MI Dicembre 2018

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Bimestrale n. 4/2018 – anno XXVII/BO - ₏ 2,00

dicembre 2018/febbraio 2019

Musica e poesia: Vittorio Franceschi legge i Versi di trincea di Ungaretti, Roth e Apollinaire

Tre mesi per tre grandi pianisti: Andsnes, Zimerman, Rana

Anna Caterina Antonacci

dare voce alle emozioni












SOMMARIO n. 4 dicembre 2018 / febbraio 2019 Editoriale

Curiosi per natura

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L’intervista

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CAAB / Intervista ad Alessandro Bonfiglioli

Musica e poesia

1914-1918: La Grande Guerra Intervista a Vittorio Franceschi

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StartUp

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A tutto gas: Caterina Vannini, Andrea Pirillo

Teatro Comunale di Bologna

Pronti... si danza!

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I luoghi della musica

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Il Museo internazionale e biblioteca della musica

Le parole della musica La canzone

Quartetto d’Archi della Scala

Leif Ove Andsnes

Mario Brunello

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I concerti dicembre 2018 / febbraio 2019 Articoli e interviste Leif Ove Andsnes Kremerata Baltica, Gidon Kremer, Mario Brunello Anna Caterina Antonacci, Donald Sulzen Krystian Zimerman Scharoun Ensemble Beatrice Rana Pablo Ferrández, Denis Kozhukhin

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Per leggere

I ritratti del Museo della musica, Ferrari, Isserlis

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Da ascoltare

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Chopin, Mozart e Beethoven 10

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MUSICA INSIEME

In copertina: Anna Caterina Antonacci (foto di J.D. Shaw)

Krystian Zimerman

Beatrice Rana

Pablo Ferrández




EDITORIALE

CURIOSI per natura Su il sipario sulla nuova stagione, una stagione peraltro cominciata con un primo significativo risultato: il successo con cui è stata salutata l’integrale dei Quartetti di Šostakovič nell’ambito del cartellone Bologna Modern #3. Un impegno importante. Un impegno che va nel senso di quella continuità tra passato e presente, che ormai da anni distingue e segna la programmazione artistica della nostra Fondazione. In questa continuità s’inserisce il progetto 1914-1918: La Grande Guerra – Versi di trincea. Tre gli appuntamenti, tutti all’Unipol Auditorium, tutti ad ingresso gratuito fino a esaurimento dei posti, nei quali la voce di Vittorio Franceschi, attraverso i testi di Ungaretti, Roth e Apollinaire, racconterà in poesia la tragedia della prima guerra mondiale. Con lui, sotto i riflettori, i pianisti Roberto Prosseda e Alessandra Ammara, chiamati a far da sponda musicale al riverbero di quei versi. Poesia e musica, narrazione storica e memoria civile, affrontando ancora una volta il tema della condivisione della memoria, tema caro alle arti e coerentemente presente nelle nostre attività. Tradizione, repertorio, passato, presente, l’oggi e il domani, in realtà un unico grande e profondo mare in cui chi ama le arti – e quindi la musica – è quasi obbligato a navigare se il suo operare non vuole limitarsi a dar vita ad una serie di concerti o al vernissage del pittore famoso del momento. Tutto questo lo ritroviamo anche nei concerti della nostra stagione principale. Basta scorrere il cartellone per vedere il confronto tra generazioni – Krystian Zimerman, Leif Ove Andsnes e Beatrice Rana, ad esempio – o il confronto tra talenti, come nel caso di Gidon Kremer e Mario Brunello (che ci porta ad un altro confronto generazionale, tra violoncellisti in questo caso, con lo spagnolo Pablo Ferrández al suo debutto a Bologna). Naturalmente, senza tralasciare le scelte artistiche,

18 ottobre 2018: il Quartetto Dàidalos inaugura l’integrale di Šostakovič per Musica Insieme

sempre attente a fornire nuovi spunti e nuove suggestioni per il nostro pubblico. Lo Scharoun Ensemble da Berlino accosta Brahms, Henze e Beethoven, fornendoci così una nuova prospettiva sulla storia della musica tedesca. Anna Caterina Antonacci darà voce a rare pagine di Nadia Boulanger, ma anche a un capolavoro del teatro da camera come la Voix Humaine di Poulenc, la Kremerata Baltica affronterà invece Mahler. D’altronde, la curiosità degli interpreti è la nostra medesima curiosità. E crediamo sia anche la stessa che anima il nostro pubblico. Col passare degli anni, del resto, la storia si allunga. Quello che prima ci appariva un autore moderno – pensiamo a Igor Stravinskij, ad esempio, o ad Arnold Schoenberg – fa ormai parte del repertorio, e moderni sono oggi quei compositori che magari ancora qualche tempo fa avremmo definito “avanguardisti”. Il contemporaneo di oggi non assomiglia al contemporaneo di vent’anni fa. Eppure a quello è legato, e attraverso quello affonda le sue radici nella storia. Così eccoci di nuovo a navigare in quel grande mare tra sponde note e terre incognite, lasciando che sia solo la bussola della passione e della sete di conoscenza a guidarci. Fabrizio Festa

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MUSICA INSIEME

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L’intervista

FICO come

Bologna

Alessandro Bonfiglioli, Direttore Generale del CAAB – Centro Agro Alimentare di Bologna, ci parla della visione grazie alla quale oggi Bologna insegna al mondo l’eccellenza enogastronomica italiana

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La sede del CAAB, Centro Agro Alimentare di Bologna

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MUSICA INSIEME

arlare con Alessandro Bonfiglioli significa parlare con molte realtà: dal CAAB, recentemente ristrutturato con una Nuova Area Mercatale dotata del tetto fotovoltaico più grande d’Europa, a FICO Eataly World, inaugurata appena un anno fa, ossia la prima e unica Fabbrica Italiana Contadina al mondo, che racconta l’eccellenza della nostra storia e del nostro sapere alimentare. Qual è il rapporto, il grado di parentela che unisce queste realtà? «Con CAAB siamo partiti dalla parte scientificodivulgativa, il progetto che ora si chiama FICO e allora si chiamava Cittadella del cibo e della sostenibilità: l’idea era di creare una grande fattoria didattica, impiegando una parte degli spazi di CAAB che non erano utilizzati. Oscar Farinetti, grande uomo di marketing, ha poi inventato l’acronimo Fabbrica Italiana Contadina. Il progetto si è nel frattempo articolato e sono intervenuti vari soggetti: CAAB, il promotore, il Fondo PAI, cassaforte finanziaria grazie alla quale il progetto si è potuto realizzare, ossia il “luogo” dove CAAB ha conferito le aree e gli investitori hanno messo le risorse per realizzare materialmente il parco. FICO Eataly World è poi la società di ge-

stione, il marketing manager che gestisce la parte commerciale. Non volevamo però che l’idea iniziale della fattoria didattica andasse persa, per questo abbiamo creato la Fondazione FICO, che ha proprio l’obiettivo di portare avanti questo aspetto, e lo sta facendo in maniera importante: quest’anno organizziamo oltre 200 eventi, tutti con relatori di alto livello, su temi come la dieta mediterranea, la sostenibilità, la nutraceutica, la prevenzione delle patologie attraverso l’alimentazione, e così via». La ricerca e l’etica della sostenibilità per il futuro del pianeta stanno a cuore a Fondazione FICO, ad esempio con Bologna Award e City of Food Master 2018. «È un premio con una formula particolare, lanciato da CAAB quando ancora FICO non esisteva: la prima premiazione si è svolta a Expo 2015 nello spazio della Regione Emilia-Romagna. Il premio doveva essere biennale, ma le candidature erano talmente tante e di livello così alto che abbiamo deciso di farlo diventare annuale. Ora la regia è totalmente della Fondazione FICO. La formula è particolare: il comitato scientifico individua il destinatario, ovvero chi nel mondo si sia distinto per attività e progetti sul tema della sostenibilità, della sicurezza alimentare, del diritto al cibo e quant’altro. Il beneficiario del premio – questa la novità della formula – lo deve riassegnare a qualcun altro che a suo avviso stia mandando materialmente avanti il progetto, almeno per una parte. Quindi c’è una sorta di effetto moltiplicatore». Anche questo premio è una novità assoluta in Italia. «Esatto. Il premio è un unicum e sta diventando di respiro internazionale anche perché si moltiplicano le iniziative: se nel 2015 eravamo partiti con una lectio magistralis, quest’anno abbiamo organizzato una settimana di eventi. Inoltre il momento della premiazione coincide con la Giornata mondiale dell’alimentazione della FAO: siamo stati quindi ospitati anche all’interno delle Nazioni Unite, nel Palazzo della FAO a Roma, come uno degli interlocutori in grado di portare avanti un progetto concreto su questi temi».


Fra i progetti premiati c’è ad esempio l’americano Beyond Burger, un hamburger del tutto vegetale, leggero e sostenibile che ora si può mangiare anche in città: quindi Bologna stessa riceve ripercussioni positive in tutti i sensi da questi esperimenti e novità. «Assolutamente sì. L’obiettivo di fondo è proprio questo: ridare alla città un ruolo di avanguardia, come l’aveva un tempo, riportare Bologna in testa a un certo filone di pensiero anche su questi argomenti». Nel mondo globalizzato del fast food, del junk food e chi più ne ha più ne metta, l’educazione alimentare è divenuta un fattore fondamentale anche per la salute oltre che per le scelte etiche di tutti noi. Con questa consapevolezza, perché scegliere di mostrare questi saperi in forma quasi di “luna park” gastronomico? «La scelta è nata da un’idea e da una necessità: l’idea è di parlare ai giovani, dai quali la sola parte didattico-educativa viene vissuta un poco come un doposcuola, e non ha quindi una presa eccessiva. Invece parlare loro in termini esperienziali, se vogliamo, o ludici, ha una presa molto più forte. Abbiamo pensato quindi che questo fosse il linguaggio più opportuno, e che a FICO non si debba venire accompagnati dal professore, ma volontariamente». Com’è il bilancio del primo anno di FICO? «Quest’anno abbiamo raggiunto il traguardo di circa 3 milioni di visitatori all’interno del Parco, 1000 posti di lavoro e 50 milioni di fatturato. A pochi giorni dal primo anniversario [il 14 novembre 2018, ndr] abbiamo contato più di trentamila persone che hanno partecipato agli eventi della Fondazione. Ora, se il numero in sé, paragonato al numero assoluto dei visitatori, sembra piccolo, se pensiamo ai temi scientifici e divulgativi che abbiamo affrontato il numero è addirittura enorme. L’altra cosa che abbiamo capito sin da subito è che, malgrado la loro bellezza e utilità, le fattorie didattiche non si sostengono da sole, e ciò che non si sostiene è già fragile in origine, e destinato a ridursi o a estinguersi nel caso non riesca a reperire le risorse. Ecco, la nostra idea è stata quella di avere la parte commerciale che sostiene la parte scientifica, la parte di ristorazione che sostiene la parte di produzione, quindi un po’ un rovesciamento della catena alimentare. Siamo ancora in una fase di start up: è il primo anno, l’ambito è ancora sperimentale, e inoltre FICO non ha benchmark, essendo una novità assoluta: quindi gli obiettivi che ci eravamo proposti sono in linea con le nostre aspettative, e ne siamo soddisfatti». Bologna è City of Food ma anche Città UNESCO della musica dal 2006. Com’è il rapporto

di CAAB con le attività culturali del territorio, fra cui anche quelle di Musica Insieme? «Io penso che il nostro territorio dal punto di vista tecnico sia probabilmente ai vertici nel mondo: università, istituti di ricerca, aziende leader dei loro settori, che innovano in continuazione, che sviluppano ormai oltre l’80% del fatturato all’estero; ma quello che rende uniche le nostre risorse è proprio l’aspetto culturale. Ci sono anche altre parti del mondo dove c’è una grande competenza tecnica, ma c’è solo questa. Penso che a rendere diversi i nostri ingegneri o i nostri informatici sia proprio il fatto di avere basi tecniche di altissimo livello, ma immerse in un territorio che dal punto di vista culturale è assolutamente altrettanto ricco. Il che li rende più creativi, più innovativi, più “umanisti” se vogliamo, ed è veramente un fattore unico di differenziazione. Nel nostro territorio la cultura, l’arte, la musica ne sono la prova. Anche qui mi spingerei a dire che ci vorrebbe un po’ più di avanguardia: se nella scienza quello che fa la differenza è la ricerca, nell’arte quello che fa la differenza è il fatto di essere un po’ all’avanguardia. Forse Bologna, pur nella sua estrema ricchezza di risorse, nel tempo ha perso questa sua vocazione a essere innovativa anche in questo settore, e Musica Insieme contribuisce a questa ripresa». (a cura di Fulvia de Colle) MI

MUSICA INSIEME

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Musica e poesia

1914-1918:

La Grande Guerra

In tre serate gratuite, Gruppo Unipol e Musica Insieme propongono all’Unipol Auditorium i versi di Ungaretti, Roth e Apollinaire, tre poeti-soldati che hanno combattuto nella prima guerra mondiale

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Sopra: il Quartetto d’Archi della Scala. Sotto: Alessandra Ammara e Roberto Prosseda 16

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MUSICA INSIEME

a cinque anni l’autunno bolognese è arricchito dalle rassegne che Musica Insieme e Gruppo Unipol dedicano a letteratura e musica: un appuntamento offerto gratuitamente alla città che permette di accostarsi alle più grandi figure di poeti e compositori europei. Baudelaire, Pasolini, Leopardi e la Rivoluzione d’ottobre sono stati i protagonisti delle precedenti edizioni, mentre proseguiamo questo autunno con il ricordo dei cento anni dalla fine della prima guerra mondiale. 1914-1918: La Grande Guerra – Versi di trincea proporrà la lettura delle liriche di tre poeti europei, Giuseppe Ungaretti, Joseph Roth e Guillaume Apollinaire, che hanno preso parte come soldati a una delle più immani tragedie del secolo scorso. Testimoni, protagonisti e vittime di questo conflitto, i tre poeti lo hanno raccontato con la crudezza e la pietà di chi lo ha visto con i propri occhi, portandone le cicatrici nella propria carne. La lettura dei testi è affidata a Vittorio Franceschi, fra gli attori italiani più apprezzati da pubblico e critica e protagonista sui principali palcoscenici teatrali italiani ed europei, al fianco di registi come Ronconi, Besson, Wajda, Castri e tanti altri. Nei suoi sessant’anni di carriera, che festeggia proprio quest’anno a Bologna con il progetto 1914-1918: La Grande Guerra, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, tra cui Premio Ubu, Premio Hystrio, Premio della Critica e Nettuno d’Oro del Comune di Bologna. Alle parole di ogni poeta sono accostate le melodie che amava o che più si avvicinano al suo universo. Mercoledì 28 novembre i versi di Ungaretti saranno affiancati dalle musiche di Bach, Casella e Schoenberg, affidate ai pianisti Roberto Prosseda – uno dei più apprezzati interpreti della sua generazione, attivo a fianco delle principali orchestre e vincitore di numerosi premi discografici – e Alessandra

Ammara, premiata al Concorso “Casagrande” e impegnata in tournée internazionali. Proseguiremo poi il 5 dicembre con il Quartetto d’Archi della Scala, formato dalle prime parti della più importante orchestra italiana, attivo al fianco di Bruno Canino, Angela Hewitt ed Enrico Dindo. Il Quartetto sarà impegnato nella Morte e la fanciulla di Schubert, a incarnare la grande musica austriaca cara a Roth. L’appuntamento conclusivo, il 12 dicembre, avrà come protagonista la poesia di Apollinaire, affiancata dalle composizioni di Poulenc, Ravel e Debussy, affidate nuovamente ai Maestri Prosseda e Ammara. 1914-1918: La Grande Guerra Versi di trincea Unipol Auditorium – ore 21 (Via Stalingrado, 37 – Bologna)

VITTORIO FRANCESCHI letture ROBERTO PROSSEDA pianoforte ALESSANDRA AMMARA pianoforte

Mercoledì 28 novembre 2018 - Ungaretti

Musiche di Bach, Casella, Schoenberg

VITTORIO FRANCESCHI letture QUARTETTO D’ARCHI DELLA SCALA Mercoledì 5 dicembre 2018 - Roth

Musiche di Schubert

VITTORIO FRANCESCHI letture ROBERTO PROSSEDA pianoforte ALESSANDRA AMMARA pianoforte

Mercoledì 12 dicembre 2018 - Apollinaire

Musiche di Poulenc, Debussy, Ravel

L’ingresso ai concerti è gratuito, fino a esaurimento dei posti disponibili.



Musica e poesia

LA VOCE U

dei poeti

> Intervista > Vittorio Franceschi

Foto Luca Bolognese

ngaretti, Roth e Apollinaire, i tre poeti a cui è dedicata la rassegna, hanno combattuto nella prima guerra mondiale. Quale pensa possa essere il ruolo dell’arte e della cultura nel ricordare questi eventi drammatici? «È sempre difficile definire i ruoli. L’arte e la cultura, forse per loro stessa natura, sono disposte più all’osservazione e al commento che alla prevenzione. Un artista non dichiarerebbe mai una guerra, ma sarà sempre pronto a trarne ispirazione e materia per la sua opera. E lo stesso si può dire in generale del mondo della cultura. Quindi già la domanda mette il dito sulla piaga, dal momento che parla di “ricordare” e non di “impedire”. Gli artisti sono testimoni senza fucile anche quando sparano al fronte e il più delle volte sono poveri in canna. E, proprio per la precarietà della loro condizione, si sono spesso inginocchiati davanti al potere guerrafondaio e volentieri gli hanno fatto da sgabello. Anche loro sono uomini. E lo stesso si può dire del variegato mondo della cultura: scrittori, professori, pensatori, storici, giornalisti, ecc. La sola cosa che possiamo fare è testimoniare. Cercando, col filtro dell’arte e grazie a quel po’ che abbiamo imparato nel corso della vita, di aiutare gli altri a capire meglio gli avvenimenti del passato “perché il male non si ripeta”. Ma sappiamo benissimo che chi verrà domani, pur se in forma diversa, e malgrado la nostra testimonianza, ripeterà gli stessi errori di chi lo ha preceduto. E allora altri artisti, senza fu-

cile come noi, li commenteranno, facendo nuova testimonianza per gli uomini di dopodomani che, ça va sans dire, non ne terranno conto alcuno». Cosa significa per un attore interpretare una poesia? Come cambiano la preparazione e l’approccio al testo? «Una volta i poeti erano cantori, declamavano pubblicamente i loro versi. Oggi scrivono nel silenzio della loro stanzetta, per lettori che leggeranno quei versi nel silenzio della loro stanzetta. Sempre che abbiano l’avvertenza di comprare il libro. I casi, quindi, sono due: 1) Non si leggono poesie in pubblico. 2) Se invece si chiede a un attore di leggerle, questi dovrà in qualche modo tornare a essere un cantore, e cercare di emozionare l’uditorio trasmettendogli senza vergogna i sentimenti, gli slanci e le paure, i dubbi e le certezze vane, di cui quel poeta si è “macchiato”. Tutto ciò con misura e arte, ci mancherebbe. Ma evitando quella finta rispettosità soporifera e cimiteriale che fa tanto male alla poesia e ne allontana i lettori fin dal primo banco di scuola. L’attore ruba il cuore al poeta e lo aggiunge al suo. Poi, con la voce di entrambi, bussa ai cuori degli spettatori, che volentieri si aprono perché quegli spettatori sono andati a teatro proprio per questo, per ricevere un dono e dire grazie. Da questo punto di vista, tra poesia e prosa non c’è differenza: preparazione e approccio sono gli stessi. Ma siccome la poesia è più sintetica della prosa, la lettura dei versi richiederà una recitazione, per dirla con Montale, “scabra ed essenziale”, cioè ripulita dai fronzoli e dai compiacimenti ai quali talvolta gli attori di teatro si abbandonano, magari senza nemmeno accorgersene perché, se è vero che queste umane debolezze fanno dispetto all’arte, è altrettanto vero che sono comprese “nel pacchetto del mestiere”». Le poesie saranno accostate alle opere di grandi compositori europei. Quale posto occupa la musica in generale nella sua vita? «Da ragazzo mi piacevano le canzonette perché le ascoltavo alla radio e, siccome piacevano anche ai miei amici, in quel piacere trovavamo quella complicità che sui diciott’anni – appena si comincia a uscir di casa – tutti abbiamo cercato. Poi, negli anni della prima maturità, quando grazie al mio lavoro di attore ho potuto permetter-


I poeti Giuseppe Ungaretti, Joseph Roth e Guillaume Apollinaire

melo, comprando i primi dischi mi sono accostato alla musica classica. Meno all’opera. Alla radio mi piacevano le romanze, Un bel dì vedremo o Di quella pira, ma dopo mi spazientivo perché non capivo le parole e ciò creava ostacolo al mio piacere e alla mia fantasia. I miei vinili li ho ancora e sono assai consumati e spesso la puntina fa toc toc. I miei ascolti però sono stati “senza guida”, ingordi e molto disordinati, e ho tuttora enormi lacune di cui molto mi vergogno. Ma mi consolo pensando che questo succede anche in amore. Certo è che la musica mi ha sempre accompagnato e nutrito. Per dirne una, tantissimi anni fa, un amico mi chiese: se ci fosse la fine del mondo e tu potessi salvare qualcosa, cosa salveresti? Io, senza esitare, risposi: i miei dischi. Il mio amico si stupì molto, con tante cose importanti per la sopravvivenza che avrei potuto salvare! A distanza di quarant’anni me lo ricorda ancora. Tengo a precisare che all’epoca ero ancora celibe e senza figli». Quest’anno raggiunge l’importante traguardo di 60 anni di carriera: un percorso costellato di successi, di progetti importanti, di collaborazioni con tanti colleghi che, come lei, hanno dato lustro al teatro italiano. Quali sono i suoi ricordi più preziosi? «Sono tanti e vorrei poterli elencare tutti, ma come si fa? Tralascio quelli dolorosi, preziosi anch’essi. Ho avuto la fortuna di conoscere persone rare e non sempre si trattava di registi o di attori. Ricordo due serate meravigliose alla Casa della Cultura di Milano, allora diretta da Rossana Rossanda. Lì debuttai come autore. Era il 1960 e fu proprio quella donna straordinaria a darmene l’opportunità. E in platea ad applaudire c’era un giovanissimo Franco Quadri, mio coetaneo, diventato in seguito il più importante critico teatrale italiano. Ricordo Carlo Maria Badini (poi Sovrintendente al Teatro Comunale e alla Scala di Milano) che allora dirigeva il Teatro La Ribalta di

Bologna (oggi La Soffitta) che fece venire quello spettacolo nella mia città, compiendo un grande gesto di fiducia e coraggio, dal momento che io allora ero un perfetto sconosciuto. Ricordo Paolo Grassi, quando presentò alla Compagnia riunita sul palcoscenico del Piccolo di Milano il grande drammaturgo Peter Weiss, che strinse la mano a tutti gli attori, a uno a uno (eravamo una trentina) prima che si aprisse il sipario per la Prima del suo Marat Sade. Ricordo l’incontro con Benno Besson, uno dei più grandi registi europei del dopoguerra, allievo prediletto di Bertolt Brecht, uomo di grande cultura ma senza fronzoli, con grandi baffi e occhi folgoranti, col quale interpretai l’Edipo di Sofocle tradotto – a proposito di poeti – da Eduardo Sanguineti, un’acutissima intelligenza provocatrice. E il fantastico “mascheraio” Werner Strub, solitario artista svizzero che creava maschere che già suggerivano, anzi “erano”, il personaggio che l’attore avrebbe poi interpretato. E Luciano Damiani, il più grande scenografo italiano e uno dei più grandi in Europa, che teneva sempre sul tavolo da lavoro, come per voto, una candela accesa. E il Presidente Pertini, che sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma mi strinse la mano, con mia grande emozione, quando vestivo i panni di Robespierre nello spettacolo diretto da Andrzei Wajda. E non posso dimenticare di ricordare mia moglie, Alessandra Galante Garrone, che nel 1976 ha fondato a Bologna la Scuola di Teatro che oggi porta il suo nome e nella quale insegno recitazione. Fondare una Scuola in questo Paese è un’impresa titanica che rasenta la follia. Lei ci riuscì, con la forza d’animo e la fede di chi è sorretto da una vocazione vera. Fu un grande momento, che dura tuttora. Sessant’anni di teatro sono davvero tanti, forse troppi, e alle volte mi chiedo per quale motivo immotivato io sia ancora qui, miracolosamente incolume, ad aspettare il “chi è di scena”». MI

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StartUp

A TUTTO gas!

Continua la nostra vetrina sui talenti del territorio: accanto alla musica, con Caterina Vannini, è la volta dello sport, con il pilota e YouTuber Andrea Pirillo

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usica e sport: due mondi apparentemente lontani eppure così vicini, caratterizzati da alta competitività, disciplina ferrea e grande spirito di sacrificio. In questo numero accendiamo i riflettori su due “campioni” delle rispettive specialità. Perfezionatasi con Signori del violon-

cello come Natalia Gutman, Rocco Filippini ed Enrico Dindo, Caterina Vannini è stata la “spalla” dell’Orchestra Giovanile Italiana, e in seguito è entrata a far parte della Cherubini di Riccardo Muti, oltre a formare, con tre colleghe della Fenice di Venezia, il Quartetto Eliat, che si esibirà (anticipazione riser-

vata ai nostri lettori) per Musica Insieme in Ateneo 2019. Dalla musica allo sport: Andrea Pirillo, studente universitario poco più che ventenne e straordinario motociclista, attivissimo sui canali social dove i suoi video virali generano migliaia di visualizzazioni, è anche testimonial di grandi marchi del settore.

Caterina Vannini Violoncellista - La trovate su Instagram e fb: Quartetto Eilat

Il tratto principale del tuo carattere? Sono una persona abbastanza timida, sebbene cerchi di mascherarlo con il mio essere impacciata, cosa che forse non sempre può giovare in un ambiente come quello dello spettacolo! Il tuo peggior difetto? Dovermi sempre rimproverare ed essere poco paziente, in senso lato. I tuoi passatempi preferiti? Mi piace cucinare, soprattutto dolci, ma anche guardare film in lingua originale, visto che ho studiato inglese, francese e spagnolo alle superiori. Come hai scoperto il violoncello? All’età di quattro anni mia madre mi ha introdotta al violino; siccome non mi piaceva molto la mia insegnante, mi ha proposto di passare al violoncello e io ho subito accettato senza neanche sapere come fosse fatto. Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica? È difficile risalire ad un vero e proprio ricordo, sicuramente la cosa più bella che ho in mente è quando ascoltavo studiare la mia mamma (che è chitarrista classica) sdraiata dentro alla sua custodia.

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MUSICA INSIEME

Hai una giornata ‘tipo’ fra studio, tempo libero, amici e famiglia? In realtà no, varia tutto a seconda delle situazioni (se mi chiamano a suonare in un’orchestra, se sono a provare col mio quartetto, se sono a studiare in conservatorio) ma per ora questa varietà è anche il bello delle mie giornate. Chi consideri il tuo modello? Certamente il mio Maestro Enrico Dindo, che stimo come persona, come insegnante e come musicista. Qual è il percorso di studi che stai facendo ora? Al momento sto terminando il Master of Arts in Music Pedagogy al Conservatorio della Svizzera Italiana a Lugano, con il Maestro Dindo. Cosa significa per te suonare? Per me suonare è la forma più bella di esprimere quello che le parole, i gesti e i pensieri stessi non riescono a dire, e anche la forma più bella per ricordare... Persone, situazioni, luoghi e tutto ciò che di bello e brutto ci è regalato in questo mondo. Il libro o i libri preferiti, quelli che consiglieresti ai tuoi coetanei? Non sono una grandissima lettrice,

ma amo molto Novecento di Baricco, tutti i libri di Harry Potter e del Signore degli Anelli.


Andrea Pirillo Motociclista e YouTuber - Lo trovate su: www.andreapirillo22.it

Come ti descriveresti? Dinamico ed efficiente: sfrutto sempre il tempo al massimo e questo è un mio pregio, ma sono anche molto rigoroso in quello che faccio e questa ricerca della perfezione mi porta a pretendere il massimo anche dalle persone che mi circondano. Questa caratteristica, quando diventa eccessiva pignoleria, si trasforma appunto nel difetto che maggiormente mi viene attribuito. Ricordi la prima volta che sei salito su una moto? Sì, come dimenticarlo! Avevo quattro anni e ho fatto il mio primo giro su una minimoto... con le ruotine... da quel giorno però non ho più smesso! Le cose per te più importanti oltre la tua passione? Altri interessi? Senza dubbio la mia famiglia, che mi sostiene moltissimo nelle mie scelte, e la mia fidanzata, con cui ho un rapporto veramente speciale! Per quanto riguarda interessi diversi dalla sfera affettiva invece sono molto affascinato dal mondo del lavoro, e per affrontarlo con una preparazione adeguata sto studiando con molto impegno Economia, Marketing e Management all’Università degli Studi di Bologna. Qual è la tua giornata “tipo” fra studio, sport, tempo libero, amici e famiglia? Le mie giornate sono estremamente diverse l’una dall’altra: spesso mi capita di essere il lunedì a lezione in università, il martedì a Milano per lavoro, per poi tornare con i miei compagni a lezione il mercoledì e ripartire il giorno seguente alla volta di destinazioni internazionali. Questa diversificazione costante degli impegni e l’assenza di una routine quotidiana sono le cose che più mi entusiasmano della vita che sto conducendo e amo molto questa improvvisazione conti-

nua che rende diversa ogni settimana e si traduce in quello che posso definire “il mio stile di vita”. Sono migliaia i fan che ti seguono, su quali canali condividi con loro le tue passioni? Lo strumento di comunicazione privilegiato tra me e la mia community è YouTube: attraverso questa piattaforma social riesco a condividere alcuni momenti della mia vita senza filtri. I video che realizzo con la action cam posizionata sul casco inoltre ricevono migliaia di visualizzazioni e sono molto emozionanti perché consentono ai miei followers di vivere in prima persona le mie “imprese” come se fossero al mio posto. Quali risultati vorresti raggiungere? Hai un modello di riferimento? Aspiro a raggiungere, nel mio campo, risultati analoghi a quelli ottenuti da Jon Olsson: uno svedese trentaseienne che ha fatto della sua passione un lavoro, pubblicando quotidianamente su YouTube un video in cui racconta le sue giornate, sempre dense di avvenimenti interessanti e nuove avventure nei più disparati paesi del mondo. I suoi video raggiungono le 500.000 visualizzazioni, numeri impressionanti che sono in grado di generare guadagni molto importanti! Un libro che consiglieresti ai tuoi coetanei? Pensa e arricchisci te stesso, un saggio di Napoleon Hill del 1937 che mi ha fornito una delle chiavi per riuscire a realizzare i miei sogni! Quale sarà la tua prossima “impresa” o il traguardo che ti sei prefissato per il futuro? Desidero sicuramente completare gli studi e far coincidere la mia passione col mio lavoro, per approdare in un futuro non troppo lontano anche nel mondo della motonautica offshore.

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Teatro Comunale di Bologna

Pronti... si danza!

Il nuovo cartellone dedicato alla Danza dal Teatro Comunale nel 2019 offre quattro titoli con compagnie ed étoiles internazionali, a partire da Svetlana Zakharova

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Foto Dominique Jaussein

ette la danza nuovamente al centro della sua programmazione artistica il Teatro Comunale di Bologna, presentando un terzo cartellone d’eccellenza – accanto a quello della lirica e della sinfonica già annunciati lo scorso ottobre – con il quale si completa la nuova Stagione 2019. Quattro titoli distribuiti in otto serate di spettacolo in Sala Bibiena, con grandi compagnie ed étoiles italiane e internazionali, che non mancheranno di entusiasmare appassionati e neofiti. Un calendario di qualità che valorizzerà la cultura del balletto con grandi classici del repertorio e celebri titoli neoclassici, firmati dai maggiori coreografi del Novecento, e che sconfinerà inoltre nel linguaggio contemporaneo con nuove creazioni già acclamate nel mondo. Protagonista anche l’Orchestra del Comunale, che eseguirà dal vivo le partiture dei primi due titoli in programma: Amore di Svetlana Zakharova e Il lago dei cigni di Pëtr Il’ič Čajkovskij nella produzione del Teatro di San Carlo di Napoli. Sul podio, rispettivamente per i due spettacoli, i direttori d’orchestra Pavel Sorokin e Aleksej Baklan. L’inaugurazione è affidata alla superstar mondiale del balletto Svetlana Zakharova, ospite per la prima volta delle stagioni del Comunale, che presenta il suo ultimo spettacolo: il trittico Amore (27 e 28 febbraio, ore 20.30). Étoile del Teatro Bol’šoj di Mosca dal 2003 e del Teatro alla Scala di Milano dal 2007, è riconosciuta per la perfe-

zione tecnica e l’eleganza assoluta del suo stile. Con Amore, titolo dedicato all’Italia cui la danzatrice russa è molto legata, Zakharova ha scelto di cimentarsi nel repertorio contemporaneo affidando a coreografi di fama internazionale i tre lavori che compongono il trittico. Il primo, Francesca da Rimini, creato dal russo Yuri Possokhov sull’omonima fantasia sinfonica di Pëtr Il’ič Čajkovskij per il San Francisco Ballet nel 2012, è ispirato al celebre episodio del Canto V dell’Inferno dantesco, dedicato all’amore tragico di Paolo e Francesca. Sul palco, accanto a Zakharova, i solisti del Balletto Bol’šoj Denis Rodkin nel ruolo di Paolo e Mikhail Lobukhin in quello di Gianciotto. Segue Rain before it falls, coreografia a tinte forti creata nel 2014 dal tedesco Patrick De Bana appositamente per Zakharova su musiche di Johann Sebastian Bach, Ottorino Respighi e Carlos Pino-Quintana. Il lavoro, che scava nel profondo dell’animo umano fra interni bui e ombre inquietanti, vede protagonisti, insieme a Zakharova, il solista del Bol’šoj Denis Savin e lo stesso De Bana. Chiude il trittico Strokes through the tail, creato nel 2005 per la Hubbard Street Dance Company di Chicago dall’irlandese Marguerite Donlon sulla base della Sinfonia n. 40 di Wolfgang Amadeus Mozart. In scena con Zakharova cinque danzatori del Bol’šoj che “si appropriano” della struttura della notazione musicale mozartiana rivelando tutto il genio e l’umorismo del grande compositore. Il 5 e 6 aprile (ore 20.30 e ore 18.00) spazio a un grande classico ottocentesco come Il lago dei ci-


Foto L.Romano

gni di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Eseguito dal Corpo di Ballo del Teatro di San Carlo di Napoli diretto da Giuseppe Picone, al suo debutto al Comunale, il balletto è proposto nella rivisitazione storica del coreografo cubano Ricardo Nuñez, che con questa produzione vinse a Venezia il premio della critica nel 1994. Sul palco la Prima ballerina del Balletto Nazionale Olandese Maia Makhateli nel doppio ruolo di Odette-Odile, ovvero il Cigno bianco e il Cigno nero, e il solista Alessandro Staiano nel ruolo del principe Sigfrido. Capolavoro del tardo Romanticismo, eseguito per la prima volta al Teatro Bol’šoj nel 1877 con la coreografia di Julius Reisinger, ottenne un vero successo soltanto nel 1895 grazie all’allestimento di Marius Petipa e Lev Ivanov al Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. Manterranno il fascino della fiaba russa originaria le scenografie di Philippe Binot, ispirate alla pittura di fine Ottocento. Segue il debutto al Comunale di una delle compagnie più interessanti della danza internazionale, il Ballet Nice Méditerranée diretto dal 2010 dal grande danzatore e coreografo Éric Vu-An, con un programma di classici del balletto moderno intitolato Trittico (11 e 12 maggio, ore 20.30 e 15.30). Stella dell’Opéra de Paris, Éric Vu-An arriva a Bologna accompagnato dalla fama di una carriera eclettica, che si estende al cinema e al teatro, con le riprese di tre lavori firmati da alcuni dei maggiori coreografi di oggi. Le lezioni quotidiane alla sbarra di due ballerini si trasformano a poco a poco in un delicato ed emozionante passo a due in Three Preludes dell’inglese Ben Stevenson, creato per l’Harkness Youth Ballet nel 1969 su musiche di Sergej Rachmaninov. Seducenti evoluzioni in rosso

e nero si intrecciano con le movenze e i ritmi tangueri di Astor Piazzolla nei 5 Tangos ideati nel 1977 dall’olandese Hans van Manen. Infine, L’Arlésienne, balletto fortunatissimo di Roland Petit del 1974 ispirato alla struggente tragedia d’amore di Alphonse Daudet su musiche di Georges Bizet. Infine, a rappresentare il panorama contemporaneo italiano è la Compagnia Zappalà Danza con Instrument Jam (24 e 25 settembre, ore 20.30). Lo spettacolo della compagnia siciliana, che ben rappresenta il temperamento unico del suo direttore e coreografo Roberto Zappalà, unisce tre titoli creati nel corso di un decennio nel centro operativo di Catania Scenario Pubblico. In questa nuova versione, al debutto lo scorso marzo al Théâtre National Tunisien nell’ambito del programma “Italia, Culture, Mediterraneo”, sono aggregate le tappe dedicate a tre strumenti musicali che rileggono la Sicilia e le sue tradizioni: il marranzano, ovvero lo scacciapensieri (Puccio Castrogiovanni), l’hang (Marco Selvaggio) e i tamburi (Arnaldo Vacca). In scena insieme ai musicisti sette danzatori uomini, che interpretano con vigore e fierezza una Sicilia senza confini e multiculturale.

Sopra: Il Lago dei cigni. In basso: Svetlana Zakharova nel trittico Amore. Nella pagina a fianco: Trittico, in scena l’11 e il 12 maggio

BIGLIETTERIA I nuovi abbonamenti alla Stagione di Danza 2019, da 180 euro a 50 euro, sono disponibili a partire dal 7 novembre presso la biglietteria del Teatro e online. Chi possiede l’abbonamento completo a tutti gli appuntamenti della Stagione d’Opera 2019 e/o della Stagione Sinfonica 2019 avrà diritto a uno sconto sull’abbonamento Danza 2019 (non possono, quindi, usufruire della riduzione i possessori di mini abbonamento e carnet dell’Opera e dell’abbonamento solo al “Teatro Manzoni 4 concerti” della Sinfonica). I biglietti per i singoli balletti, da 100 euro a 10 euro, sono in vendita dal 9 gennaio presso la biglietteria del Teatro e online. Ingressi a 5 e 10 euro per gli Under 15, se accompagnati da un adulto in possesso di titolo d’ingresso. CONTATTI E ORARI DELLA BIGLIETTERIA Mar > Ven 12.00 – 18.00, Sab 11.00 – 15.00 Tel. +39 051.529019 / Fax +39 051.529995 / boxoffice@comunalebologna.it Nei giorni feriali di spettacolo, da due ore prima e fino a 15 minuti dopo l’inizio dello spettacolo. Nei giorni festivi, da un’ora e mezza prima e fino a 15 minuti dopo l’inizio dello spettacolo.

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MUSICA INSIEME

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I luoghi della musica

IL MUSEO della

musica

Un bellissimo palazzo storico bolognese racchiude, come uno scrigno, preziosi tesori e una ricca galleria di ritratti che oggi rivive grazie al nuovissimo Catalogo generale di Maria Pace Marzocchi

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In alto: una sala del Museo della musica, immagine tratta da I ritratti del Museo della musica di Bologna, Leo S. Olschki Editore, 2018 24

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i percorre lo scalone concluso da un’imponente lanterna e si arriva al piano nobile di palazzo Aldini Sanguinetti, che, nella sequenza di nove sale dell’ala di levante, custodisce le collezioni del Museo della musica, inaugurato nel 2004 insieme alla Biblioteca di oltre 17.000 volumi, ubicata nell’ala opposta. A fare da cornice a sei secoli di storia della musica europea, fatta di strumenti musicali antichi, di documenti – trattati, volumi, libretti d’opera, lettere, partiture autografe – in molta parte provenienti dalle raccolte di Padre Giovan Battista Martini, ci sono le decorazioni realizzate tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento dagli artisti allora più in vista della scena bolognese, chiamati dall’avvocato Antonio Aldini, uomo di punta dell’amministrazione napoleonica in città, a rinnovare l’antico palazzo senatorio che fu dei Loiani, da lui acquisito nel 1795. Dal vestibolo decorato da Antonio Basoli e Pietro Fancelli all’ovale Sala del Convito con la “deliziosa” di Vincenzo Martinelli, alla Sala di Enea di Palagi e Tambroni, a quelle delle Arti e “all’orientale” di Serafino Barozzi… Due sale sono dedicate a Padre Martini e ai personaggi di spicco del suo tempo, dal giovane Mozart a Johann Sebastian Bach, e li vediamo nei ritratti che li raffigurano: il padre francescano in un ovale del pittore bolognese Angelo Crescimbeni, Bach nel celebre dipinto di Thomas Gainsborough, unica opera del grande pittore inglese conservata in Italia, uno dei pezzi più straordinari della vasta iconoteca che Padre Martini iniziò a raccogliere intorno al 1775 in forma di dipinti a olio, ma già avviata decenni prima con i disegni e i fogli a stampa, finalizzati a documentare le fisionomie e l’identità dei protagonisti della sua Storia della musica, progettata in cinque tomi, ma interrotta dopo il terzo per la sua morte nel 1784. Nella stessa sala sono collocati gli straordinari Sportelli di libreria musicale di Giuseppe Maria Crespi, così veri nel disordine dei volumi appena consultati e nella vibrazione luminosa sulle coste brune e consunte. Nulla si sa della committenza, e poco della storia di questa illusionistica pittura, che all’inizio dell’Ottocento si trovava nei locali dell’ex convento degli agostiniani di San Giacomo Maggiore, dal 1804 adibito a Liceo Musicale. Ci si incammina tra antichi strumenti, come il rarissimo Clavemusicum Omnitonum del Transuntino realizzato a Venezia nel 1606, e altrettanto rari testi

antichi, come l’Harmonice musices Odhecaton A, primo libro musicale a stampa edito nel 1501 e, dopo liuti, flauti e tiorbe, si arriva alla sala “all’orientale” dedicata a Carlo Broschi detto il Farinelli, ai suoi comprimari e ai compositori dell’epoca: ancora e per sempre protagonista della scena il famosissimo cantante si offre ai visitatori nella smagliante tela di Corrado Giaquinto, altro capolavoro della quadreria. Poi si arriva all’Ottocento e al Novecento: Rossini, Isabella Colbran e la partitura autografa de Il barbiere di Siviglia. Marco Enrico Bossi ritratto da Giuseppe Tivoli, il violinista Arrigo Serato da Casorati, Martucci, Respighi, Mariani e Toscanini… e al 2016 con il maestro Francesco Molinari Pradelli. Alla morte di Padre Martini i ritratti da lui raccolti erano circa trecento, poi pervenuti, pur con dispersioni, al Liceo musicale, che per parte sua incrementò l’iconoteca con le immagini dei nuovi compositori e dei docenti. Ora questa importante quadreria può finalmente contare su di un Catalogo generale, frutto di un lavoro più che trentennale, avviato nel 1984 per i duecento anni dalla morte di Martini: storici dell’arte (Maria Cristina Casali, Giovanna Degli Esposti, Angelo Mazza) e musicologi (Lorenzo Bianconi, Nicola Usula, Alfredo Vitolo) ad analizzare tutti i 312 dipinti che la compongono, attualmente suddivisi tra il Museo della musica e il Conservatorio di Musica “G. B. Martini”, nato dalla statalizzazione del liceo cittadino e dedicato al grande musicologo, teorico, compositore, maestro di cappella, Accademico Filarmonico, che fu uno dei protagonisti della cultura europea non solo musicale quando Bologna era al centro dell’Europa. MUSEO INTERNAZIONALE E BIBLIOTECA DELLA MUSICA Strada Maggiore 34, Bologna



Le parole della musica

La canzone

In questo numero Giordano Montecchi ripercorre la storia dell’espressione più umana e istintiva della storia della musica, quella legata al canto e alla parola

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Nella foto sotto: Gustav Klimt, Schubert al pianoforte (1899), quadro distrutto nell’incendio appiccato dalle truppe tedesche a Schloss Immendorf nel 1945

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ella notte dei tempi... qualcuno si mise a percuotere un tronco, o una zucca, altri magari unirono le loro voci per supplicare gli spiriti... Riti tribali, caccia, sesso, religione, festa, morte, nascita. Fu in qualche circostanza simile che alzare la voce o far rumore presero ad assomigliare a ciò che noi chiamiamo “musica”, “canto”. Certezze non ne abbiamo. Ma di una cosa possiamo essere certi. Da tempo immemorabile, a Nord o a Sud, a Est come a Ovest, c’è sempre qualcuno che balla o qualcuno che canta. Danza e canzone sono le manifestazioni più ataviche e universali della pratica musicale, nonostante oggi siano viste come l’emblema di una musica inferiore. Da millenni, i modi, le forme del cantare sono miriadi, come le lingue di Babele, ma la forma più antica e diffusa è senza dubbio quella che noi chiamiamo canzone. Forse la poesia stessa nacque come canto,

e solo col tempo le due anime si separarono (mai del tutto però). Da quanto tempo le madri cantano la ninna nanna ai loro piccoli? E le Muse? Non tutte, ma quasi, hanno a che fare con le svariate fisionomie del canto: a solo, corale, amoroso, epico, religioso, ecc. Egitto, Persia, Cina, Grecia, Roma: tutti cantavano canzoni. Finché, dalle nostre parti, tra Francia, Spagna e Italia, mille anni fa circa, fiorisce quella che verrebbe da chiamare la “canzone moderna”. Proprio così, perché c’è già tutto quel che serve: una voce, un liuto, e poi le melodie, pensate per entrare nell’anima e per combinarsi coi versi di una poesia, concatenandosi in strofe, rime, ritornello (cioè che ritorna e ripete sempre quelle parole). Così, da sempre, si cantano le vicissitudini della vita: l’amore, la bellezza, l’abbandono, la disperazione, la guerra, la terra dei padri, le vittorie, le tragedie, gli eroismi, i tradimenti. Nel Medioevo i trovatori la chiamano canso, i trovieri chanson. In Germania lo chiamano Lied, ma circola anche la radice indoeuropea “seng”, da cui “Song”, “Gesang”, “singing”. Da Jaufré Rudel e Folchetto di Marsiglia a Schubert, da Gershwin ai Beatles a De André, tutto è cambiato: le lingue, gli strumenti, le armonie, il modo di pensare, la vita degli uomini. Eppure, anche se può sembrare incredibile, l’impalcatura della canzone – cioè le sue forme, con le loro inesauribili varianti – è ancora quella. Con ritornello o senza ritornello, la forma strofica è ancora la forma principe, nella quale ogni strofa del testo poetico viene intonata sulla stessa melodia. Melodia la quale, a sua volta, può articolarsi in diversi modi, con ripetizioni, incisi e via discorrendo. Ma canzone è una parola che appartiene a molti mondi: dall’Accademia alla bettola, dal bordello alle foreste impenetrabili, dalla metropoli ai deserti più sperduti si cantano canzoni. Diversissime eppure, fra loro, parenti. Perché come la danza, la canzone è l’espressione musicale più umana, che più immediatamente scaturisce dall’istinto, dal sentire, cuore prima ancora che cervello. Sta proprio lì la radice della sua immortalità. Nelle migliaia di melodie contadine, da tutti disprezzate, ma che Bartók trascriveva con amore, nei Lieder inarrivabili di Schubert, Schumann, Brahms, Mahler, nelle mélodies di Fauré o Debussy, nei blues o nelle ballads popolari inglesi che hanno invaso il mondo intero, nelle romanze di Bellini o di Tosti, a Napoli come al Pireo, a Rio come a Istanbul, a New York come a San Remo, la canzone da secoli si reincarna e racconta come si vive, si gioisce e si soffre in questi mondi, così diversi eppure fratelli.






I CONCERTI dicembre 2018 / febbraio 2019 Lunedì 3 dicembre 2018

AUDITORIUM MANZONI ore 20.30

Lunedì 17 dicembre 2018

AUDITORIUM MANZONI ore 20.30

LEIF OVE ANDSNES...............................................pianoforte Schumann, Janáček, Bartók Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole”

KREMERATA BALTICA GIDON KREMER...........................................................violino e maestro concertatore MARIO BRUNELLO....................................................violoncello e direttore Mahler Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città Metropolitana di Bologna

Lunedì 14 gennaio 2019

AUDITORIUM MANZONI ore 20.30

ANNA CATERINA ANTONACCI.....................soprano DONALD SULZEN.......................................................pianoforte Respighi, N. Boulanger, Hahn, Poulenc Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città Metropolitana di Bologna

Lunedì 21 gennaio 2019

AUDITORIUM MANZONI ore 20.30

Lunedì 28 gennaio 2019

AUDITORIUM MANZONI ore 20.30

Lunedì 11 febbraio 2019

AUDITORIUM MANZONI ore 20.30

Lunedì 25 febbraio 2019

AUDITORIUM MANZONI ore 20.30

KRYSTIAN ZIMERMAN.........................................pianoforte Recital Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città Metropolitana di Bologna

SCHAROUN ENSEMBLE Brahms, Henze, Beethoven Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole”

BEATRICE RANA.........................................................pianoforte Chopin, Ravel, Stravinskij Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Invito alla Musica” – per i Comuni della Città Metropolitana di Bologna

PABLO FERRÁNDEZ................................................violoncello DENIS KOZHUKHIN..................................................pianoforte Prokof'ev, Rachmaninov, Grieg, Šostakovič Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole”

Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Segreteria di Musica Insieme: Galleria Cavour, 2 - 40124 Bologna - tel. 051.271932 - fax 051.279278 info@musicainsiemebologna.it - www.musicainsiemebologna.it


Lunedì 3 dicembre 2018

QUESTIONE R

La libertà dell’ispirazione caratterizza il programma proposto dal celebre pianista norvegese, che allinea le più originali fantasie per il suo strumento di Fulvia de Colle

omanze, burlesche, pezzi caratteristici, miniature: è la fantasia l’unica regola del programma di questo concerto, che affida al pianoforte canti d’amore e di dolore, pantomime e gallerie di ritratti, attingendo liberamente alle esperienze artistiche e biografiche dei loro autori. Un programma che ci permette di scoprire anche tre modi diversi di accogliere, rielaborare e riscrivere in modo del tutto personale il patrimonio della tradizione. Durante la composizione del ciclo Sul sentiero ricoperto (1901-11) Leóš Janáček è immerso nello studio del folklore moravo. All’inizio del Novecento, egli era infatti impegnato in una approfonditissima analisi e raccolta dei canti popolari della propria regione (arriverà a censirne oltre 2.000!), che scaturirà non soltanto nella pubblicazione di centinaia di Canti popolari moravi per voce e pia-

LEIF OVE ANDSNES

Grazie alla sua tecnica straordinaria e alle interpretazioni ricercate, Leif Ove Andsnes ottiene consensi in tutto il mondo. Si esibisce come solista con orchestre come New York Philharmonic, Wiener Symphoniker, London Philharmonic e Berliner Philharmoniker, collaborando con direttori quali Pappano, Järvi e Gardiner. Appassionato musicista da camera, è stato co-direttore artistico del Festival di Risør e fondatore del Festival di Musica da camera di Rosendal, in Norvegia. È stato inoltre inserito nella Gramophone Hall of Fame e ha ricevuto lauree honoris causa dalla Juilliard School di New York e dall’Università di Bergen. Nato nel 1970 a Karmøy, in Norvegia, ha studiato al Conservatorio di Musica di Bergen con il celebre professore ceco Jirí Hlinka. Attualmente risiede a Bergen, dove è Consigliere Artistico per l’Accademia Pianistica intitolata proprio al suo maestro “Jirí Hlinka”.

Foto Oezguer Albayrak

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di forme

noforte, ma anche nel suo originale atteggiamento compositivo, che dal patrimonio popolare trarrà l’energia sorgiva della danza, lo struggimento della melodia e la libertà di ritmi irregolari e di concatenazioni di accordi che si ribellavano per così dire ai trattati d’armonia. Cosicché, dopo la Boemia di Dvořák, la Moravia troverà in Janáček un paladino della propria musica nazionale. Fra i suoi tutt’altro che numerosi lavori per pianoforte solo, Sul sentiero ricoperto testimonia proprio questo procedimento di interiorizzazione e riscrittura in chiave personale del patrimonio musicale moravo (quello che ritroveremo in chiave ben più magniloquente nell’opera teatrale Jenůfa, cui Janáček stava lavorando esattamente in quegli anni). Qui la cifra prevalente è quella dell’intimità e della nostalgia delle cose e delle persone perdute: il titolo stesso, alla lettera “Sul sentiero ricoperto di vege-


tazione”, cita una canzone popolare morava, secondo la quale l’erba ricresce su un sentiero che non viene percorso da molto tempo, il sentiero che porta a casa: «Ricoperto, ricoperto di piccolo e tenero trifoglio è il sentiero che mi riporta dalla mamma»… Nel 1903 Janáček aveva perduto la figlia Olga, ventunenne, dopo aver già perso il primo figlio Vladimir. Il dolore personale si rispecchia soprattutto nelle pagine della prima serie del Sentiero ricoperto, i cui titoli fanno proprio riferimento a situazioni domestiche e paesane, sino al pezzo finale della prima serie, “La civetta non è volata via”, che rimanda a una leggenda popolare secondo cui nella camera dove si veglia un malato la luce è sempre accesa per tenere lontana la civetta, simbolo della morte: nel caso di Olga, come in quel brano, la civetta si presenterà inesorabilmente alla finestra, decretandone il destino. Ancora autobiografico, ma di segno opposto, gioioso e carico di aspettative, è il pretesto per le Tre Romanze op. 28 che nel 1839 Robert Schumann dona come regalo di Natale alla fidanzata Clara Wieck. Il carattere narrativo del brano, inscritto nel titolo stesso del genere di romanza, si sviluppa in tre momenti: il primo, più drammatico, dove una struggente melodia è accompagnata da un incessante moto di arpeggi, un secondo più intimo, definito da Clara come “il più bel duetto d’amore” mai scritto, dove la melodia cantabile ha un fascino popolaresco, e un terzo brano più esteso e “marciante”, in forma di scherzo con ben due intermezzi. Se le Romanze trasfigurano in musica il racconto e le dinamiche di un amore, le tre Burlesche di Béla Bartók, completate fra il 1909 e il 1911, hanno l’impronta di grottesche pantomime, di caricature di stati d’animo più “estremizzati”: aspro il Diverbio della prima, dedicata all’allieva di pianoforte che diverrà sua moglie, Martha Ziegler; quasi comico l’effetto Un poco brillo dato da querule dissonanze e da un ritmo barcollante; graffiante e incisivo il terzo brano, senza titolo se non Molto vivo, capriccioso. La galleria di stati d’animo diventa una vera e propria affermazione di poetica nell’opera forse più celebre di questo genere: il Carnaval op. 9 di uno Schumann venticinquenne, il quale attinge alla letteratura oltre che alla vita per creare un’immaginaria sfilata di personaggi che tutti insieme raccontano la storia del loro creatore, le sue passioni, i suoi ideali, i suoi amori. «Le origini di questa composizione risalgono ad una particolare circostanza. Una delle mie conoscenze musicali essendo originaria di una piccola città dal nome di Asch e siccome le quattro lettere costituenti questo nome figurano ugualmente nel mio, ebbi l’idea di valermi della loro traduzione musicale come punto di partenza di una serie di brevi pezzi, nello

LUNEDÌ 3 DICEMBRE 2018 AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30

LEIF OVE ANDSNES

pianoforte

Robert Schumann Tre Romanze op. 28 Leóš Janáček Sul sentiero ricoperto (Serie I) Béla Bartók Tre Burlesche Sz. 47 Robert Schumann Carnaval – scènes mignonnes sur quatre notes op. 9

stesso modo in cui Bach aveva fatto in rapporto al suo patronimico. Sollecitata la fantasia da codesta trovata, un brano succedeva all’altro senza che me ne avvedessi, e siccome ciò avveniva durante la stagione di Carnevale del 1835, una volta finita la composizione, aggiunsi i titoli e le diedi la denominaLo sapevate che la Quarta zione generale di Carnevale». Ballata di Chopin ha fin Ecco quindi sfilare i due alter ego del compositore, il soda subito colpito Andsnes gnatore Eusebio e l’esubenel profondo; solo dopo rante Florestano, ma anche le cinque concerti il pianista due figure reali di Clara è riuscito a eseguirla senza Wieck ed Ernestine von Fricken, appena dissimulate sotto scoppiare a piangere i nomi di fantasia di Chiarina ed Estrella; e ancora ecco passarci davanti gli amati Chopin e Paganini, fianco a fianco con alcuni personaggi della commedia dell’arte, per trovarsi tutti insieme infine nella Marche des Davidsbündler contre les Philistins, l’immaginaria lega dei fratelli di David che combatteva nell’animo di Schumann.

DA ASCOLTARE

L’esordio discografico del pianista norvegese risale al 1987, allorquando, ancora diciassettenne, incise per la Vest-Norsk Plateleskap un cd contenente brani di Fryderyk Chopin, Bedřich Smetana e Ludwig van Beethoven. Due anni dopo lo troviamo tra i protagonisti di una registrazione che raccoglie l’integrale delle opere cameristiche di Carl Nielsen pubblicata dalla BIS. Nel 1990 eccolo incidere per la SIMAX il Terzo di Prokof’ev per poi passare alla Virgin Classics, con la quale pubblicherà fino al 1996 diversi album dedicati oltre che a Chopin, a Brahms, Schumann e a molta musica del Nord ed Est Europa, in particolare Grieg e Janáček. A seguire cambia ancora editore: passa alla EMI e alla Sony, nelle sue registrazioni trovando molto spazio il repertorio maggiore.

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Lunedì 17 dicembre 2018

Tutto dedicato a Mahler il concerto che vede due grandissimi solisti alternare archetto e bacchetta a fianco di una delle compagini cameristiche più apprezzate d’Europa

Foto Angie Kremer

di Francesco Corasaniti

DAL PRINCIPIO

alla fine 34

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MUSICA INSIEME


LUNEDÌ 17 DICEMBRE 2018 AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30

KREMERATA BALTICA GIDON KREMER violino e maestro concertatore MARIO BRUNELLO violoncello e direttore Gustav Mahler Quartettsatz in la minore per pianoforte e archi Kristina Anuseviciute viola – Michail Lifits pianoforte

Sinfonia n. 4 in sol maggiore Das himmlische Leben (trascrizione per soprano e archi di Klaus Simon) Freddie Jemison voce bianca

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irettore d’orchestra, compositore di visionarie sinfonie, filosofo del superamento dei limiti imposti dalle forme e dai generi musicali, sperimentatore insuperato dei timbri dell’orchestra, il giovane Gustav Mahler ci ha lasciato, come primo frutto del suo genio creativo, un riuscitissimo esperimento cameristico: un Quartetto con pianoforte. O meglio, un tempo di Quartetto – da cui il nome Quartettsatz – e una manciata di battute di un secondo tempo. Quasi che, già conscio del suo valore, avesse voluto dimostrare di essere capace di misurarsi con una scrittura così complessa dopo un solo anno di studi, il compositore sedicenne abbandonò l’opera dopo un unico, perfetto e riuscitissimo movimento. Era ormai pronto a misurarsi con altro: da qui in poi affronterà il Lied e la scrittura sinfonica. Già nel Quartettsatz la costruzione classica di forma-sonata è rielaborata con una dose notevole di inventiva. Il giovane Mahler mostrava già nel suo primo parto la tendenza alla contaminazione dei linguaggi che fu una delle cifre stilistiche più evidenti della sua produzione. Così già nelle sue prime sinfonie vediamo l’ingresso della voce: un tabù che solo Beethoven aveva osato sfidare con l’Inno alla gioia. Se quello fu il punto nella produzione sinfonica di Beethoven, il finale della Quarta Sinfonia in sol maggiore, La vita celestiale, fu il punto e virgola in quella di Mahler. Con la Quarta egli concluse infatti il ciclo delle Sinfonie ispirate al ciclo Des Knaben Wunderhorn, una raccolta di antichi canti popolari tedeschi, raccolti da Achim von Armin e Clemens Brentano. Le Sinfonie successive furono invece prive di un programma, quasi in un percorso inverso rispetto a Beethoven. Un ritorno verso la musica pura, testimoniato anche dalla

Foto Angie Kremer

Sinfonia n. 10 in fa diesis maggiore: Adagio (trascrizione per archi di Hans Stadlmair)

sostituzione dei titoli dei movimenti delle prime sinfonie, perseguendo una semplificazione che li rendesse privi di riferimenti da suggerire all’ascoltatore. Il progetto originario della Quarta prevedeva sei tempi, culminanti nel movimento dal titolo “Ciò che un bambino mi dice”, modellato sul Lied del 1892 La vita celestiale, tratto appunto da Des Knaben Wunderhorn, di cui doveva comprendere anche Campane celesti e La vita terrena, poi espunti dalla versione definitiva del 1900. In quest’ultimo canto, un bambino muore di fame in attesa che il raccolto maturi e venga cotto il pane. Sarà proprio lui a intonare La vita celestiale, in cui narra le delizie del cielo, con abbondanza di vino e cibo, danze e canti. Semplice e ingenua, la musica del finale accompagna queste modeste gioie celesti che poco hanno dell’estasi di

I PROTAGONISTI

Impostosi sulla scena internazionale grazie al Primo Premio al Concorso “Čajkovskij” nel 1986, Mario Brunello collabora con orchestre quali London Philharmonic, Münchner Philharmoniker, Filarmonica della Scala, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, con direttori come Gergiev, Pappano, Muti e Chung. Gidon Kremer è interprete dal repertorio eccezionalmente ampio, che abbraccia le principali opere romantiche e classiche oltre al Novecento di Berg, Henze e Stockhausen. Nel 1997 fonda l’orchestra Kremerata Baltica, composta da giovani talenti provenienti da Lettonia, Lituania ed Estonia, per promuovere ed ispirare la nuova vita musicale indipendente di quei paesi. Fra gli ensemble europei più ricercati sulla scena internazionale, collabora con solisti quali Kissin, Pletnëv, Trifonov, Repin e Yo-Yo Ma.

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Lunedì 17 dicembre 2018

Foto Giulio Favotto

Lo sapevate che... Kremer ha suonato con il naso rosso da clown? La Kremerata ha infatti collaborato con il noto artista circense Slava Polunin per lo spettacolo SnowShow Symphony

una rosa di beati, ma tanto di un banchetto campagnolo. D’altra parte al bimbo morto di fame non serviva che un po’ di pane. L’apparente innocenza del suo racconto nasconde però un’ironia crudele: l’immagine degli agnelli macellati mette in luce l’ingiustizia della morte di ogni bambino. Le forme classiche decostruite, le scordature ad hoc della danza macabra dell’“amico Hein” – il fantastico menestrello che porta in Paradiso i bambini defunti –, i temi popolari: tutto si fonde nella perfetta ricerca timbrica del grande orchestratore. Questa Sinfonia, diversamente dalle altre, non prevede un grande organico orchestrale: ha, infatti, una scrittura quasi “cameristica” già nella sua forma originale. Mahler scrisse che ciò che con-

DA ASCOLTARE

La discografia della Kremerata Baltica comprende poco meno di trenta cd. Il repertorio spazia da Bach a Kancheli, passando per Šostakovič e Piazzolla. Naturalmente, protagonista tra gli interpreti è Gidon Kremer, mentre al suo fianco, oltre al suo fidato ensemble, troviamo spesso grandi solisti, come, ad esempio Evgenij Kissin, in un cd dedicato a Mozart. Quel che conta, però, non sono solo gli interpreti, bensì le scelte artistiche, sempre molto suggestive e accurate. Così, per fare un esempio, ecco New Seasons (DGG 2015) dove s’incontrano Glass, Pärt, Kancheli e Umebayashi. Accanto alla musica dei nostri giorni, ampio spazio hanno i progetti speciali, come quello dedicato a Gould sotto il segno dell’amato Bach (Nonesuch 2012).

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MUSICA INSIEME

tava era che fosse udibile ciò che risuonava al suo orecchio interiore. Nella scrittura cameristica di Klaus Simon nulla, infatti, si perde del discorso compositivo, che rimane chiaro anche in una snellita veste timbrica. C’è sempre un presagio della morte in Mahler, quasi un’attesa dell’ineluttabile. Tanta della sua musica parla di questo: i Kindertotenlieder, la Prima Sinfonia, lo stesso finale della Quarta, per citare solo alcuni esempi. Presaga di morte è anche la Decima Sinfonia, la sua “Incompiuta”. Il compositore era ossessionato dalla “maledizione della Nona”, la superstizione riguardante immani sciagure per chi osava tentare di superare il numero delle nove Sinfonie di Beethoven. Con lui, in un certo senso, la maledizione funzionò: scrisse Das Lied von der Erde (Il canto della terra) che di fatto è una nona sinfonia, ma volutamente la tenne fuori dal conteggio. Cominciò a lavorarvi mentre si trovava sulle Alpi, nell’estate del 1910. Aveva appena scoperto il tradimento della moglie Alma con Walter Gropius e la sua malattia cardiaca si aggravò velocemente. Per errore, a quanto confessò, Gropius inviò al compositore, invece che ad Alma, una lettera in cui diceva alla donna che non poteva vivere senza di lei e la sollecitava a lasciare il marito. Mahler, già afflitto dalla diagnosi sulla sua salute, ancora provato dal lutto per la figlia, ossessionato dalla paura di morire, trasfuse tutto questo senso della fine nei suoi schizzi della Decima. La partitura è piena di annotazioni febbrili: «Follia, afferrami, me maledetto! Distruggimi, che io dimentichi che sono, che io finisca di essere», «Solo tu sai che cosa significa! Ah! Ah! Ah! Addio mie corde! Addio! Addio! Ah, Addio Ah! Ah!» e, ancora, «Vivere per te, morire per te!». Si rivolgeva ad Alma? Stava pensando di fare di questa Sinfonia un poema sinfonico dedicato alla Divina Commedia, come si è ipotizzato, per evitare ancora una volta di superare il numero 9? Non lo sapremo mai: nell’inverno accantonò l’opera per dedicarsi alla consueta attività di direzione d’orchestra, e quando vi rimise mano nella primavera del 1911 fu colto dalla morte. Restano solo un Adagio quasi definitivo e gli abbozzi degli altri quattro movimenti, dai quali si intuisce la genesi di un nuovo capolavoro.



LunedĂŹ 14 gennaio 2019

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Per la prima volta a Musica Insieme, il celebre soprano emiliano si cimenta con un raro repertorio cameristico che culmina con la Voix Humaine di Poulenc di Luca Baccolini


ANNA CATERINA ANTONACCI DONALD SULZEN pianoforte

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soprano

Ottorino Respighi Deità silvane Nadia Boulanger Versailles – Cantique – Elle a vendu mon cœur Vous m’avez dit – C’était en juin Reynaldo Hahn Venezia – Sei canzoni in dialetto veneziano Francis Poulenc La Voix Humaine

a scrittura per voce ha qualcosa d’istintivo e fotografico. Schubert veniva sorpreso ad abbozzare i suoi Lieder persino sulla tovaglia, ove non gli fosse possibile trovare un po’ di carta. Poulenc scrisse una delle sue liriche più strazianti (Dernier Poème, Ultima poesia) sull’involucro delle sigarette. Sembra sempre che ci sia qualcosa di urgente da confessare, quando in gioco c’è un’illuminazione improvvisa, da affidare alla voce. E in effetti il processo compositivo in questo caso non ha niente a che vedere con i complessi edifici delle sinfonie, di solito postumi rispetto all’idea originaria (Brahms componeva al termine di lunghe passeggiate rielaborando i temi che gli erano affiorati alla mente). In generale, la lirica – che si chiami Lied alla tedesca, chanson alla francese o song all’inglese – è ciò che più assomiglia a una pagina di diario. È il caso di Ottorino Respighi, il cui articolatissimo catalogo mostra un solo continuum che attraversa giovinezza e maturità: la lirica. I cinque pezzi di Deità silvane per soprano e pianoforte si inseriscono in questa dimensione intima, lontana dalla sfarzosa ricerca sonora dei poemi sinfonici per i quali è famoso nel mondo. Tralasciando il difficile periodo dell’anno 1917, alla vigilia del fidanzamento con Elsa, futura moglie devota, queste pagine spiccano per la loro distanza dalle cose terrene. La ripulitura dalla prassi canora ottocentesca è il mezzo tecnico con cui si colma questa distanza: addio agli abbellimenti, ai virtuosismi e alle acrobazie espressive del secolo d’oro dell’opera, ecco invece una scrittura più simile al recitar cantando e, dunque, miracolosamente più vicina a Monteverdi e Marenzio, ai quali Respighi dedicava infinite ore di studio.

I PROTAGONISTI

Anna Caterina Antonacci si è diplomata in canto al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna, studiando anche pianoforte e composizione. Ha inaugurato la propria carriera vincendo il Concorso “Verdi” di Parma, il “Maria Callas” e il “Pavarotti International”. La particolarità della sua voce e le sue doti d’interprete le hanno permesso di affrontare un repertorio vastissimo: da Monteverdi a Händel, da Mozart a Britten. Il pianista Donald Sulzen collabora regolarmente con i più celebri cantanti, come Laura Aikin, Julie Kaufmann, Tommaso Cooley e James Taylor. È inoltre membro dal 2001 del Münchner Klaviertrio. La critica londinese lo definisce “autorevole e stimolante” e la Süddeutsche Zeitung loda le sue “brillanti interpretazioni”, che lo hanno portato ad esibirsi in tutta Europa, America e Giappone.

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MUSICA INSIEME

Foto J.D. Shaw

LUNEDÌ 14 GENNAIO 2019 AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30

A pochi anni prima, tra il 1906 e il 1909, risalgono le liriche di Nadia Boulanger, che rispetto alla sorella non era la compositrice più talentuosa, ma senza dubbio la più influente per la musica dell’avvenire. Se Lili, infatti, morirà venticinquenne nel 1918, Nadia sarebbe stata l’insegnante implacabile di intere generazioni di compositori (da Piazzolla a Gershwin, da Bernstein a Copland) e di direttori, da Markevitch a Barenboim, fino anche a Gardiner. Nessuna pretesa sperimentale, nessun arrocco ideologico, in queste pagine di tersa ispirazione, che Lo sapevate che Anna affrancano la voce da qualsiasi retaggio d’eredità operistica. Caterina Antonacci Anche Reynaldo Hahn, il fedele vanta trascorsi sportivi compagno di Marcel Proust come insegnante – l’unico che gli stette vicino sino alla morte – trovò nella lirica da di nuoto e ciclista camera la sintesi di un pensiero amatoriale, arrivando estetico. Nel ciclo Venezia – Sei a percorrere anche canzoni in dialetto veneziano del 1901, il compositore venezuelano 100 km in un giorno che stupì i salotti parigini come enfant prodige racchiuse ricordi di viaggio particolarmente felici. Nel 1900 lui, la cugina inglese Marie e Proust avevano visitato Venezia, unica tra le quattro città citate nelle prime pagine della Recherche ad indicare i luoghi dello svolgimento della vita del narratore. Ma se in Proust si va continuamente da una Venezia fantasticata ad una Venezia reale, dalle parole alle pietre, nella musica di Hahn si entra subito in una dimensione concreta. È il dialetto (o perlomeno una

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Lunedì 14 gennaio 2019

DA ASCOLTARE

Domina ovviamente l’opera lirica nella discografia di Anna Caterina Antonacci. Alla Butterfly incisa nel 1985 con Lorin Maazel (Arthaus) seguono i verdiani Vespri Siciliani (Warner) e Macbeth (DGG) con Riccardo Chailly sul podio. Dal 1990 in poi eccola incidere quello che è ormai divenuto il suo repertorio di elezione: la musica tra Sette e Ottocento. Si comincia con gli Gli Orazi e i Curiazi di Cimarosa (Alan Curtis, House of Opera), poi il Rossini di Ermione (Andrew Davis, NCV Arts) e Rodelinda di Händel (William Christie, NCV Arts). Questo senza tralasciare i grandi titoli, come Carmen, e quelli meno frequentati, quali Les Troyens di Berlioz, che inciderà ben due volte, l’ultima nel 2012 con Antonio Pappano (Opus Arte).

sua versione più ammorbidita, tratto da testi di fine Settecento, inizio Ottocento) a farci vivere una città che non ha bisogno di essere ritrovata nel selciato del cortile di palazzo Guermantes (“Coi pensieri malinconici / No te star a tormentar / Vien con mi, montemo in gondola / Anderemo fora in mar / Passaremo i porti e l’isole / Che circonda la cità / El sol more senza nuvole / E la luna spuntarà”). Non è lirica da camera, ma un’opera da camera La Voix Humaine di Francis Poulenc, cronologicamente eccentrica rispetto alle altre tappe del programma (siamo finiti nel 1959). Fin dall’inizio, l’autore pensò di scrivere un monologo per voce femminile con l’immagine fissa di “un uccello ferito da un cacciatore invisibile”. La vicenda è nota e rappresenta una complicata rottura di un rapporto d’amore. La donna, dopo essere stata lasciata, telefona al suo ex amante, del quale non si sente mai la voce, tanto da dubitare addirittura della sua esistenza. A causa del basso livello del servizio telefonico di Parigi (l’ironia di Poulenc non si conteneva nemmeno di fronte alle tragedie

Poulenc definiva La Voix Humaine “un’opera tenera e violenta, amorosa e crudele, sentimentale e sensuale” sentimentali) la conversazione viene interrotta più volte. È proprio questa segmentazione a dare l’aspetto di una suite di sequenze, come se si trattasse di brani musicali isolati, ciascuno di durata assai breve, che trovano il loro apice in lunghe grida di intenso lirismo. «Spero – diceva Poulenc, che era stato invitato a musicare il testo di Cocteau per la Callas, salvo poi spostare le sue preferenze su Denise Duval – di esser riuscito a creare dall’inizio, da quando trilla la suoneria del telefono, un clima strano, un clima di tensione e d’angoscia. Questo concerto per voce femminile e orchestra è un’opera tenera e violenta, amorosa e crudele, sentimentale e sensuale». Qui il canto è molto cantato, anche se non sembra canto. È piuttosto una specie di declamazione, che passa rapidamente dalla melodia al parlato. È, se vogliamo, una lirica espansa, che dilata all’estremo la paura dell’abbandono, il tramonto dei sentimenti, la fine di tutto. Nelle Deità silvane cala il crepuscolo. In Poulenc cade a terra la cornetta.


Mille vite, una voce > Intervista > Anna Caterina Antonacci Interprete delle più celebri eroine della scena lirica internazionale, dalla Royal Opera House alla Scala, Anna Caterina Antonacci offre alla ‘sua’ Bologna un programma tutto novecentesco, a lei particolarmente caro. Come è nata la sua passione per la musica e il canto? «La mia avventura con il canto è iniziata prestissimo, ho sempre amato cantare sin da piccola. Mio padre era un grande appassionato di lirica e grazie ai dischi che erano in casa ho ascoltato molte opere liriche, ed è stata questa l’origine della mia passione per la musica. Da adolescente sono stata una spettatrice molto assidua dell’opera e dei concerti soprattutto a Bologna e dopo il liceo ho iniziato a intraprendere lo studio del canto». Quali sono stati i suoi maestri? «Ho studiato con molti insegnanti ma quello a cui sono più grata è Allan Billard, ultimo dei miei maestri, che desidero menzionare sia per i risultati ottenuti grazie al suo insegnamento sia per la sua semplicità, virtù che spesso contraddistingue le persone d’eccezionale valore». Come ha scelto il programma di questo concerto per Musica Insieme? «Quello che presenterò a Bologna il 14 gennaio è un programma incentrato sul Novecento che ho eseguito nelle più prestigiose sale in tutto il mondo. All’estero infatti ci sono molte più occasioni di assistere a recital di canto di quante non ce ne siano in Italia. Il pubblico accoglie sempre favorevolmente un programma incentrato su autori come Britten, Hindemith, Poulenc che riescono a produrre un grande impatto emozionale, anche per la vicinanza cronologica che porta lo spettatore a riconoscersi nel gusto e nelle tematiche più di quanto riesca a fare con opere del repertorio tradizionale ottocentesco. La seconda parte del programma culmina infatti con un titolo a me molto caro: La Voix Humaine, nel quale ho debuttato qualche anno fa, eseguendolo nella sua versione con l’orchestra in molti teatri. La versione originale di Poulenc resta però quella scritta per voce e pianoforte, molto più coinvolgente per il rapporto intimo che si crea tra musica, inter-

prete e spettatore: un intenso momento di teatro che sono particolarmente felice di offrire al pubblico di Musica Insieme, che è il pubblico della mia città d’elezione». Come è nato il suo sodalizio con Donald Sulzen? «È un bellissimo rapporto che dura da moltissimi anni ed è iniziato in occasione di un concorso di canto a Barcellona dove io ero una concorrente e lui un pianista accompagnatore. Si è poi rafforzato negli ultimi quindici anni, quando i nostri rapporti professionali si sono susseguiti con maggior frequenza». Possiamo dire che la carriera di un cantante in qualche modo è assimilabile a quella di uno sportivo? «Certamente, perché entrambe richiedono costanza, sacrificio, studio e allenamento. Da adolescente ho praticato nuoto agonistico, è stata una bella esperienza, molto formativa, che mi ha insegnato a lavorare sodo per ottenere i risultati che desideravo conseguire e mi ha posto davanti alla competitività sin da giovanissima. Posso dire che quest’esperienza sportiva mi è servita molto per la disciplina necessaria anche per lo studio del canto». Quindi tre aggettivi che la descrivono? «Direi assolutamente testarda, curiosa e autocritica». C’è un ruolo tra quelli del suo repertorio che la rappresenta di più? «Ricordo con particolare emozione la mia Poppea: un ruolo che mi entusiasmava perché esaltava la mia femminilità, ma con il passare del tempo e con la maturità mi sento adesso più vicina ad altri personaggi, come ad esempio Gloriana, la protagonista dell’omonima opera di Britten, una regina quasi morente che mi ha completamente travolta per la forza del personaggio. I ruoli che interpretiamo non devono necessariamente rispecchiare un lato del nostro carattere, tutto sta nella capacità dell’interprete di calarsi nel personaggio, e la nostra fortuna è di poter vivere mille vite attraverso i personaggi in cui ci immedesimiamo». (a cura di Riccardo Puglisi)


Lunedì 21 gennaio 2019

NÉ QUI,

né ora

L ’

etimo della parola “genio” è davvero affascinante. L’origine sanscrita – jan – trova esito nel greco gennáo e nel latino genero, da cui l’italiano generare. Sostiene Franco Rendich che l’indoeuropeo j-an unisce l’energia (j) con l’acqua (an), acqua considerata non solo in Oriente la genitrice di tutte le cose create. Quindi, ogniqualvolta pronunciamo il sostantivo “genio” evochiamo qualcosa che va molto al di là delle capacità tecniche o delle competenze o dell’intelligenza o dell’abilità, o di qualsiasi altra dote, che di solito associamo a tale parola. Il lemma originario, infatti, rimanda a una generazione che soprattutto nell’antichità mediterranea fu associata a una divinità, e più raramente, e nel senso socratico del termine, a un demone. Eccoci allora dinanzi al genius loci, e a Genius, prima presso gli Etruschi, poi presso i Romani, vera e propria divinità. È un nume tutelare che accompagna fin dalla nascita tutti i maschi, e che nella versione femminile assumerà il nome di Juno. La vicinanza col daimon greco e persino con l’angelo custode cristiano è evidente. Il tutto diventa ancor più interessante allorquando osserviamo che da questa lontana origine prendono poi forma sostantivi come génna (greco) e gens (latino), che estendono il significato dell’essere nato/generato a quello dell’appartenenza non più solo a un luogo, ma a un clan, una stirpe, una famiglia. Per farla breve, appare chiaro quindi che, ogniqualvolta appelliamo un artista, uno scienziato, un calciatore, e chiunque altro, con la parola “genio” non ci stiamo solo riferendo alle sue specifiche capacità, competenze e doti, ma piuttosto a

È fra i più acclamati interpreti il pianista polacco Krystian Zimerman, ospite dei più prestigiosi palcoscenici del mondo sin dalla vittoria del Concorso “Chopin” nel 1975 di Fabrizio Festa

Foto Bartek Barczyk

KRYSTIAN ZIMERMAN

La vittoria del Grand Prix al Concorso “Chopin” nel 1975 ha aperto a Krystian Zimerman le porte di una brillante carriera internazionale che lo vede protagonista dei più importanti palcoscenici, oltre che in collaborazioni con orchestre quali Wiener Philharmoniker e Berliner Philharmoniker, al fianco di direttori come Karajan, Bernstein, Muti, Maazel e Rattle. Tra i riconoscimenti internazionali ricordiamo il Premio dell’Accademia Musicale Chigiana di Siena e il Leonie-Sonning Prize. Inoltre ha ottenuto il Dottorato honoris causa all’Accademia di Musica di Katowice e all’Università di Varsavia, la Legione d’Onore francese e la Croce al merito con stella conferita dal Presidente della Polonia.


un complesso articolato e profondo di legami, la cui origine sta addirittura nella natura (termine che a sua volta deriva dal participio futuro del verbo nascere). I Romantici dichiarati, come Schiller o Byron, del medesimo avviso anche il più romantico degli illuministi, Diderot, pur non perdendo del tutto di vista sia l’elemento divino, sia quello naturale, hanno fatto del “genio” una condizione dell’anima. Il filosofo francese lo definisce un uccello notturno, che si alza in volo dopo il tramonto, levando il suo grido rauco. Altro che il canto dell’usignolo, o quello dell’allodola. La notte si addice al genio, una notte solitaria, con quel tanto di melanconia della quale agli artisti – nati per definizione sotto Saturno – non dispiace compiacersi. Cosicché non stupisce che per nume tutelare (genius appunto) dei pianisti sia stato scelto Fryderyk Chopin, cui peraltro è intitolato fin dal lontano 1927 il più noto concorso pianistico, vinto tra gli altri da Maurizio Pollini, da Martha Argerich e appunto da Krystian Zimerman. Solitario, melanconico, innamorato, ecco Chopin seduto dinanzi al suo Pleyel con l’aria insieme greve e trasognata, quella che si addice appunto a un genio che sta facendo della sua vita (come ordinato da Novalis e come ce lo mostra Henryk Siemiradzki in un dipinto del 1887) un romanzo. «Il mondo dev’essere romantizzato» ingiunge il poeta. Così hanno fatto soprattutto quei compositori che erano pianisti, e che i pianisti amano interpretare. Chopin, Schumann, a volte Schubert, a suo modo Skrjabin. Poi è arrivato Rachmaninov. A Beethoven è toccato in sorte di essere il modello per i Romantici del XIX secolo, i pianisti ovviamente in prima fila. Tutti compositori e pianisti che Zimerman conosce bene e propone nei suoi recital. Quanto quel nume tutelare – Chopin appunto, o quel che di Chopin si è voluto credere e fare – influisca tutt’oggi sulla formazione di un pianista non è facile dirlo. Zimerman, classe 1956, però appartiene ancora a quella generazione che non aveva dovuto confrontarsi con gli i-dispositivi, con lo streaming e i file-audio: un altro mondo il suo. Allora Lang Lang – pianista di genio e di talento – che partecipa a una puntata della serie TV-Web Mozart in the Jungle sarebbe stato impossibile da immaginare. Dobbiamo dunque ascoltare Zimerman come fosse un testimone di un passato, magari meraviglioso, ma ormai trascorso? No, assolutamente no. Nell’arte la storia è quella narrata dagli storici dell’arte: l’arte in sé sta fuori dal tempo. L’arte è sempre al presente ed è sempre il presente. Una vecchia registrazione discografica è vecchia in quanto oggetto, ma non per il suo contenuto, anche quando quel contenuto ci sembri superato dagli eventi. Accade spesso, in-

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KRYSTIAN ZIMERMAN

pianoforte

Recital

fatti, che molti anni dopo, riascoltandola ci appaia invece nuovissima, addirittura futura. Questo è il genio. Quando diciamo che questo o quell’artista è un genio lo stiamo restituendo a una dimensione che sta prima del tempo. È per questo che dovremmo utilizzare una parola così carica di sostanza con attenzione e affetto. Ci sono parole che vanno maneggiate con cura: genio è tra queste. Zimerman, e come lui pochi altri, ce lo dimostrano ad ogni loro conLo sapevate che Krystian certo, in ogni loro incisione. Anche quando non sono perfetti. GeZimerman viaggia con nio e perfezione non sono due il suo pianoforte perché sostantivi apparentati. Così come vuole avere con sé quello genio e sregolatezza. Il genio ha il suo metodo e le sue regole. Mecon le sonorità perfette todo e regole che conducono ad un per il suo programma esito però improbabile: quello di far scaturire emozioni che non possiamo descrivere nei termini del qui e dell’ora. Per questo ogniqualvolta ne incontriamo uno ci sentiamo incapaci di inquadrarlo, di incorniciarlo, in una parola di rinchiuderlo nel rassicurante recinto delle nostre convinzioni quotidiane. Ecco: quello è il momento di abbandonarle. Il suono del pianoforte corre, la sala scompare, e quanto accade dopo non è più storia.

DA ASCOLTARE

Difficile persino contarle le registrazioni su vinile e in cd di Krystian Zimerman. Il Pianista polacco fin dagli esordi della sua carriera ha dedicato ampio spazio all’incisione discografica, negli anni realizzando di fatto una sorta di enciclopedia del repertorio pianistico. Dal 1977 – dopo essere entrato a far parte degli artisti della Deutsche Grammophon – la sua discografia si è sviluppata senza soluzione di continuità. Si comincia con Chopin, com’è facile immaginare, per poi toccare Brahms, Beethoven, Schubert arrivando fino a Debussy. Con l’orchestra (come nei casi di Rachmaninov e Bartók) o senza, in ogni caso aggiungendo sempre nuove tessere al suo già vastissimo mosaico discografico.

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Lunedì 28 gennaio 2019

IL MISTERO della musica Preziose rarità di tre grandi compositori tedeschi per l’ensemble formato dalle prime parti dei Berliner Philharmoniker di Nicolò Corsini

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uando nella sala da concerto risuonano le prime note, il nostro animo è pervaso da molteplici emozioni. L’atto di ascoltare è più complesso di quanto si creda: l’attenzione deve riuscire ad avere la meglio sulle distrazioni, interiori ed esterne, per godere appieno di quest’arte e provare ad accogliere il messaggio di chi sta comunicando con noi. Durante un concerto, la musica assomiglia, difatti, a un discorso aperto tra il suo autore, l’interprete e il pubblico. Nell’ascolto possiamo anticipare mentalmente il susseguirsi delle note, fare attenzione ai particolari più sottili di una interpretazione e confrontarla con altre. Un ruolo tutt’altro che passivo, che non va ridotto esclusivamente all’approvazione finale, l’applauso. Quest’ultimo, si sa, ha sempre vissuto un rapporto conflittuale con la sensibilità di alcuni autori e interpreti. Ricercato e inseguito spesso in gioventù, deprecato e finanche proibito, quando la severità degli anni impone austerità. Nelle lettere all’amico Carl Czerny, Beethoven faceva sapere come fosse proprio il successo del Settimino in mi bemolle maggiore op. 20 a causargli una certa insofferenza. Composizioni più recenti e rivoluzionarie, considerate di spessore maggiore, erano accolte con sgomento e scetticismo dai contemporanei, oscurate dalla leggera cantabilità di quel lavoro giovanile, la cui diffusione era stata aiutata anche

LUNEDÌ 28 GENNAIO 2019 AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30

SCHAROUN ENSEMBLE

CHRISTOPHE HORAK violino RACHEL SCHMIDT violino MICHA AFKHAM viola CLAUDIO BOHORQUEZ violoncello PETER RIEGELBAUER contrabbasso ALEXANDER BADER clarinetto MARKUS WEIDMANN fagotto STEFAN DE LEVAL JEZIERSKI corno Johannes Brahms Variazioni sopra un tema di Robert Schumann op. 9 (trascrizione per ottetto di Detlev Glanert) Hans Werner Henze Quattro Fantasie per ottetto Ludwig van Beethoven Settimino in mi bemolle maggiore op. 20

CHE MUSICA, RAGAZZI! – II edizione Il 28 gennaio alle ore 10.30 gli Artisti incontreranno all’Auditorium Manzoni gli alunni delle scuole primarie e medie. Per informazioni rivolgersi a Musica Insieme

dalle numerose trascrizioni destinate al mercato dei dilettanti. Il nostro parere oggi è meno coinvolto, e ha reso giustizia a tutta la letteratura beethoveniana. Alla sensibilità contemporanea risaltano di quell’opera la ricchezza timbrica, le risorse idiomatiche e decorative che ogni strumento può of-


Lunedì 28 gennaio 2019

SCHAROUN ENSEMBLE

Fondato nel 1983 dai membri dei Berliner Philharmoniker, lo Scharoun Ensemble è una delle più importanti formazioni cameristiche tedesche. Con un ampio repertorio che spazia dal barocco fino alla contemporanea, nei suoi oltre trent’anni di attività ha collaborato con i principali direttori e solisti, da Claudio Abbado a Sir Simon Rattle, da Daniel Barenboim a Pierre Boulez, da Thomas Quasthoff a Barbara Hannigan. Particolarmente fruttuosi sono stati i sodalizi con autori che vanno da György Ligeti a Wolfgang Rihm, Hans Werner Henze, György Kurtág e Jörg Widmann.

frire nelle diverse combinazioni. Uno sguardo dal respiro più ampio ci aiuta a cogliere le sfaccettature più interessanti di questa composizione in sei movimenti: lo stile concertante, i brevi passaggi virtuosistici del violino, le melodie di sapore popolare, la grazia e la semplicità delle armonie, i ritmi contrastanti, la ricchezza e la freschezza delle idee musicali. Un’atmosfera già mozartiana, di Serenate, Notturni e Divertimenti, che risponde in pieno a tutti i criteri della lunga tradizione di musica d’intrattenimento, finalizzata anche a conquistare quel successo di pubblico che tanto fastidio avrebbe provocato. Figlie della tradizione sono le quattro Fantasie per ottetto di Hans Werner Henze, tratte dalla Kammermusik del 1958. Questo ciclo basato su liriche di Hölderlin prevedeva l’alternanza di intermezzi strumentali, con canzoni per chitarra e voce di tenore – al quale è richiesto un grande impegno espressivo –, momenti d’insieme e brani per chitarra sola dall’alta difficoltà tecnica. Revisionate e con l’aggiunta dell’ultimo movimento, l’Adagio,

DA ASCOLTARE

La più recente pubblicazione discografica dello Scharoun Ensemble risale al 2017 per i tipi della Tudor. Si tratta di un interessantissimo cd che la compagine berlinese dedica interamente a pagine della produzione di Hans Werner Henze, ed in particolare alla sua Kammermusik del 1958. Questa incursione nella musica del Novecento era stata preceduta da un’altra godibilissima incisione: quella de Le vin herbé di Frank Martin (Harmonia Mundi, 2007). Il debutto discografico, del resto, era avvenuto con la pubblicazione del Lied von der Erde di Mahler nella versione cameristica di Schoenberg (IPPNW Concerts 1999), primo di una serie di album dedicati invece al repertorio maggiore, da Beethoven a Schubert a Dvořák.

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nel 1963, rappresentano un interessante snodo nella carriera del compositore adottato qualche anno prima dalla nostra penisola. La complessità di un’esecuzione integrale della Kammermusik negli anni ha fatto sì che ne venissero più spesso eseguiti movimenti separati. Il primo, intitolato Prefazione, si apre con lo squillo del corno, elemento che viene subito ripetuto a mo’ di risposta, richiamo costante in tutto il brano. Un inseguimento di note lunghe e scintillanti degli archi e del clarinetto, che sembrano estendersi in uno spazio infinito, cresce fino a trasformarsi in un agitato scontro, interrotto dall’ultimo richiamo del corno. Segue la Sonata, nella quale si alternano e si mescolano figure vivaci e turbolente, con frammenti di espressivo lirismo. Si passa alla Cadenza, dove i gemiti dei fiati sono impastati agli irrequieti attacchi degli archi, fino alla conclusione culminante nei forti accordi che citano il titolo del brano. Conclude la serie l’Adagio, il più meditativo dei quattro, commovente epilogo di un ciclo che nelle intenzioni dell’autore doveva rappresentare l’unione dell’animo tedesco a quello greco-mediterraneo.

Lo sapevate che... dal 2005 lo Scharoun cura lo Zermatt Festival in Svizzera, dove ogni anno decine di giovani musicisti hanno l’opportunità di studiare con i membri dell’Ensemble

A chiudere l’arco di tre secoli che collega questi grandi compositori di area tedesca, lo Scharoun Ensemble ci presenta un’interessante trascrizione per ottetto delle Variazioni su un tema di Schumann op. 9 di Brahms, esempio di come da un piccolo tema – ricavato dal nome di Clara attraverso la denominazione tedesca delle note musicali – si possa dare vita a infiniti discorsi musicali. Anche qui ci troviamo davanti a un’opera giovanile che però già mostra l’interesse verso la forma della variazione, che non è mai in Brahms mera decorazione, bensì occasione per una nuova ricerca inventiva, passe-partout per la propria creatività. Clara le definì serie e umoristiche allo stesso tempo, a ricalcare la duplice personalità del marito. Lo stesso Brahms firmerà alcune variazioni con il nome di Kreisler, il maestro di cappella creato da E.T.A. Hoffmann dietro il quale il compositore nei primi anni usava nascondere la propria identità. Indicativa è l’ultima variazione, il cui tema è nascosto tra le linee del basso, come a volerci ricordare che la musica altro non è che un continuo nascondersi e dispiegarsi del suo mistero.


Anteprime italiane > Intervista > Peter Riegelbauer Per il debutto bolognese dello Scharoun, il contrabbassista dell’ensemble Peter Riegelbauer – prima parte dei Berliner Philharmoniker – ci ha parlato di storia e futuro, da sempre valori fondanti per la compagine tedesca. Il vostro nome è un omaggio ad Hans Scharoun, l’architetto che ha progettato la Berliner Philharmonie. Percepite un particolare genius loci nella vostra sede istituzionale? «Abbiamo deciso di chiamarci Scharoun perché questa è la nostra casa, oltre che una sala da concerto meravigliosa e geniale. È la prima sala da concerto costruita con la musica al centro e ha un’energia speciale: il pubblico è seduto tutto intorno a noi. Anche se la sala è enorme (2.500 posti) c’è un’atmosfera molto intima. Il pubblico così vicino dà grande energia ai musicisti, tanto che suonare su questo palco è particolarmente emozionante. Penso che Scharoun abbia dato corpo a un nuovo ideale e siamo anche molto grati che ci abbia dato una nuova casa – la vecchia Filarmonica è stata bombardata durante la seconda guerra mondiale – così nell’83 abbiamo pensato di rendergli omaggio». I Berliner Philharmoniker sono sempre all’avanguardia nell’adozione delle ultime tecnologie, ad esempio con l’abbonamento allo streaming online dei vostri concerti (“Digital Concert Hall”). Come vede la tecnologia nel futuro della musica classica? «Siamo fedeli ai nostri “vecchi” valori, che consistono nel prendere la musica molto sul serio, cercando di invitare i musicisti migliori al mondo, e mantenere lo spirito che ci contraddistingue nel suonare, in linea con la nostra tradizione. Al di là di questo, siamo contenti di poter assecondare le innovazioni tecnologiche per poter avvicinare le persone alla musica, che sia in una sala da concerto o sui media. Essere all’avanguardia è sempre stata una linea guida, fin dai tempi di Herbert von Karajan». A proposito di connettere le persone alla musica, il vostro concerto è parte di Musica per le Scuole, dedicata agli studenti delle superiori, e di Che musica, ragazzi!, il ciclo di incontri per gli alunni di elementari e medie. Come coinvolgereste i ragazzi per portarli ad amare la musica classica? «Sicuramente dobbiamo trovare il modo giusto per arrivare a bambini e ragazzi. Come Scharoun Ensemble abbiamo già maturato una lunga esperienza con il nostro programma educativo qui a Berlino, quindi di solito elaboriamo un programma adeguato

a loro. Non penso sia necessaria una strategia particolare, bisogna solo trovare il modo di risvegliare il loro interesse: la musica di per sé è abbastanza forte da colpire i giovani. Certo, dobbiamo trovare l’approccio giusto, con esempi pratici, ma senza esagerare: il pericolo è di mettere troppa carne al fuoco e così “sovrastimolare” i ragazzi». Parlando del programma: avete inserito un brano di Henze, con cui avete avuto la possibilità di collaborare. «Hans Werner Henze è stato uno dei compositori più importanti nella vita del nostro ensemble. Abbiamo cominciato presto a suonare i suoi lavori e abbiamo avuto la fortuna di stringere amicizia con lui. Nella nostra storia abbiamo suonato centinaia di brani contemporanei, prime assolute, dediche… ma la cosa più interessante è poter affrontare i brani con la collaborazione del loro stesso autore. Nel caso di Henze è stato così, era lui a contattare i dedicatari della sua musica. In particolare, le Quattro Fantasie sono tratte dal suo più celebre lavoro strumentale, la Kammermusik, composta da ben tredici movimenti. Si può dire che sia il nostro cavallo di battaglia: lo suoniamo da 35 anni, perché è sempre una sfida, una musica molto complessa, ed è uno dei nostri brani preferiti del Novecento. Suoneremo anche in anteprima italiana un brano di Schumann ripreso da Brahms in una trascrizione di Glanert, compositore berlinese, a noi dedicata. In chiusura suoneremo un grande “classico” come il Settimino di Beethoven». Conoscete l’Italia? «Amiamo l’Italia, ha un pubblico stupendo e siamo quindi sinceramente felici di poter venire a Bologna, una delle città più belle e con la qualità di vita migliore di tutta Italia. Negli ultimi dieci anni siamo stati solo a Roma, per la nostra residenza artistica all’American Academy. Ma al di là di questo non abbiamo mai suonato in Italia, così siamo emozionati di poterlo fare. È il clou della nostra stagione!». (a cura di Camilla Marchioni)


Foto Marie Staggat

Lunedì 11 febbraio 2019

LO SPECCHIO

dell’anima

La pianista italiana, protagonista di una carriera internazionale in continua ascesa, propone un programma di grande respiro, dagli Studi di Chopin alle pagine più oniriche di Ravel e Stravinskij

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di Mariateresa Storino

nterrogato sulla fonte di ispirazione di Miroirs, Maurice Ravel affermò di essere stato suggestionato dalle parole che Bruto rivolge a Cassio nel primo atto del Giulio Cesare di Shakespeare: «L’occhio non vede se stesso, se non di riflesso, attraverso altri oggetti». La citazione da Shakespeare è uno dei tanti riferimenti extramusicali che costellano i cinque brani di Miroirs: i titoli, le dediche e il suono creano attorno alla raccolta un gioco di riflessi che evoca memorie del passato, suggella il legame con il presente, lascia intuire gli sviluppi futuri. Ravel è reduce dal successo di Jeux d’eau, un clamore che tuttavia cela un pericolo: essere considerato

BEATRICE RANA

Nata nel 1993, Beatrice Rana si impone nel panorama internazionale sin dal 2011, con la vittoria del Primo Premio e dei Premi speciali della giuria al Concorso internazionale di Montreal, cui si aggiungono nel 2013 la Medaglia d’Argento e il Premio del Pubblico al Concorso internazionale “Van Cliburn”. La stagione 2018/19 la vede debuttare al fianco di prestigiose compagini quali la Royal Concertgebouw Orchestra, la Sinfonica di Melbourne, la Philadelphia Orchestra e la Filarmonica di Liverpool. Sono previsti inoltre recital alla Victoria Hall di Ginevra, al Prinzregenten Theater di Monaco, alla Queen Elizabeth Hall di Londra ed alla Carnegie Hall di New York.

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un epigono di Debussy. Eppure, il compositore non teme questo confronto, anzi sembra favorirlo o comunque invocarlo, a supporto di un linguaggio armonico in evoluzione che, se ancorato ad appigli esterni alla musica, potrebbe essere accettato più agevolmente. Nell’abbozzo della sua autobiografia Ravel è cristallino su questo punto: «Miroirs è una raccolta di pezzi per pianoforte che segna un cambiamento considerevole nella mia evoluzione armonica, al punto da disorientare perfino i musicisti più avvezzi al mio stile». Alla prima esecuzione di Ricardo Viñes per la Société Nationale de Musique (6 gennaio 1906), il critico Michael D. Calvocoressi rintraccia in Miroirs analogie con la forma dello studio, del poema sinfonico, dello scherzo. Accanto a questi accostamenti formali, Calvocoressi rileva la profondità del sentimento e la ricchezza emotiva che individualizzano ciascun brano: dal volo notturno delle falene in Noctuelles all’intimità de Les oiseaux tristes; dalla liricità di Une barque sur l’océan all’umorismo di Alborada del gracioso; e infine La vallée des cloches che suggella l’insieme con il riverberarsi del suono in lontananza. Elemento costante è la natura, ma non in termini descrittivi (come i titoli potrebbero lasciare intendere), bensì quale specchio dell’anima. Unica presenza umana è la figura del gracioso, personaggio grottesco della commedia spagnola. E spagnolo è il brano dall’inizio alla fine, una Spagna, più che vissuta, evocata dalle origini basche della madre, dai ricordi di un’infanzia trascorsa sui Pirenei, terra di confine tra


LUNEDÌ 11 FEBBRAIO 2019 AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30

BEATRICE RANA

pianoforte

Fryderyk Chopin Dodici Studi op. 25 Maurice Ravel Miroirs Igor Stravinskij L’oiseau de feu (trascrizione per pianoforte di Guido Agosti)

due culture. Ma è una Spagna che passa anche attraverso la storia della musica, con figurazioni arpeggiate a mo’ di chitarra sull’esempio di Domenico Scarlatti, con una sezione centrale in stile di recitativo, quasi il gracioso cantasse la sua serenata. Non è l’unico brano della raccolta a “citare” il passato: Une barque sur l’océan è la trasposizione dei suoi Jeux d’eau che a loro volta sono memori di Les jeux d’eau à la Villa d’Este di Franz Liszt. Anche Les oiseaux tristes, che Ravel descrive come «uccelli perduti nel torpore di una foresta molto scura nelle ore più calde dell’estate», provengono da quella foresta piena di simboli del Pelléas et Melisande di Debussy, dalle oscure foreste wagneriane. È un’arte onirica quella di Ravel, che inganna l’ascoltatore con la razionalità della forma. Ed è un incantesimo, al suono di una dolce berceuse, che l’uccello di fuoco opera per liberare il principe Ivan e le tredici principesse dal mostro Katschej nel balletto L’oiseau de feu di Igor Stravinskij. Del successo decretato alla prima a Parigi il 25 giugno 1910, con l’interpretazione dei Ballets russes di Djagilev, Stravinskij conservò un ricordo memorabile, sia perché rappresentò il primo incontro del compositore con il pubblico francese, sia perché in quell’occasione gli si presentò sul palco Debussy con parole di elogio. Stravinskij, come di consueto, aveva approntato una riduzione per pianoforte della partitura ad uso delle prove dei ballerini; nel 1911, dal balletto trasse una suite orchestrale, e a seguire ulteriori reinvenzioni. Nel 1928 Guido Agosti, allievo di Ferruccio Busoni, trascrive tre movimenti del balletto e li dedica al suo maestro. Agosti sceglie i momenti salienti della trama – Danse infernale, Berceuse, Finale – che, pur prescindendo da riferimenti specifici alla fiaba, mantengono nella specificità della scrittura musicale la simbolica lotta tra il bene e il male. Nel martellante incedere ritmico con sferzate di volatine all’acuto della Danse infernale riecheggia il

mondo ultraterreno sonorizzato da Berlioz e da Liszt; al clima onirico della Berceuse, dalla tessitura esile e con trilli – ancora una volta di ascendenza romantica –, segue un Finale breve, trionfalistico, con accordi densi della sonorità della “Grande Porta di Kiev” da Quadri di un’esposizione di Musorgskij. L’arte della trascrizione funziona come Miroirs di Ravel, come l’occhio dell’uomo di cui Bruto parla e Cassio fa eco: «E poiché tu sai di non poterti vedere bene se non per riflesso, io, il tuo specchio, rivelerò con discrezione a te stesso quello che di te stesso tu ancora non conosci». Come uno sguardo prismatico agiscono anche i 12 Studi op. 25 di Chopin (1837), raccolta chiave nello sviluppo del linguaggio pianistico. La parola Studio nelle mani dei Romantici travalica l’accezione generica: la difficoltà tecnica è solo un escamotage per celare il mondo poetico del compositore. L’idea base di ciascuno studio è una figurazione musicale centrata Lo sapevate che su un tecnicismo (arpeggi, ottave, Beatrice Rana ha iniziato terze, seste, ecc.); nello spazio di a suonare il pianoforte un numero a volte esiguo di battute, Chopin trasfigura la diffia due anni, dilettandosi coltà tecnica in sostanza musicale. insieme al papà pianista Come in Miroirs e in L’oiseau de con le colonne sonore feu, anche negli Studi op. 25 ridei cartoni Disney verberano passato e presente: il Clavicembalo ben temperato di Bach, il virtuosismo di Paganini e di Liszt. Non sorprende dunque la dedica di questi Studi alla contessa Marie d’Agoult, compagna di Liszt negli anni Trenta, quasi a compimento dell’omaggio che Chopin aveva già tributato a Liszt con i 12 Studi op. 10.

DA ASCOLTARE

Giovane pianista in carriera, Beatrice Rana non ha ancora al suo attivo l’ampia discografia di chi alle spalle ha ormai molti anni di attività. Le sue pubblicazioni sono però davvero notevoli. La Warner Classics nel 2015 dà alle stampe un’importante registrazione, che la vede impegnata assieme all’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, sul podio Sir Antonio Pappano, in due tra le più brillanti pagine del repertorio pianistico: il Primo di Čajkovskij e il Secondo di Prokof’ev. Bach gioca poi un ruolo fondamentale per la pianista. Non stupisce, quindi, che nel 2017 abbia inciso le Variazioni Goldberg (Baroque), da sempre banco di prova per tutti i grandi virtuosi. Recente il suo ritorno al fianco di Sir Pappano per Bernstein: se ne parla nella rubrica Da ascoltare di questo numero.

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Dirigere se stessi > Intervista > Beatrice Rana Profondamente ancorata alla sua terra d’origine, Beatrice Rana è ormai una stella alla conquista dei palcoscenici di tutto il mondo. Qui ci racconta le emozioni e la passione che alimentano la sua attività concertistica, nonché il programma visionario che porterà a Musica Insieme. La sua carriera la porta a suonare veramente in tutto il mondo. Ci sono dei posti che le sono rimasti nel cuore? «Ogni posto è legato a un’esperienza personale, quindi direi che sono i pubblici a fare la differenza. Molto importante per me è sicuramente Montreal, in Canada, dove ho vinto il mio primo concorso internazionale e dove ho ancora degli amici stretti. Anche Buenos Aires mi è rimasta nel cuore: il concerto al Teatro Colón con l’Orchestra di Santa Cecilia è stata una delle esperienze più belle della mia vita, il teatro è uno dei più affascinanti che abbia mai visto e il pubblico è calorosissimo. Poi sicuramente suonare in Italia è sempre speciale, significa tornare a casa e ritrovare il pubblico degli inizi. Una grande emozione». Nonostante la giovane età, è già direttrice di un Festival, il Classiche Forme. Cosa le porta questa esperienza? «La creazione di Classiche Forme è stata un’avventura diversa dal solito, mi vede in una veste che non è la solita di pianista concertista, che significa molto spesso solismo. È nata da vari desideri. Il primo era prendere il meglio di quello che intercetto nella mia vita professionale e portarlo nella mia terra natale, il Salento, alla quale sono legata moltissimo e che ha un enorme potenziale, non sempre sfruttato al meglio. Cerco quindi di cogliere l’occasione per fare più musica da camera, che è un aspetto altrettanto importante e meraviglioso di fare musica, e di farlo con giovani come me, che ammiro e con i quali ho un rapporto di amicizia». Ci parlerebbe del programma che eseguirà a Bologna e di come l’ha ‘compilato’? «Credo sia un bell’esempio di repertorio pianistico romantico. La prima parte è dedicata agli Studi dell’op. 25 di Chopin, un’opera che ho sempre amato e che rispecchia la vena visionaria di questo compositore. C’è la grande personalità chopiniana, però con certe allucinazioni che aveva a causa della sua sofferenza fisica, motivo per cui 50

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andò a Maiorca, dove parte di questi studi videro la luce. Quindi da una parte il lato oscuro di Chopin, dall’altra invece la storia d’amore con George Sand, con la quale visse giorni indimenticabili. Sono anche una testimonianza della nostalgia che aveva per Varsavia. Anche se i titoli poi assegnati agli Studi non sono stati scritti da lui, sono un chiaro omaggio alla Polonia, trasmettono la voglia di ritornarci, ma anche la critica al decadimento del paese in quel periodo storico. Nella seconda parte c’è un programma più orchestrale, con Stravinskij trascritto per il pianoforte, o anche Miroirs, che è stato sì pensato per il pianoforte, ma di cui due brani sono stati poi orchestrati. Essendo Ravel uno degli orchestratori più riconosciuti e autorevoli di sempre, qualunque sua pagina risente di una grande ispirazione orchestrale. Miroirs è uno dei suoi primi pezzi per pianoforte, quindi la raffinatezza di scrittura che Ravel raggiungerà più tardi è solamente agli inizi. Ci sono anche alcune ingenuità di scrittura, ma allo stesso tempo c’è una generosità di idee, di narrazione e di descrizione veramente ineguagliabile». Nel programma c’è appunto una trascrizione de L’oiseau de feu di Stravinskij. A suo parere, che cosa perde e soprattutto che cosa guadagna L’oiseau in questa trascrizione? «È sempre una sfida cercare di suonare al pianoforte brani originariamente pensati per orchestra. La sfida è quella di riprodurre con uno strumento solo la varietà e anche la massa sonora di un’orchestra. È particolarmente interessante, da un lato perché il pianoforte è uno strumento dalle potenzialità timbriche eccelse, dall’altro perché siamo noi i direttori di noi stessi. Certe idee irrealizzabili con un’orchestra per ragioni pratiche, di insieme, nel caso della trascrizione pianistica diventano possibili perché è tutto nelle mani di una sola persona. Nel caso de L’oiseau de feu la fortuna di questa trascrizione è che è stata fatta da Agosti, un grande pianista».



Lunedì 25 febbraio 2019

I PROTAGONISTI

Foto Igor Studio

Il violoncellista Pablo Ferrández è universalmente apprezzato da pubblico e critica per l’intensità emotiva e l’autorevole personalità. Protagonista di una brillante carriera, collabora con le principali compagini, tra cui Orchestra del Teatro Mariinskij, Wiener Symphoniker, Filarmonica di San Pietroburgo e Kremerata Baltica. Appare inoltre regolarmente al fianco di artisti e direttori come Mehta, Gergiev, Temirkanov, Fischer, Schiff, Storgårds e Kremer. Denis Kozhukhin, vincitore del Primo Premio al Concorso “Reine Elisabeth” di Bruxelles, si è affermato come uno dei migliori pianisti della sua generazione. Le scorse stagioni lo hanno visto collaborare con orchestre quali Filarmonica Ceca, Royal Concertgebouw Orchestra, Chicago Symphony, Philharmonia Orchestra, Mahler Chamber Orchestra.

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IL COMPOSITORE

e l’interprete

Due straordinari debutti nel cartellone di Musica Insieme: Ferrández e Kozhukhin raccolgono il testimone dei grandi virtuosi del passato di Valentina De Ieso

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on di rado accade che un compositore modelli la sua opera sull’interprete che ne sarà il primo esecutore e dedicatario. Così, Sergej Prokof’ev, che non aveva prestato una particolare attenzione al violoncello, nel 1949 si accinse alla stesura di una sonata per questo strumento proprio grazie alla frequentazione con un giovane che ne sarebbe diventato il più celebre virtuoso di tutto il Novecento: Mstislav Rostropovič. Così egli raccontò il primo incontro con il compositore: «Ero così innamorato della musica di Prokof’ev che non sognavo altro che conoscerlo. Al conservatorio ci fu un grande concerto a cui egli partecipò. Alcuni dei miei professori mi presentarono come uno studente di grande talento. Prokof’ev mi diede la mano, ma quando si voltò si era già dimenticato di me». Anni dopo Rostropovič ne suonò il Concerto per violoncello e orchestra e il compositore andò nel camerino per complimentarsi. Il quell’occasione gli espresse anche le proprie perplessità sulla propria opera e gli chiese di aiutarlo nella revisione. «Rimasi stordito», disse in seguito di quella proposta. Qualche mese più tardi, dopo aver sentito l’esecuzione di Rostropovič della Sonata di Mjaskovskij, Prokof’ev gli disse che voleva scrivergliene una anche lui. Così nacque la Sonata in do maggiore op. 119. Non fu che l’inizio di una stretta collaborazione e di una commovente amicizia che accompagnò gli ultimi, difficilissimi anni di vita del compositore. Travolto nel 1948 dalle accuse di deviazioni formalistiche da parte del Compagno Ždanov, Prokof’ev fu costretto a limitare le sue sperimentazioni, per tornare verso un linguaggio più immediato e conforme ai dettami del partito. L’Opera 119 rientra dunque in questa fase di “autocensura” e, eseguita proprio da Rostropovič e Richter, fu in patria un travolgente successo. All’estero, invece, fu tacciata di essere retrograda, troppo lirica e classica. Non mancano però, a ben vedere, le contaminazioni stilistiche proprie di Prokof’ev, che riaffiorano là dove il pianoforte sfrutta le sue timbriche percussive e il

violoncello pizzica, singhiozza e sospira, tra marce, ricordi infantili e temi popolari. Le dure critiche di Ždanov avevano colpito anni prima anche Dmitrij Šostakovič. Anzi, esse furono proprio uno dei primi provvedimenti adottati dopo la sua nomina a responsabile della Lega dei compositori. Una Lady Macbeth nel distretto di Mcensk era stata la scintilla che aveva causato l’apparizione dell’articolo “Caos invece di musica” sulla Pravda, dove il compositore era accusato Lo sapevate che del «distacco dal popolo al servizio di una élite di esteti». La per combattere l’ansia stagione delle purghe era al suo da palcoscenico, Pablo apice e il compositore dovette Ferrández immagina che adattarsi a scrivere musica meno avversa al regime. La Sonata op. tutte le persone presenti 40 fa parte di quel gruppo. Quel siano suoi amici e, prima linguaggio che esplorava le terre di esibirsi, le accoglie con di confine vicine all’atonalità fu il suo disarmante sorriso sostituito da uno più immediato

LUNEDÌ 25 FEBBRAIO 2019 AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30

PABLO FERRÁNDEZ DENIS KOZHUKHIN

violoncello pianoforte

Sergej Prokof’ev Sonata in do maggiore op. 119 Sergej Rachmaninov Sonata in sol minore op. 19 Edvard Grieg Pezzi lirici per pianoforte (selezione) Dmitrij Šostakovič Sonata in re minore op. 40

CHE MUSICA, RAGAZZI! – II edizione Il 25 febbraio alle ore 10.30 gli Artisti incontreranno all’Auditorium Manzoni gli alunni delle scuole primarie e medie. Per informazioni rivolgersi a Musica Insieme

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Foto Marco Borggreve

Lunedì 25 febbraio 2019

DA ASCOLTARE

Artista di grande talento e di fresca carriera, Pablo Ferrández vanta già registrazioni salutate dalla critica e dal pubblico con molto favore. Il violoncellista spagnolo ha al suo attivo due cd. Il primo lo vede impegnato assieme all’Orchestra Filarmonica di Stoccarda, sul podio Radoslaw Szulc, in due classici del repertorio violoncellistico: il Concerto di Schumann e quello di Dvořák. L’editore è la Onyx Classics, l’anno il 2014. Nel medesimo anno la Profil - Edition Günter Hänssler dà alle stampe Focus Cello, un album nel quale Pablo Ferrández divide la scena con altri tre giovani talenti del violoncello, affidandosi all’esperto Heinrich Schiff ed alla Kremerata Baltica per interpretare una serie di pagine firmate Rossini, Respighi, Menotti ed anche una di Roberto Molinelli.

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e adatto alla comprensione del pubblico, ma non per questo privo di ardui virtuosismi: uno dei primi passi del compositore verso un orizzonte più sicuro, in cui la rielaborazione delle strutture classiche costituì un percorso d’indagine più cauto, ma non per questo meno ricco d’inventiva. È infatti questo il periodo in cui nascono alcune delle sue opere da camera più riuscite. Quasi che rivolgersi a questo repertorio più intimo servisse ad accusare il colpo e assorbirlo in attesa di comprendere come muoversi nell’ambito sinfonico. La prima esecuzione ebbe in effetti notevole successo e il primo interprete, insieme all’autore, fu Viktor Kubatskij, il primo violoncello del Teatro Bol’šoj di Mosca. Anche Sergej Rachmaninov aveva scelto un grande e celebrato virtuoso per la prima della sua Sonata per violoncello e pianoforte op. 19: Anatolij Andreevič Brandukov. All’epoca, però, anche Rachmaninov era essenzialmente noto come interprete, mentre difficilmente riusciva a farsi conoscere come compositore. La deludente ricezione della sua seconda Sinfonia lo aveva gettato nello sconforto, e fu solo grazie all’intervento del suo terapeuta che egli si scosse dal suo stato depressivo e ritornò a comporre con più fiducia nelle proprie potenzialità. Fu in questo momento di ritrovata ispirazione che scrisse l’Opera 19. Il pianoforte non è mai un comprimario: d’altro canto è il grande virtuoso del pianoforte che compone anche la sua parte e non può certo renderla di secondo piano. Raffinata e sognante, la voce dello strumento ad arco sembra quasi umana, in un perfetto equilibrio con quella del pianoforte, ora energica, ora languida. Il dialogo si fa stridente, poi torna l’armonia, una consonanza perfetta dove le due parti si uniscono, si separano, si rincorrono come un’eco lontana. La scrittura cambia notevolmente quando invece il compositore scrive per se stesso: un esempio ne sono i Pezzi lirici di Edvard Grieg, 66 composizioni pianistiche raccolte in dieci volumi, composte e pubblicate tra il 1867 e il 1901. Testimonianze preziose della sua sapienza tecnica e compositiva, i Pezzi lirici sono una sorta di commento pianistico della vita di Grieg, un diario che ha accompagnato tutta la sua esistenza. Modellati sulla propria esigenza interpretativa, essi sono perfette miniature che illuminano il talento virtuosistico dell’autore. Eppure la melodia non ne resta mai sacrificata: la musica è elegiaca e rarefatta, nordica quanto basta per suggerire il folklore locale senza diventare in alcun modo etnica, ma romantica nella sua più pura essenza. Danza norvegese, Canto degli elfi, Primavera, Farfalla, Marcia dei troll, Silfide: il richiamo alle leggende nordiche è evidente già nei titoli, così come quello alla natura e alla sua pace, che Grieg ricercò soprattutto negli ultimi anni della sua vita ritirata tra i fiordi nel suo eremo di Troldhaugen.


Qualcosa di travolgente > Intervista > Pablo Ferrández

«Credo che anche Instagram possa essere un grande strumento di ispirazione per gli studenti di musica come per gli appassionati» gnamento per bambini “Il mago Diapason” n.d.r.]. Mi hanno messo in mano un violoncello quando avevo solo tre anni, e da allora non ho mai smesso di suonare!». Può elencare tre tratti della sua personalità? «Mi sento un po’a disagio a parlare di me stesso, preferirei parlare di altri interpreti!». Bene, allora ci racconti quali sono i suoi interpreti di riferimento. «Citerò tre musiciste straordinarie, nessuna delle quali peraltro suona il mio strumento: Martha Argerich, Anne-Sophie Mutter e Janine Jansen». Come si è formato il duo con Denis Kozhukhin? Come definirebbe il suo partner al pianoforte? «Con Denis ci siamo incontrati diversi anni fa, mentre studiavamo entrambi a Madrid, la mia città: frequentavamo la Scuola di musica “Reina Sofia”. Lo ammiro moltissimo, è un interprete molto creativo e sensibile, oltre ad essere un pianista solido come una roccia. Penso che insieme siamo decisamente un bel duo!». Il vostro programma è composto da brani di

compositori russi, con l’unica eccezione di Grieg. Ha una particolare predilezione per la musica della scuola russa? «Ho studiato per sette anni con una delle migliori insegnanti di violoncello di tutti i tempi, Natalia Shakhovskaya, una musicista russa che mi ha portato a comprendere e amare davvero la musica della sua cultura; una cultura che ora è divenuta a tutti gli effetti una parte di me». Adoriamo il suo canale YouTube, in particolar modo i tutorial sulla tecnica. Quanto è coinvolto nella gestione dei suoi account social? È un “peso” da sopportare per promuovere la sua carriera o è qualcosa che le piace fare? «Grazie mille per i complimenti! In verità devo ammettere che mi diverto tantissimo a gestire i miei account social. Specialmente Instagram, che probabilmente è il canale su cui sono più attivo. Penso che sia un modo fantastico per raggiungere un pubblico quanto più vasto possibile; sicuramente mi aiuta a promuovere i concerti nel corso della stagione, ma allo stesso tempo credo che possa essere fonte di aiuto o di ispirazione per le persone che mi seguono, per gli studenti di musica di tutto il mondo come per gli appassionati. Credo davvero che sia un grande strumento». È mai stato in Italia prima? E se sì, cosa l’ha colpita di più del nostro paese? «Sì, sono già stato in Italia! E non posso resisterle, la adoro. Dev’essere per il calore della gente e per il gusto unico che avete per il cibo. Sicuramente uno dei posti in cui preferisco suonare in assoluto». (a cura di Mariano Vella)

Foto Igor Studio

El País ha scritto di lui: «Pablo Ferrández ha tutto quello che serve a un solista, e anche di più: tecnica, coraggio, spirito e autorevolezza, ma anche espressività e fascino». In vista del concerto che segnerà il suo debutto nella nostra Stagione e nella nostra città, il carismatico violoncellista spagnolo classe 1991 racconta a Musica Insieme la sua storia e le sue fonti d’ispirazione: dall’amore per la scuola russa all’uso disinvolto e originale dei social media per comunicare con i fans. Com’è nato il suo amore per la musica e perché ha scelto il violoncello? «Sono nato in una famiglia musicale, anche mio padre è violoncellista, mentre mia madre è un’insegnante di musica [ideatrice del metodo di inse-




Per leggere / di Chiara Sirk

Luigi Ferrari Triade minore

(Ponte alle Grazie, 2018)

Sapevamo delle due anime di Luigi Ferrari. Tra la vocazione per l’architettura, in cui si laurea al Politecnico di Milano, e l’amore per la musica (consegue il diploma in Composizione al Conservatorio di Milano), prevale decisamente il secondo. Dagli anni Ottanta è un protagonista della vita musicale nelle istituzioni più importanti. Ultima, ma solo in ordine di tempo, arriva la passione per la scrittura che non è un cambio di passo radicale, ma la naturale prosecuzione del suo impegno nella musica. Così sembra leggendo Triade minore, il suo primo romanzo, un noir. L’autore ha il dono di una scrittura felice, mai banale, mai ridondante. Pagina dopo pagina la vicenda di un triangolo amoroso, un’eredità inaspettata, una valigia ritrovata e il ritorno di spartiti caduti nell’oblio catturano il lettore. La vicenda è ambientata in Inghilterra, c’è la BBC, la polizia, un incidente misterioso. Tutto ruota intorno alla musica, ma in un modo così naturale e avvincente che non ci si accorge, se non alla fine, di aver conosciuto veri protagonisti di una stagione un po’ dimenticata, ma tutta da riscoprire. Non vi diremo di chi si tratta, come non sveleremo il colpevole. In un thriller non si fa mai. Robert Schumann, Steven Isserlis Consigli ai giovani musicisti o Regole di vita musicale

(Edizioni Curci, 2018)

Avevamo già segnalato in passato i volumi di Steven Isserlis, musicista inglese che coniuga brillantemente la sua attività di violoncellista di fama internazionale con quella di scrittore e divulgatore. Ora l’autore firma un nuovo volume e questa volta il titolo è più serio. Ovviamente perché non è di Isserlis, ma di Robert Schumann, il suo compositore preferito. Si tratta dei Consigli ai giovani musicisti o Regole di vita musicale, edito da Curci. Scritti nel 1848 per accompagnare il celebre Album per la gioventù, i Consigli sono un compendio di aforismi e insegnamenti indirizzati ai giovani che intraprendono lo studio musicale. 128 pagine di “consigli” potrebbero risultare un po’ “pesanti”, ma certamente non in questa edizione. Isserlis, infatti, non si è limitato a selezionare e a riordinare i pensieri di Schumann, ma ha anche aggiunto le sue argute riflessioni, frutto della sua lunga esperienza di artista, protagonista delle principali stagioni concertistiche in tutto mondo. In un rimando tra musicisti separati da “appena” un paio di secoli, il risultato è una lettura avvincente da consumare tutta d’un fiato, oppure da distillare a piccole dosi.

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RITRATTI in Un catalogo che raccoglie la celebre quadreria di padre Martini, le regole di vita musicale di Schumann e un esordio noir per risvegliare la curiosità dei nostri attenti lettori Chi, tanti anni fa, ha avuto l’opportunità di frequentare i concerti ospitati nella Sala Bossi del Conservatorio di Bologna, ben ricorda i quadri che ne ornavano le pareti. Raffiguravano uomini compunti, musicisti, probabilmente. Si sapeva che era una parte della quadreria di padre Martini, ma, tranne alcune famose eccezioni (il magnifico Farinelli, di Corrado Giaquinto, e il celebre ritratto di Johann Christian Bach di Thomas Gainsborough), chi fosse raffigurato in quelle tele e cosa avesse spinto padre Martini a chiederle in dono era ignoto ai più. Come, del resto, ignoti erano anche gli autori. La raccolta, ricca e di grande valore documentale, rimaneva lì, ad ornare le pareti. Del resto, proprio questo tipo di “memorie” suscitano una sorta d’imbarazzo negli studiosi. Chi dovrebbe occuparsene? Lo storico dell’arte, che comunque, per lo più non trova dipinti di grande valore, o il musicologo, per il quale di solito la raffigurazione del musicista è irrilevante ai fini delle sue ricerche? Nell’incertezza, e facendo oltretutto parte di un’istituzione bibliotecaria, anch’essa non preposta normalmente alle “quadrerie”, non se n’è occupato nessuno. Eppure si tratta di circa 300 ritratti, e, per alcuni compositori o musicisti del passato, quello presente a Bologna è l’unico loro ritratto esistente. I nomi delle carte degli archivi, nomi anche minori, ormai caduti nel-

musica

l’oblio, finalmente avevano un volto! Eppure nessuno se ne interessava. L’occasione per avviare finalmente uno studio approfondito è venuta dalla ricorrenza del secondo centenario della morte del frate minorita bolognese, celebrata nel 1984. Grazie all’intreccio di differenti orientamenti disciplinari, cui hanno concorso Lorenzo Bianconi, Maria Cristina Casali Pedrielli, Giovanna Degli Esposti, Angelo Mazza, Nicola Usula e Alfredo Vitolo, si è arrivati a pubblicare il volume I ritratti del Museo della musica di Bologna da padre Martini al Liceo musicale, il primo catalogo generale della celebre collezione. Il prestigioso traguardo è stato presentato il 25 ottobre al Museo della musica in una giornata di studi su “La ritrattistica musicale”. Si tratta di un volume importante, rilegato, con una ricchissima documentazione fotografica a colori. Il catalogo descrive analiticamente storia e contenuto della collezione avviata intorno al 1770 dal musicografo francescano Giovan Battista Martini e proseguita poi nell’Otto e nel Novecento. Si tratta di un’opera fondamentale, che rende pienamente accessibile un importantissimo patrimonio museale a tutti i cittadini, gli studiosi e gli appassionati di pittura e di musica. I ritratti del Museo della musica di Bologna. Da padre Martini al Liceo musicale (Leo S. Olschki Editore, 2018)



Da ascoltare / di Piero Mioli

ET SURTOUT le

piano

Primeggiano i tasti bianchi e neri nelle antologie che vedono Andsnes cimentarsi con Chopin, i Barenboim coi Quartetti di Mozart e Pappano con le Sinfonie-concerto di Bernstein

Mozart

Daniel Barenboim, Michael Barenboim, Yulia Deyneka, Kian Soltani (Deutsche Grammophone, 2018 - 1 cd) Piano Quartets

Da due concerti tenuti alla Pierre Boulez Saal di Berlino nel maggio e nel marzo del 2017 (questo ordine di mesi è quello delle due parti del cd, che vuole ordinare i pezzi secondo il numero di catalogo) proviene un’ora abbondante di musica che, se da un lato affronta un settore del catalogo strumentale di Mozart fra i meno popolari (relativamente, s’intende), dall’altro lancia un giusto messaggio di efficienza e di equilibrio. Efficienza per via della misura, dell’affiatamento, dell’amalgama che presiede a un’esecuzione dove il pianista, gran concertatore, avrebbe tutte le ragioni per cercare di emergere; ed equilibrio perché i due quartetti con pianoforte di Amadé sono musiche particolarmente forti e complesse. Piuttosto che la drammaticità è il lirismo, infatti, a presiedere al discorso, dando all’Andante del Quartetto KV 478 e al Larghetto del Quartetto KV 493 un’espressione che non stacca troppo dall’empito, pur trattenuto, dell’Allegro moderato e dell’Allegretto, sciolti ma mai precipitosi. Bernstein

Antonio Pappano, Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Beatrice Rana, Alessandro Carbonare (Warner Classic, 2018 - 2 cd) The three Symphonies

Quest’autunno, la programmazione di S. Cecilia ricomincia con Bernstein e West Side Story: ricomincia, giusto, perché solo pochi mesi fa Bernstein lo comprendeva già, cadendo (il 25 agosto) il secolo dalla nascita del grande musicista ebreo-polacco-statunitense. Quelle sinfonie, eccole tutte assieme: mezzo mondo, vien da dire, vi si è dato appuntamento, da due voci femminili a una voce narrante come quella di Josephine Barstow (valente soprano ormai fuori carriera), dalla pianista Beatrice Rana al clarinettista Alessandro Carbonare. Entrambi impegnati, i due solisti, a suonare in maniera nient’affatto solistica, anzi a muoversi, correre, quasi sbrigarsi sotto il gesto simpatico ma anche imperioso di Pappano. Che difende Bernstein a spada tratta: troppo romantico, l’artista nato qualche anno prima di Maderna, Nono e Berio? Sì, risponde, se è romantica una vena così espressiva, teatrale e, come dire? cumulativa, capace di cantare una melodia alla Mahler e piangere l’assassinio di Kennedy.

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Una strana antologia, quella che Andsnes ha fatto del catalogo di Chopin; e un bell’incastro ne ha fatto, quasi a comporre, meglio a com-porre (cioè mettere assieme) un nuovo e organicissimo programma di concerto: come un puzzle, un grappolo di forme e sensi tanto preciso quanto intelligente e in fondo divertente. Sono quattro le ballate, sono venti e uno i notturni: la musica grandiosa, narrativa, talora rutilante e lunghetta delle prime andava spezzata con acume (anche perché nata diversa di volta in volta, senza continuità alcuna), e per spezzarla Andsnes sceglie la musica umile, lirica, sommessa e breve dei secondi. Le quattro ballate, insomma, Andsnes le ha separate con tre notturni, per un totale di sette brani. Volendo, poteva aggiungere due notturni in capo e in coda, ma forse avrebbe compromesso la centralità delle dilette ballate. Non basta: i numeri d’opus sono in chiara crescita sia nell’uno che nell’altro settore di catalogo, e tutto sommato crescono anche nell’assieme, senza quei salti esagerati che si leggono spesso nei recital concertistici o discografici. Nel retro della copertina l’artista scrive che all’origine della popolarità di Chopin sta senza dubbio la “pura emozione” della sua musica e la diversità dell’emozione stessa: le ballate in un modo epico e i notturni, lascia intendere, in un modo intimistico, gentile, comunque contrastante. Da buon norvegese, Andsnes (nato il 1° settembre del 1970) ha in repertorio il connazionale Grieg, il danese Nielsen, il finlandese Sibelius, ma anche Beethoven, Debussy, Prokof’ev. E stavolta Chopin, con i modi di affinità e contrasto di cui sopra. Nell’esecuzione della Ballata n. 1 non manca di momenti ben sonori, ma tutto sommato tende a confermare un attacco che è lento, sommesso, quasi recitativo e rapsodico. E il Notturno n. 4? Idem, reso mobile e sfumato da una concezione quanto mai romantica della musica di Chopin che nel Notturno n. 13 tocca un ulteriore vertice di alta poesia. Chopin

Leif Ove Andsnes (Sony, 2018 - 1 cd)

Ballades & Nocturnes



Fondazione Musica Insieme Galleria Cavour, 2 – 40124 Bologna Tel. 051 271932 – Fax 051 279278

Editore

Fabrizio Festa

Direttore responsabile Bruno Borsari, Fulvia de Colle, Valentina De Ieso, Cristina Fossati, Camilla Marchioni, Riccardo Puglisi, Alessandra Scardovi

In redazione

Luca Baccolini, Francesco Corasaniti, Nicolò Corsini, Maria Pace Marzocchi, Maria Chiara Mazzi, Piero Mioli, Giordano Montecchi, Chiara Sirk, Mariateresa Storino, Mariano Vella

Hanno collaborato

Kore Edizioni - Bologna

Grafica e impaginazione

Grafiche Zanini - Anzola Emilia (Bologna)

Stampa

Registrazione al Tribunale di Bologna n° 6975 del 31-01-2000

Musica Insieme ringrazia: ALFASIGMA, ARETÈ & COCCHI TECHNOLOGY, BANCA DI BOLOGNA, BANCA MEDIOLANUM, BPER BANCA, CAMST, CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA, CENTRO AGRO-ALIMENTARE DI BOLOGNA, CONFCOMMERCIO ASCOM BOLOGNA, CONFINDUSTRIA EMILIA, COOP ALLEANZA 3.0, EMIL BANCA, FATRO, FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI RAVENNA, FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA, FONDAZIONE DEL MONTE DI BOLOGNA E RAVENNA, GALLERIA D’ARTE MAGGIORE G.A.M., GRAFICHE ZANINI, GRUPPO GRANAROLO, GRUPPO HERA, MAURIZIO GUERMANDI E ASSOCIATI, MAX INFORMATION, PALAZZO DI VARIGNANA, PELLICONI, PILOT, S.O.S. GRAPHICS, UNICREDIT SPA, UNIPOL BANCA, UNIPOL GRUPPO MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO, REGIONE EMILIA-ROMAGNA, COMUNE DI BOLOGNA

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