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8. Madonna col Bambino
from Niccolò di Segna e suo fratello Francesco: pittori nella Siena di Duccio, di Simone e dei Lorenzetti
8. Niccolò di Segna Madonna col Bambino
Fiesole, deposito della Curia Arcivescovile Fine del terzo decennio del XIV secolo
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Tempera e oro su tavola Cm 74 x 46 Provenienza: Figline e Incisa Valdarno, chiesa vecchia di San Bartolomeo a Scampata; Figline e Incisa Valdarno, chiesa nuova di San Bartolomeo a Scampata; Figline e Incisa Valdarno, monastero della Santa Croce.
La Vergine a mezzo busto tiene in braccio il Figlio, che, vestito di una tonacella azzurra con decori dorati a stella e di un drappo rosso, regge con la destra un lembo del manto blu della madre. La tavola centinata è priva di cornice e su entrambi i lati si trovano due fori, presumibilmente destinati ad accogliere dei cavicchi. Gli inventari delle visite pastorali della Diocesi di Fiesole menzionano quest’opera a partire dal 1679 nella chiesa vecchia di San Bartolomeo a Scampata a Figline Valdarno, presso l’altare della Madonna degli Angeli a destra del maggiore. Le fonti testimoniano la devozione per questa immagine, ricordandola coperta da una mantellina mossa da carrucole e funi e arricchita, almeno a partire dal 1728, di cinque ornamenti in stagno1. L’opera fu in seguito spostata nella vicina chiesa nuova di San Bartolomeo, dove Licia Bertani, a cui si deve la prima segnalazione nel 1979, la vide sul primo altare a destra2. Più recentemente la tavola è stata ricoverata nella clausura del monastero agostiniano femminile della Santa Croce a Figline, da dove è stata prelevata nel 2010 in occasione della mostra Arte a Figline3, a seguito della quale è conservata a Fiesole presso i Depositi della Curia Arcivescovile. Fino al restauro agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso la tavola aveva conservato alcuni degli ex voto in stagno – in particolare due corone – citati nella visita pastorale di inizio XVIII secolo, insieme a ornamenti di perle, come si vede dalla fotografia scattata prima dell’intervento4 (fig. 85). Nella stessa si notano sconnessioni delle tavole, vaste ridipinture (che non interessavano parti di carne) e rimaneggiamenti delle zone dorate. Bertani ipotizzava che questi ultimi interventi potessero risalire all’inizio del XIX secolo, quando, a partire dal 1816, fu attuato un restauro alla struttura della chiesa5. Il restauro guidato da Leonetto Tintori a cavallo degli anni Settanta e Ottanta ha permesso la rimozione delle superfetazioni applicate e dipinte e un consolidamento della struttura lignea, con la normalizzazione delle zone esterne della tavola già prive di cornice e in parte resecate6. Sulla tavola risultano inoltre integrate le parti in oro perdute. Bertani ha proposto per prima una generica assegnazione dell’opera a un pittore senese seguace di Duccio della prima metà del XIV secolo; in seguito si è orientata verso l’attribuzione a una fase precoce di Ugolino di Nerio, proponendo confronti con opere quali il polittico n. 39 della Pinacoteca Nazionale di Siena e quello ora a Brolio, proveniente da San Polo in Rosso, e una datazione verso il 13207. Così successivamente anche Guido Tigler8, mentre in precedenza Cristina De Benedictis, seguendo anche un’opinione espressa oralmente da Serena Padovani, aveva proposto un accostamento a Niccolò di Segna e, come già Bertani, la pertinenza ad un polittico, indicando in parti-
1 L. Bertani, in Capolavori 1985, p. 17; con riferimenti alle segnature degli inventari presso l’Archivio della Curia Vescovile di Fiesole a p. 19 note 1-2. 2 L. Bertani, in La Città 1982, p. 237. In questa sede la tavola è ancora citata nei primi anni Duemila: G. Tigler, in Firenze e provincia 2005, p. 665. 3 Cfr. F. Baldini, in Arte a Figline 2010, pp. 118-121, cat. 6. 4 Bertani, in Capolavori 1985, fig. p. 18. 5 Bertani, in Capolavori 1985, p. 16. Al 1795 risale un altro restauro, nel corso del quale furono rifatti i tre altari della chiesa e fu realizzata una tela con santa Brigida. 6 L. Tintori, Note di restauro, in Capolavori a Figline 1985, p. 20. Al restauro parteciparono Adele Lonero e Alfio Del Serra. 7 Bertani, in La Città 1982, ibidem; Bertani, in Capolavori 1985, pp. 17, 19. 8 Tigler 1990, p. 13. Idem, in Firenze e provincia 2005, ibidem, in cui amplia la proposta attributiva anche a Segna di Bonaventura.
colare il n. 38 della Pinacoteca senese9. Federica Baldini ritiene valide le proposte di De Benedictis e inoltre riporta le opinioni di Miklós Boskovits e Angelo Tartuferi in favore della paternità di Niccolò; la studiosa propone una datazione verso la metà del terzo decennio, in un momento in cui gli elementi ducceschi mediati da Ugolino di Nerio e Segna di Bonaventura sono ancora forti nella sua produzione10 . Sebbene Beatrice Franci non includa la tavola nel corpus di Niccolò di Segna11, l’attribuzione a questo pittore è da confermare sulla base di confronti stilistici con le sue opere più antiche e in rapporto con quelle del padre, oltre che con la produzione di Ugolino. La Madonna di Figline ricorda infatti alcune omologhe tarde di Segna, come quelle conservate nella basilica dei Servi, nel Museo Diocesano di Siena e presso il North Carolina Museum di Raleigh (ex Kress 1349; figg. 23-24), espressioni del tentativo di mediazione tra gli elementi della tradizione duccesca e le istanze stilistiche introdotte da Simone Martini messo in atto dal pittore più anziano nell’ultima fase della sua carriera12, in cui i soggetti sono caratterizzati da uno sviluppo verticale e da alcuni tentativi di variare le pose con scarti arditi. Nella tavola figlinese (ma anche in quella di Cortona, cat. 9) si nota la ricerca di un effetto di allungamento, che però si traduce in un certo appiattimento. La fisionomia stessa della Vergine, dal volto caratterizzato da una lunga canna nasale schiacciata e occhi dai contorni netti, richiama da vicino quelle di Segna, in particolare quelle già citate dei Servi e di Raleigh, ma anche la Madonna del gruppo di Santi n. 40 della Pinacoteca Nazionale senese. Rispetto alla Madonna dei Servi il Bambino di Figline assume una posa più tradizionale, che Niccolò trae comunque da Segna guardando al suo polittico conservato al Metropolitan Museum di New York (inv. 24.78). Gli sguardi fissi e un po’ assenti costituiscono una delle caratteristiche costanti della produzione di Niccolò e contribuiscono, insieme al trattamento meno strutturato dei panneggi, a differenziare le sue figure da quelle del padre. Da Ugolino di Nerio deriva l’addolcimento dei tratti, ottenuto anche attraverso un uso più modulato del chiaroscuro, e la lavorazione delle aureole a fasce concentriche di diversa decorazione, tipica della produzione matura del pittore più anziano. Nella Madonna di Figline Niccolò adotta uno schema poi ricorrente nella sua produzione (e già impiegato nei nimbi dei Dolenti della Croce di Bibbiena, cat. 7), con un’ampia fascia interna a girali ottenuti a risparmio sul fondo granito, all’esterno della quale si trova un giro di punzoni a losanga e uno estremo a cuspidi rovesciate13 . Sulla base di queste considerazioni è possibile ritenere, come Baldini, la tavola figlinese un’espressione della fase giovanile di Niccolò, quando è ancora vivo l’esempio del padre, attraverso le opere del quale poter sperimentare innovativi elementi martiniani; una fase in cui tuttavia Niccolò ha già sviluppato una propria cifra stilistica in rapporto alla frequentazione di Ugolino. Dunque sembra pertinente una datazione verso la fine del terzo decennio. La proposta di associare la Madonna di Figline ai laterali del polittico n. 38 della Pinacoteca Nazionale deve essere scartata perché la disposizione dei fori dei cavicchi di questo presunto centrale non coincide con quelli delle tavole laterali con San Michele Arcangelo e San Bartolomeo. Del resto in una precedente occasione è stato possibile proporre la pertinenza allo stesso polittico della Madonna col Bambino della Galleria di Palazzo Cini di Venezia e la provenienza del complesso dal monastero vallombrosano di San Michele in Poggio San Donato a Siena14 (cat. 11). Per la Madonna di Figline non si riescono dunque a indicare possibili laterali, né si può stabilire se la chiesa di San Bartolomeo, citata almeno nell’XI secolo15, costituisse il contesto originario del disperso polittico, o se la tavola vi sia approdata solo nel XVII secolo, come sembra suggerire la più antica collocazione nota presso un altare moderno. Bertani è incline a ritenere che l’opera possa provenire dalla vallombrosana Badia di Passignano16, alla quale la chiesa di Scampata apparteneva fin dal 1094, e mette il suo arrivo in relazione all’insediamento presso San Bartolomeo di un piccolo gruppo di monaci nel 1621 – quando la chiesa passò direttamente sotto l’Ordine Vallombrosano –, che vi restò solo fino al 165817. Tuttavia questa proposta non può contare su alcun riscontro e in ogni caso, seguendo l’ipo-
9 De Benedictis 1986, p. 337. La studiosa riporta l’errata denominazione della chiesa figlinese come San Bartolomeo a Cavriglia, già in Bertani, in Capolavori 1985, p. 19. 10 Baldini, in Arte a Figline 2010, pp. 120-121. 11 Cfr. Franci 2013. 12 Cfr. Cateni, in Duccio 2003, pp. 314-315. 13 Skaug 1994, I, nn. 48-49. Frinta 1998, pp. 77-78, nn. Ba8a, Ba8b. 14 Matteuzzi, in La Galleria 2016, pp. 43-47, cat. 4. Cfr. infra cat. 11. 15 Cfr. Raspini 1967. Bossini 1970, p. 184; questo autore cita un’iscrizione in pietra in cui si tramanda la notizia della riconsacrazione nel 1150. 16 Bertani, in Capolavori 1985, pp. 16-17. 17 Raspini 1967. Bossini 1970, ibidem. L’atto che sancì ufficialmente l’acquisto della chiesa da parte dei Vallombrosani di
tesi suggerita in questo volume che la Badia di Passignano avesse in effetti sul proprio altare maggiore un polittico ad opera di Luca di Tommè18, si dovrebbe pensare ad una collocazione su un altare laterale o in una sede diversa.
Bibliografia Bertani, in La Città 1982, p. 237, tav. XIX; Bertani, in Capolavori 1985, pp. 17-20; De Benedictis 1986, p. 337; Tigler 1990, p. 13; Tigler, in Firenze e provincia 2005, p. 665; Baldini, in Arte a Figline 2010, pp. 118-121.
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85. Cat. 8, ante restauro
Passignano risale solo al 1170. D’altra parte i documenti testimoniano la scarsa attenzione di Passignano per Scampata (cfr. Bertani, in Capolavori 1985, p. 16), spesso descritta in stato di abbandono; nel 1711 i Vallombrosani cedettero la chiesa in cambio dell’oratorio di Ponte Rosso (Raspini 1967). 18 Cfr. cat. 11.