa ha provocato un calo del suo consenso, portandolo nel 2014 a una rielezione risicata (appena il 50,9% dei voti a favore) per essere quella di un secondo mandato. Nonostante il calo di consensi, il Presidente continuò il processo di pace avviato con le FARC, raggiungendo un traguardo importante, nel settembre del 2015, con la firma di un accordo preliminare. Varie forze hanno remato contro questo trattato, rallentandone l’attuazione. Piovono, infatti, critiche che accusano il Presi-
dente di essere troppo morbido e troppo a favore dei guerriglieri. Con l’intento di far tacere queste voci, il presidente Santos sta cercando di ottenere un plebiscito o una consulta popolare sull’accordo preliminare, mettendo in gioco la sua reputazione, la sua credibilità e il suo futuro politico. Economicamente parlando, sotto la guida di Santos la Colombia ha mantenuto dei tassi di crescita piuttosto buoni, nonostante la crisi in cui versa la regione. Tra i fattori più importanti per questa stabilità troviamo una rinnovata industria automobilistica e nuove infrastrutture, che hanno aperto il Paese verso nuovi investitori esteri. Contemporaneamente, però, il governo non è riuscito a eliminare o per lo meno combattere la corruzione dilagante e la disuguaglianza economica. Infine, dal punto di vista internazionale, il Presidente, molto condizionato dagli aiuti militari ed economici statunitensi, ha cercato invano di ricucire i rapporti con il vicino Venezuela, concentrandosi poi su altri Paesi, come Cile, Messico e Perù. Con essi ha fondato nel 2012 l’Alleanza del Pacifico, andando ad aumentare il proprio peso nei mercati americani e asiatici. La Colombia rimane però ancora l’unico Paese dell’Alleanza del Pacifico a non aver firmato il TPP.
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SUD AMERICA L’ASSETTO DELLE CARCERI BRASILIANE Quando una sentenza non cambia (quasi) nulla
MESSICO 29 giugno. La Corte Suprema ha giudicato inappropriato il progetto sul diritto all’aborto, che sarà sostituito da un disegno di legge dibattuto nel corso del prossimo mese. Al momento permangono dunque i due articoli del codice penale del Paese che considerano l’aborto un crimine. 30 giugno. Nello Stato di Veracruz, il leader del Partito di Azione Nazionale Miguel Ángel Yunes ed il governatore dello Stato Ricardo Anaya, appartenente allo stesso partito, sono stati aggrediti da un gruppo di agricoltori in protesta. I due esponenti politici, presi di mira mentre arrivavano al Congresso dello Stato, hanno denunciato l’attacco che ritengono sia stato incitato direttamente dall’opposizione. PORTO RICO 30 giugno. Il Senato degli Stati Uniti ha approvato un progetto di legge per la ristrutturazione del debito di Porto Rico e per la formazione di una giunta di controllo fiscale per supervisionare i problemi finanziari dello stato. VENEZUELA 24 giugno. Jesús Torrealba, segretario del movimento di opposizione Tavola di Unità Democratica (MUD), ha annunciato che è stata raggiunta la metà delle firme valide per indire un referendum con lo scopo di anticipare la fine del mandato di Nicolas Maduro. A cura di Daniele Pennavaria 20 • MSOI the Post
Di Sara Ponza In data 24 giugno il Supremo Tribunale Brasiliano ha sentenziato, dopo circa un anno di accesi dibattiti, che i trafficanti di droga arrestati per la prima volta saranno condannati a pene meno austere a causa della sovrappopolazione carceraria. La sentenza, che ribalta completamente la prassi giuridica, è una pietra miliare. Dal 2006 (anno della Legge della droga) a oggi, infatti, tutti i trafficanti di droga sono stati qualificati come commettitori di “delitti riprovevoli”. Il provvedimento giurisdizionale è stato in gran parte il risultato del lavoro di Ricardo Lewandowski, presidente del Supremo Tribunale Brasiliano, che si è opposto fermamente ai deputatati del partito Bancada de la Baia, ai rappresentanti della polizia e a quelli delle fabbriche produttrici di armi. Tuttavia, la sentenza non risolve la grave situazione carceraria del Paese. Infatti, rieducazione ed efficienza non sono termini associabili alle carceri brasiliane. Le problematiche che aggravano la precaria situazione sono appunto il sovraffollamento - le celle accolgono un numero di detenuti nettamente superiore a quello previsto dalla loro capienza - e l’oltraggio ai di-
ritti umani. Il quadro generale è peggiorato dalle scarse condizioni igieniche e sanitarie: nelle prigioni il rischio di ammalarsi di TBC è molto più alto rispetto alla media nazionale. Inoltre, paradossalmente, il ruolo di guardie carcerarie e prigionieri è spesso invertito. Emblematica, da questo punto di vista, è la sempre più frequente consegna delle chiavi delle celle da parte delle guardie carcerarie ai prigionieri, al fine di garantire l’ordine. Recentemente, la situazione ha assunto una drammatica rilevanza. In data 24 maggio, infatti, in 4 carceri della regione Ceará, si sono verificate violente sommosse. La causa è stata l’inaspettato sciopero delle guardie penitenziarie: l’astensione dal lavoro delle guardie, che protestavano per la decisione del governo di rateizzare il pagamento di stipendi arretrati, ha determinato l’annullamento delle visite e la conseguente manifestazione dell’ira dei detenuti. L’episodio si è concluso con un bilancio di 14 morti. La situazione carceraria è quindi estremamente critica. Gli interventi necessari sono numerosi, ma il provvedimento più urgente rimane la lotta contro la povertà, principale causa della criminalità che riempie le prigioni.
ECONOMIA WikiNomics LA CERTEZZA DELL’INCERTEZZA
Brexit: la separazione più costosa della storia
SYMPHONY OF DESTRUCTION Brexit rivela il disagio della civiltà europea Di Michelangelo Inverso E ora? È la domanda più comune in questi giorni convulsi dopo il clamoroso voto inglese sullo scontro Brexit-Bremain, 52% contro il 48%.
Di Efrem Moiso Cinque secoli fa, Enrico VIII Tudor fu il primo nella storia ad annullare il proprio matrimonio. La scorsa settimana, gli inglesi hanno votato per essere i primi ad annullare il matrimonio con l’Unione europea. Ha vinto il leave e il Regno Unito, che al momento di “unito” sembra avere solo il nome - visti gli esiti del referendum -, uscirà dall’UE. Le origini. Il termine “Brexit” venne inizialmente coniato come “Brixit” - fusione della locuzione Britain exit - da Alastair Newton, ex analista di Nomura, che a metà 2012 analizzò le cause che hanno portato al voto della scorsa settimana. L’analista prevedeva che i parlamentari euroscettici avrebbero proposto il referendum già nell’autunno dello stesso anno e che l’esito sarebbe stato impossibile da prevedere per via del quasi perfetto bilanciamento delle parti a favore e contro. Tempistica a parte, Newton ci andò piuttosto vicino. La separazione. Il divorzio, tutt’altro che consensuale, si preannuncia costoso per i britannici da ogni punto di vista. L’UE,
Anzitutto bisogna partire dalle criticità che emerse in Europa dal 2008 ad oggi. La prima azione promossa a livello europeo, dopo il crack Lehman è stata salvare il sistema finanziario-bancario dal collasso, manovra dal salato prezzo di circa 800 miliardi di euro. Ma a questa misura sul mercato finanziario non è seguita una altrettanto decisa manovra sul mercato reale: i salari sono rimasti congelati, se non decresciuti, mentre la pressione fiscale aumentava e il welfare state veniva tagliato senza pietà, con conseguente impoverimento del ceto medio e basso. Senza considerare il caso Grecia, che ha sottolineato con forza tutti i mali del sistema economico e dei rapporti di forza nella UE, fomentando isterie, ma anche timori legittimi. A questa situazione di stallo legata in larghissima misura all’incompletezza politica, legislativa ed economica della UE - si è aggiunta la paralisi della gestione delle sfide globali. Nel periodo 2011-2016 abbiamo assistito ad un incomprensibile disastro in Medio- Oriente e in Ucraina. Attendismo e appiattimento sulle decisioni eterodirette da USA e NATO hanno deluso ulteriormente
i cittadini e hanno provocato contraccolpi sulle relazioni internazionali e sulla diffusione del terrorismo. Non è, quindi, un caso che negli ultimi anni siano emersi, ovunque in Europa, movimenti politici anti-establishment, che, sostanzialmente, condannano l’assenza di sicurezza sociale, l’oligarchismo economico e le politiche sconclusionate nel nostro vicinato. Queste posizioni, a volte estreme, a volte molto razionali, sono state demonizzate da tutte le élite occidentali. L’apparato governativo ha fatto ampio ricorso alla retorica populista, con il solo effetto di frustrare maggiormente gli scontenti, mentre ha ignorato problemi così evidenti da essere sotto gli occhi di tutti, ma come tali considerati irrisolvibili quanto la morte. Come risultato, è oggi evidente come la maggioranza della popolazione, almeno quella inglese, sia scontenta e voglia uscire dalla propria irrilevanza, frutto di una globalizzazione perversa, anche passando per una distruzione non costruttiva. E ora? Nessuno lo sa con certezza, ma sappiamo che il nostro mondo europeo (non UE) è peggiore di quello che sembra in TV. Questo è quello che sappiamo e non sarà certo invocando meno referendum o meno “populismo” che ne usciremo. A proposito di Brexit...
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ECONOMIA che internamente non si è mai vista unita sul serio, deve mantenere il pugno di ferro per non rischiare che altri Paesi chiedano di andarsene e sarà costretta a far pagare cara la decisione del first mover. Inoltre, essendo i mercati sempre refrattari all’incertezza, per dare stabilità il più in fretta possibile, si dovranno accelerare le trattative per arrivare celermente alle firme dei nuovi trattati. Intanto, parte di chi ha votato a favore dell’uscita sta giustamente accusando i partiti anti-euro di aver ingannato il popolo con una serie di false affermazioni e promesse impossibili da mantenere. L’unica certezza. In una situazione mai verificatasi prima, nessuno abbasserà la testa o ritornerà sui suoi passi perché farsi vedere deboli in queste circostanze, in cui il futuro è imprevedibile, significherebbe perdere la fiducia all’interno e la faccia all’esterno. Il primo a cedere subirà conseguenze devastanti. La Borsa. Il London Stock Exchange, il secondo polo finanziario mondiale dopo Wall Street, ha registrato, come analizzato dal collega Pignocco, un andamento solo apparentemente positivo rispetto alle piazze finanziarie europee, visto che il valore azionario delle British Company incorpora la svalutazione della sterlina, mai così bassa in 31 anni. Non c’è nemmeno da stupirsi che il FTSE 100 stia mantenendo un andamento positivo, poiché il Governo provvede ad evitare collassi e mantenere livelli pressoché accettabili grazie ad investimenti correttivi.
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BORSE: L’EUROPA IN PANICO, IL REGNO UNITO NO
Brexit, un venerdì nero non per tutti: il FTSE 100 ammortizza la figuraccia britannica
Di Edoardo Pignocco Sembra paradossale, ma così è successo. Le Borse di tutto il mondo hanno subito un netto calo con la vittoria del leave, proprio dopo un periodo di rialzo. L’esito del referendum inglese ha spiazzato i mercati finanziari, dando, così, il via ad una fase di panico degli investitori. Prevedibile. Ciò che stupisce è questo: com’è possibile che Milano, Parigi, Francoforte e Madrid abbiano perso più di Londra? Com’è possibile che, contando le oscillazioni di tutta la settimana, Londra abbia registrato addirittura un +1,9%? Il Regno Unito, dunque, ha fatto la scelta giusta? Cerchiamo di rispondere. Il 70% del FTSE 100, l’indice di borsa più importante oltremanica, è composto da un paniere di società che operano e fatturano all’estero. Di conseguenza, la svalutazione della sterlina favorisce tali imprese, aumentandone la loro capitalizzazione borsistica. Inoltre, i titoli dei settori farmaceutico ed alimentare - piuttosto numerosi - sono di tipo “difensivo”, per cui il loro corso azionario non è correlato al trend generale dell’economia. Questa caratteristica permette al FTSE 100 di non essere eccessivamente legato alla situazione economica attuale, attenuando così le perdite e la sfiducia.
È meritevole di osservazione anche il fatto che una buona fetta di società dell’indice di borsa sopracitato rientri nel contesto della lavorazione aurifera. L’oro, in situazioni di crisi e panico come questa, funge da bene rifugio per eccellenza (come i titoli di Stato). Di conseguenza, la sua quotazione aumenta. Così, infatti, è successo. Il metallo giallo ha toccato livelli altissimi. In questo modo, anche il valore delle società appartenenti al medesimo settore è cresciuto proporzionalmente, contribuendo al contenimento della perdita giornaliera. Solo -3,15% nella giornata di venerdì, nessuno ha fatto “meglio”. Ad una prima analisi, dunque, sembrerebbe che il Regno Unito abbia fatto la scelta giusta. Ma, approfondendo l’analisi in un’ottica finanziaria più ampia, si può notare il pesantissimo ribasso del ramo bancario ed assicurativo. (-20% circa). Le azioni di Barclays e Royal Bank of Scotland, così come delle italiane Intesa SanPaolo e Unicredit, sono state svendute massicciamente, perché considerate troppo rischiose dagli investitori. Non per caso, Morgan Stanley, JP Morgan, Deutsche Bank e HSBC hanno già minacciato una delocalizzazione delle loro filiali dalla City a Parigi. E questo, purtroppo, è solo l’inizio. Il Regno Unito ora è solo. E forse neanche più tanto unito.
Gala estivo di M.S.O.I. Torino
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