Msoi thePost Numero 32

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Il Settimanale di M.S.O.I. Torino


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MSOI Torino M.S.O.I. è un’associazione studentesca impegnata a promuovere la diffusione della cultura internazionalistica ed è diffuso a livello nazionale (Gorizia, Milano, Napoli, Roma e Torino). Nato nel 1949, il Movimento rappresenta la sezione giovanile ed universitaria della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale (S.I.O.I.), persegue fini di formazione, ricerca e informazione nell’ambito dell’organizzazione e del diritto internazionale. M.S.O.I. è membro del World Forum of United Nations Associations Youth (WFUNA Youth), l’organo che rappresenta e coordina i movimenti giovanili delle Nazioni Unite. Ogni anno M.S.O.I. Torino organizza conferenze, tavole rotonde, workshop, seminari e viaggi studio volti a stimolare la discussione e lo scambio di idee nell’ambito della politica internazionale e del diritto. M.S.O.I. Torino costituisce perciò non solo un’opportunità unica per entrare in contatto con un ampio network di esperti, docenti e studenti, ma anche una straordinaria esperienza per condividere interessi e passioni e vivere l’università in maniera più attiva. Giulia Marzinotto, Segretario M.S.O.I. Torino

MSOI thePost MSOI thePost, il settimanale online di politica internazionale di M.S.O.I. Torino, si propone come un modulo d’informazione ideato, gestito ed al servizio degli studenti e offrire a chi è appassionato di affari internazionali e scrittura la possibilità di vedere pubblicati i propri articoli. La rivista nasce dalla volontà di creare una redazione appassionata dalla sfida dell’informazione, attenta ai principali temi dell’attualità. Aspiriamo ad avere come lettori coloro che credono che tutti i fatti debbano essere riportati senza filtri, eufemismi o sensazionalismi. La natura super partes del Movimento risulta riconoscibile nel mezzo di informazione che ne è l’espressione: MSOI thePost non è, infatti, un giornale affiliato ad una parte politica, espressione di una lobby o di un gruppo ristretto. Percorrere il solco tracciato da chi persegue un certo costume giornalistico di serietà e rigore, innovandolo con lo stile fresco di redattori giovani ed entusiasti, è la nostra ambizione. Jacopo Folco, Direttore MSOI thePost 2 • MSOI the Post

N u m e r o

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REDAZIONE Direttore Jacopo Folco Vicedirettore Davide Tedesco Caporedattore Alessia Pesce Capi Servizio Rebecca Barresi, Giusto Amedeo Boccheni, Luca Bolzanin, Sarah Sabina Montaldo, Silvia Perino Vaiga Amministrazione e Logistica Emanuele Chieppa Redattori Benedetta Albano, Federica Allasia, Erica Ambroggio, Daniele Baldo, Lorenzo Bardia, Giulia Bazzano, Lorenzo Bazzano, Giusto Amedeo Boccheni, Giulia Botta, Maria Francesca Bottura, Stefano Bozzalla, Emiliano Caliendo, Federico Camurati, Matteo Candelari, Emanuele Chieppa, Sara Corona, Lucky Dalena, Alessandro Dalpasso, Sofia Ercolessi, Alessandro Fornaroli, Giulia Ficuciello, Lorenzo Gilardetti, Andrea Incao, Gennaro Intocia, Michelangelo Inverso, Simone Massarenti, Andrea Mitti Ruà, Efrem Moiso, Arianna Pappalardo, Daniele Pennavaria, Ivana Pesic, Emanuel Pietrobon, Edoardo Pignocco, Sara Ponza, Simone Potè, Jessica Prieto, Fabrizio Primon, Giacomo Robasto, Clarissa Rossetti, Carolina Quaranta, Francesco Raimondi, Jean-Marie Reure, Clarissa Rossetti, Michele Rosso, Fabio Saksida, Leonardo Scanavino, Martina Scarnato, Samantha Scarpa, Francesca Schellino, Giulia Tempo, Martina Terraglia, Elisa Todesco, Francesco Tosco, Tiziano Traversa, Fabio Tumminello, Martina Unali, Chiara Zaghi. Editing Lorenzo Aprà Copertine Mirko Banchio Vuoi entrare a far parte della redazione? Scrivi una mail a thepost@msoitorino.org!


EUROPA LE DUE FACCE DEL BOSFORO

Vicissitudini e sviluppi dei rapporti fra UE e Turchia

Di Simone Massarenti Il 2016 verrà ricordato come l’anno delle migrazioni, delle morti in mare, di Aylan, della crisi dell’Egeo e della Turchia. Proprio la Turchia, fin dal Consiglio Europeo di Helsinki del 1999, gode dello status di candidato all’annessione all’Unione. Da allora, i rapporti fra le istituzioni comunitarie e il Paese si sono intensificati e, da quando la negoziazione è stata resa ufficiale il 3 ottobre 2005, il ponte diplomatico che collega Bruxelles ad Ankara è divenuto un cardine negli affari esteri UE. L’anno corrente ha però mostrato il “lato debole” dei rapporti fra il Paese del presidente Erdogan e le istituzioni europee, soprattutto a causa del poderoso aumento del fenomeno migratorio sulle coste europee. Il trimestre marzo-maggio, in particolare, può essere definito il “trimestre caldo” della politica internazionale fra UE e Turchia, con alcuni step chiave che hanno segnato questo tortuoso cammino. La prima tappa di questi 3 lunghi mesi di dibattito fra i

due apparati governativi è stato l’incontro a Bruxelles del 7 marzo: qui il Consiglio Europeo, alla presenza del primo ministro turco Ahmet Davutoğlu (dimissionario dal 5 maggio), ha affrontato il tema immigrazione, con la conferma da parte dello stesso Davutoğlu dell’“unione d’intenti” a riguardo, dimostrata dall’attuazione dell’accordo bilaterale con la Grecia di Tsipras. Il piano d’azione dei due Paesi, condiviso dal presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, che al termine dell’incontro si è detto “soddisfatto degli ottimi riscontri avuti dal piano di reintegro”, prevede una massiccia azione di contrasto alla “tratta degli esseri umani” nel Mar Egeo. L’obiettivo è infatti il reintegro di tutti coloro i quali “non sono in linea con i requisiti minimi previsti dal piano di asilo politico internazionale”, siriani compresi. Per questi ultimi, in particolare, è prevista la creazione di “zone di sicurezza” in territori al confine con la Turchia, che permetterebbero una più facile gestione dei flussi. Le medesime intenzioni sono state confermate durante il Consiglio Europeo tenutosi

il 17 e 18 marzo, nel quale l’Europa si è impegnata a disporre sul campo, dal 1° giugno, tutte le forze necessarie per fronteggiare l’emergenza. Questa “calma apparente” è stata però bruscamente interrotta, ad aprile, da un caso che ha scosso l’opinione pubblica europea: il 15 del mese, infatti, il Parlamento tedesco ha autorizzato il processo del comico Jan Boehmermann, accusato di vilipendio nei confronti del premier turco Recep Tayip Erdogan. Il caso ha riportato alla luce il problema relativo alla libertà di espressione in Turchia, da sempre considerato il “tallone d’Achille” del Paese: ad oggi, infatti, Ankara si trova al 149° posto (su 180 Paesi) nell’indice della libertà di stampa. Il “fuoco della polemica” era già stato alimentato dopo l’irruzione della polizia, il 5 marzo, nella sede del giornale Zaman, quotidiano ostile al premier Erdogan. Le dichiarazioni del direttore Abdelhamit Bilic, che ha parlato di “giorno nero per la democrazia”, ancora oggi appaiono un chiaro segnale di allarme per un Paese papabile di annessione all’Unione. MSOI the Post • 3


EUROPA Il REGNO DIS-UNITO

La Scozia ha parlato. E ha parlato chiaro.

Di Fabio Saksida Lunedì 26 giugno la sterlina ha toccato il minimo storico degli ultimi 30 anni nel suo rapporto con il dollaro. Questa data entrerà nel novero delle giornate nefaste, andando a fare compagnia al noto e ora omonimo lunedì nero del 1987, che sconvolse la finanza mondiale. Il crollo della sterlina rappresenterà nel futuro il ricordo più immediato quando si penserà agli effetti della Brexit. Gli ulteriori effetti sono tutt’ora in svolgimento e gli eventi non completeranno il loro corso se non tra molti anni a venire. Quello che però la Brexit ci mostra già da subito è un Paese profondamente diviso al suo interno: la frattura leave/remain riporta a galla ferite più antiche. Il risultato è un regno che sembra sempre meno unito. Se a livello nazionale le percentuali mostrano un 51,9% vincente, a livello regionale i numeri cambiano. In Scozia e Irlanda del Nord hanno vinto gli europeisti, con un modesto 55.7% nella seconda e un considerevole 62% nella prima. Se si trattasse di semplici regioni amministrative questi numeri avrebbero poco significato, ma non è questo il caso. La storia che ha portato questi due Paesi 4 • MSOI the Post

a essere annessi all’Inghilterra e quindi a permettere la creazione del Regno Unito è lunga, insanguinata e non priva di tentativi di restaurare un passato indipendente: basti pensare al referendum, tenutosi in Scozia l’8 settembre 2014, che vide la sconfitta dei separatisti. La Brexit sembra aver riacceso queste “fiaccole di libertà”, che, oltre che nelle ragioni storico/ culturali, trovano ora fondamento nel desiderio di rimanere nell’Unione. Una simile possibilità non vi sarebbe stata in passato, poiché l’accettazione di un nuovo membro richiede l’unanimità ed è ragionevole pensare che tale consenso non sarebbe giunto dall’ex madrepatria. Un caso analogo è quello della Spagna, in vista di una separazione della Catalogna e della sua eventuale candidatura. Tra le due, la situazione dell’Irlanda del Nord è la meno problematica. In primo luogo non si assisterebbe alla creazione di un nuovo Stato, in quanto un’eventuale separazione porterebbe al ricongiungimento con la Repubblica d’Irlanda, membro UE dal 1973. In secondo luogo, come prevedono gli Accordi del Venerdì Santo, che misero la parola fine alla “questione irlandese”, perché possa essere indetto un voto per riunire i due Paesi è

richiesta la maggioranza di entrambe le rappresentanze politiche (sia irlandese sia nord irlandese). Lo stesso premier di Dublino Enda Kenny ha derubricato una simile possibilità. Per la Scozia il problema è più spinoso. “Non sarà facile, ma farò di tutto perché la Scozia resti nell’UE”: queste le parole del primo ministro scozzese Nicola Sturgeon. Parole certamente meno incisive di quelle usate dal suo predecessore Alex Salmond, che subito invocava un nuovo referendum per l’uscita dal Regno Unito, ma che comunque puntano nella stessa direzione. Già si sono svolti in merito colloqui con i presidenti europei Junker e Schulz. Per ora comunque la situazione è molto incerta. Il presidente francese Hollande ha escluso qualsiasi decisione circa la Scozia fintanto che non saranno conclusi i negoziati formali col Regno Unito. Sulla stessa linea si pone la Spagna, anche se con toni più duri, non volendo che si crei un precedente per i propri movimenti secessionisti. Nonostante ciò, la determinazione è molto alta: come ha decisamente affermato Sturgeon, “la Scozia ha parlato. E ha parlato chiaro”.


NORD AMERICA IL CONFINE TRA DUE MONDI

La lotta statunitense all’immigrazione messicana

Di Erica Ambroggio Tra le questioni spesso fonte di attrito negli Stati Uniti compare sicuramente il difficile rapporto con il vicino Messico: un problema spesso lasciato in sospeso, ma che sembra essere tornato, nell’ultimo infuocato periodo di campagna elettorale, una delle tematiche più scottanti d’America, con un’eco in gran parte del globo. Trattando dei rapporti diplomatici e di vicinato tra questi due mondi, il primo riferimento va fatto al problema dell’immigrazione. Dal punto di vista statunitense, essa è infatti fonte di espansione del tasso di criminalità, ma soprattutto di proliferazione del narcotraffico. In risposta all’aumento del tasso di criminalità e non solo, negli anni ‘70 furono erette le prime barriere di confine, ostacoli difficili, ma non impossibili da superare, che con il passare degli anni si sono trasformati in vere proprie mura di confine. Tra le prime a essere state edificate vi è la barriera spinata che divide la città di San Diego dalla città di Tijuana – nota come Muro della Vergogna - la cui lunghezza totale raggiunge i 23 km. Il confine tra Stati Uniti e Messico, lungo oltre 3.000 km,

è puntellato da analoghe strutture, che si trovano in molteplici snodi territoriali. Tutto ciò non sembra bastare. Risuonano ovunque a gran voce le gelide parole del candidato repubblicano alla presidenza Donald Trump: “Costruiremo un grande muro, una barriera impenetrabile lungo tutto il confine tra gli Usa e il Messico”. Donald Trump ha portato nuovamente alla ribalta un problema da tempo motivo d’ossessione per il mondo americano, il quale ha sempre visto nei flussi migratori sudamericani, in particolar modo in quelli messicani, una questione difficile da risolvere. Questa questione continua a riproporsi, nonostante la pericolosità del confine da valicare e le atrocità compiute dai cartelli criminali messicani nei confronti delle famiglie residenti illegalmente negli Stati Uniti, viste dalla malavita come ulteriore fonte di guadagno. Nonostante siano numerosi gli americani a favore dell’immigrazione dal Messico e da tale fenomeno l’America abbia ricavato manodopera a basso costo, la politica, in particolar modo il fronte repubblicano, continua ad additare il flusso migratorio quale nemico da combattere e arrestare.

Stando alle stime del Pew Research Center, sarebbero 11,2 milioni gli immigrati illegali presenti sul suolo americano. Tra questi, il 52% è di origine messicana. Molti di loro sono cresciuti e si sono formati negli Stati Uniti. Fin da bambini sono entrati in contatto con il mondo statunitense, studiando e lavorando nella paura che il futuro li riportasse nel luogo dal quale erano scappati con le loro famiglie. Questa specifica categoria di immigrati viene chiamata “dreamers” e molti di loro sembrano essere destinati al rimpatrio o ai servizi sociali americani. Dal 24 luglio 2014 fino al 26 gennaio 2016 la Executive Office for Immigration Review ha inoltre annunciato l’emissione di 10.142 ordini di espulsioni, molti dei quali a carico di bambini sudamericani sprovvisti di documenti. Come proseguirà la gestione di tale fenomeno dipenderà soprattutto degli esiti delle prossime presidenziali, ma alcuni dati, come il numero delle persone che hanno perso la vita tentando invano di superare l’ostile confine tra i due Stati – 6.000 dal 1944 – sembrano non fare più breccia nell’opinione pubblica americana. MSOI the Post • 5


NORD AMERICA I POTERI DEL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI Perché tutto il mondo guarda alle presidenziali americane

Di Simone Poté I riflettori del mondo sono puntati verso gli Stati Uniti, che si apprestano a eleggere un nuovo Presidente. Superpotenza vincitrice dalla guerra fredda, questa federazione di Stati ha trasformato l’assetto bipolare del mondo in assetto unipolare per almeno un decennio. Oggi gli Stati Uniti sono la potenza egemone in campo militare (con una spesa nel settore pari a quella dei 20 Paesi con la spesa militare più alta), ma condividono con altri Paesi (in particolare la Cina e l’Unione Europea) l’egemonia culturale ed economica. Questa peculiare configurazione di potere, definita “uni-multipolarismo” dal politologo Samuel Huntington, ci permette di capire perché gli Stati Uniti siano capaci di influenzare così pesantemente la vita internazionale: quando prende il via il processo che porta all’elezione di un nuovo Presidente, esso riceve enorme attenzione mediatica e politica da tutto il mondo. Ma non basta: se il ruolo del Presidente fosse più che altro simbolico, come nel caso delle repubbliche parlamentari, l’importanza degli USA non sarebbe sufficiente a giustificare queste 6 • MSOI the Post

attenzioni. Trattandosi, invece, di una repubblica presidenziale, le prerogative del Presidente degli Stati Uniti conferiscono alle elezioni in questione una rilevanza fuori dal comune. Quali sono i poteri del Presidente? La repubblica presidenziale si distingue innanzitutto da quella parlamentare per via di una rigida separazione dei poteri: in effetti, la Costituzione statunitense è ispirata ai dettami dell’illuminismo e del liberalismo classico di Montesquieu e Locke, che teorizzarono questo genere di divisione, assente nei sistemi parlamentari puri. Il Presidente è dunque investito del potere esecutivo, mentre il Congresso detiene il potere legislativo, ma i due organi non sono responsabili l’uno davanti all’altro: il Presidente non può sciogliere le Camere, mentre il Congresso (salvo casi rarissimi, come la messa in stato d’accusa) non può far dimettere il Presidente. Riprendendo le parole del politologo francese Maurice Duverger, si tratta di un “matrimonio senza divorzio”: i due organi sono obbligati a collaborare e a trovare delle intese. Il Presidente degli Stati Uniti, considerato uno degli uomini

più potenti al mondo, vede quindi il suo potere ridimensionato - almeno in termini costituzionali - dalla sua controparte parlamentare. Sul piano costituzionale, un Presidente come quello francese ha in realtà molto più potere, non solo grazie alla possibilità di sciogliere le Camere, ma anche e soprattutto per il suo ruolo nell’esercizio del potere legislativo. Il Presidente statunitense, al contrario, non ha alcun potere di iniziativa legislativa e il suo ruolo nel processo si limita alla possibilità di porre un veto alle proposte del Congresso (comunque superabile con una maggioranza dei 2/3 in entrambe le Camere). Nell’esercizio del potere esecutivo, il Presidente si trova a dover ottenere l’approvazione del Congresso in casi quali la nomina di alti funzionari, ambasciatori e giudici federali, nonché per la ratifica di gran parte dei trattati internazionali. Per queste ragioni, il politologo americano Julian Zelizer ha commentato che anche “Barack Obama ha scoperto le stesse frustrazioni degli altri presidenti [...] quando realizzano il poco che possono compiere”. Ecco perché vale la pena di chiedersi, al di là di chi sarà il nuovo Presidente, anche quale sarà la nuova composizione del Congresso degli Stati Uniti.


MEDIO ORIENTE TURCHIA: LA POLITICA ESTERA SECONDO ERDOĞAN Il declino della grandeur nazionalista

Di Arianna Pappalardo Crocevia di culture diverse, potenza centrale ed autonoma, snodo cruciale nello scacchiere mediorientale, la Turchia, per la sua capacità di proiezione strategica e di far leva sull’eredità dell’Impero Ottomano, rappresenta una civiltà ponte tra l’Europa e l’Asia. Per anni una politica estera univoca, priva di una visione poliedrica e di flessibilità tattica, imperniata su un unico asse strategico, ha condannato la Turchia alla passività in ambito regionale ed internazionale. Con l’avvento al potere del partito AKP di Recep Tayyp Erdoğan nel 2002, la ridefinizione della politica estera secondo le linee strategiche panislamiche e panturche, adattata ai nuovi equilibri geopolitici, ha posto la Turchia al centro dei più importanti scenari regionali del sistema internazionale. Abbandonando l’impostazione “zero problemi con i vicini” e l’utilizzo del soft power, la Turchia di Erdoğan ha acquisito un’abilità politica machiavellica tipica dello hard power, mostrando un volto aggressivo e pragmatico, nonché parzialmente nuovo, con i Paesi del vicinato mediorientale (Iran, Siria, Iraq) e talvolta anche con i partner occidentali (USA, UE).

L’aspirazione di estendere la propria influenza sugli sviluppi delle “primavere arabe” e il coinvolgimento nella guerra civile siriana hanno tuttavia trascinato la Turchia verso un maggiore isolamento, iniziato a partire dalla crisi con Israele, a seguito dell’incidente della nave Mavi Marmara nel 2010, e con l’Egitto, per l’agguerrito sostegno ai Fratelli Musulmani dopo il golpe di al-Sisi nel 2013. Il deterioramento della sicurezza interna del Paese, vittima di numerosi attentati terroristici di matrice islamica, e l’escalation di tensioni ai confini hanno sollevato la necessità di contrastare il gruppo IS, imponendo così una revisione dell’agenda strategica del presidente Erdoğan. Infine, l’abbattimento del jet russo, a seguito della violazione dello spazio aereo turco, nel 2015 ha causato una grave crisi nelle relazioni bilaterali con la Russia e determinato il progressivo abbandono degli interessi egemonici turchi. A 6 anni della crisi della Mavi Marmara, il 26 giugno la Turchia e Israele hanno normalizzato i rapporti bilaterali con uno storico accordo che chiude il contezioso tra i due Paesi e permette alla Turchia di uscire dall’isolamento internazionale.

Un importante segnale politico, ma è sul piano commerciale che l’accordo giova maggiori profitti, prevedendo un rilancio della cooperazione economica tra le due Nazioni. Una lettera di scuse inviata dal presidente Erdoğan al premier Putin il 27 giugno, seguita da una telefonata tra i due capi di Stato, ha segnato invece il riavvicinamento tra la Turchia e la Russia. Oltre ai numerosi interessi economici legati soprattutto al settore energetico, come il progetto Turkish Stream, il disgelo significa tentare di riportare stabilità e sicurezza nella regione caucasica contesa tra Armenia, sostenuta dalla Russia, e Azerbaigian, sponsorizzato dalla Turchia. Le nuove alleanze dissolvono definitivamente le aspirazioni turche all’egemonia regionale in Medio Oriente e costringono il presidente Erdoğan ad adottare una politica estera basata sulla valutazione delle forze e degli interessi nazionali. Questo porta inoltre a non considerare più la Turchia una rising power in grado di cambiare il principio ordinatore del sistema internazionale (Kenneth N. Waltz), stabilizzando l’area mediorientale, e di essere un canale esclusivo nelle interazioni tra l’Occidente e il Medio Oriente.

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MEDIO ORIENTE EMPOWERMENT?

Riflessioni sulla libertà sessuale e lo status quo che non può essere esaudito: da Occidentale, non riesco a comprendere realmente cosa significhi.

Di Martina Terraglia, Corrispondente dalla Giordania Il 29 aprile sarei dovuta andare a un concerto. Si sarebbe dovuta esibire la band mediorientale più famosa al mondo, i Mashrou’ Leila. Tutto questo non è avvenuto. A pochi giorni dal concerto, l’evento è stato cancellato, e sul profilo della band è stata riportata la versione addotta dalle autorità locali: “i contenuti della [loro] musica sono contrari all’Islam, alla Cristianità e ai valori della società giordana”. Dietro quest’affermazione si nasconde una più grande verità sulla libertà sessuale in Giordania. La Giordania è un Paese che ha visto una crescita improvvisa e rapida: questo si è tradotto nello sviluppo di un’identità caratterizzata da varie sfaccettature che si sovrappongono e si contraddicono. Una sera ero in auto con un amico. Percorrevamo Rainbow Street, una delle vie principali della movida. Passando accanto a un gruppo di ragazze velate con indosso delle abaya molto aderenti, il mio amico mi dice che quelle sai chi sono? Muhaji-babe, cosí si chiamano. E lo sai perché? Perché si velano e si coprono, ma ti lasciano lo stesso ben poco da immaginare: tu le vuoi, loro ti vogliono, ma no, non si tocca, è proibito. Un desiderio 8 • MSOI the Post

Il sesso pre-matrimoniale non è illegale, ma non è accettato culturalmente, per motivi legati alla religione. Questo conservatorismo si scontra con una società che è influenzata, nel bene e nel male, dalle idee di vita dell’Occidente. In un Paese in cui persino tenere per mano il partner in strada può essere un problema, i giovani giordani chiedono di poter vivere, di potersi divertire. L’alcol è haram, proibito dalla religione, ma questo non sembra rappresentare un problema per i bar e pub della città, che offrono happy hour quotidiani con drink scontati. Ancora più scottante è il tema dell’omosessualità. Secondo la legge del 1952, l’omosessualità non è un reato. Sul piano culturale, resta un crimine contro la religione. Cosí, mentre il Books@Café, il locale gay più noto del Paese, prospera a Rainbow Street, i giovani omosessuali temono di essere scoperti e uccisi dalla famiglia, di diventare vittime di un omicidio d’onore, una delle piaghe principali del Paese, soprattutto perché difficilmente

in Giordania le pene superano i pochi mesi di carcere. La soluzione è tacere e nascondersi, fare tutto senza farsi notare. “Sarà per questo che i ragazzi giordani sono cosí frettolosi ed egoisti: nemmeno un caffé prima”. Dice il mio amico, expat come me. Sarà per non farsi vedere, per evitare che qualcuno possa capire, o anche solo sospettare. Sarà per restare invisibili. I progressisti ci sono, ma sono pochi, il 10% della popolazione forse, e sono tutti ad Amman. Questo è quello che mi racconta un altro amico, giordano. Il governo è espressione del restante 90%, i conservatori. Non sono tutti musulmani, sono anche cristiani, ma sono chiusi all’interno della propria comunità. Loro, e quindi il governo, vogliono solo preservare lo status quo. E quindi conservare il potere: a breve in Giordania si terranno le elezioni e ci si aspetta un reimpasto di governo. Bandire un concerto promotore di idee progressiste significa affermare il potere dell’autorità di interferire anche nel privato. La gente voleva protestare, e la band ha riottenuto i permessi, ma era ormai tardi: l’importante era che non si scendesse in piazza. L’importante era che la Giordania rimanesse immobile.


RUSSIA E BALCANI LA SPEDIZIONE RUSSA IN ARTIDE

Mosca alla conquista delle risorse artiche: ambizione o necessità?

Di Giulia Bazzano Fino a poco tempo fa la penisola siberiana di Yamal, 400 km a nord del circolo polare artico, era conosciuta principalmente per i suoi pastori nomadi e per le prigioni dell’epoca staliniana. Dalla fine del 2014, però, è cambiato qualcosa. Putin ha dato l’ordine di iniziare attività estrattive ed entro il 2030, come prospetta Gazprom, la regione fornirà più di un terzo della produzione di gas della Russia. Bovanenkovo, dove avviene la maggior parte delle estrazioni, è uno dei più grandi giacimenti di gas naturale sulla terra. In un clima di crescente richiesta di idrocarburi, Yamal potrebbe diventare “l’Arabia Saudita della regione artica”. Infatti, secondo una stima dell’USGS, agenzia geologica del governo USA, più di un quinto delle risorse di petrolio e gas ancora da scoprire si trova a nord del circolo polare artico. Negli ultimi tempi è iniziata una vera e propria “corsa fredda” per lo sfruttamento delle risorse nella regione. La Russia si è dimostrata particolarmente interessata all’accesso a gas e petrolio. Nell’Artico sono presenti già due aziende russe, la Gazprom e la Novatek. Quest’ultima sta

costruendo un terminale per esportare il gas in Asia e in Europa, creando così uno sbocco commerciale importante. Lo sfruttamento dell’Artide implica la costruzione di infrastrutture adeguate e la Gazprom ha già costruito una ferrovia di 570 km per portare i lavoratori a destinazione. Le sanzioni imposte dopo l’intervento in Ucraina, però, hanno momentaneamente interrotto questi progetti, vista la necessità di capitali esteri e tecnologia piuttosto costosa. Mosca, che ha una lunga storia di spedizioni nella regione, sta compiendo notevoli sforzi per mantenere questo legame. Tuttavia, non è la sola a essere interessata all’area. In lizza c’è anche la Norvegia, che l’anno scorso ha installato una piattaforma ancora più a nord di quella di Gazprom. Altro rivale è il Canada, che estrae oro e ferro nei territori del nord- ovest. Inoltre, facendo ricorso alla convenzione ONU sul diritto del mare, Russia e Danimarca rivendicano la stessa dorsale sottomarina. La lotta per l’appropriazione di idrocarburi desta non poche preoccupazioni, data la loro inevitabile esauribilità e il loro impatto sull’ambiente. La fusione del permafrost, per esempio, sta rilasciando nell’at-

mosfera molto carbonio responsabile del surriscaldamento globale. Secondo un recente studio, il petrolio e il gas dell’Artide sarebbero i primi idrocarburi da non estrarre, se si vuole mitigare l’impatto del cambiamento climatico. Inoltre, gli ambientalisti hanno sottolineato come la corsa allo sfruttamento dell’Artide possa alterare l’equilibrio di una regione ancora incontaminata. Putin reclama più di un milione di km quadrati nel Mar Glaciale Artico. A detta di molti esperti, più che ambizione è una necessità. Si stima che nella regione artica e subartica si concentri la quasi totalità delle risorse russe di gas e petrolio, di cui il Paese ha bisogno per sostituire quelle ormai inutilizzabili in Siberia occidentale. Kostantin Simonov, direttore del Fondo Nazionale per la Sicurezza Energetica di Mosca, ha affermato che Putin sta “semplicemente compiendo la mossa più logica”, cioè spostarsi verso l’Artide. Inoltre, le imposte sulla produzione e i dazi sull’esportazione del petrolio rappresentano il 40% delle entrate statali. Tutto ciò rende l’appropriazione di quelle risorse necessaria e urgente. MSOI the Post • 9


RUSSIA E BALCANI SILENZIO

La Russia di Putin e la perduta libertà di stampa. le regime>”. Questi dati sembrano in stridente contrasto con quelli rilevati statisticamente a partire dalle opinioni della popolazione russa: per il 60% di questa, in Russia non esiste un problema di libertà di stampa né di libertà di espressione.

Di Elisa Todesco Nel 1952 il compositore americano John Cage compose il brano 4’33”. La particolarità di questo pezzo è che consiste in tre movimenti di silenzio. 4’33’’ ha aperto un intenso dibattito nel mondo della musica, dell’arte e della filosofia e ha dato origine a una nuova riflessione sul ruolo del silenzio. Esistono molte tipologie di silenzio: a volte i silenzi sono pieni di significati e di non detto. Fra questi silenzi “parlanti”, alcuni colpiscono più di altri, come il silenzio imposto ai giornalisti russi, carico di “vorrei dire ma non posso”. Ne è un esempio la giornalista Anna Politkovskaja, assassinata il 7 ottobre 2006: solo una fra i più di 300 giornalisti russi che hanno perso la vita dagli anni ‘90. Il problema ha assunto una portata tale da attivare anche il Parlamento Europeo, che in un suo report ha scritto: “Il Parlamento nota poi che l’assassinio di oppositori politici <è diventato un fenomeno preoccupante nell’arena politica russa> e manifesta quindi viva preoccupazione per l’intimidazione, le vessazioni e l’assassinio di giornalisti indipendenti e di altre persone <critiche dell’attua10 • MSOI the Post

Ma più esattamente com’è stata minata la libertà di stampa in Russia, tanto da far precipitare lo Stato nella posizione 148 su 180 Paesi analizzati nel ranking mondiale? La ragione principale è da attribuire alle politiche sempre più censorie adottate dallo Stato russo negli ultimi anni. Eccone alcuni esempi. Agosto 2014: viene promulgata la bloggers law, secondo la quale qualsiasi blog online che riceva più di 3.000 visite al giorno deve essere registrato al Roskomnadzor (The Federal Service for Supervision in the Sphere of Telecom, Information Technologies and Mass Communications) ed è sottoposto alle stesse leggi dei media tradizionali. Inoltre, sono vietati articoli anonimi e viene introdotta la responsabilità del proprietario del blog anche per commenti di terzi pubblicati sulla sua piattaforma. Infine, per garantire l’accessibilità ai dati in qualsiasi

momento, le informazioni su personale e utenti devono essere custodite sul suolo russo. Una legge già approvata dalla Duma prevede che tutti i media che ricevano fondi dall’estero Stati stranieri, organismi internazionali e ONG (le ONG russe per legge vengono considerate enti stranieri) - debbano informare di questi finanziamenti la Roskomnadzor. Una nuova legge di controllo su social media, canali video online, ecc. prevede l’eliminazione del materiale ritenuto illegale o che possa essere dannoso per i minori. Anche se i contenuti finora censurati istigavano al suicidio o a uso di droghe, non è da escludere che in futuro il target possa cambiare. Questi sono solo alcuni esempi di come le norme russe in materia di libertà d’informazione e d’opinione vengano sempre più limitate. Inoltre, se consideriamo che tutti i maggiori media oggi sono controllati da persone vicine al Cremlino e che studiosi e scienziati non possono più pubblicare liberamente articoli scientifici senza l’approvazione del governo, forse possiamo iniziare a comprendere cosa voglia dire formarsi un’opinione in Russia.


ORIENTE WASHINGTON E TAIPEI

La presidenza Obama al tramonto e l’eredità politica del Presidente in Asia

Di Gennaro Intoccia, Sezione MSOI Napoli Il noto Pivot to Asia ha un peso notevole. Da qui dipenderebbe, in gran parte, il futuro politico ed economico degli Stati Uniti. Il successore alla Casa Bianca avrà il delicato compito di sorreggere e rivitalizzare la strategia militare nel Pacifico per contrastare l’ascesa militare di Pechino. Per raggiungere gli obiettivi sperati, Washington è da anni impegnata a rinsaldare e ricucire i rapporti diplomatici con attori regionali importanti come Vietnam, Laos e Filippine. In uno scenario complesso e intrinsecamente instabile, gli Stati Uniti intendono rinvigorire i legami con amici storici. Tra questi figura Taiwan. Era il 1979 quando il Congresso degli Stati Uniti d’America approvò il Taiwan Relations Act (TRA), che disconobbe lo status di Repubblica Cinese a Taiwan. Nonostante l’assenza

di rapporti diplomatici ufficiali, il provvedimento legislativo garantiva l’applicazione delle leggi degli Stati Uniti nei confronti di Taiwan. Permetteva al Congresso di deliberare aiuti economici e forniture militari, promuovendo un’idea di sviluppo prospero e sicuro in un quadro di legalità internazionale. Stati Uniti e Taiwan hanno rinforzato la loro alleanza. Il Congresso ha stanziato miliardi di dollari per garantire stabilità finanziaria e sicurezza militare. Taiwan sarebbe sul punto di ricambiare anni di lauti favori: le recenti elezioni hanno testimoniato la ferrea volontà di ridurre la considerevole dipendenza economica di Taipei da Pechino e di fronteggiare la minaccia cinese in sinergia con Washington. Nuovi investimenti sono in arrivo, soprattutto nel settore della difesa. Quelli nel campo della ricerca e delle infrastrutture favoriscono la graduale apertura di Taiwan al mercato globale. Il nuovo governo ha

promesso il varo di riforme strutturali per incoraggiare l’emancipazione commerciale dalla Cina. L’esecutivo ritiene applicabile l’articolo 121 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e sostiene il principio della libertà di navigazione nel Mare del Sud, opponendosi esplicitamente alle rivendicazioni cinesi. La crescita economica del Paese è uno degli obiettivi fissati nel TRA e consentirebbe agli Stati Uniti di rafforzare la propria presenza nel Pacifico, frustrando le ambizioni cinesi nel Mar Cinese Del Sud. Il Taiwan Relations Act potrebbe essere un saldo punto di partenza per incrementare le potenzialità insite nell’alleanza fra Taipei e Washington. Per usufruire al meglio dei frutti degli accordi, Taiwan dovrebbe tenere conto degli interessi americani in qualunque iniziativa di politica estera, al fine di essere considerato un valido e credibile partner dell’America.

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ORIENTE IL MYANMAR SI RISOLLEVA La lenta ma costante risalita del Paese

come la leader, nonostante le numerose politiche a favore dei diritti umani, non stia seguendo una linea molto diversa rispetto ai governi militari precedenti.

Di Carolina Quaranta Gli ultimi mesi sono stati densi di eventi di portata internazionale in Myanmar, dove, dopo 54 anni di regime militare, si è giunti a quello che oggi si può definire un governo democratico. Il Paese ha infatti celebrato la vittoria del partito di Aung San Suu Kyi, la Lega Nazionale per la Democrazia, alle elezioni generali. Fino ai giorni immediatamente precedenti il voto non si poteva percepire quale esito esso avrebbe dato, ma l’8 novembre scorso un consenso quasi nazionale (con l’affluenza all’80%) ha destinato al partito l’86% dei seggi nell’Assemblea dell’Unione, segnando la fine della dirigenza militare del Partito di Unione, Solidarietà e Sviluppo (USDP). Il successivo 15 marzo veniva eletto Presidente il civile Htin Kyawcome, braccio destro di Suu Kyi, quest’ultima ineleggibile per via di una clausola costituzionale che impedisce la carica a chi sia imparentato con persone di nazionalità non birmana. Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace, è stata poi nominata Ministro degli Esteri, dell’Educazione e dell’Energia; unica donna tra i 21 Ministri, è ora affiancata 12 • MSOI the Post

da 17 esecutori presentati dal Presidente e tre indicati dai vertici militari. Nonostante il suo ruolo non sia tecnicamente centrale, è il nome di Aung San Suu Kyi che viene ricordato ogni qualvolta il Myanmar compia qualche passo, falso o meno che sia. Una delle prime azioni del nuovo governo è stata quella di liberare dal carcere i 69 studenti che nel marzo 2015 erano stati condannati per aver partecipato a una manifestazione pacifica. La mossa ha contribuito ad aumentare consenso e popolarità in un popolo che, dopo anni di vessazioni e soprusi, ripone grandi speranze nella leader premio Nobel: durante gli anni del regime il Paese è rimasto chiuso ai contatti economici con l’esterno, diventando così dal secondo più ricco del sud-est asiatico al più povero. Il nuovo governo ha introdotto delle novità anche dal punto di vista delle alleanze internazionali. Su richiesta delle forze armate è stato approvato un accordo di cooperazione militare con la Russia che prevede un rinforzo nell’armamento del Paese: una proposta partita dal Ministro degli Esteri, ossia dalla stessa Suu Kyi. Secondo i media più critici questo è il segnale di

In un rapporto dello scorso aprile di Zeid Ra’ad Al Hussein, Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU, è stato denunciato come le violazioni e le discriminazioni contro la minoranza musulmana dei Rohingya possano costituire crimini contro l’umanità. Risalgono al 2012 gli scontri tra i Rohingya e la fazione buddista del Paese. Aung San Suu Kyi ha creato nel maggio scorso un comitato dedicato a riportare pace e sviluppo nello Stato di Rakhine, teatro degli scontri, ma ad oggi non è ancora chiaro che cosa questo preveda. Intanto, la leader ha annunciato che il suo governo non utilizzerà più, per riferirsi alla minoranza musulmana, il termine “Rohingya”, considerato una parola controversa. Attualmente, quella del Myanmar è una delle economie in più rapida crescita del mondo. A fine maggio gli Stati Uniti hanno provveduto ad annullare le sanzioni economiche e a rimuovere le barriere al commercio che appesantivano il Paese: una mossa che non ha mancato di dimostrare il sostegno della potenza occidentale nei confronti dei cambiamenti che stanno smuovendo lo Stato. Questo pacifico passaggio di potere ha riacceso le speranze di molti investitori provenienti da Singapore, dalla Cina e dalla Thailandia e una svolta positiva si è riscontrata anche nel turismo.


AFRICA L’OMBRA DELLA GUERRA CIVILE

L’esodo di migliaia di mozambicani conferma la ventennale crisi del Paese abbiano dato fuoco alle loro abitazioni al fine di stanare i sostenitori del RENAMO. Dall’altra parte, i capi dell’esercito rigettano tali accuse, sostenendo che non sia possibile che le forze militari - le stesse preposte alla difesa della popolazione - possano compiere simili violenze, e ritengono inverosimile l’esistenza di un campo profughi in Malawi. Di Jessica Prieto Il Mozambico conquistò l’indipendenza dal Portogallo nel 1975 grazie all’azione del Fronte per la liberazione del Mozambico (FRELIMO), divenendo però un Paese satellite dell’Unione Sovietica. Come contromossa, gli americani finanziarono un gruppo di liberazione anti-comunista chiamato RENAMO. La sua contrapposizione con gli esponenti del FRELIMO trascinò il Paese in una sanguinosa guerra civile, che terminò nel 1992 con la firma dei trattati di pace a Roma. Nel 1994 si tennero le elezioni presidenziali, che furono vinte dal leader del FRELIMO, Joaquim Chissano, rimasto in carica fino al 2005. La leadership del FRELIMO è stata riconfermata anche nelle ultime elezioni, tenutesi nell’ottobre del 2014. Tuttavia, questa vittoria è stata denunciata dal RENAMO, con nuovi scontri tra le forze governative e il gruppo ribelle. Così sul Paese è tornata l’ombra della guerra e negli ultimi mesi migliaia di Mozambicani sono scappati verso il vicino Malawi. Molti di loro sostengono che i militari dell’esercito nazionale

In questo contesto si colloca la notizia della scoperta di un ossario nella zona montagnosa di Gorongosa. Secondo le notizie riportate da Le Monde Afrique, si tratterebbe di 120 civili accusati di complicità con il partito di opposizione, il cui leader, Afonso Dhlakama, ha annunciato l’intenzione di occupare 6 province centrali del Paese, che sostiene aver ottenuto in seguito alle elezioni del 2014.

L’opinione pubblica internazionale intanto tace. Questo silenzio, secondo alcuni analisti, potrebbe essere legato alla visione, ormai consolidata in Africa, del Mozambico come modello di successo democratico post guerra civile. Mettere troppo in luce la grave crisi umanitaria venuta a crearsi significherebbe distruggere tale utopia. In particolare, la crisi non ha suscitato interventi neanche da

parte delle principali istituzioni continentali, come l’Unione Africana (UA), e nemmeno da parte del Sudafrica, il cui regime di apartheid aveva sostenuto RENAMO durante la passata guerra civile. Questo perché un intervento del Sudafrica dovrebbe presupporre il consenso del governo mozambicano, il quale risulta come “governo legittimamente eletto”, sostiene il ministro delle relazioni internazionali sudafricano Maite Nkoana-Mashabane. Da parte del nuovo presidente mozambicano Nyusi vi sono stati diversi tentativi di dialogo con Dhlakama, tuttavia tali negoziati sono falliti e Dhlakama ha rifiutato ulteriori incontri. L’unica soluzione potrebbe essere quella di un mediatore neutrale, come lo era stata la comunità italiana di Sant’E-

gidio durante le trattative di pace del 1992. Così, mentre le due fazioni si scontrano e negoziano sulla base di propri interessi particolari, il Mozambico vive nuovamente una delle pagine più buie della sua storia, caratterizzata da una forte instabilità politica ed economica e da una crisi umanitaria che è ben lontana da una facile risoluzione.

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AFRICA IL MADAGASCAR AL CONFINE

La realtà malgascia tra un passato burrascoso e un difficile presente civili e colpi di Stato militari.

Di Fabio Tumminello Sulla scena internazionale, il peso del Madagascar è sempre stato relativo. Sono numerosi i motivi per cui il governo di Antananarivo non ha mai raggiunto e consolidato il suo ruolo di guida nella regione meridionale. Pressoché ignorato nel periodo delle grandi colonizzazioni, fino al XX secolo il Madagascar non conobbe un governo stabile e duraturo e restò diviso tra lotte intestine e guerre dinastiche per l’affermazione di singole autorità locali. Passato sotto il controllo francese con la fine della seconda guerra mondiale, solo nel 1947 ritornò a essere un Paese libero e indipendente, salvo però trasformarsi poi in un regime quasi dittatoriale. Il governo di Didier Ratsiraka è infatti durato quasi cinquant’anni e si è concluso nel 2002. Con la fine della dittatura si è aperta un’ulteriore fase di crisi politica, in cui le elezioni democratiche si concludevano con bagni di sangue, scontri, guerriglie

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Questa situazione di instabilità ha raffreddato notevolmente i rapporti con la comunità internazionale e con le maggiori organizzazioni: l’ONU ha più volte criticato le derive autoritarie e violente dei (brevi) governi di questi ultimi anni e tanto gli Stati Uniti quanto l’Unione Europea hanno ridotto i contatti e gli aiuti umanitari devoluti al governo malgascio. Solo dal 2013, sotto la guida di Hery Rajaonarimampianina, il Paese ha ritrovato una certa stabilità, anche se sono parecchie le difficolt à ancora da affrontare. Il Madagascar resta infatti una delle economie più povere del continente e quella con i margini di crescita più bassi. Il Paese occupa le ultime posizioni in tutte le classifiche relative a parametri economici, come il PIL pro capite (178°) e l’Indice di Sviluppo Umano (155°). Se il turismo resta il settore trainante dell’economia, tanto le attività del settore primario quanto l’industria tessile – la più sviluppata e diffusa – faticano a trovare una propria dimensione. La sudditanza economica nei confronti della Cina è una delle principali ragioni per cui l’economia malgascia stenta a decollare, stritolata in una re-

lazione che ha connotati quasi neo-colonialisti. Una possibilità di recuperare un proprio spazio di manovra in campo economico sarebbe quella di valorizzare il mercato attraverso l’Oceano Indiano, rivolgendosi sia a nazioni africane (Mozambico e Kenya in particolare) sia all’India e alla penisola arabica. Ancora poco, però, è stato fatto dall’attuale governo, considerando anche che le risorse disponibili sono relativamente scarse, soprattutto se paragonate a quelle di altri Stati africani vicini. Nonostante questo, la maggior stabilità di governo ha permesso alla popolazione malgascia di superare le problematiche tipiche di un regime totalitario: vi sono regolari elezioni democratiche, una stampa libera (il Madagascar occupa il 55° posto nella classifica di RSF) e una società civile consapevole delle difficoltà del proprio Paese. Non mancano infatti le critiche al governo di Rajaonarimampianina, accusato di essere debole sulla scena internazionale e poco attento ai bisogni della popolazione: gli effetti del ciclone El Nino hanno provocato una lunghissima siccità e messo in ginocchio la già fragile economia malgascia, senza che il premier prendesse seri provvedimenti e scatenando ondate di proteste in tutto il Paese.


SUD AMERICA DALL’ALTRO LATO DEL MURO DI TRUMP La migrazione che attraversa il Messico

Di Daniele Pennavaria I flussi migratori che dal Messico arrivano agli Stati Uniti sono sempre stati un tema di spicco nelle campagne politiche americane, e Donald Trump, candidato repubblicano per le presidenziali di novembre, si è distinto per le sue posizioni radicali a proposito. Classificando gli immigrati ispanici come spacciatori e stupratori e proponendo la costruzione di un muro lungo l’intera frontiera nel sud il tycoon newyorkese ha diviso il Paese riguardo al tema, portando il dibattito ad un livello inedito. Le posizioni del candidato repubblicano hanno avuto una eco anche al di fuori del Paese, destando spesso preoccupazione. L’ipotesi del muro, che Trump ha promesso di far pagare allo Stato messicano, meno di un anno fa non era nemmeno commentata dalle cariche del governo che la consideravano semplicemente surreale. Prima ancora della conferma della candidatura del leader repubblicano un gruppo di 67 intellettuali ed artisti di differenti Paesi dell’America Latina, ma anche statunitensi e spagnoli, hanno firmato una dichiarazione in cui condannano il suo discorso politico apertamente xenofobo

e sottolineando anche come ignori il fondamentale apporto all’economia nordamericana della manodopera procedente dal confine sud. Malgrado le posizioni discordanti le autorità messicane sono sempre state collaborative nelle operazioni per arginare l’immigrazione irregolare. Enrique Peña Nieto, presidente messicano, ha annunciato nel 2014 in nome di questa collaborazione il piano Frontera Sur per la gestione dei flussi migratori, che però non ha avuto a particolare efficaci nell’arginare gli attraversamenti illegali del confine. Il risultato del programma è stato quello di diminuire negli USA gli arresti di ispanoamericani alla frontiera del 28%, ma solo in forza del fatto che gli stessi migranti, spesso provenienti da altri Paesi centroamericani e minorenni, venivano detenuti nel lato messicano del confine. La prospettiva per il futuro sembra dipendere, a livello politico, quasi esclusivamente dal risultato delle presidenziali statunitensi di novembre, ma nemmeno una svolta politica potrebbe modificare la totalità delle condizioni. Gli ispanoamericani regolarmente censiti nel 2012 erano quasi il 17% della popolazione degli Stati Uniti

e rappresentavano percentuali superiori al 30% in tutti gli Stati più importanti del sud, con il picco del New Mexico dove rappresentano un 47%. Sono il 16% della forza lavoro e hanno contribuito con più di $ 124 miliardi alle tasse federali ed oltre 64 miliardi in tasse locali nel 2013. Le stime di crescita, tenendo in conto l’incremento previsto della popolazione di origine latina e dell’altissima percentuale di giovani, indicano infatti che nel 2019 il potere di acquisto aumenterà di $ 1.700 miliardi. Infine, gli interessi attorno alla migrazione riguardano anche organizzazioni criminali da ambo i lati della frontiera i cui guadagni dipendono anche dal mantenimento dell’attuale situazione. Le condizioni di violazione di diritti umani dei migranti sono continuamente denunciate da Amnesty International e molte altre associazioni sul campo, ma le azioni umanitarie hanno avuto finora un impatto limitato. Sebbene le alternative proposte siano diametralmente opposte sembra evidente la necessità di una nuova gestione per uscire dalla condizione di emergenza, che possa conferire stabilità da entrambi i lati di un muro per ora solo legale. MSOI the Post • 15


SUD AMERICA PABLO NERUDA, POLITICO E POETA DEL POPOLO CILENO

È diventato famoso per la sua poesia, ma Neruda fu anche una figura politica e diplomatica

Di Viola Serena Stefanello, Sezione MSOI Gorizia Nato a Parral, in Cile, il 12 luglio 1904, Pablo Neruda – nome d’arte poi riconosciuto anche a livello legale – non fu soltanto il vincitore del Premio Nobel per la Letteratura nel 1971. Fu anche un fine diplomatico, un combattente fiero per i propri ideali, un “poeta del popolo”. Forse il più grande poeta sudamericano del 1900, Neruda fu per tutta la vita animato da due passioni tra loro inestricabili: la poesia e la politica. Spinto dalla necessità di conoscere il mondo, grazie a un contatto al Ministero degli Esteri e alla discreta fama che aveva già ottenuto come poeta in patria nel 1927 divenne prima di tutto console onorario del Cile in Birmania. È soltanto il primo degli incarichi diplomatici che gli saranno assegnati e che lo porteranno a fare la conoscenza di tantissimi dei più importanti personaggi storici del secolo scorso – da Gandhi a Trotsky. Quello che è forse in mandato più importante della sua vita gli viene assegnato da giovanissimo: console a Madrid. Lo trasferiscono in un periodo molto delicato della storia di Spagna: nel 1934, due anni prima dello scoppio della guerra 16 • MSOI the Post

civile. È una guerra che tocca profondamente Neruda e che lo convince a dedicarsi alla causa del comunismo fino alla morte: si può dire che la sua genesi come un vero e proprio poeta del popolo nasca tra la Spagna e la Francia del 1936-1939: per la partecipazione alla difesa della Repubblica spagnola, il governo del Cile lo destituisce dalla carica e Neruda, insieme ad alcuni amici, si rifugia a Parigi in esilio. Tornato nel 1939 in Cile, sentendo della massiccia e drammatica emigrazione spagnola, si reca personalmente dal nuovo presidente progressista Aguirre Cerda, che lo fa console incaricato dell’immigrazione spagnola e lo manda in Francia con un incarico ben preciso: portare i profughi spagnoli in Cile. Gli anni che seguono sono toccati profondamente dalla Seconda Guerra Mondiale e, poi, dall’instabilità della politica cilena: tornato dopo anni e anni di incarichi diplomatici nella terra natale e nominato senatore nel 1945 con il Partito Comunista, nel quale milita instancabilmente, viene mandato in esilio dal presidente Videla soltanto tre anni dopo, con la svolta autoritaria del Governo. Comincia un’altra avventura: un giro del mondo che lo porta ad attraversare le Ande in gran segreto, a rifugiarsi per un po’ a Parigi grazie a Pablo Picasso in

persona, a visitare un’Italia che lo accoglie festosa e a vivere per molto tempo in Unione Sovietica, che lo accoglie come un eroe e dove gli verrà consegnato il Premio Lenin per la Pace nel 1953. Con la caduta del governo di Videla può tornare, ancora una volta, in Cile. Gli ultimi anni della sua carriera politica sono forse i più intensi: rinnegata la precedente ammirazione nei confronti dell’Unione Sovietica e della Cina comunista, rimane però fedele alla propria ideologia, combattendo sul suolo natio a favore, soprattutto, dei diritti degli indigeni e dei più poveri. “Ecco l’alloro della mia poesia,” scrive: “quel buco nella pampa terribile, da cui esce un operaio cui il vento, la notte e le stelle del Cile hanno detto molte volte ‘non sei solo; c’è un poeta che pensa ai tuoi dolori’”. Nel 1970 viene addirittura indicato come candidato alla Presidenza della Repubblica per il PCC. Ritiratosi dalla competizione, appoggia Salvador Allende, aiutandolo a divenire il primo Presidente socialista democraticamente eletto in America Latina. Tutto il resto è Storia.


ECONOMIA LA CRISI DELLE STATE OWNED ENTERPRISE Aumentano le preoccupazioni per i default delle SOE

Di Luca Bolzanin Le preoccupazioni a proposito dell’accumulo di debito in Cina sono cresciute negli ultimi mesi nell’ambito di un più generale rallentamento della seconda economia al mondo. Investitori di alto profilo come Kyle Bass e George Soros hanno avvertito di una possibile crisi del credito in Cina. Queste inquietudini si sono riflesse in valutazioni poco entusiastiche sulla solvibilità della Cina. Sia Moody’s sia Standard & Poor’s hanno rilasciato outlook negativi a causa dell’aumento del debito pubblico e di “passività potenziali considerevoli”. Secondo l’agenzia di rating statunitense, nonostante gli alti livelli di debito costituiscano un rischio per la stabilità dell’economia cinese, un’implosione simile a quella della crisi finanziaria globale non è verosimile. Questa considerazione si basa principalmente sul fatto che, sebbene il debito domestico sia aumentato del 53,2% negli ultimi cinque anni fino a raggiungere il 196,8% del PIL, il debito estero rimane contenuto (15,6%). Un problema considerevole, secondo Moody’s, invece, sono le passività delle State Ow-

ned Enterprises (SOE), definite “particolarmente ampie”. Nel complesso, secondo i dati del Ministero delle Finanze, queste ultime sono aumentate del 15% in tre anni. Tuttavia, secondo Moody’s, “la maggior parte delle SOE sono finanziariamente in salute e non necessitano di supporto governativo diretto o indiretto”. I dati dell’economia cinese, tuttavia, sembrano mostrare l’esatto contrario. Da una parte, il mercato dei bond delle imprese cinesi è quadruplicato negli ultimi cinque anni, fino a raggiungere gli 8 mila miliardi di dollari, divenendo il secondo più grande al mondo; dall’altra, i mancati pagamenti degli interessi da parte delle SOE sono in netta crescita. Solo nella prima metà di aprile, due SOE hanno dichiarato default e diverse altre hanno comunicato di non poter rifinanziare i debiti. I default, oltre a mettere in difficoltà le imprese stesse, stanno anche creando problemi alle società che tentano di raccogliere fondi sul mercato. Dall’inizio dell’anno sono state cancellate 22 emissioni di bond. Lo stesso numero che si è registrato durante tutto l’anno scorso. Per anni, i mancati pagamenti dei bond erano una cosa inaudi-

ta per le compagnie cinesi, che confidavano sull’affidabilità del governo, pronto a subentrare per salvare le emittenti in difficoltà. La svolta è avvenuta nel marzo2014,quandolaChaoriSolar (di proprietà privata) ha mancato un pagamento degli interessi. Il primo default di una SOE, la Baoding Tianwei, è avvenuto invece lo scorso aprile. Ora, con il brusco rallentamento dell’industria carbo-siderurgica e delle costruzioni, i default stanno accelerando. Molti economisti sostengono che i default delle SOE siano salutari per lo sviluppo a lungo termine del mercato del debito cinese perché riducono l’azzardo morale causato dalla fiducia nelle misure di soccorso governative. Sebbene il miglior modo per liberarsi dei debiti sia lasciare che i default si verifichino, il governo cinese - come qualsiasi altro - non vuole vederli aumentare. E, se è pur vero che la fornitura di aiuti alle imprese sta scemando, i salvataggi non sono scomparsi, ma si sono resi solo più sporadici. Il 12 aprile, infatti, la Shanxi Huayu Energy ha assicurato che pagherà i bond grazie all’iniezione di capitale da parte della sua capogruppo, la controllata statale China National Coal Group. MSOI the Post • 17


ECONOMIA HELICOPTER MONEY L’ultima spiaggia?

zero ed economia debole o in recessione. L’obiettivo è alimentare la crescita dell’economia ed evitare la deflazione, elargendo direttamente del capitale sui conti correnti di cittadini e imprese.

Di Ivana Pesic Il contesto Malgrado il Quantitative Easing (l’acquisto di titoli in mano a privati) e il suo potenziamento da 60 a 80 miliardi di euro al mese, voluto da Draghi, l’Unione Europea resta impigliata in una profonda deflazione: i consumi scendono ed i prezzi pure. Sintomi di un’economia in recessione. In questo contesto, si torna a parlare di Helicopter Money, strumento estremo di politica monetaria a disposizione di BCE e banche centrali per stimolare la crescita e fuggire dalla deflazione. Di cosa si tratta L’idea era stata lanciata dall’economista americano, premio Nobel, Milton Friedman che, in una sua opera del 1969, ricorreva all’immagine di un elicottero che volava sopra una comunità lanciando banconote da mille dollari per far ripartire i consumi. Si tratta, semplificando al massimo, di dare alle persone denaro contante nella speranza che lo spenda. L’ipotesi può sembrare stravagante, ma diversi esperti la studiano da tempo. L’Helicopter Money è stato proposto come un’alternativa al Quantitative Easing in presenza di tassi di interesse vicini allo 18 • MSOI the Post

Nel dibattito internazionale sulle politiche monetarie, la teoria dell’Helicopter Money trova ampio consenso. Economisti, banchieri, politici vedono in essa una via d’uscita dallo stallo finanziario mondiale, ma, sebbene l’idea possa fare gola a molti, persiste un problema: potrebbe non funzionare e, soprattutto, le procedure che dovrebbero essere intraprese, come specificato dalla BCE, andrebbero contro alle normative dell’Unione Europea, che vieta alla Banca Centrale di finanziare in modo diretto i governi. Serve davvero “lanciare denaro dall’elicottero”? Simon Wren-Lewis, economista ad Oxford, dà una risposta positiva: “Sarebbe meglio stampare moneta e darla ai consumatori, piuttosto che usarla per comprare debito pubblico. La seconda strada è stata sperimentata e non ha avuto successo, quindi perché non provare la prima opzione?”. Dalla teoria alla pratica il salto, però, non è facile. Le banche centrali difficilment e prenderebbero la decisione di

unHelicopterMoneysenzaun’approvazione esplicita dei propri governi. Ed è difficile immaginare che conservatori del governo tedesco e repubblicani del Congresso USA possano dare il via libera a queste operazioni economiche. Più facile, invece, che la teoria di Friedman abbia più appeal tra i politici di sinistra, che la associano con le politiche di redistribuzione del reddito. Quali possono essere gli effetti di questa teoria sull’economia? Molto dipende dalla quantità dello stimolo. Dipende, cioè, dall’iniezione di liquidità che viene fatta. Uno stimolo modesto fa alzare di poco l’inflazione e la domanda di consumi, evitando così i rischi di iperinflazione stile Weimar del primo dopoguerra. Ciò rassicurerebbe i mercati, ma i consumatori potrebbero risparmiare il denaro o spenderlo in beni di importazione. Nel primo caso, lo stimolo non avrebbe efficacia. Nel secondo, potrebbe provocare un deficit della bilancia dei pagamenti (n.d.r., la differenza tra export e import), una situazione potenzialmente negativa per la valuta. Mario Draghi aveva definito l’Helicopter Money “uno strumento interessante”, ma ha tenuto a specificare che la BCE non ne ha mai parlato.


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