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Periodico comunista di politica e cultura n. 1/2016 - anno XXV
Non siamo pacifisti. Siamo avversari della guerra imperialista per la spartizione del bottino fra i capitalisti, ma abbiamo sempre affermato che sarebbe assurdo che il proletariato rivoluzionario ripudiasse le guerre rivoluzionarie che possono essere necessarie nell’interesse del socialismo Lenin
Il capitalismo è vorace
È necessario organizzarsi e coordinarsi per rompere l’egemonia delle illusioni riformiste. Rafforzare le lotte e rispondere alla dittatura del capitale fino alla sua distruzione Abbiamo finito l’anno parlando di guerra e ne abbiamo iniziato un altro con la guerra ancora al centro. La guerra domina la scena internazionale e si ripercuote sulle condizioni di tutte le popolazioni, in particolare di quelle direttamente interessate, costrette a fuggire e quindi causa principale degli spostamenti migratori. Il capitalismo per superare le crisi di sovrapproduzione ha bisogno distruggere forze produttive infrastrutture e forza lavoro e la guerra è lo strumento della soluzione capitalista alle crisi economiche e finanziarie. Già con le guerre mondiali gli Stati Uniti, quando intervenivano in ritardo in Europa cercando di prendersi anche il merito della vittoria, si arricchivano con la vendita delle armi prima e la ricostruzione dopo. Modifica lo scenario mondiale ma gli Usa continuano ad esercitare il loro dominio, basato principalmente sulla supremazia militare per mantenere la propria influenza in ogni parte del mondo riattivando una nuova guerra fredda. Una guerra economica, alla Russia e alla Cina, guerre militari in Ukraina, in Siria, e una nuova guerra in Libia per occupare, con il pretesto dell’Is, zone strategicamente ed economicamente importanti e, al tempo stesso, rafforzare la presenza della NATO. Principale strumento di controllo e di comando anche per l’Unione Europea, la NATO opera a favore della Turchia fornendo la copertura internazionale alle sue mire egemoniche nella regione di occupare parte del territorio siriano. La Turchia di Erdogan - mentre commercia petrolio di contrabbando che gli fornisce l’IS - alla quale arriveranno per ora 3 miliardi dalla UE per i profughi è utilizzata per il passaggio di armi che Qatar e Arabia Saudita acquistano in Croazia e in Israele per l’addestramento CIA dei “ribelli”, come si legge in una inchiesta sul New York Times, combatte chiunque ostacoli i piani di dominio dell’imperialismo, reprime comunisti e oppositori, usa le provocazioni fasciste, massacra i combattenti kurdi del PKK. Le alleanze dei paesi imperialisti si compongono e scompongono e le contraddizioni che ne scaturiscono tra loro derivano dallo scontro in atto per la supremazia, ma nella sporca guerra di Siria si consuma l’alleanza Usa, UE, Turchia, Israele, petromonarchie del Golfo. Ad altri Stati la gestione dell’intervento in Libia. La corsa delle potenze imperialiste per la conquista e il controllo dei mercati non ha limiti e porta i relativi governi a forme di politica interna sempre più autoritarie. Dietro la situazione di crescente aggressività c’è l’aggravamen-
to della crisi del capitalismo, una crisi che abbiamo definito sistemica, di sovraproduzione, causa del rallentamento dell’economia, le Borse che affossano, il prezzo del petrolio in caduta libera. Ciò che forse non è ben chiaro è che il rischio di guerra coinvolge direttamente l’Italia. I droni killer - l’autorizzazione ad armarli è arrivata alla ministra Pinotti a novembre - con funzione strategica di first strike (primo colpo) partono da Sigonella per la Libia come già nel 2011 e colpiscono non solo gli obiettivi militari ma anche civili. Droni dislocati in seguito ad un accordo tra Italia e Stati Uniti e utilizzati anche per interventi in Niger, Mali, Somalia. Da tempo il governo italiano si è candidato per guidare la guerra in Libia in accordo con gli Usa e con Stati europei singoli Francia, Gran Bretagna, Germania, gli stessi che l’hanno demolita e che ora intervengono con il pretesto di colpire i terroristi e portare la “pace”. L’intensificazione dei voli dall’hub di Pisa dimostra che l’operazione a guida italiana è già iniziata con il trasporto delle armi; paracadutisti e carabinieri sono già presenti, e si prevedono truppe di terra (dai mille ai tremila soldati), coinvolgendo l’Italia in una nuova guerra e non in missioni umanitarie o interventi di normalizzazione (come quella dei Balcani?). Sono bugie le motivazioni ufficiali di Pinotti e Gentiloni che la scelta di usare i droni la decidono volta per volta. L’Italia, quindi, è in guerra per le sue scelte disastrose e la nostalgia del vecchio colonialismo - quando in Libia scatenò una repressione sanguinosa contro la popolazione civile e costruì campi di concentramento - e lo è by passando lo stesso Parlamento e calpestando, come gia in passato, l’art. 11 della Costituzione a dimostrazione di quanto sia formale il suo richiamo. Non ci stupirebbe se anche la morte dei tecnici italiani rapiti venisse utilizzata come copertura della scelta dell’avventura bellica. Il governo Renzi, vero e proprio comitato d’affari di capitalisti e banche, con la complicità dei mezzi di informazione snocciola dati contradditori e lancia campagne di pura propaganda mentre spende centinaia di milioni per i lavori delle basi aeree statunitensi di Foggia, Taranto, Ghedi, 13 miliardi per dotarsi degli F35, paga 70 milioni al giorno per appartenere alla Nato, aumenta la spesa corrente mentre taglia su servizi, in particolare sulla sanità pubblica, pensioni, scuola ecc. Per mandare contingenti a difesa della diga in Iraq i cui lavori sono stati assegnati
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ad una ditta italiana. Ogni giorno ne inventa una nuova per cancellare ogni conquista dei lavoratori: Jobs act, riforme istituzionali, privatizzazioni selvagge. Con colpi di mano come la revisione infernale del meccanismo ISEE fa diventare tutti benestanti e costringe migliaia di studenti a lasciare le città universitarie e rinunciare agli studi; i disoccupati - che aumentano a ritmo continuo - vengono cancellati dai nuovi conteggi ISTAT, anche loro diventano benestanti con la nuova ISEE e non riescono ad ottenere esenzioni neppure per importanti e indispensabili medicine. Quello che non fanno lo annunciano, per mettere una prima ipoteca, e poi poter intervenire pesantemente come è accaduto per le pensioni di reversibilità. Il diritto acquisito dai versamenti che devono passare al coniuge diventa un’ulteriore penalizzazione per le donne rimaste vedove dopo una vita da casalinga, magari rinunciando al lavoro per dedicarsi alla cura della famiglia e dei vecchi sostituendosi alle carenze dello Stato. Ultimo in ordine di tempo (almeno al momento in cui scriviamo) è l’esproprio della casa ai morosi con mutuo, ovviamente a favore delle banche! Da parte loro i padroni a partire da Marchionne della Fca (ex Fiat) possono cambiare strategia: posticipare il lancio di nuovi modelli, cancellare l’obiettivo di produrre 7 milioni di auto nel 2018 ecc. così lavoratori di Mirafiori, Grugliasco, Cassino, Pomigliano, Modena - illusi dalle promesse Renzi-Marchionne e dall’approvazione di Fiom Cgil - continueranno a rimanere senza occupazione mentre diminuiscono gli ammortizzatori sociali con la nuova NASPI. E si sentono sicuri dall’introduzione dei nuovi contratti a “tutele crescenti” che cancellano l’art. 18 per poter lanciare una pesante repressione sui luoghi di lavoro per cancellare tutte le avanguardie sindacali e di lotta operaia che non si allineano. Il capitalismo è vorace ma non ha soluzione, aumenterà la sua violenza contro la classe operaia e le masse popolari, può trascinarci in guerra per ottenere il massimo profitto se non riusciremo a sviluppare le capacità e l’organizzazione per affermare i nostri interessi di classe. Per questo è necessario organizzarsi e coordinarsi per rompere l’egemonia delle illusioni riformiste sulla possibilità di migliorare o trasformare il capitalismo e per rafforzare le lotte e rispondere alla dittatura del capitale fino alla sua distruzione.
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lavoro/sindacato
Forti dissidenze interne
Il Testo Unico sulla rappresentanza segna un passo avanti nella fascistizzazione dei rapporti sindacali perché esclude dalla partecipazione alle Rsu tutti quei lavoratori e quelle organizzazioni che vogliono conservare la propria autonomia di classe Eraldo Mattarocci
Fermento sindacale Un gruppo di compagne e di compagni degli stabilimenti FCA di Melfi e di Termoli, iscritti alla FiomCgil, è finito nel mirino dei dirigenti della loro organizzazione per aver partecipato, nel maggio 2015, alla costruzione di un Coordinamento di lavoratori e di delegati FCA del centro-sud, aderenti a diverse sigle sindacali. Il Collegio statutario della Cgil, chiamato in causa da Landini, ha deliberato che stare nella Cgil e partecipare ad un Coordinamento operaio è incompatibile, ufficializzando il fatto che militare in un sindacato concertativo, per quanto mascherato da sindacato antagonista, e promuovere l’unità operaia è una contraddizione insanabile. Senza entrare nel merito della loro scelta sindacale, alla luce delle conseguenze, quantomeno opinabile, è chiaro che questi lavoratori hanno fatto la cosa giusta seguendo l’unico percorso in grado di contrastare lo strapotere padronale e, per questo, vengono puniti. Privilegiare l’unità alla base dei lavoratori appoggiando chiunque si ponga sul terreno della lotta, anteponendola agli interessi di bottega del proprio sindacato, è quello che dovrebbero fare tutti quelli dotati di coscienza di classe e, primi fra loro, quelli che si ritengono e si dichiarano comunisti. Purtroppo non è così. Ci sono lotte in Italia che sono esemplari per impegno, serietà e costanza, non solo nel settore della logistica ma anche nei trasporti e nei metalmeccanici, ma rimangono isolate, “patrimonio” delle organizzazioni sindacali che le promuovono e le sostengono. Ciò avviene nonostante sia chiaro che se queste lotte non vengono generalizzate e condivise sono destinate ad essere sconfitte. È quindi più che mai necessario superare il settarismo di
organizzazione, che non significa rinunciare alla propria identità ed alla propria storia, per confrontarsi su contenuti ed obbiettivi da portare avanti unitariamente coinvolgendo il maggior numero possibile di lavoratori. Paradossalmente, visto che evidentemente non ci arriviamo da soli, una mano c’è la danno i padroni ed i loro servi dei sindacati concertativi. Il Testo Unico sulla rappresentanza segna un passo avanti nella fascistizzazione dei rapporti sindacali in quanto esclude dalla partecipazione alle Rsu tutti quei lavoratori e quelle organizzazioni che vogliono conservare la propria autonomia di classe ma, proprio per le difficoltà che pone
a chi pensa che la risoluzione o quantomeno il ridimensionamento dei problemi passi attraverso una pratica conflittuale con il padrone, costringe le avanguardie ad un salto di qualità nel loro lavoro politico e sindacale. Non è un caso che la scelta di sottoscrivere il Testo Unico abbia creato parecchi mal di pancia alle organizzazioni sindacali, soprattutto quelle di base, che lo hanno fatto, magari illudendosi di poter continuare a porsi su un terreno sindacale di classe nonostante lo svuotamento residuo del ruolo delle Rsu o, ben più realisticamente, non volendo rinunciare ad un riconoscimento “istituzionale” ed ai suoi benefit.
La Fiom, maestra di tattiche opportuniste, ha apparentemente eluso il problema e le contraddizioni derivanti perché, pur non avendo firmato, utilizza la firma della Cgil per partecipare alle Rsu ed in questa maniera maschera ai suoi iscritti ed ai suoi tifosi della sinistra radical chic il fatto di essere legata mani e piedi alle regole antidemocratiche del Testo Unico. Nel sindacalismo di Base la sottoscrizione del Testo Unico non è stata altrettanto indolore. Tra le organizzazioni più importanti che hanno apposto la loro firma, la Confederazione Cobas ha trovato al suo interno una forte dissidenza interna, con intere organizzazioni provinciali che
Attenzione è cambiato il numero del cc postale Nel dicembre 2015 – in pieno periodo di rinnovi - Poste italiane hanno chiuso il conto corrente di “nuova unità” congelando la somma depositata, cioè prelevandola. La comunicazione, oltre che dalle numerose segnalazioni degli abbonati, ci è arrivata nei primi giorni di gennaio 2016. La moti-
vazione: non aver presentato la documentazione relativa alla legge antiriciclaggio, richiesta che non abbiamo mai ricevuto. In questa Italia di scandali e corruzione dove tutti, dalle imprese alle banche, fanno loschi affari in barba alle leggi, si impedisce ad un giornale come il nostro di poter vivere. È decisamente una forma di censura, di impedimento alla divulgazione di posizioni comuniste. Purtroppo per poter ricevere gli abbonamenti, ma soprattutto per poter spedire la nostra pubblicazione a costi ridotti siamo costretti a ricorrere alle poste. Non è sta-
to possibile riavere il numero del nostro ccp aperto dagli anni ’80, ma, dopo varie peripezie, abbiamo un numero nuovo e siamo in condizioni di poter spedire il giornale che, per queste ragioni ha subito un ritardo. Ringraziamo tutti i compagni e i lettori che hanno telefonato e scritto preoccupati di sentirsi rispondere che il conto era chiuso. Il loro contributo è fondamentale per la nostra esistenza, per poter divulgare la nostra analisi utile allo scontro di classe. E ringraziamo tutti coloro che, sacrificandosi, hanno fatto la sottoscrizione. CONTINUATE A SOSTENERE IL GIORNALE. LE NOSTRE IDEE, LE NOSTRE LOTTE
Il nuovo numero è: nuova unità, Firenze, 001031575507
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contrastano questa scelta mentre USB, forte soprattutto nel pubblico impiego e nei trasporti di alcune città, si è addirittura spaccata. Un gruppo numeroso di iscritti, delegati e dirigenti ha scelto di uscire da USB ed ha costituito SGB (Sindacato Generale di Base), iniziando contemporaneamente un processo per federarsi alla CUB. Un altro gruppo di iscritti e delegati di USB ha scelto invece di dare battaglia all’interno, richiedendo un congresso straordinario. Evidentemente tutto questo fermento, su un tema così importante, che attraversa soprattutto il sindacalismo di Base ma non solo, visto che anche l’opposizione sindacale in Cgil sta nuovamente vivacizzandosi, è positivo ed i suoi effetti iniziano a vedersi. In occasione della preparazione dello Sciopero Generale contro la guerra (interna ed esterna) del 18 marzo, indetto inizialmente da CUB, Si Cobas ed USI-Ait, cui si sono aggiunti successivamente SGB ed altre realtà minori, si è vista di nuovo la promozione di assemblee unitarie in molte città e posti di lavoro e, di conseguenza, la partecipazione di numerosi lavoratori che, pur rimanendo iscritti, si erano allontanati sia per il clima non precisamente idilliaco che c’era tra le varie organizzazioni sia per il carattere liturgico e di testimonianza degli scioperi degli ultimi anni. Al di là della riuscita dello Sciopero che non vedrà ancora la partecipazione delle masse, di sicuro un passo avanti è stato fatto. Si tratta di continuare su questa strada, con la chiarezza che il Testo Unico sulla Rappresentanza segna uno spartiacque. È finita, per chi l’ha praticata e non certo per noi, la rappresentazione teatrale dello scontro di classe: o costruiamo davvero dei rapporti di forza favorevoli sul posto di lavoro o sul territorio, coordinando le lotte e le iniziative, o non abbiamo futuro.
Ricordando Mario Minacci
Un esempio per tutti i compagni
L’8 febbraio di un anno fa si spegneva il compagno Mario Minacci, nella sua casa, nell’affetto della moglie e dei nipoti. In quegli ultimi giorni, i suoi ricordi riandavano alla storia politica dell’Unione Sovietica, alla lotta eroica del popolo russo contro gli occupanti nazifascisti, alla canzone della Neva che cantavano i resistenti di Leningrado. Mario era forte, puro, generoso, fermo nei suoi ideali di giustizia sociale, di uguaglianza, di amore che sono stati alla base della sua militanza nel PCd’I (m-l). Diffusore di ”nuova unità”, capace di manifestare con chiarezza e concretezza le sue idee, non si arroccava su posizioni settarie, élitarie; riconosceva gli errori della sinistra, e li denunciava apertamente, certo della sua onesta verità. Si coglieva, allora, nelle sue parole un misto di delusione e rabbia, seppur contenute dalla passione politica e dalla ragione. Sono stati tanti i compagni e gli amici, che lo hanno salutato per l’ultima volta al funerale laico (scelta della sua coerenza). Tante bandiere rosse e, fra queste, la vecchia bandiera del PCI della sezione Di Tonni. Sulla sua lapide, la semplice scritta “Qui riposa il compagno Mario Minacci”, in basso la falce e il martello con la stella. Chi l’ha conosciuto e amato vuol ricordarlo così. La moglie e i nipoti
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società
Il problema è il sistema capitalista
Opinion leader e selezionatori delle informazioni hanno deciso di dare enorme risalto alle proteste dei vari piccoli medi risparmiatori truffati, nonché ai “padroncini” di piccole e medie aziende che non hanno accesso al credito oscurando le proteste dei licenziati, esodati, precarizzati, sfrattati… “... nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. AD un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene”.
Inoltre il punto di vista da cui parte la critica, pur per molti versi giusta, è sempre quella del risparmiatore piccolo borghese che in questi anni ha dovuto ricredersi sulla vera e propria religione fino a quel momento inculcategli, cioè quella del consumo impulsivo e compulsivo, per convertirsi al nuovo credo secondo cui abbiamo TUTTI vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Questo ha portato, specie in Italia, ad una reazione agli eventi pressoché assente, se non nella misura del buon cittadino truffato dalle banche (come nei mesi scorsi è accaduto dopo il fallimento di Banca Etruria). Tutto ciò però non ha portato a nessun movimento generale anticapitalista, frutto questo, non solo della confusione delle masse sempre più vittime della “società dello spettacolo” allestito dai tycoon della comunicazione (con buona pace di chi crede che con la rete internet si potessero raggiungere nuovi orizzonti di democrazia… sic!), ma anche dell’imperante egoismo nichilista che percuote le società del cosiddetto Occidente. Come dicevo però, anche laddove vi è una critica puntuale e ben informata del presente, spesso ci si ferma ai criteri della speculazione, dell’avarizia, o dell’eccesso di ricchezza. Ciò si scorge nella sitografia/bibliografia “alternativa” o “complottista”, che si concentra sui plurimiliardari Warren Buffet, Amancio Ortega, Rockefeller, Rothchild e via schifando. La crisi capitalista mondiale, detona sì in forma finanziaria, ma non si produce per i soli fattori finanziari, le cause reali sono la sopraproduzione, tendenza alla caduta del saggio di profitto, che porta a sviare i capitali dai settori produttivi, a quelli speculativi, sostituzione di mano d’opera con la tecnologia, scoppio di bolle finanziarie o immobiliari. Gli opinion leader e i selezionatori delle informazioni da comunicare al grande pubblico, hanno deciso, appositamente, di dar maggior risalto alle proteste dei vari piccoli medi risparmiatori truffati,
nonché ai “padroncini” di piccole e medie aziende che non hanno accesso al credito. Meno eco hanno avuto le proteste di chi veniva licenziato, esodato, precarizzato… anzi ci siamo pure dovuti sorbire il solito campagnone anti dipendente che fa il “furbo” contro quello strumento umiliante e disumano del cartellino, il tutto rinforzato con il filmetto da italietta liberista di Checco Zalone. Tutto questo serve a chi possiede le corde dell’opinione pubblica, a far sì che si particolarizzi, personalizzi la critica. Non sia mai che l’uomo della strada trovi, sia pur lontanamente, spiegazioni strutturali che possano metter in discussione il sistema capitalista in tutte le sue forme. Inoltre le critiche mosse da fantomatici politici di opposizione, parlano alla pancia del famigerato
Karl Marx Per la critica dell’economia politica Pacifico In questi interminabili anni di crisi, sentiamo spesso strali e invettive contro le banche, la loro avarizia e la necessità di riformare qualche leggina che dia loro meno spazio di manovra e che stabilisca qualche controllo in più. Lo strombazzamento viene sia da partiti manifestamente reazionari (come Lega Nord e M5S), sia da elementi sinceramente indignati contro quanto accaduto dal 2007 in avanti. Mi domando però se la situazione attuale è davvero frutto dell’avarizia, o della malvagità della banca salvata, del manager con la buona uscita milionaria o del politico corrotto di turno. Oppure, chi getta luce contro queste figure, comunque squallide, non ha capito, o finge di non capire, che la realtà, e di conseguenza le misure da prendere, sono ben altre?
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ceto medio che è stato sì colpito dalla crisi, che si è visto sì impoverito in questi anni, ma che comunque ritiene la proprietà, per quanto minuscola e miserabile che sia, un qualcosa che ne determina lo status, che lo differenzia da altre vittime del capitalismo con cui non si sogna nemmeno di solidarizzare. Quindi non mette in discussione le disfunzioni del sistema, chiede solo qualche briciola in più (e solo per se stesso), come un cane alla tavola del padrone. In questi anni in Italia e in Europa vi sono state proteste e manifestazioni, anche numerose, da chi intuisce i mali del sistema, ma non li vive sulla propria carne: gli studenti di classe media, che per quanto capiscano che il futuro è nero come la pece, non si riconoscono né parte, né eredi della
classe lavoratrice. Molti di questi attivisti sono imbevuti dell’ideologia della sinistra radical-liberale che nega categorie fondamentali come la divisione in classi della società, o l’imperialismo (vedi il Toni Negri pensiero), ma spesso fanno riferimento all’ideologia diritto umanista delle ONG, avanguardie dei disegni imperiali USA. Non vi è più per loro la lotta di classe, ma “moltitudini”, “società civile”. La loro critica si ferma alle figure più note e odiose del capitalismo, ma senza criticarne la sua essenza più intima. La loro rabbia è rivolta a “politici”, alla “casta” e ai “banchieri”, il tutto in linea con quanto propagandato dal mainstream mediatico. Ma tutto ciò a cosa punta? A chi è funzionale? Semplice! A salvare il soldato capitalismo! Il capitalismo è molto più del-
la finanza ed è qualcosa di più della semplice avarizia dei capitalisti. Se si concentra su pochi e marginali aspetti, si salva il resto del sistema generale. In seconda battuta, fa assai comodo far credere che il giocattolino si sia rotto per le colpe dei singoli, occultando così il fatto che è con naturalezza che questo sistema produce disastri sociali, un po’ come nella favola di Esopo dello scorpione e della rana, lui punge lei, non per cattiveria, ma perché è la sua natura. È un sistema che espropria e rapina la ricchezza generata dal LAVORO (parolina magica che è sparita dal dizionario della sinistra radicalliberale diritto umanista arcobaleno), un sistema che risucchia come un’idrovora quanto madre natura offre all’umanità intera con una velocità ogni anno superiore, un sistema che ricorre alla guerra sistematicamente per appropriarsi di territori e risorse che non gli appartengono, o per distruggere l’eccedente, per far ripartire il lucroso mercato della ricostruzione!!! Le caratteristiche del capitalismo sono indipendenti dalla volontà morale dei capitalisti stessi. Ha le sue regole del gioco, e se i capitalisti vogliono esser tali, sono i primi a doverle rispettare con religioso rispetto. Il capitalista filantropo, che offre umane condizioni di lavoro e salari adeguati, fallirebbe nel giro di un quarto d’ora. Il capitalismo risponde solo al diritto di proprietà dei mezzi di produzione. Il tutto senza né cattiveria né morale. Senza queste basi, si rischia di non capire il quale mondo viviamo. Si rischia di festeggiare, come successo in Italia, la caduta di un governo Berlusconi per l’instaurazione di un governo Monti, si rischia di finire nelle braccia dei Renzi, di credere nella filantropia dei Soros, speculatore e finanziatore di ONG che fanno da apripista ai peggiori crimini dell’imperialismo, in nome, guarda un po’, dei famosi “diritti umani”.
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cultura
Balle spaziali
Da Colonia al mare Egeo per concludere che la barbarie del sistema capitalistico è ormai tra noi e rischia di travolgerci tutti Daniela Trollio (*)
Donne, uomini, memoria… I fatti di Colonia (riassumiamo, un migliaio di “rifugiati arabi” avrebbero aggredito sessualmente alcune centinaia di donne che festeggiavano il Capodanno nella stazione della città) risalgono a circa 2 mesi fa, ma vale la pena di fare un breve ragionamento. Nell’articolo di Nazanin Armanian che potete leggere a fianco, la giornalista si pone una serie di domande che – crediamo – qualsiasi persona con un po’ di sale in zucca si è fatto. Quella fondamentale è: è possibile che, in pieno e isterico allarme terrorismo dopo la strage di Parigi, 1.000 “uomini di pelle scura” siano arrivati tutti insieme alla stazione (luogo strategico – e quindi, si presume, obiettivo sensibile da sorvegliare con la massima attenzione), organizzati per aggredire le donne che volevano festeggiare il Capodanno? Ci sarebbe da pensare che i rifugiati “di pelle scura” abbiano ben altro cui pensare, tipo: dove dormirò questa sera? dove mi sbatteranno domani? Il 15 febbraio leggiamo su Repubblica (repubblica.it/esteri/2016/02/15) i seguenti dati in merito: sono state presentate 1.054 denunce di cui 454 per molestie sessuali e 600 per furto. La maggior parte delle denunce sono arrivate alla magistratura tedesca solo 3 giorni dopo, il 3 gennaio, dopo che il fatto era apparso sui giornali. Gli indagati sono 59 (59!!!, ma non erano un migliaio?) migranti sospettati di aver partecipato alle aggressioni e solo 3 sono profughi. I dati provengono da un’intervista al quotidiano Die Welt del magistrato incaricato delle indagini, Ulrich Bremer. Nessun altro giornale italiano l’ha pubblicato. Sempre nell’articolo di N. Armanian leggiamo che in Germania, motore d’Europa e paese in cui le donne hanno per cultura e tradizione un posto rilevante nella società (non per nulla una donna – Angela Merkel – è cancelliere dello Stato da ben 11 anni) il 40% delle donne ha sofferto di violenze e abusi sessuali, per due terzi consumati in famiglia. In Italia, secondo i dati del Centro Antiviolenza della clinica Mangiagalli di Milano e di vari altri centri per le donne maltrattate, la percentuale delle violenze sulle donne ed i luoghi dove questa avviene è più o meno la stessa, e le stesse cifre valgono per tutti i gruppi etnici, italiani ed europei compresi.
Sulla violenza contro le donne sono stati scritti oceani di parole – è stata persino coniata una nuova parola, “femminicidio” - e non ci ritorneremo sopra.
Facciamo invece un salto indietro nella storia Nel periodo del nascente nazismo, a partire dal 1923, la rivista Der Stürmer di Julius Streicher (che nel processo di Norimberga verrà poi riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità e condannato a morte) basava le sue pubblicazioni su materiali che mettevano in guardia la popolazione tedesca dal pericolo della “perversione giudaica”. Oggi le stesse tecniche vengono usate per mettere in guardia la popolazione europea contro i migranti, descritti prima come “quelli che ci rubano il lavoro” e poi come “attentatori” alle tradizioni e ai valori dell’Occidente, di quell’Occidente imperialista che ha rapinato e portato la guerra nei paesi da dove essi provengono, costringendoli ad abbandonare le loro case e, spesso, la loro stessa vita. Rivediamo, aggiornate, le immagini che abbiamo visto sulla barbarie nazista che imperversò in tutta Europa: filo spinato, ghetti, aggressioni e manifestazioni xenofobe, viaggi mortali (ieri nei treni blindati, oggi sui barconi della morte). Il nazismo basava la sua politica sulla disuguaglianza degli esseri umani – la razza eletta e gli altri, gli “untermenschen” – e sul suo diritto a decidere chi dovesse vivere e chi veniva condannato alla schiavitù e alla morte. C’è poi tanta differenza? Eppure i sopravvissuti all’Olocausto, uomini e donne di tante nazionalità, giurarono a Mauthausen “Mai più”. Piccola nota: il Libano, paese di poco più di 4 milioni di abitanti accoglie circa 2 milioni di rifugiati, mentre l’Europa, che ha 739 milioni di abitanti, non può o non vuole accoglierne il mezzo milione che è costretto a bussare alla sua porta. Altra piccola nota: il sionista Chaim Weizmann, che sarebbe diventato primo presidente dello stato di Israele, disse nel 1934: “Il mondo sembra essere diviso in due parti: una dove gli ebrei non possono vivere e l’altra dove non possono entrare”. Sostituite la parola “ebrei” con quelle di migranti, rifugiati, musulmani ecc. ed avrete una perfetta definizione dello stato delle cose attuale - tragico. Ironico: i figli e i nipoti dei sopravvissuti ebrei hanno fatto - e fanno - del loro meglio per ricostituire tale situazione con i palestinesi. Ecco, i “fatti” di Colonia rientrano nella campagna di rovesciamento della realtà: un attacco ed un’offesa intollerabile alle
“nostre” donne e le vittime – i rifugiati – diventano i colpevoli e i colpevoli – le nazioni imperialiste che portano fame, miseria e morte – diventano le vittime che devono difendersi con ogni mezzo. Peccato però che, nella nostra civile Europa, le “nostre” donne vengano ogni giorno picchiate, violentate, massacrate dai “nostri” uomini senza che nessuno si scandalizzi più di tanto.
… e i bambini? Quando parliamo di donne, parliamo inevitabilmente anche di bambini. Ecco allora qualche dato. Secondo Save the Children, i bambini migranti o rifugiati entrati in Europa l’anno scorso sono stati circa 26.000, portando la cifra totale degli ingressi a 270.000. L’Europol (la polizia europea) ha perso le tracce di 10.000 bambini provenienti in massima parte dalla Siria. Nel suo rapporto annuale Europol dice che quelli scomparsi in Italia sono circa 5.000 e in Svezia 1.000. In Inghilterra il numero dei bambini migranti o rifugiati di cui si sono perse le tracce è raddoppiato nel 2015. Pochi giorni fa The Observer e The Guardian, due quotidiani inglesi, hanno pubblicato un’inchiesta da cui emerge la costituzione di una nuova organizzazione pan-europea di traffico di persone in cui sarebbe caduti questi bambini: traffico di organi, sfruttamento del lavoro minorile, sfruttamento sessuale. Un abominio di cui nessuno parla. Men
che meno tutti quei politici che avevano pianto lacrime di coccodrillo sul piccolo Aylan annegato su una spiaggia turca. Facciamo anche noi un rovesciamento della realtà: e se questi 10.000 bambini desaparecidos fossero italiani, o tedeschi, o francesi? E se riapparissero in qualche fabbrica o in qualche bordello? Il giornale inglese The Independent ha pubblicato recentemente un rapporto della ONG Business and Human Rights Resource Centre (BHRC), secondo cui due grandi marchi della moda europea, la svedese H&M e l’inglese Next, impiegano bambini siriani nelle loro fabbriche tessili in Turchia (paese che ospita le fabbriche tessili di molte multinazionali del settore, come Burberry, Topshop, Asos e Marks&Spencer). Cosa succederebbe, se invece che in Turchia fossero riapparsi in Siria, o in Iran o… discorsi infuocati di tutti i politici europei – razzisti in primis - vertici europei, mobilitazione sulle reti social, le forze di pronto intervento che scaldano i motori. Quale scusa migliore? Ma sono sono bambini “altri”, che continuino pure a lavorare, il mercato ha bisogno di braccia a basso costo e il profitto non si ferma davanti all’età o alla nazionalità. Intanto la NATO annuncia che il Raggruppamento navale permanente n. 2 del Mediterraneo si sposterà nel mare Egeo per iniziare – in cooperazione con i guardacoste greci, turchi e con Frontex - la vigilanza sul traffico di rifugiati, a seguito della ri-
chiesta di Germania, Turchia e Grecia. Secondo il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, la missione consisterà nel “partecipare agli sforzi internazionali per contenere il traffico illegale e l’immigrazione illegale nel Mediterraneo”. Peccato però che lo stesso delegato greco all’Assemblea parlamentare della NATO, Jristos Karagiannis, gli abbia risposto che “non è chiaro qual è esattamente il ruolo di un’organizzazione puramente militare come la NATO per far fronte ad una crisi umanitaria come quella che stiamo vivendo nell’Egeo”. E che il vice-ministro greco delle Politiche Migratorie, Yannis Muzalas, abbia segnalato come causa della crisi il fatto che tutti i paesi donanti hanno tagliato drasticamente gli aiuti ai campi di rifugiati in Giordania, Libano e Turchia. Questo ha fatto sì che “nel gennaio 2015 si è ridotta ad un quarto la copertura del Programma Mondiale di Alimentazione e quindi verranno chiuse le scuole dei campi, lasciando 750.000 bambini senza scolarizzazione”. Siamo partiti da Colonia e siamo arrivati nel mare Egeo, per concludere che la barbarie del sistema capitalistico è ormai tra noi e rischia di travolgerci tutti. Per quante poche forze abbiamo, è il caso che ognuno faccia la sua parte, denunciando le “balle spaziali” che ci cucinano tutti i giorni e quello che c’è dietro. (CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)
Renzi e le armi di distrazione di massa Passano gli anni, le epoche storiche e i modi di produzione, ma la classe degli sfruttatori continua con la politica di sempre per distogliere l’attenzione dai problemi reali Michele Michelino Se nell’antica Roma gli imperatori usavano i gladiatori e i giochi al Colosseo come momento per distogliere il popolo dai suoi problemi, giochi dove il tifo e la partecipazione del pubblico, come accade oggi per le partite di calcio, era numerosa e talora, come accadde nel 59 a.C. a Pompei, si scontravano le contrapposte tifoserie, per buona pace del potere, oggi succede lo stesso con altri mezzi. Passano gli anni, le epoche storiche e i modi di produzione, ma la classe degli sfruttatori continua con la politica di sempre e le armi di distrazione di massa servono sempre a distogliere l’attenzio-
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ne dai problemi reali e materiali dei proletari. Il Ddl Cirinnà è un esempio di come, sollevando un gran polverone su alcuni sacrosanti diritti civili si cerca di nascondere il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari per coprire nuovi attacchi antipopolari. Infatti, mentre il governo continuava l’attacco ai salari e ai diritti dei lavoratori, le “unione civili” per settimane hanno riempito le prime pagine dei giornali, mentre le tv ci mostravano giornalmente le immagini della bagarre parlamentare al Senato. Come sempre succede in Italia, le poltrone valgono più di tutto e le unioni civili, una legge civile che ormai in Europa
hanno tutti (meno l’Italia e la Grecia), rischiava di rompere gli equilibri di governo fra PD e NCD di Alfano ed ecco fatto il pateracchio che salva capra e cavoli, le poltrone e i “principi”. Il 25 febbraio scorso il Senato ha approvato la fiducia sul maxiemendamento interamente sostitutivo del testo del ddl sulle Unioni civili con 173 voti a favore e 71 contrari. Ora il testo passerà alla Camera. A favore, oltre alla maggioranza, ha votato il gruppo Ala (Verdini) mentre prima del voto il Movimento 5 stelle è uscito dall’aula. Nel testo votato in Senato anche dai senatori a vita Mario Monti e Giorgio Napolitano, sono stati stralciati la norma sulla stepchild
adoption e l’obbligo di fedeltà (?) anche se è stata salvata almeno l’ultima parte dell’art. 3, quella che fornisce alle coppie gay un paracadute sulle adozioni, lasciando ai giudici la facoltà di decidere con le sentenze i casi in cui ammettere l’adozione agli omosessuali del “figlio del partner”. La borghesia, grazie al potere economico e politico, da sempre gode di diritti civili negati ai proletari. Le istituzioni borghesi ormai sono comitati d’affari che difendono i loro interessi e l’uguaglianza sancita dalla costituzione che nell’art. 3 che afferma “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso,
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cultura
Sui “violentatori non bianchi” in Germania, 21 note
Le informazioni diffuse sui brutti incidenti di Capodanno nella città tedesca di Colonia sono sconcertanti, surrealiste Nazanìn Armanian (*) 1. Com’è possibile che nella festa di fine anno circa un migliaio di uomini non armati abbiano aggredito sessualmente centinaia di donne (compresa un’agente di polizia armata!)? E come è possibile che questo sia successo in una piazza centrale di una città in stato di massima allerta antiterroristica – per le minacce del Daesh – e che oltretutto è vigilata da 230 poliziotti in divisa e da un numero indeterminato in borghese? 2. Come è possibile che non ci sia una sola immagine delle aggressioni con la quantità di cellulari che c’erano tra chi assisteva e tra le vittime, mentre ogni giorno riceviamo decine di foto delle guerre in Afganistan, Iraq, Siria o Sudan? L’unica che è stata diffusa corrisponde all’aggressione ad una donna in piazza Tahrir al Cairo! 3. È credibile che i poliziotti tedeschi – come armadi e oltretutto armati – avessero paura della massa di uomini piccoletti, disarmati e con “la pelle scura” del Terzo Mondo? Avevano ordine di non agire? 4. Il rapporto della polizia di Colonia del 1° gennaio parla di “un ambiente rilassato” e di “celebrazioni pacifiche”, dicono i gruppi progressisti; ma giorni dopo in un altro rapporto si menzionano furti, aggressioni sessuali e persino stupri. Con il passare dei giorni, le donne tedesche (che non hanno lo stesso profilo di quelle dello Yemen) si armano di coraggio e fanno dalle 200 alle 500 denunce, secondo la fonte citata. 5. Perché quei sacerdoti che avvertono della “invasione di migranti” e che “non tutti i rifugiati sono persone oneste”, non hanno avvisato afgani e iracheni del fatto che centinaia dei 600.000 uomini cristiani, armati fino ai denti, avrebbero distrutto le loro case e i loro paesi, e avrebbero violato e ammazzato donne e uomini della nazione assaltata? Ron Atkey, l’ex ministro canadese per l’immigrazione, che autorizzò l’entrata di circa 60.000 rifugiati nel decennio 1970, ricorda che lo misero in guardia sul fatto che” i vietnamiti appena arrivati potrebbero essere dei comunisti infiltrati dal Governo Vietnamita”, ma non è stato così. 6. C’è chi afferma che i richiedenti asilo con i cellulari in mano e che parlano inglese non hanno bisogno di aiuto. Certo, decenni e decenni di propaganda massiccia su un Sud ancorato all’Età della Pietra, che ha bisogno delle guerre civilizzatrici dell’Occidente, ora portano conseguenze: la Siria o l’Iraq erano società avanzate e qualsiasi essere vivente, compresi gli esseri umani delle classi medio-alte, fugge da bombe e missili. 7. Secondo Heiko Maas, ministro della Giustizia tedesco, l’incidente, a quanto pare, era stato pianificato ma dalla delinquenza organizzata o a fini politici? Giorni prima ci avevano detto che un oscuro gruppo del Daesh aveva distribuito
di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” vale solo per loro. In una società divisa in classi, le classi sottomesse hanno una condizione astratta di uguaglianza giuridica, e una situazione con-
un manuale perché i suoi uomini non sembrassero dei terroristi. 8. Ben sapendo che in molti eventi di grande importanza come i carnevali, con alcol e droghe in mezzo, ci sono uomini che aggrediscono sessualmente le donne come una normalità – come durante la festa tedesca della birra Oktoberfest dove vi sono circa 200 denunce ogni anno – qual è stata la vera dimensione dell’incidente di Colonia, quando nel 2014 ci sono state 199 denunce di aggressione sessuale nella stessa città? 9. La rivista Charlie Hebdo ha pubblicato un’aberrante caricatura in cui alcune donne tedesche fuggono dal cadavere del piccolo Aylan giacente sulla spiaggia, insinuando che, se fosse sopravvissuto, da adulto sarebbe stato un violentatore. Cosa pretende Charlie Hebdo? 10. È sorprendente la repentina sensibilità di alcuni partiti verso l’integrità fisica dei cittadini, quelli che precedentemente guardavano da un’altra parte quando almeno 200 bambini del coro religioso diretto niente meno che da Georg Ratzinger – che non era né un rifugiato né un musulmano – soffrirono abusi sessuali per tre decenni. Nel 70% degli orfanotrofi tedeschi migliaia di bambini e bambine hanno sofferto abusi sessuali. 11. I razzisti voglio provocare xenofobia-aporofobia (paura della povertà e dei poveri, n.d.t.), dividendo la popolazione tra nativi e stranieri, arabi ricchi civilizzati (con cui fanno grossi contratti per le armi)e arabi po-
creta, di fatto, di disuguaglianza sociale ed economica. Anche se la Costituzione afferma che l’operaio e il padrone sono uguali e hanno stessi diritti, la condizione di completa subordinazione economica sancita dall’ordina-
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veri e incolti, e evitando che i rifugiati ottengano in futuro la cittadinanza tedesca. 12. Perché e chi sono quelli che stanno centrando il dibattito sull’origine degli aggressori e non sull’assalto sessuale alle donne, in un paese dove, secondo un rapporto dell’anno 2008 – prima dell’arrivo di uomini non bianchi – il 40% della popolazione femminile soffriva abusi sessuali e violenze, e due su tre di questi, oltretutto, in ambito familiare? 13. Siamo di fronte ad una nuova formula di criminalizzazione degli stranieri arrivati dai paesi musulmani: prima erano potenziali terroristi; adesso sono anche immorali, sgraditi e pericolosi per la civilizzazione europea.
Angela Merkel in difficoltà 14. Jakob Augstein, giornalista dello Spiegel, afferma che questa crisi è un “Putsch” (colpo di Stato) del Ministro degli Interni, Thomas de Maizière, e di quello delle Finanze, Wolfgang Schäuble, contro la cancelliera, mentre l’estrema destra ha chiesto le dimissioni della dirigente “ex comunista”. 15. La permanenza della Merkel al potere, mentre stava per diventare il personaggio dell’anno per aver accolto migliaia di rifugiati, dipende ora dalla sua capacità di impedire l’entrata di altri rifugiati e anche di ridurre il loro numero, come esige l’Unione Sociale Cristiana (CSU), socia della CDU al governo, la quale minaccia di spezzare la coalizione.
16. Le promesse della Merkel alla Turchia di lasciarla entrare nell’Unione Europea e pagarle anche 3.000 milioni di euro per fare la polizia delle frontiere (si smette di inviare migliaia di rifugiati in Europa) non hanno avuto ancora effetto. Sopraffatta da un problema europeo, trasformato in un problema tedesco, cercherà di dividere i rifugiati tra i soci della UE? Fino a che punto le autorità della Turchia o della Grecia sono interessate a tendere una mano alla Merkel? 17. L’ultra-destra, che alimenta i timori del subcosciente del cittadino per conquistare il potere, è riuscita a far sì che una centrista Merkel, che continua a negarsi a chiudere le frontiere tedesche (soprattutto per l’inutilità della misura) affermasse che il multiculturalismo (certo, mal capita dalle forze progressiste) è una farsa. La cancelliera, la cui tappa al potere pare giunta alla fine, prenderà misure repressive contro i rifugiati. Se l’imperialismo tedesco ha l’ambizione di recuperare il suo peso nel Vicino Oriente e nel mondo, non può essere isolazionista come alcuni chiedono. 18. Il diritto al rifugio verrà ristretto sostituendo il “procedimento accelerato” con la “protezione sussidiaria”. Così, un rifugiato che poteva restare in Germania per tre anni – con il diritto al riavvicinamento familiare e a conseguire la residenza permanente nel caso in cui il motivo della sua fuga continuasse – dovrà abbandonare il paese dopo un anno. 19. È fondamentale un’educazione secolare nella cittadinanza contro il razzismo e il sessismo, e il non confondere la libertà religiosa con la libertà di utilizzare i testi sacri pieni di apologia che inciti alla discriminazione e all’attacco all’altro o all’altra. Confondere una donna vestita con abiti leggeri come un invito ad essere aggredita è sintomo di un sistema patriarcale guidato dagli uomini che, allo stesso tempo, appartengono a quella stessa classe di persone che spiega uno striscione osceno su un campo di calcio contro la cantante Shakira per attaccare il giocatore Gerard Piqué (suo compagno). 20. I rifugiati non devono essere il capro espiatorio per servire gli interessi infami e pericolosi degli stessi politici che sono responsabili della loro tragedia. 21. Le notizie riguardo all’incidente di Colonia sembrano essere una tattica di commozione e terrore (Shock and Awe, nome che il Pentagono diede al bombardamento massiccio che cominciò l’invasione dell’Iraq) per assaltare, nuovamente, i diritti dei cittadini e di coloro che sono appena arrivati, e per giustificare un intervento militare tedesco nel Vicino Oriente. (*) Giornalista e politologa iraniano-spagnola da: publico.es; 27.1.2016 (traduzione di Daniela Trollio CIP “G.Tagarelli” Sesto San Giovanni)
mento giuridico borghese fa sì che la “libertà” e la “uguaglianza” dei cittadini sia solo formale, essendo l’ordinamento giuridico capitalista fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. In realtà il proletario “libero” nel sistema economico borghese è semplicemente “libero di essere schiavo”. Non è un caso che nel Parlamento, al Senato, dove le varie forze politiche borghesi si sono scontrate per settimane sui diritti civili nello stesso tempo nella Commissione Lavoro alla Camera, si discuteva il disegno di legge delega che, tra le altre cose, trasformerebbe la pensione di reversibilità da prestazione previdenziale a prestazione sociale, agganciando al nuovo ISEE la possibilità di usufruire di tutte le prestazioni assistenziali. Non è un caso che, mentre si dice di voler affermare il diritto del convivente a sostenere nelle cure mediche il proprio partner, contemporaneamente si continua a tagliare la sanità pubblica, e si prevede di tagliare la pensione di reversibilità
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a chi il coniuge l’ha già perso. Per i lavoratori la situazione peggiora sempre più. Nel 2015 c’è stata una crescita del 16%, degli infortuni mortali sul lavoro (1.172) con un aumento del 16,15% rispetto ai 1.009 di gennaio-dicembre 2014. Anche per quanto riguarda le malattie professionali, nel periodo gennaiodicembre 2015 si sono registrate 58.998 denunce delle stesse, con un aumento del 2,6% rispetto al periodo gennaio-dicembre 2014 (57.485). Ma davanti alla strage operaia, il crimine contro l’umanità che ogni anno si compie sul lavoro in nome del profitto il governo rimane muto. Noi operai e lavoratori che abbiamo subito sulla nostra pelle lo sfruttamento e le discriminazioni in fabbrica e nella società, difendiamo i diritti democratici di tutti a partire da quelli delle minoranze sociali. Siamo favorevoli alle unioni civili, alle unioni matrimoniali, alle libere unioni fra persone di sesso diverso, o dello stesso sesso, basa-
te sul reciproco amore e rispetto, ma non ci uniamo al coro dei tifosi e non ci facciamo distogliere dai nostri obiettivi di giustizia. In ogni caso non deleghiamo a nessuno la difesa dei nostri interessi,
noi vogliamo essere partecipi e protagonisti, non tifosi che delegano ad altri (ancor peggio se borghesi) e non ci facciamo distogliere dai problemi contro cui ogni giorno lottiamo.
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Libia
In un Paese distrutto e devastato Manifestazioni di massa contro le condanne a morte di Saif al Islam Gheddafi e altri leader
Enrico Vigna Ad ottobre è stata confermata la sentenza di condanna a morte per Saif al Islam Gheddafi (secondogenito di M. Gheddafi) e a dicembre è stato pubblicizzato un inesistente governo libico NATO, formato in Marocco, composto da figure estranee alla terribile situazione interna al paese e non riconosciuto da nessuna fazione, banda, milizia jihadista che stanno distruggendo la Libia e il suo popolo. Un governo virtuale ma necessario alla NATO e all’Occidente per poter giustificare il prossimo intervento militare.Due notizie su cui riflettere per capire come hanno ridotto un paese e un popolo che fino a 5 anni fa aveva la più alta aspettativa di vita dell’Africa continentale, 74 anni. Aveva anche il più alto prodotto interno lordo in quel continente (PIL), era al primo posto dell’Indice di sviluppo umano dell’Africa. Oggi la Libia è un paese devastato da una guerra importata dall’esterno e condotta da bande criminali, o fanatiche o al servizio di paesi stranieri. Una guerra dove in soli quattro anni sono stati uccisi, torturati, imprigionati o fatti scomparire centinaia di migliaia di libici; altrettanti hanno dovuto scappare o andare in esilio. Oggi la Libia è un paese in una situazione catastrofica, a detta di esperti e organismi internazionali, in cui non esiste alcuna legge neppure formale. Un Paese dove dei comuni criminali e tagliagole, ciascuno sorretto da bande e milizie proprie, applicano arbitrariamente pratiche spietate e primitive di controllo del territorio e della popolazione, alcuni nascondendosi sotto le spoglie del fanatismo religioso, altri con scopi apertamente predatori. Un paese che fino a quattro anni era fa economicamente in grado di investire nei paesi fratelli africani centinaia di milioni di dollari per infrastrutture e per lo sviluppo di quei popoli. Oggi ogni infrastruttura è demolita, in piedi resta, per ovvi motivi di rapina e saccheggio, solo lo sfruttamento del petrolio. Solo quattro anni fa la Jamahirija stava per inaugurare quella che anche la stampa occidentale aveva definito l’ottava meraviglia del mondo: portare l’acqua desalinizzata del Mediterraneo fino al deserto. Un’opera colossale di migliaia di chilometri, oggi in rovina. Una Libia dove oggi l’ISIS ha ormai messo radici, e rischia di egemoniz-
Saif al IslamGheddafi, dopo l’arresto Nelle parole d’ordine dei comizi e negli striscioni: l’invito alla comunità e organizzazioni internazionali ad impegnarsi per “fermare l’attuazione di queste sentenze ingiuste e illegali, decretate sotto la minaccia delle armi delle milizie che controllano la capitale Tripoli”
zare una parte del popolo libico, ottenendo consensi con un’opera di ristabilimento dell’ordine, seppur tragico e spaventoso. Ma forse qualcuno dovrebbe ricordare che un processo simile era avvenuto anche in Afghanistan, dove i talebani avevano preso il potere in una marcia trionfale attraverso il paese, con il placito della popolazione stanca di bande di criminali e assassini che li vessava e strangolava da anni. Tutto sempre conseguenza di strategie criminali dell’Occidente e del suo braccio armato, la NATO. Non dobbiamo mai dimenticare che la Libia ha riserve di petrolio stimate in 46 miliardi di barili, così come grandi depositi di gas naturale ancora da sfruttare pienamente. Ma la Libia di oggi è anche un fiorire di forme di resistenza e riorganizzazione in tutto il paese, con le sue basi al sud dove, la “Resistenza Verde”, quella cioè formata da spezzoni del vecchio esercito popolare, unito alle tribù Tuareg, controlla intere aree e prepara una guerriglia per la riconquista del paese, vantando il sostegno fondamentale delle maggiori tribù libiche,
estranee finora al bagno di sangue ed al saccheggio del paese e al fanatismo religioso. Ricordiamoci che l’architettura della Jamahirija (la Repubblica Popolare Araba Socialista) più che una forma di stato-nazione è stata una nazione tribale, che affidava un ruolo fondamentale sia politico che economico alle tribù. Scelta che ha garantito un equilibrio e uno sviluppo del paese per
oltre 40 anni. Saif al Islam Gheddafi e altre decine di esponenti del legittimo governo libico, dopo anni di torture sono stati recentemente condannati a morte da un tribunale di Tripoli, un tribunale non riconosciuto a livello internazionale, che fa riferimento ad un governo oltretutto in guerra con un altro governo, anch’esso non riconosciuto da nessuno. Un processo
Bani Walid, bloccate le strade da libici con veicoli e fucili automatici, in una manifestazione che respinge la decisione di condanna a morte del tribunale illegale contro i dirigenti della Jamahirija
farsa in cui gli accusati non presenziavano e non potevano difendersi dalle accuse e dalle incriminazioni. Un processo in cui 32 funzionari dell’epoca di Gheddafi sono stati condannati per reati commessi nel corso della guerra del 2011, con gravi violazioni della concezione internazionale di giusto processo, come anche Human Rights Watch ha dichiarato. “Questo processo è stata caratterizzato da attendibili e persistenti accuse di violazioni del concetto di “giusto processo”, che garantisca una procedura giurisdizionale indipendente e imparziale. La crisi politica in corso in Libia, insieme al generale deterioramento delle condizioni di sicurezza, mette in discussione la capacità dei giudici di giudicare il caso in modo indipendente e imparziale. Ci sono seri dubbi sul fatto che i giudici e i pubblici ministeri possono essere veramente indipendenti in un Paese dove prevale la totale anarchia e alcuni gruppi sono spudoratamente esterni alla giustizia. Si è tenuto questo processo nel bel mezzo di un conflitto armato e in un paese diviso dalla guerra, dove l’impunità è diventata la norma”, ha affermato Joe Stork,
vice direttore per il Medio Oriente e Nord Africa di Human Rights Watch. Anche il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle detenzioni arbitrarie ha stabilito nel novembre 2013, che la detenzione di Al Saif Gheddafi è stata arbitraria e che la gravità delle violazioni ha reso impossibile garantirgli un processo equo in Libia, e che avrebbe dovuto essere quindi liberato. Da tempo si ventila, per cercare una via d’uscita da questa situazione aggrovigliata tragicamente su se stessa, l’ipotesi di un’amnistia per tutti gli arrestati del vecchio governo. Le fazioni di Bengasi sembra lo abbiano già deciso, questa voce nel paese ha provocato in molte città manifestazioni nelle strade per sostenere questa ipotesi, manifestazioni in cui nuovamente la bandiera verde simbolo della Jamahirija e ritratti di Gheddafi, sono esibiti pubblicamente. Mentre il popolo libico torna a lottare e manifestare, i responsabili del rovesciamento di Gheddafi e della distruzione del paese (che sono gli stessi che oggi continuano a fornire sostegno a coloro che tentano il rovesciamento del governo costituzionale della Siria) restano impuniti. Ora si sono inventati la nascita di un “governo unito libico” con personaggi usciti da agenzie pubblicitarie o uffici dei servizi di sicurezza occidentali, dai quali vengono stipendiati e protetti. Nessuna fazione o banda criminale consistente, che oggi è presente nel tragico scenario libico, ha riconosciuto quanto pubblicizzato sui media internazionali occidentali, ribadendo che esso non rappresenta niente. Ma è evidente che questo passaggio era necessario alla cosiddetta comunità internazionale (leggi NATO), per pianificare le prossime mosse militari per l’occupazione del territorio libico, o perlomeno delle aree fornite di petrolio e gas. “La NATO e i ribelli hanno entrambi fretta e vorrebbero finire questa storia il più presto possibile perché hanno fame, sono stanchi e vogliono dividersi la torta. Per loro la Libia è come un fast food, come un McDonald, perché vogliono che tutto diventi veloce: una guerra rapida, compagnie aeree rapide, proiettili veloci, vittoria veloce. Ma io sono molto paziente, perché questo è il nostro Paese, e ho fiducia nel nostro popolo”. Saif al-Islam Gheddafi. Gennaio 2016
Anch’io sono stata una rifugiata (Intervista-articolo di Cristina S.Barbarroja, giornalista, pubblicata su Publico. es il 17.9.2015)
Questa è una storia vera di tanti anni fa, la storia di una bambina migrante – che fuggiva anch’essa da una guerra, quella civile spagnola - cui, grazie alla solidarietà internazionale dei paesi socialisti, è stato permesso di vivere, crescere, studiare, lavorare, realizzarsi come essere umano. È una storia, invece, negata a migliaia di bambini che muoiono nel tentativo di ‘diventare grandi’. Perché se il piccolo Aylan, morto su una spiaggia, ha ‘commosso’ il mondo, lo stesso mondo dimentica che ogni giorno migliaia di bambini muoiono – chi di fame, chi di bombe, chi di miseria, chi di malattie curabili con pochi centesimi. È questo il mondo che vogliamo?
“Mi è rimasta fissa in testa l’immagine di quel bambino che le onde hanno portato sulla spiaggia. Perché i bambini non hanno mai cominciato una guerra e sono quelli che la patiscono di più. Quello che succede… non lo capisco. Mi si spezza il cuore”. Perché la storia di Aracieli Ruíz Toribios (Palencia, 1924) poteva essere come quella di Aylan. Salvo che lei trovò un solo ostacolo nella sua fuga dalla guerra e dal terrore: la nave fascista che, nel 1937, a cannonate cercò di evitare che 1.100 bambini spagnoli salpassero verso l’URSS. “Ogni volta che lo ricordo, mi vengono i brividi” si commuove Aracieli mentre si dispone a condividere una storia che ha scolpito nella mente. “Non riesco, è stata una vita a volte molto difficile”.
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E’ quasi il copione di un film che comincia e finisce a Gijòn, ma che passa tra l’Unione Sovietica della II Guerra Mondiale e la Cuba della Rivoluzione o della crisi dei missili. “Mio padre era in carcere. Mia madre, madre di sei figli, moriva di dolore quando le bombe cominciarono a cadere su Gijòn. Voleva darci una vita migliore e, quando seppe che l’URSS avrebbe accolto 3.000 bambini spagnoli, non ebbe dubbi e ci mise in lista”. La prima scena del film di Aracieli è una nave vicina al porto di El Musel, dove le deputazioni di Leòn e Asturie avevano concentrato centinaia di bambini in attesa che la loro nave potesse partire. Tra i piccoli, Águeda, Conchita, Aracieli e Angelines, quattro delle sei sorelle Ruìz. “Puoi immaginarti
com’era; tutti i bambini che piangevano. La maggior parte erano figli di minatori. E così restammo là alcuni giorni aspettando, perché il Cervera, l’incrociatore di Franco ancorato davanti al porto, minacciava di affondarci”. A luci spente, alle 11 di sera della notte del 23 settembre 1937, dopo essere rimasta ammucchiata con gli altri nella bottega di un carbonaio, Aracieli partì per una traversata di dieci giorni, con scali in Francia e nel Regno Unito, e un felice arrivo a Leningrado. Aracieli sorride quando ricorda come li accolsero: “Qui eravamo i figli bastardi dei repubblicani. Là, San Pietroburgo era tutta a riceverci con striscioni che dicevano “Benvenuti i figli dell’eroico popolo spagnolo”.
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8 marzo: giornata internazionale della donna Un racconto-testimonianza, semplice, intimo, commovente, sull’emancipazione di una donna proletaria e sulla sua presa di coscienza politica
Adriana Chiaia Il tradizionale ramo di mimose, omaggio alle mogli, alle fidanzate, alle madri, fiorisce perfino sulle scrivanie dei dipendenti “gentile attenzione dei principali”. Nell’occasione, nella piccola, media e perfino nell’alta borghesia si ricordano e si rilanciano le lotte per il raggiungimento della parità con gli uomini nel lavoro e in politica. Noi per onorare questa ricorrenza pubblichiamo il racconto di Quien, la vedova di Nguien Van Troi, un racconto-testimonianza, semplice, intimo, commovente, sull’emancipazione di una donna proletaria, sulla sua presa di coscienza politica. Il primo passo compiuto da Quien è traumatico. Quella domenica mattina Quien sperava che Troi l’avrebbe accompagnata in visita ai parenti, come si usa nel Nord, per presentare la nuova coppia: Quien e Troi si erano sposati soltanto da venti giorni. Nell’attesa Quien rifletteva sul comportamento di suo marito nell’ultimo periodo. Troi si assentava spesso di sera e, quando andavano a trovare degli amici, gli uomini si sedevano nel patio e muovevano dei sassolini, come se giocassero a dama o a scacchi. Non che Troi non avesse nei suoi confronti le stesse premure di un tempo: andava ad attingere l’acqua alla fontana e le portava in casa i pesanti secchi. Quando era stata malata si era seduto al suo capezzale per ninnarla con delle canzoni. Quelle riflessioni furono brutalmente interrotte dall’irruzione di una squadra di poliziotti che trascinavano Troi, irriconoscibile, ferito, sanguinante. “Quien, mi hanno preso!”. I poliziotti presero a picchiare e a torturare con l’elettricità Troi domandandogli dove nascondeva l’esplosivo. Intanto la perquisizione nel patio non dava alcun risultato. I poliziotti continuavano a picchiare ripetendo la domanda: “Dove nascondi l’esplosivo?”. Troi rispose: “Se volete trovare dell’esplosivo andate dagli Americani”. I poliziotti continuarono a picchiarlo e a un certo punto passarono a un’altra tecnica. Il capo disse: “Ecco una bella casa, una moglie carina e tu ascolti i Vietcong”. Troi rispose: “Io non sono come voi, non posso vivere sotto l’occupazione degli Americani che umiliano e uccidono il mio popolo”. Quien aveva tentato di raggiungere Troi ma le era stato impedito di muoversi. I poliziotti trascinarono Troi verso la porta e Quien, malgrado tentassero di impedirglielo, gridò: “Troi ti amo e sarò sempre con te”. In quel grido c’erano l’amore, il rimorso e la volontà di impegnarsi nella difesa di Troi. Questo fu il primo passo della presa di coscienza di Quien. Il secondo passo fu quando il capo della polizia la fece chiamare al commissariato e, esibendo un ritratto della coppia nel giorno del matrimonio, tentò la corruzione, disse: “Se lei convincerà Troi a dire la verità lo lasceremo subito libero, altrimenti tenteremo anche con lei altri metodi”. La condusse nella stanza dove i sospetti complici di Troi venivano selvaggiamente torturati malgrado Troi si fosse assunto l’intera responsabilità dell’azione. Quien disse: “Io non so niente dell’attività di mio marito, quello che so è che voglio incontrarlo. Fatemelo vedere!”. Il commissario rispose: “Suo marito, appena arrestato, si è buttato dalla finestra tentando di fuggire, è caduto su una macchina in corsa e si è fratturato una gamba. Adesso è ricoverato nell’ospedale della prigione”. Quien gridò: “Voi mentite, lo avete picchiato e rinchiuso in carcere”. Quando tornò a casa Quien si rese conto che non era più libera. Fu anche lei arrestata e mandata nel carcere femminile. Questa fu la seconda tappa della presa di coscienza di Quien. Quando nel carcere si sparse la notizia che l’arrestata era la moglie di Troi, da tutte le celle arrivò a Quien un segno di solidarietà e così cominciò la terza tappa della sua presa di coscienza: furono gli insegnamenti che le venivano dalle compagne di cella. Quando una di loro tornava da una seduta di tortura con le dita sanguinanti perché le avevano strappato le unghie, finalmente poteva piangere nelle braccia delle altre compagne, ma davanti agli aguzzini non aveva versato una sola lacrima. Le compagne di cella educarono Quien: le raccontavano tutti gli episodi di lotta del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam del Sud contro gli Americani, le insegnarono a cantare canzoni rivoluzionarie e perché usasse bene il suo tempo le insegnarono a ricamare. Un episodio felice fu l’arrivo nel carcere, dove era stato rinchiuso insieme a sua nonna, di un bambino di due o tre anni la cui madre era detenuta in un carcere speciale. Il bambino raccontò come Troi avesse avuto cura
“Proprio, proprio come adesso in Ungheria o in Macedonia – ironizza quando ricorda l’affetto, l’amabilità e le condizioni con cui furono accolti i 3.000 piccoli spagnoli che avrebbero dovuto passare alcuni mesi in Unione Sovietica, e che ci rimasero – come nel caso di Aracieli – più di 40 anni. “A Leningrado c’erano nove case per bambini. Io dormivo nella numero 4. Era tutto pulitissimo. Mangiavamo alle ore giuste. Studiavamo con maestri spagnoli e un poco di russo. Pensa a cosa ha fatto l’Unione Sovietica: siccome ci mancavano i manuali scolastici, fece tradurre i libri per noi. Proprio proprio come adesso…”, ripete.
Un’altra fuga dal fascismo
Tra la scuola, i giochi con le slitte, le visite al teatro e molte lacrime contagiose di nostalgia, l’infanzia e l’adolescenza della ragazzina di Palencia passarono, interrotte di nuovo da un’altra guerra: “Sembrava che i conflitti ci perseguitassero e quello che si avvicinava era molto peggio!” esclama. L’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania nazista nel 1941 implicò un nuovo addio e un altro lungo esodo per Aracieli. “Io volevo continuare a studiare e mi portaro-
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di lui, lo lavasse, gli portasse dei dolci e Quien imparò l’importanza che Troi aveva dato ai rapporti con i vicini. Infatti in un paese occupato, pieno di spie era importantissimo stabilire dei rapporti di amicizia con i vicini di cui ci si poteva fidare. Quien fu liberata e ottenne un colloquio con Troi in ospedale. Prima di entrare comprò della frutta all’ingresso del carcere. Troi fu portato al colloquio sorretto da altri due carcerati. Appena la vide, chiese a Quien se anche lei fosse stata picchiata e soprattutto notizie di come procedevano le azioni del Fronte. Gli sbirri interrompevano questi colloqui ma Troi per distrarli chiedeva delle altre persone della famiglia, di come stessero, di come sua madre aveva preso la notizia del suo arresto. *** In tutto il Vietnam occupato regnavano la miseria e la fame, non era possibile trovare un qualsiasi lavoro. Troi, contro il parere dei suoi familiari che lo supplicavano di restare, decise di emigrare e di andare a cercare lavoro a Saigon. Tramite un parente riuscì a trovare lavoro presso un’impresa di elettricità. Dopo poco tempo entrò a far parte di una cellula del Partito dei lavoratori del Vietnam appartenente al Fronte di Liberazione. Nell’organizzazione Troi, oltre che all’uso delle armi e degli esplosivi, ebbe le prime nozioni di politica ed economia marxista. Un compagno gli chiese: “Troi tu lavori in un’impresa elettrica, c’è l’elettricità nella tua casa?”. Troi rispose: “No, noi usiamo lampade a petrolio”. “Vedi?” aggiunse il compagno “tu produci l’elettricità e non puoi usufruirne mentre i tuoi sfruttatori possono illuminare anche la cuccia del cane”. E proseguì “Tu lavori un determinato numero di ore e una parte serve a sostenere te e i tuoi familiari, cioè a riprodurre la forza lavoro, è quello che si chiama lavoro necessario; l’altra parte serve ad aumentare il capitale e si chiama super lavoro”. Troi comprese l’importanza della lotta per le otto ore di lavoro, mentre i padroni facevano di tutto per prolungare la giornata lavorativa fino a dodici-quattordici ore. *** Quien lavorava in un’azienda tessile anche per dodici-quattordici ore al giorno: doveva ripagare i debiti accumulati per il matrimonio. Intanto Troi era stato trasferito dall’ospedale alla prigione di massima sicurezza dei condannati a morte: segno di una sentenza già decisa. Dopo un processo-farsa in cui Troi era stato accusato di aver tentato di minare il ponte sul quale doveva passare il Segretario di Stato alla difesa USA MacNamara in visita al Vietnam, Troi che aveva rivendicato l’azione era stato condannato a morte. La nonna del bambino trasmise a Quien tutte quelle modalità per chiedere i permessi per visitare i detenuti politici che la sua lunga vita le aveva insegnato. I poliziotti le chiedevano: “Perché consumi i tuoi giorni per visitare tua figlia che è in un carcere speciale?”. “Io l’ho messa al mondo e ho il dovere di occuparmi di lei”. La nuova tappa di Quien fu quella di condividere l’esperienza dei familiari dei detenuti politici e le condizioni in cui tali colloqui si svolgevano. Malgrado le difficoltà nei colloqui, Troi cercava di educare Quien e di indurla a partecipare alla lotta del Fronte Nazionale di Liberazione; le spiegava il perché lui che odiava la menzogna era stato costretto a mentirle: la clandestinità ha regole ferree, la più piccola indiscrezione può pregiudicare la sicurezza di tutta l’organizzazione. Quien rispondeva: “Vorrei partecipare a questa lotta, ma ho paura che i compagni non si fidino di me”. Troi la rassicurò dicendole: “Non ti preoccupare, io tenterò ancora di fuggire ma se un giorno il governo dovesse decidere di uccidermi, i compagni non ti abbandoneranno”. Un giorno Quien si presentò per il colloquio e il poliziotto le disse: “Oggi non è possibile perché alcuni membri del governo hanno deciso di visitare la prigione. Torna un altro giorno”. In quel momento Quien vide che veniva introdotta nel carcere una bara e pensò: “Ecco un’altra vittima dell’oppressione degli USA”. *** Improvvisamente, veloce come un fulmine, in tutto il Vietnam si diffuse una notizia. Le forze di liberazione del Venezuela, FALN avevano rapito il colonnello Smolen dello Stato Maggiore USA di stanza nel loro paese ed avevano decretato: “Se viene fucilato Nguien Van Troi, un’ora dopo uccideremo l’ostaggio”. Gli USA ordinarono al governo fantoccio di Saigon di sospendere l’esecuzione e già dappertutto si prospettavano le modalità di uno scambio di prigionieri.
no a Odessa, dove mi separarono dalle mie sorelle. Ma lo stesso giorno in cui cominciò la 2° guerra mondiale in URSS, Odessa fu bombardata e ci evacuarono di nuovo”. Lei navigò per i mari Nero e Caspio, attraversò il deserto dell’Asia Centrale fino a Samarcanda, quasi al confine dell’Afganistan. La bimba dovette imparare un’altra lingua, l’uzbeko. Soffrì la fame. Lavorò duramente nei campi di cotone come mano d’opera bellica. “Noi, ragazzi della guerra, fummo messi in una fabbrica per la costruzione di aerei. A 17 anni saldavo gli scheletri, finchè una compagna si scottò e ci misero ai torni”. Quattro anni di penuria che ebbero fine quando, il 9 maggio 1945 – non dimentica una data – le autorità decisero di riunire di nuovo gli spagnoli evacuati. Aracieli rincontrò nuovamente le sue sorelle a Mosca; riprese gli studi che la trasformarono in ingegnere economista delle ferrovie e in funzionaria del Ministero delle Finanze russo. E a Mosca si innamorò. “Volevo sposarmi con uno spagnolo, bello o brutto che fosse, perché pensavo ancora di tornare in Spagna e pensavo anche ‘se mi sposo un russo, rimango qui’. Alla fine mi sposai con il figlio di un minatore di Sama de Langreo: Laureano Fernàndez che, oltretutto, era molto bello”, ride.
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Quien, pazza di gioia, aveva osservato, dando inconsapevolmente una definizione di internazionalismo proletario, “Io non so dove si trova il Venezuela, se è un paese grande o piccolo, quello che so è che lotta come noi contro gli Americani”. Purtroppo, quando le FALN, secondo gli impegni presi con gli USA, liberarono Smolen, il governo fantoccio non mantenne la parola data e confermò la sentenza di morte di Troi. Allora Quien, in preda all’angoscia, fece quello che Troi le aveva sempre detto essere inutile, cioè pagare un avvocato per la sua liberazione. Raccolse tutto il denaro che possedeva e lo portò a un avvocato che disse: “Impossibile, se ci fossero novità mi avrebbero avvisato”; poi prese il telefono, parlò brevemente e disse: “Purtroppo un’ora fa Troi è stato fucilato”. Quien cercò disperatamente di sapere dove lo avevano seppellito. Prese un taxi e cominciò a girare tutti i cimiteri di Saigon senza trovare niente. Alla fine della giornata il taxista le propose di pagare solamente la metà della corsa perché potesse continuare la ricerca il giorno dopo dandole così un altro esempio di solidarietà proletaria. Quando infine fu individuata la tomba cominciò ad arrivare in pellegrinaggio gente che portava candele e fiori. La madre di Troi chiese che si proclamassero sette settimane di preghiera in suo onore. Dalla chiesa buddista fu indetta una cerimonia in ricordo di Troi. Sulla porta della chiesa fu affisso il seguente avviso: “Il 22 ottobre 1964, alle sette della sera inizieremo le preghiere per l’anima di Nguyen Van Troi. Invitiamo tutti i fedeli a partecipare”. Malgrado i poliziotti sperassero che alla cerimonia non andasse nessuno, i vicini vennero numerosi con fiori e candele. Quien fu avvicinata da una ragazza che le consegnò una busta. Quando rientrò a casa chiuse porte e finestre e aprì la busta che conteneva una lettera. Era la lettera di una compagna clandestina che aveva conosciuto in carcere. Lesse: “La morte di Troi è stata onorata da tutti i compagni. Nello stesso cortile in cui fu fucilato Troi è stato eretto un piccolo monumento in suo ricordo. Sulle arcate dei ponti appaiono scritte inneggianti a Nguien Van Troi. Nuove leve di giovani rivoluzionari entrano nel Partito e nel Fronte con la parola d’ordine ‘essere come lui’. Il Partito e il Fronte lo hanno insignito delle massime onorificenze”. La lettera concludeva: “Ricordati quello che Van Troi ti ha raccomandato e raggiungi le file del Fronte Nazionale di Liberazione del Sud Vietnam”. Quien capì che non poteva rimanere nel Sud perché era continuamente perseguitata e raggiunse il Nord. Lì, con l’aiuto dei compagni, malgrado i bombardamenti mediante i quali gli USA tentavano invano di spegnere l’attività del Sud, fu pubblicato il racconto-testimonianza di cui abbiamo parlato all’inizio. Il suo testo è stato tradotto in tutte le lingue. Noi abbiamo scelto di tradurlo in italiano dallo spagnolo (traduzione di Lucio Bilangione) per celebrare una doppia vittoria: quella della cacciata degli americani dal Vietnam e quella della Baia dei Porci dove in sole 72 ore i patrioti cubani, con il rinforzo dell’Armata Rossa, riuscirono a ricacciare in mare gli invasori impedendo così che una loro testa di ponte in terra cubana rappresentasse il governo “legittimo” e quindi giustificasse l’intervento della flotta americana. Milano, 1° marzo 2016
Rivoluzionaria spagnola a Cuba
E qui bisognerebbe dire che, se la coppia visse felice nella capitale dell’URSS, il nomadismo perseguitò Aracieli fino alla pensione. Con lo scoppio della Rivoluzione cubana e lo sbarco dell’esercito russo sull’isola, l’Unione Sovietica aveva bisogno di traduttori. E là andò la famiglia Fernàndez; nella località cubana di Pinar del Rio, dove Aracieli si incaricò di tradurre le comunicazioni dei carristi. “Quando nel ’62 scoppiò la crisi dei missili, conobbi il Che. Il Comandante era sceso dalla Sierra. Era un uomo fuori dal comune: intelligente, umano, caritatevole… E oltretutto era bellissimo!”. Racconta Aracieli che quando si incontrarono, Ernesto Che Guevara si interessò alla storia dei Bambini della Guerra. “Mi chiese dei miei genitori. Io gli raccontai che erano quasi trent’anni che non li vedevo, che non sapevo nulla di loro. E lui mi rispose: “Ma Cuba non ha rotto le relazioni con la Spagna”. Nel giro di una settimana i miei genitori erano all’Avana”. Aracieli era incinta del suo secondo figlio quanto tornò a vedere i suoi genitori nell’aeroporto Josè Martì. “Mio padre aveva 76 anni, mia madre 71. E io, a vederli scendere dalla scaletta dell’aereo, riuscivo solo a piangere. Era passato tanto tempo”. Con essi rimase quattro mesi, e
altri quattro anni all’Avana. Poi tornò nella capitale russa, dove lavorò a Radio Mosca fino al pensionamento. “Mio marito ed io tornammo in Spagna nel ’69, in vacanza. Ma la polizia franchista non ci lasciava in pace. Ci interrogavano sul nostro passato in Russia e a Cuba. Così ci facemmo sopra una croce e decidemmo che, finchè Franco non fosse morto, non saremmo tornati in Spagna”. Con la sfortuna che il marito di Aracieli morì due soli mesi prima del dittatore. Laureano non potè vedere compiuto il suo desiderio. E la ragazza di Palencia tornò da sola alla sua Gijòn di adozione. Oggi è un’istituzione nelle Asturie: presidente dell’Associazione Bambini della Guerra. Dei 1.100 che quel 23 settembre del 1937 partirono da Gijòn, oggi ne sono rimasti appena trenta. Ma tra qualche giorno torneranno a riunirsi davanti al monumento eretto vicino al El Musel, da dove salpò quella nave da carico diretta a Leningrado. “Perché, come disse Giulio Cesare – esclama Aracieli – l’unione fa la forza. E dobbiamo essere uniti, anche nella solidarietà con quelli che oggi hanno bisogno di un paese, emigranti ed esiliati come lo sono stata io”. traduzione di Daniela Trollio
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lettere
La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo
Sulla laicità dello Stato Il rapporto tra religione e Stato nei paesi cosiddetti a “democrazia occidentale” (che da marxista mi sembra più corretto definire come “democrazie” borghesi) è caratterizzato da forme di privilegio nei confronti delle religioni dominanti nei rispettivi paesi, che discriminano l’agnosticismo e l’ateismo. Tali privilegi concessi dallo Stato alle religioni variano in qualità e quantità da un paese all’altro, ma hanno, a mio parere un’unica spiegazione storica: contribuire con l’oppio spirituale della religione ad annebbiare il cervello del popolo affinchè risulti più facile illuderlo con una “democrazia” formale mentre lo si domina con una dittatura sostanziale. In Italia questi privilegi concessi dallo Stato alla religione cattolica sono i più marcati ed esosi di tutto l’occidente ed hanno una precisa e facilmente intuibile ragione storica nella perniciosa presenza a Roma dello stato Vaticano. In sintesi basta un esame di tutti i cambiamenti storici che hanno portato un qualsiasi progresso ed hanno eroso privilegi di classe per trovare la chiesa cattolica schierata contro di essi, dalla parte della reazione. Per questa peculiare caratteristica del nostro paese la lotta per la laicità dello stato italiano necessità di impegno e di adeguata considerazione. Non solo da parte dei marxisti che considerano la religione strumento del dominio di classe, non solo da parte dei progressisti di qualsiasi tendenza filosofica che rivendicano il primato della scienza e della razionalità, ma anche dei cattolici che non intendano imporre le loro credenze religiose e vogliano lasciare la più ampia libertà di pensiero, rifiutando qualsiasi privilegio di per se stesso discriminante nei confronti di chi cattolico non è.
La nostra Costituzione nata dalla Resistenza antifascista sancisce in modo inequivocabile la più ampia libertà di pensiero e di fede; ma rimandando a un trattato tra due stati sovrani, l’Italia e il Vaticano, il regolamento dei rapporti tra stato e chiesa cattolica mette su un terreno privilegiato quest’ultima religione, sia nei confronti delle altre religioni, sia, soprattutto, di chi è ateo o agnostico. Dobbiamo lottare per il superamento di questa palese incoerenza della nostra legge fondamentale basandoci, allo stesso tempo, sui principi di libertà che sono espressi nella Costituzione stessa. Dobbiamo ricordare alle masse popolari i privilegi esosi goduti dalle gerarchie ecclesiastiche: esenzioni dalla tassazione sugli immobili della chiesa che è il maggiore proprietario immobiliare del nostro paese, insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali con annessa selezione dei relativi insegnanti lasciata la completa decisionalità dei vescovi, erogazione da parte dello stato italiano di cifre astronomiche alla gerarchia ecclesiastica, mettendo in questo modo la chiesa cattolica in grado di gestire in regime pressoché di monopolio opere di “carità” ed assistenza con precise e visibili impostazioni di parte che si sostanziano in sfacciata propaganda religiosa. Proprio queste organizzazioni assistenziali rese possibili dalle tasse dei cittadini contribuiscono a far passare il luogo comune che lo stato non è in grado di assistere i più bisognosi e che solo la chiesa cattolica riesce a farlo. Mai, come in questo caso, è più giusto affermare che è facile fare il generoso con i soldi degli altri! Orlando Simoncini Castelfiorentino
LINGUA BIFORCUTA Sul sito Osservatorio Balcani Caucaso, finanziato dalla Commissione Europea, Rodolfo Toè ci spiega che agli “studenti bosgnacchi (bosniaco musulmani) della Republika Srpska (RS) “sarebbe negato il “diritto” di riferirsi alla propria lingua come “lingua bosniaca” anziché, per l’appunto, “bosgnacca”. “Parlare di “lingua bosgnacca”... significa in un certo senso negare l’esistenza di un territorio culturale e linguistico comune a tutta la Bosnia Erzegovina per limitarlo ad un solo gruppo etnico, quello appunto bosgnacco e musulmano”. Rodolfo Toè vuole dare a intendere che quel “territorio culturale e linguistico comune” termina ai confini della Bosnia. E come chiamare allora la lingua parlata dai bosgnacchi del Sangiaccato? O del Kosovo? Noi la chiamiamo SERBOCROATO. Desolé, direbbero i francesi. Fatto sta che, con questa paradossale motivazione sul nome della lingua, viene giustificata la politica di apartheid etnico a scuola (“boicottaggio”), promossa dalle famiglie dei bosgnacchi più oltranzisti con il sostegno dalla Comunità islamica di Nova Kasaba e sulla base di un memorandum sull’educazione stipulato a maggio tra Bosnia Erzegovina e... Turchia (sic!). Questa auto-segregazione scolastica in senso confessionale, che è finanziata dal ministero dell’Istruzione della Federacija e dal Fondo della diaspora bosgnacca in Australia “Bošnjaci”, assomiglia drammaticamente a quella promossa negli anni Novanta dai nazionalisti pan-albanesi di Ibrahim Rugova in Kosovo, che tante tragedie causò per la pacifica convivenza su quel territorio. Italo Slavo Inviato da: “Coord. Naz. per la Jugoslavia” <jugocoord@tiscali.it>
IL MASCHILE NON E NEUTRO L’avvicinarsi dell’8 marzo mi ha fatto venire in mente quante parole ci sono ancora non declinate al femminile. Soprattutto quando ci si riferisce al loro ruolo nel lavoro e nella società. Ad esempio l’uso del genere maschile per i termini che indicano ruoli istituzionali o titoli professionali come ministra, assessora, sindaca, avvocata (che invece noto con piacere che voi utilizzate). C’è chi sostiene siano brutte o addirittura che usare la forma maschile (che non è neutra!) aggiunga prestigio al ruolo o alla professione, allora mi chiedo è possibile che
ancora oggi nel terzo millennio una donna per far valere le sue capacità debba travestirsi da uomo? Ciò è esemplificativo che le donne devono fare ancora tanta strada sia per la parità deidiritti che per il riconoscimento del loro valore e che sia utili coinvolgere gli uomini, sicuramente meno attenti e meno sensibili a questi problemi. È auspicabile l’uso in modo più consapevole della nostra lingua anche in molti altri casi, ma il discorso sarebbe lungo... in particolare da parte dei mass-media che peggiorano giorno dopo giorno. Angela Maria Bianchi Savona
COERENZA Ma a De Magistris qualcuno glielo ha detto? Che il comune di Napoli, in questi tempi di dilagante razzismo, sponsorizzi, a favore dei profughi, la “Giornata dell’accoglienza”, con tanto di concerto a Piazza Municipio, non può che farci tanto piacere. Molto meno considerando che l’evento è curato dalla “Associazione Tre febbraio”, alias “La Comune” che, dopo manifestazioni come queste, continua ad appoggiare i cosiddetti “ribelli siriani” (sulla cui natura, ormai quasi tutti si direbbe abbiano aperto gli occhi) e fomentare una guerra che ha già prodotto 250.000 morti e 6 milioni di profughi. Ma a De Magistris qualcuno glielo ha detto chi sta sponsorizzando con i soldi di noi napoletani? Francesco Santoianni Napoli
Esilio dorato, non per tutti L’imperialismo francese, dopo aver distrutto la Libia, vuole tornarci, ma tiene un piede anche in Siria dove non ha mancato i suoi bombardamenti. Si dice che la Francia rispolveri, per mezzo del segretario generale dei Fratelli Musulmani siriani Riad Chakfi, la carta Abdul Halim Khaddam, che, guarda caso vive in esilio dorato a Parigi e che è l’ex vice-presidente siriano dimessosi dalla carica nel 2005. Ha testimoniato davanti al tribunale speciale per il Libano contro Assad accusandolo di essere dietro la morte dell’ex primo ministro libanese assassinato nel 2005. Ha poi fondato il Fronte della salvezza nazionale siriana, un partito nazionalista di ispirazione islamica. E, si dice, che attraverso la Francia riceva finanziamenti da Stati Uniti e Gran Bretagna per finanziare le sue attività anti Assad. Mentre i siriani che emigrano sono costretti ai peggiori trattamenti. E tutto torna! Franco De Angeli Ancona
nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) Anno XXV n. 1/2016 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info
Come si riduce la salute... Il livello delle nascite non è mai stato così basso dal dopoguerra, ma allo stesso tempo il livello di mortalità non è mai stato così alto. E, nonostante lo sviluppo delle scienze mediche e farmaceutiche la vita in salute si è ridotta di 7 anni. L’accesso alle cure è sempre più messo in discussione dai tagli di fondi (e di personale), dai ticket del nostro Governo che accetta supinamente le politiche europee. Due impietosi dati Istat in un Paese devastato da anni dallo sfruttamento di persone, dalla mancanza di sicurezza del lavoro e sul lavoro e risorse a favore della logica del massimo profitto. E in Italia continua la scelta delle inutili e costose grandi opere che hanno il risvolto di aggiungere nocività ad un territorio già al limite e per la quale pagheranno soprattutto le future generazioni, tanto che già oggi aumenta l’incidenza dei tumori infantili. La salute non è più un diritto, bisogna che chi usufruisce della sanità se ne renda conto e si impegni per difendere una sanità pubblica che rimanga tale e non venga privatizzata per portarci a livello degli Stati Uniti dove solo chi ha l’assicurazione viene curato e si impegni affiché anziché tagliare sulla salute si tagli sulle spese militari. Che, se contuiamo così, verso la guerra saremo tutti più inquinati e... addio alla salute. Gianfranco Betti via email
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