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18. Croce
from Niccolò di Segna e suo fratello Francesco: pittori nella Siena di Duccio, di Simone e dei Lorenzetti
18. Niccolò di Segna (e bottega) Croce
Siena, Pinacoteca Nazionale (inv. 46) 1345
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Tempera e oro su tavola Cm 275 x 262 Provenienza: Siena, refettorio del convento dei Carmelitani Scalzi (già badia di San Michele in Poggio San Donato). Iscrizioni: “NICHOLAUS | SEGNE FECIT | HOC OPUS A.D. | MCCCXLV”, in basso.
La presenza della Croce prima del 1835 nel refettorio del convento dei Carmelitani Scalzi di Siena, che alla fine del XVI secolo erano subentrati ai Vallombrosani nelle strutture dell’antica badia di San Michele in Poggio San Donato1, è testimoniata da Ettore Romagnoli2. Non ci sono indizi per ipotizzare una diversa provenienza della Croce, che sarebbe dunque stata commissionata dai monaci di san Giovanni Gualberto al pari del polittico n. 38, sebbene in un momento successivo. Come il complesso d’altare, la Croce potrebbe essere stata rimossa dalla sua collocazione originaria – forse sul tramezzo della chiesa dedicata a San Michele Arcangelo3 – al momento del passaggio di proprietà, tenuto conto che i Carmelitani intrapresero quasi immediatamente lavori al vecchio monastero e alla chiesa stessa. L’opera ha la struttura tipica della produzione senese dell’epoca, con appendici di forma stellare4. Appare piuttosto ben conservata, sebbene mancante degli elementi apicali del cartiglio e della cimasa e probabilmente del golgota in basso. Federico Zeri aveva proposto, con generale consenso, la pertinenza a questa Croce della cimasa erratica col Redentore ora in collezione Salini a Gallico, presso Asciano5 (cat. 19). De Marchi è recentemente tornato a ribadire la correttezza di questa ipotesi, messa in discussione da Bagnoli per la presunta lontananza stilistica tra le due opere e la difformità della cornice del Redentore6, che però è rifatta7 . Grazie alla presenza della firma e della data, la Croce ha rappresentato da sempre un punto fermo del corpus di Niccolò ed è stata per molto tempo l’unica opera accostata con certezza al suo nome, ma paradossalmente, essendo uno dei prodotti meno felici del pittore, ha contribuito in modo decisivo ad alimentare una fama negativa, di cui fu propugnatore Cesare Brandi8 prima che Pèleo Bacci accostasse a Niccolò la Madonna col Bambino di Montesiepi e, sulla base della miglior qualità di quella, ipotizzasse per primo l’attività di aiuti almeno per le figure dei Dolenti9 (figg. 9-10). È chiara ormai la necessità di stemperare i giudizi troppo negativi su quest’opera10, che almeno nel Crocifisso (fig. 8) mostra molte delle caratteristiche peculiari di Niccolò – dalla tecnica pittorica a filamenti di colore alla buona qualità dei trapassi chiaroscurali – al di là dell’evidente tentativo di sperimentare una più manifesta volumetria. La Vergine e san Giovanni hanno in effetti forme dilatate, tratti pesanti ed espressioni concitate che poco si conciliano col resto della produzione di Niccolò, caratterizzata da figure più garbate. Tuttavia, nonostante un uso insolito della linea
1 Cfr. cat. 11. 2 Romagnoli ante 1835 (ed. 1976), II, p. 651. 3 Cfr. Padoa Rizzo 2002, p. 73. 4 Si vedano ad esempio la Croce di Simone Martini della chiesa della Misericordia di San Casciano Val di Pesa, quelle di Segna di Bonaventura per San Francesco a Pienza e per la badia delle Sante Flora e Lucilla ad Arezzo, quella di Ugolino di Nerio per la basilica dei Servi di Siena, quella di Pietro Lorenzetti per San Marco a Cortona. 5 Zeri 1978, p. 149. 6 Bagnoli, in Duccio 2003, p. 376, cat. 62. 7 De Marchi, in Siena 2017, p. 50. 8 Brandi 1933, p. 223. 9 Bacci 1935, p. 1. Si rimanda al saggio §2 per una più completa disamina della fortuna (e sfortuna) critica di Niccolò. 10 Già Cavalcaselle-Crowe 1864, II, pp. 58-59 e ancora Maginnis 1974, p. 214.
di contorno marcata e di ampie zone chiare a definire, insieme al chiaroscuro, i tratti del volto del Cristo morente dalla capigliatura un po’ schematica, il Crocifisso conserva una compostezza più tipica del pittore, che si rispecchia nelle caratteristiche della cimasa Salini. D’altra parte gli stessi Dolenti rappresentano un interessante elemento di continuità all’interno della produzione di Niccolò, riproponendo con minime variazioni le pose degli omologhi della giovanile Croce di Bibbiena (cat. 7), nei gesti di entrambi i personaggi e negli ondulati capelli sciolti della Vergine. Ciò testimonia la sopravvivenza di modelli all’interno della bottega, reimpiegati a distanza di quasi due decenni con poche varianti compositive. Rispetto alla Croce più antica, in quella del 1345 non cambia poi di molto la resa del perizoma dalle pieghe fitte e sottili, segnate da decise lumeggiature bianche. Invece la struttura del corpo del Cristo, sebbene analogamente tratteggiata nella zona del costato, appare più massiccia e caratterizzata da un minore allungamento, elementi che andranno messi in relazione, con l’abbandono del verticalismo segnesco e con l’accostamento in particolare ai modi di Pietro Lorenzetti. Un differente intervento nella figura del Cristo e in quelle dei Dolenti sembra testimoniato, oltre che dalle caratteristiche formali, anche dalla decorazione punzonata dei nimbi. Il primo ha la struttura tipica degli altri crucigeri prodotti da Niccolò, con girali vegetali a risparmio su fondo granito negli spazi di risulta dei bracci, a loro volta decorati da composizioni di punzoni diversi – in questo caso un quadrilobo inscrivente cinque tondi, un rettangolo con terminazioni cuneiformi e un piccolo fiore a cinque petali, lo stesso che ricorre nelle fasce circolari e rettilinee del nimbo, ma più piccoli di quello della fascia più esterna11. Le aureole dei Dolenti hanno invece un aspetto insolito, pur mostrando elementi ricorrenti in Niccolò e punzoni presenti in questa stessa opera, che però sono ripetuti in modo seriale a riempire l’intero spazio della fascia principale: la Vergine ha tre serie di quadrilobi e polilobi con tondi e san Giovanni una sorta di griglia realizzata coi punzoni allungati arricchiti da tre tondi, nelle cui maglie si inseriscono i fiori a cinque petali; negli spazi di risulta emerge la granitura. Credo si possa leggere in questi elementi l’attività di un collaboratore di Niccolò che impiega strumenti di bottega con l’obiettivo di riproporre un dettaglio tipico delle opere del maestro – che probabilmente realizza il nimbo del Cristo – ma mancando di raggiungere la raffinatezza dei suoi esiti.
Bibliografia De Angelis 1816, p. 22; Romagnoli ante 1835 (ed. 1976), II, p. 651; [Pini] 1842, p. 6; [Milanesi] 1852, p. 17; Cavalcaselle-Crowe 1864, II, pp. 58-59; Catalogo 1872, p. 18; Cavalcaselle-Crowe 1885, III, p. 34; Catalogo 1895, p. 20; Catalogo 1903, p. 20; Jacobsen 1907, p. 24; Venturi 1907, V, p. 589; Cavalcaselle-Crowe 1908, III, p. 29; Catalogo 1909, p. 20; Cavalcaselle-Crowe 1909, II, p. 23; Weigelt 1911, p. 263; De Nicola 1912, p. 147; De Nicola, in Mostra 1912, p. 39, cat. 88; Lusini 1912, pp. 137-138, cat. 90; Dami 1924, p. 13; van Marle 1924, II, p. 157; Berenson 1932, p. 397; Brandi 1932, p. 177; Brandi 1933, pp. 223-225; van Marle 1934, II, pp. 64, 150, fig. 100; Bacci 1935, p. 1; Berenson 1936, p. 341; Bacci 1939, p. 207; Bacci 1944, pp. 45-46; Toesca 1951, p. 517; Sandberg Vavalà 1953, p. 115; Carli 1955a, p. 31; Coor achenbach 1954-1955, pp. 87, 90; Carli 1958, p. 22; Vertova 1968, p. 23; Berneson 1968, I, p. 300; Carli 1971, p. 13; van Os 1972, pp. 79-80, fig. 3; Maginnis 1974, p. 214; Maetzke, in Arte nell’Aretino 1974, p. 43; De Benedictis 1976, p. 87; Torriti 1977, p. 78, fig. 10; Zeri 1978, p. 149; De Benedictis 1979, p. 94; Stubblebine 1979, I, pp. 153-154; Carli 1981, p. 74; Damiani, in Il Gotico a Siena 1982, p. 92; Leoncini, in La pittura in Italia 1986, II, p. 642; Torriti 1990, pp. 40-41; Padoa Rizzo 2002, p. 73; Bagnoli, in Duccio 2003, p. 376; Franci, in Duccio 2003, pp. 364-365; Franci, in La Collezione 2009, I, p. 89; Franci 2013; Brüggen Israëls, in The Bernard and Mary 2015, p. 498; Matteuzzi, in La Galleria 2016, p. 43; Bagnoli, in Ambrogio 2017, p. 230; De Marchi, in Siena 2017, p. 50.
11 Quadrilobo: Frinta 1998, p. 374, n. Ja67 (usato anche da Bartolomeo Bulgarini). Rettangolo: ivi, p. 87, n. Bc4b.
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