"nuova unità" n. 4/2020. Mentre è in distribuzione il n. 5 pubblichiamo il n. 4 uscito a giugno

Page 1

art. 2 Legge 662/96 filiale di Firenze

Spedizione in abb. postale 70% comma 20/B

Proletari di tutti i paesi unitevi!

nuova unità

Periodico comunista di politica e cultura n. 4/2020 - anno XXIX

fondata nel 1964

Meno cicaleccio politico. Meno ragionamenti intellettualistici. Essere più vicini alla vita. Osservare più attentamente come la massa di operai e contadini costruisce di fatto qualcosa di nuovo nel lavoro quotidiano. Controllare più da vicino fino a che punto questo nuovo abbia un carattere comunista.

Lenin

Fermiamo i progetti della borghesia

Se il movimento operaio - sotto continuo attacco - non si organizza per rovesciare e cambiare il sistema nell’interesse della maggioranza della popolazione, rimarrà schiavo, più o meno moderno, ma sempre schiavo. Farida, un’infermiera francese di 50 anni (asmatica e post Covid19), tra gli eroi in corsia, viene massacrata dalla polizia - scaraventata a terra e trascinata per i capelli - e arrestata perché protesta, a Parigi, durante una manifestazione del personale ospedaliero. Migliaia di infermieri, operatori della sanità e impiegati sono scesi in piazza il 17 giugno per la valorizzazione del loro stipendio e per il riconoscimento del lavoro. Scene che rimandano alla morte dell’afroamericano George Floyd per mano della polizia a Minneapolis. Anche lei, sanguinante per i lacrimogeni ha chiesto il Ventolin perché asmatica e come risposta le hanno tirato i capelli e spinta in una macchina delle forze di polizia in assetto antisommossa che dimostrano non l’abuso della forza, ma la loro fedeltà agli interessi del potere borghese. Giuste proteste e richieste - quelle degli ospedalieri in lotta con scioperi e rivendicazioni contro i tagli nella sanità pubblica - applauditi da finestre e balconi che per tre mesi hanno lavorato dalle 12 alle 14 ore al giorno. Eroi in corsia che ora rischiano di essere dimenticati, e umiliati. Una lotta nel momento giusto - che i sanitari in Italia non sanno cogliere - che pone al centro dell’attenzione la validità del settore sanitario, la difesa di una sanità pubblica ed efficiente, la rivalutazione del salario e il riconoscimento del lavoro degli operatori che non siano solo lodi. In una Francia infiammata da tempo, dopo 8 anni di indagine, arriva il processo a Ikea per aver costituito un sistema di spionaggio illegale: avrebbe organizzato un sistema di spionaggio generalizzato di sindacalisti, salariati, aspiranti impiegati, clienti lamentosi e, sottoposti a particolare sorveglianza (inutile dirlo) erano chi scioperava per ottenere condizioni di salario e di lavoro migliori. Nella maggior parte dei casi le informazioni erano fornite da poliziotti pagati sotto banco, spesso in cambio di mobili o buoni spesa. Le violenze contro i lavoratori non sono solo prerogativa di Francia, Stati Uniti ecc. Basta guardare in casa nostra. Nella notte del 10 giugno cariche violente hanno colpito gli operai in presidio ai cancelli della TNT-FEDEX di Peschiera Borromeo per protestare contro il licenziamento di 66 compagni di lavoro. E dove non arrivano i manganelli arrivano i licenziamenti per infedeltà all’azienda e gli accordi. RSU e vertici sindacali (Fiom, Fim, Uilm) hanno sottoscritto l’ennesimo accordo con Confindustria e la multinazionale Marcegaglia di Ravenna per prolungare la cassintegrazione Covid19 i cui 180 dipendenti sono già in Cig dal 26 di marzo. Nessun riferimento alle varie cooperative in appalto: su 500 solo 50 sono in cig e i loro capi li fanno lavorare a rotazione privi di controllo e sicurezza anche di fronte all’epidemia. Violenza è anche la vicenda Thyssen. Non solo sono morti 7 operai in una fabbrica priva di misure di sicurezza per la voracità dei padroni, ma ai manager condannati per il rogo del 2007 che non sono mai entrati in carcere è stata concessa la semilibertà, cioè il rientro serale ma i week end in famiglia. Ci piacerebbe vedere in quale cella passano la notte! Lo temevano i familiari già nel mese di dicembre quando hanno partecipato all’assemblea organizzata dal CLA (coordinamento lavoratori autonomi per l’unità della classe) a Torino ed ora, giustamente sono sempre più agguerriti, soprattutto le mamme che hanno perso figli in giovane età a causa dello sfruttamento sul lavoro. La strage silenziosa dei morti da e di lavoro continua ma non fa particolarmente notizia, soprattutto se si tratta di stranieri. Una malattia che miete più vittime del coronavirus. Ultimi in ordine di data, il 17 giugno, un operaio romeno di 64 anni, ha perso la vita in un incidente avvenuto in un cantiere stradale

per il rifacimento dell’asfalto a San Felice sul Panaro (MO). Alle 2 di notte del 18 giugno, a Verona, un operaio Rfi di 60 anni che stava lavorando sui cavi della linea ferroviaria che attraversa la zona, muore schiacciato sotto ad una motrice ferroviaria treno. Solo a gennaio ben 52 persone hanno perso la vita in incidenti sul lavoro, dal 5 maggio al 15 maggio i morti passano da 2,21 al giorno a ben 3,82 al giorno con un aumento del 42 per cento. Un dato molto probabilmente influenzato dalle riaperture decise non in sicurezza proprio dopo il 4 maggio. L’offensiva padronale, con la compiacenza dei vertici sindacali concertativi, darà il colpo di grazia agli ultimi rimasti. Dopo la cig si conteranno licenziamenti a catena, lo ha già preannunciato Confindustria, però avanza l’idea della cancellazione delle ferie come se i lavoratori fossero la causa Covid 19, come se la segregazione obbligatoria (spesso in alloggi piccoli e insalubri) fosse la stessa cosa che stare in vacanza, come se non ci avessero rimesso economicamente. “È un obbligo morale non fermare la produzione”, sostiene Enrico Carraro della Confindustria veneta, ipotesi che sta prendendo piede tra le imprese nel Nord, il peggio è che la cancellazione delle ferie per il recupero della produttività - proposta lanciata dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi - non sia respinta dal segretario generale Cgil, Maurizio Landini. In realtà al Nord la produzione non si è mai fermata, proprio per le enormi pressioni di Confindustria, nonostante già a febbraio fosse chiaro il pericolo di contagio di massa, e - se pure tutti i soloni della scienza non lo dicano - le zone a maggior contagio sono state quelle dove la produzione industriale ha continuato. Molti si chiedono cosa succederà in autunno quando cadrà il divieto di licenziamento, anche se nel frattempo è stato più che violato. Quando i fondi UE non arriveranno o saranno spesi male e, dopo la buffonata degli “Stati generali”, rimpinguando le casse delle industrie, come FCA che per battere cassa ridiventa italiana.

continua a pagina 3 Fca licenzia, delocalizza, prende i soldi e scappa pagina 2 Ex Ilva di Taranto: difesa della salute e difesa dell’occupazione Intervista con Stefano Sibilla, operaio in Cassa integrazione e segretario provinciale di FLMUniti pagina 3 Le trappole dello smart working viste da un gruppo di lavoratori, pagina 4 Come Stalin impedì a Churchill di provocare una guerra sovietico-statunitense pagina 6 La prateria brucia. L’uccisione di George Floyd disoccupato afroamericano di 46 anni

pagina 7


nuova unità 4/2020

2

Fca licenzia, delocalizza, prende i soldi e scappa FCA chiede al governo 6,3 miliardi per sostenere “un settore fondamentale per l’industria italiana” Michele Michelino La richiesta di un prestito da parte della multinazionale - che da tempo ha trasferito la sua sede fiscale in Olanda e lasciato le macerie in Italia con decine di miglia di cassintegrati, licenziamenti e fabbriche chiuse - ha immediatamente trovato il sostegno dei sindacati Cgil/ Cisl/Uil e perplessità e polemiche, subito rientrate, da parte di alcuni esponenti dei partiti al governo (PD, Sinistra italiana, LeU), dopo che il Presidente del Consiglio Conte ha affermato: “Richiesta legittima, Fca produce in Italia, dobbiamo creare le condizioni perché torni” . Sfruttare i lavoratori in un Paese e portare le sedi legali in un paradiso fiscale dove il diritto societario, com’è il caso dei Paesi Bassi, è molto semplificato e con una tassazione sugli utili finanziari quasi nulla che assicura che le plusvalenze restino nelle tasche dei padroni delle aziende è una politica in vigore ormai da diversi anni. Tra i primi a farlo è stata la Fiat, che adesso si chiama Fca, che ha portato la sede fiscale in Olanda dal 2014. Poi è stata la volta di MediaForEurope, la nuova holding che ha unito Mediaset italiana e spagnola. Poi tanti altri (comprese industrie di proprietà dello Stato italiano) si sono spostati nei Paesi Bassi: Cementir, del gruppo Caltagirone, Eni, Enel, Exor, Ferrero, Prysmian, Saipem, Telecom Italia, Illy, Luxottica Group e molte altri come i giganti del web Amazon, Microsoft, Facebook, Alibaba, Apple, con sedi legali nei paesi a fiscalità agevolata come Irlanda e Lussemburgo in Europa. Anche Aspi - quella del crollo del ponte di Genova, responsabile della morte delle 43 vittime - di proprietà della famiglia Benetton ha chiesto il prestito agevolato dichiarando che se non le viene concesso qualche miliardo di euro, non farà gli investimenti. UNITED COLORS OF OFFSHORE – Benetton che battono cassa (lo ricordiamo per chi legge) pagano le tasse in Italia solo dal 2012 quando patteggiarono con il fisco il trasferimento della sede dell’holding “Sintonia” dal Lussemburgo in Italia dopo un lungo contenzioso con il fisco Italiano. L’indagine si è chiusa nel 2012 con un patteggiamento: l’Agenzia delle entrate ha rinunciato a contestare i conteggi degli utili dichiarati in Lussemburgo, quantificati da “Sintonia” in 50 milioni di euro. In cambio, il gruppo Benetton ha pagato 12 milioni e ha trasferito la holding dal Lussemburgo a Milano. Ormai tutte le multinazionali e i padroni, in base alle disposizioni del Decreto liquidità che stabilisce l’ammontare della linea di credito pari al 25% del fatturato, chiedono soldi pubblici mentre continuano a intascare privatamente i profitti. Per quanto riguarda FCA, il consolidato delle società industriali del gruppo in Italia è di 6,3 miliardi. FCA in una nota alla stampa e al governo spiega che “l’innovativo accordo riconoscerebbe il ruolo del settore automobilistico nazionale, di cui FCA, insieme ai fornitori e ai partner è il fulcro, nella ripartenza del sistema industriale italiano”. La famiglia Agnelli e soci giustificano la richiesta del prestito ricordando al governo che la società impiega in maniera diretta 55.000 persone in 16 stabilimenti produttivi e 26 poli dedicati alla Ricerca e Sviluppo. Inoltre, “più di 200.000 posti di lavoro nelle 5.500 società fornitrici italiane altamente specializzate, sono direttamente legati al successo della continuità operativa della società. Altri 120.000 posti di lavoro in 12.000 impre-

se di tutte le dimensioni sono coinvolti nei concessionari e nell’assistenza ai clienti a supporto dell’industria automobilistica italiana. Inoltre, il 40% del fatturato annuale dal settore italiano della componentistica automotive - pari a 50 miliardi di euro - deriva dalle commesse di Fca”. Non c’è che dire: una minaccia neppure troppo velata che prevede, in caso di risposta negativa, gravi conseguenze sull’occupazione nelle fabbriche in Italia. Ricordiamo solamente che FCA - che oggi chiede il prestito agevolato di miliardi di euro dallo stato italiano - è la stessa società che solo l’anno scorso ha distribuito 2 miliardi di euro agli azionisti per la vendita della Marelli, e che nelle casse del gruppo sono entrati altri 4 miliardi e duecento milioni derivanti anch’essi da tale vendita. FCA è la stessa che, in piena pandemia, con la fusione con Peugeot distribuirà agli azionisti 5 miliardi e cinquecento milioni di euro di dividendi. Apprendiamo, inoltre, dalla stampa che quest’anno “regalerà” con il dividendo 1 miliardo e cento milioni di euro agli azionisti; si stima poi che FCA abbia circa 18 miliardi di liquidità in cassa.

Senza scrupoli La questione è che i padroni pensano solo ai soldi e sono senza scrupoli, e queste sanguisughe di FCA, in particolare, sono tra i più voraci. Cos’ mentre gli azionisti ingrassano sullo sfruttamento e sulla pelle degli operai, questi – con salari da fame - sono costretti a vivere a livello di sussistenza. Prendi i soldi e scappa è ormai diventata la costante di tutte le multinazionali. Soldi agli azionisti derivanti dallo sfruttamento operaio e prestiti agevolati dallo Stato, miseria per i lavoratori con decine di migliaia in cassa integrazione e salari da fame appena sopra il reddito di cittadinanza, dopo che sono stati per decenni spremuti come limoni. Questa vicenda ha portato allo scoperto (caso mai qualche sprovveduto non l’avesse ancora capito) il ruolo dei sindacalisti di Cgil/ Cisl/Uil, talmente succubi del padrone che quando parlano non si capisce se sono i rappresentanti dei lavoratori o facciano parte del consiglio di amministrazione di FCA. Rivendicando a gran voce aiuti statali per il padrone

di turno, arrivano al punto di arrabbiarsi con il governo perché favorisce la vendita di biciclette al posto delle auto. Al pari dei padroni sostengono la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle perdite. In cambio del loro servizio a favore dei padroni, i dirigenti sindacali collaborazionisti controllando, impedendo e mantenendo al minimo la conflittualità - aiutano i padroni a realizzare il massimo profitto attraverso l’intensificazione dello sfruttamento, ottenendo vantaggi e privilegi che li ammettono nei salotti buoni della borghesia imprenditoriale e ai loro delegati RSU, fedeli all’organizzazione, vantaggi in fabbrica liberandoli dal lavoro della catena di montaggio e trasformandoli in guardiani al pari delle guardie aziendali. Anche in piena emergenza Covid19, la produzione per il profitto non si è fermata, gli operai e i lavoratori hanno continuato a essere sfruttati e a morire sul lavoro e di lavoro, come prima e più di prima. Mentre tutta la popolazione era spaventata dai bollettini di guerra giornalieri degli “esperti” del governo, di scienziati spesso sul libro paga di settori industriali che contavano i morti e i malati costringendoci a restare a casa agli arresti domiciliari, migliaia di operai e lavoratori della sanità sono stati costretti a lavorare e si sono ammalati per mancanza di sicurezza e per mantenere i profitti che si intascano i padroni. La pandemia ha dimostrato così, ancora una volta, la centralità della classe operaia nel processo di produzione, al di là di tutte le chiacchiere sulla scomparsa degli operai. Per quanto sia stata tragica la situazione per l’epidemia Covid19, la società non può fare a meno degli operai, mentre può tranquillamente fare a meno dei padroni. Rubare ai poveri contribuenti (operai, lavoratori e pensionati proletari, e piccola borghesia), ridurre i servizi sociali, sottrarre risorse derivanti dalle tasse dei proletari e delle classi sottomesse al cosiddetto “Stato sociale” per dare soldi ai ricchi borghesi sfruttatori ed evasori è da sempre la costante di tutti i governi dei padroni di qualsiasi colore . I sostenitori del libero mercato, delle privatizzazioni, del “meno Stato più mercato”, che hanno sempre privatizzato i profitti e socializzato le loro perdite dopo aver delocalizzato, spostato produzioni all’estero e le sedi legali

nei paradisi fiscali, mai sazi, oggi rivendicano ancora soldi.

Non basta resistere agli attacchi del capitale La classe operaia, è legata al sistema del lavoro salariato e deve ricordare che nella lotta economico-sindacale lotta contro gli effetti del sistema di sfruttamento, ma non contro le cause che lo producono. Con questa lotta può soltanto difendersi, frenare il movimento discendente dei salari e delle condizioni di lavoro e di vita, ma non mutarne la direzione; essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Per dirla con Marx “essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società”. Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario “Soppressione del sistema del lavoro salariato”. Forti sindacati conflittuali, uniti in un fronte di classe, possono essere efficaci come centri di resistenza contro gli attacchi del capitale, anche se la realtà ha dimostrato spesso la loro inefficienza perché sempre più in concorrenza tra loro invece di unificare le forze. Non dobbiamo mai dimenticare che anche un sindacato di classe, per quanto forte e combattivo sia nella sua lotta, si limita a combattere una guerriglia contro gli effetti del sistema di sfruttamento esistente. Noi operai e militanti comunisti dobbiamo invece lavorare per eliminare le cause dello sfruttamento, per trasformare la forza organizzata in una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l’abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato, ponendoci l’obiettivo di un’organizzazione politica di classe, un partito della classe operaia e proletaria che lotti per il potere, per un sistema socialista in cui lo sfruttamento degli esseri umani sia considerato un crimine contro l’umanità.


nuova unità 4/2020

3

Ex Ilva di Taranto: difesa della salute e difesa dell’occupazione Intervista con Stefano

Eraldo Mattarocci La questione dell’ex Ilva di Taranto, come tutte le situazioni lavorative in cui vengono contrapposti due diritti fondamentali quali il diritto alla salute e il diritto al lavoro, è dirompente. Ed è appunto su questa contraddizione e soprattutto sulla necessità dei lavoratori di portare a casa un salario che si è innestata l’azione padronale e governativa (di tutti i governi che si sono succeduti) e che ha permesso ad uno stabilimento siderurgico ormai obsoleto di continuare a produrre, inquinare e uccidere, utilizzando impianti marcescenti e pericolosi nonostante fossero stati messi sotto sequestro dalla magistratura già nel 2012. Il contributo dato da Fim, Fiom, Uilm e USB nel fare ingoiare ai lavoratori accordi che non tutelano né la salute né i posti di lavoro è stato determinante ed ha creato una spaccatura profonda sia tra i lavoratori e la popolazione, sia tra i lavoratori stessi con una maggioranza subalterna alle scelte padronali e una minoranza critica che ha dichiarato, in maniera forte e chiara, la propria indisponibilità a morire e far morire per poter “vivere”. Ora sembra che si sia arrivati alla resa dei conti perché Arcelor Mittal ha in tutta evidenza deciso di lasciare l’Ilva, dimostrando che quegli accordi, sbandierati come risolutivi sia dal punto di vista occupazionale che da quello ambientale, non valgono la carta su cui sono scritti. L’atteggiamento ambiguo del Governo che da un lato boccia il “nuovo” piano industriale di Arcelor Mittal presentato il 5 giugno scorso, per gli ulteriori esuberi - peraltro largamente previsti da chiunque abbia un minimo di cultura industriale - mentre dall’altro ipotizza una partecipazione dello Stato nell’azionariato dell’ex Ilva ben testimonia non solo il caos in cui le istituzioni si dibattono ma l’impossibilità di rilancio di un impianto che perde oltre 100 milioni di euro al mese. Come avrebbero dovuto sapere anche i burocrati sindacali che hanno cavalcato per anni le illusioni derivate dagli accordi, i padroni rilevano fabbriche, le rilanciano o le chiudono, obbedendo sempre e comunque alla legge economica della ricerca del maggior profitto possibile e all’andamento dei mercati industriale e finanziario. Il settore dell’acciaio attraversava già una crisi di sovrapproduzione al momento dell’acquisto dell’Ilva da parte di Arcelor Mittal, tanto da far pensare che fosse stata fatta proprio

Sibilla, operaio in Cassa integrazione e segretario provinciale di FLMUniti

allo scopo di chiudere ed eliminare un concorrente, ovviamente dopo aver spremuto il massimo dagli impianti. Di sicuro non è un’ipotesi peregrina, a maggior ragione se si considerano le scelte che le altre multinazionali dell’acciaio hanno fatto e stanno facendo in Italia: Thyssenkrupp vuole vendere l’acciaieria Ast di Terni, Jindal non ha mai riavviato lo stabilimento ex Lucchini, l’ultimo alItoforno delle Ferriere di Servola è stato spento da Arvedi. Se a questi elementi aggiungiamo il crollo costante delle quotazioni in Borsa di Arcelor Mittal, in forte crisi di liquidità, comprendiamo in pieno la sua necessità di sganciarsi dalla siderurgia italiana e soprattutto dallo stabilimento di Taranto, l’unico a ciclo integrale, dove la crisi non è solo di carattere economico ma soprattutto industriale, giudiziario, politico e ambientale. In questo panorama, reso ancor più desolante da una massa operaia subalterna e di conseguenza ricattata e ricattabile, spicca la posizione coraggiosa e controcorrente della sezione tarantina di FLMUniti, ben rappresentata dal segretario provinciale Stefano Sibilla, operaio Ilva in Cassa integrazione, al quale abbiamo rivolto alcune domande. nuova unità: Qual è la posizione della FLMUNITI in merito all’accordo firmato dai sindacati confederali con Arcelor Mittal? Stefano Sibilla: In merito alla firma dell’accordo tra Arcelor Mittal e i sindacati confederali è in netto contrasto con la nostra posizione, perché non tutela né salute né occupazione, come dimostra il “nuovo” piano industriale presentato da Arcelor Mittal che annuncia altri 3200 esuberi. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che il processo produttivo del siderurgico di Taranto, soprattutto l’area a caldo, provoca malattie e morte, mettendo in costante pericolo non solo i

lavoratori direttamente esposti ma i cittadini tutti, in particolar modo quelli che abitano a ridosso dello stabilimento, come il quartiere Tamburi. Per chiarire ancora meglio il contesto, è documentato che gli agenti tossici producono non solo un impatto a lungo termine con l’insorgenza di tumori, ma anche un impatto immediato, quali gli infarti che hanno un aumento negli stessi giorni in cui si verificano incrementi di polveri sottili. Sono stati condotti diversi rilievi e studi scientifici, in periodi diversi. Tutti hanno dimostrato che le sostanze cancerogene presenti sono al di sopra dei livelli di pericolosità sia nei terreni che nelle acque sotterranee (mercurio, idrocarburi pesanti, benzoantracene, benzopirene, solfati floruri etc.) oltre ad una contaminazione diffusa in tutto il sito (arsenico, alluminio, cadmio, cobalto, nichel etc.). Quindi a fronte di questi elementi è chiaro che quella fabbrica non è più compatibile con la vita umana. nuova unità: Nell’accordo del 6 settembre 2018, ci sarebbe l’impegno di Arcelor Mittal a bonificare il sito? Stefano Sibilla: Se è per quello c’è anche l’impegno ad ampliare l’occupazione e si è visto giusto ora che invece la stanno riducendo, cosa già chiara all’atto della firma. La bonifica è una farsa, malamente mascherata dalla struttura di copertura dell’area dei parchi minerali (lunga 700 metri, larga 254 ed alta 77), basta guardare le immagini del 4 luglio 2020 durante una tempesta di vento, quello che ha provocato sul quartiere Tamburi e gran parte della città tra polveri di ossido e minerali che si sono depositati anche in mare e terreni, nonostante ci sia la copertura dei parchi. Il sistema adottato dall’azienda è un sistema di emergenza che viene chiamato “pump e trat”e non ha nulla a che fare

dalla prima I disoccupati si aggiungeranno agli attuali e a quelli del settore turismo-ristorazione, le masse popolari dovranno fare i conti con il crescente carovita, un terreno favorevole per il rafforzamento delle forze reazionarie. Che non sono la soluzione, anzi aggraveranno la condizione della vita sociale. Già la segregazione forzata di Covid 19 ha dimostrato la “prova tecnica” di subordinazione e condizionamento sociale nel caso in cui - in seguito alla guerra per l’egemonia mondiale - le varie potenze in campo decidessero di usare armi batteriologiche, anziché quelle tradizionali. Una stangata, inoltre, si riverserà sulle pensioni. Ad essere penalizzate, già dal prossimo anno, saranno quelle considerate dai governanti (ogni parlamentare costa oltre 15mila euro al mese e ogni ministro oltre 20mila, ma non si toccano!) medie-alte, cioè dai 1500 ai 1700 euro al mese che nel triennio perderanno 467 euro e dal 2022 ben 267 euro al mese che aumenteranno con recessione e inflazione. È il modo della borghesia per risolvere la crisi economica che investe tutto il mondo capitalista e non è solo causa Covid19: aumentare lo sfruttamento (anche con vecchie forme di lavoro, in veste moderna) e usare i manganelli dove c’è ribellione pur di salvaguardare i propri profitti, appoggiata dalle priorità dei vari governi. Su tutto incombe il pericolo di guerra. Non si ferma e non si converte l’industria delle armi, anzi si rafforza e aumentano le spese militari non per la difesa, ma da attacco. Nostalgia colonialista? L’Esercito italiano, infatti, nell’ambito del programma di ammodernamento e approvvigionamento di nuovi sistemi d’arma “tecnologicamente avanzati”, sta facendo incetta di missili in Israele.

Molti non sono a conoscenza che sul territorio italiano stazionano 70 testate nucleari (Aviano e Ghedi Torre) che sono in via di sostituzione con modelli più efficaci e che non sono a beneficio della salute, ma il governo non firma, né ratifica il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN) approvato alle Nazioni Unite il 7 luglio 2017. Il nemico è sempre lo stesso, è il sistema capitalista. Lo abbiamo verificato con l’emergenza sanitaria aggravata dai tagli e dal mancato investimento nella prevenzione e nella ricerca. Lo stesso vale per l’ambiente. Le riconversioni “ecologiche” come gli interventi in seguito ai disastri, sempre più frequenti, sono speculative e improntate ad aumentare sempre più i guadagni, non certo per gli interessi dei lavoratori e delle masse popolari. Per questo l’ambiente non si difende con sterili quanto inutili obiettivi sostenuti da monopoli, nobili e vari intellettuali con la coscienza sporca, ma deve essere difeso con una lotta di carattere decisamente anticapitalista. Non basteranno gli scioperi se non saranno generali e nell’unità della classe, e se non produrranno alcun danneggiamento. Fermo restando che, se non si costruisce la risposta allo strapotere della borghesia e dei politici, se il movimento operaio - sotto continuo attacco - non si organizza per rovesciare e cambiare il sistema nell’interesse della maggioranza della popolazione, rimarrà schiavo, più o meno moderno, ma sempre schiavo. Parallelemente i comunisti devono rafforzare l’unità ideologica, politica e d’azione affinché la classe operaia e il proletariato si organizzino con lo strumento essenziale per la propria liberazione dalle catene oppressive e repressive.

con il tipo di bonifica del sito che dovrebbe essere effettuata per risanarlo effettivamente. Il pompaggio riguarda solo le acque di falda superficiali che scorrono sotto i parchi a circa 2 metri, mentre le acque di falda profonde scorrono a 15/20 metri e finiscono nel mar Piccolo e nel mar Grande con danni immensi all’ecosistema e alla mitilicoltura. A fronte dell’inutilità della copertura, per quanto riguarda le altre opere di bonifica, è stato nulla è fatto, anche perché bonificarte significa eliminare le fonti inquinanti ed avviare il processo di bonifica. Altrimenti non ha senso. nuova unità: Molti accusano FLMUniti di essere per la chiusura dello stabilimento, infischiandosene dei problemi occupazionali. Quali sono le vostre proposte? Stefano Sibilla: Noi crediamo che l’alternativa ci sia ma che essa debba passare necessariamente attraverso la chiusura delle fonti inquinanti e alla bonifica del sito, sia degli impianti che dei terreni sottostanti altamente contaminati, utilizzando - dopo un’accurata formazione - i lavoratori dello stabilimento compresi quelli dell’indotto ed ovviamente quelli attualmente in CIG. La tecnologia utilizzata nello stabilimento di Taranto, in maniera particolare nell’area a caldo, è talmente obsoleta e gli impianti sono talmente decotti che non è possibile nessun innesto di nuove tecnologie che pure esistono da tempo (autoproduzione di energia elettrica per alimentare i forni, utilizzo dell’energia al plasma per ridurre le immissioni nocive) e che in altri paesi, ad esempio nello stabilimento siderurgico di Lintz in Austria, vengono utilizzate con un impatto ambientale bassissimo. FLMUniti è un sindacato dell’industria, com’è possibile pensare che non ci poniamo il problema del mantenimento della siderurgia nel nostro Paese? Di sicuro non pensiamo neppure lontanamente di continuare a produrre acciaio utilizzando il carbone, ammesso e non concesso che l’Europa, ormai orientata verso il nuovo business della green economy, ce lo permetta. A tal proposito il nostro sindacato è stato promotore insieme a varie associazioni del territorio di un Piano Taranto, che non è altro che linee guida per la riconversione industriale green del territorio. Queste linee guida sono aperte anche ad altre iniziative a chiunque voglia inserire nuovi progetti per cercare di arrivare con un accordo di programma. nuova unità: A proposito di Europa, ci risulta che un gruppo di lavoratori dell’ex Ilva abbia inoltrato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A che punto è la procedura? Stefano Sibilla: Nel giugno 2017 un gruppo di lavoratori e cittadini patrocinato da FLMUniti con l’aiuto di legali fortemente motivati, si è rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Giusto prima del lockdown dovuto a Covid 19, mi sono recato a Strasburgo, insieme con il segretario nazionale Antonio Ferrari e con Maurizio Puma del Direttivo nazionale, ad una conferenza presso la Corte che ha riservato alle nostre motivazioni una forte attenzione. Stiamo attendendo la pronuncia della Corte confidando nella condanna dello Stato italiano. Di sicuro questa condanna non sarebbe risolutiva, ma rafforzerebbe la posizione del nostro sindacato. Rimane chiaro che la vittoria o la sconfitta non dipendono dai tribunali, europei o nazionali che siano, ma dalla mobilitazione dei lavoratori su obiettivi chiari e condivisi anche dalla popolazione.


nuova unità 4/2020

4

Le trappole dello smart working L’ennesimo strumento ideato dall’impresa per massimizzare i profitti senza dover fare investimenti, innovazione o formazione

da un gruppo di lavoratori Con il favore della crisi sanitaria, che impone scelte radicali, la narrazione liberista prova a descrivere lo smart working come la nuova frontiera del lavoro, densa di opportunità. I benefici possono essere notevoli in molti casi, ma lo sono anche le trappole che nasconde. Si tratta davvero di un trampolino verso il lavoro futuro, o piuttosto di una finestra che può farci riaffacciare pericolosamente sul passato? Si è fatto un gran parlare di smart working da quando l’epidemia Covid-19 ha imposto a molti il lavoro da casa. Dal 23 febbraio, nel giro di poche settimane il numero di persone a utilizzare questa modalità di lavoro è più che raddoppiato in Italia, superando 1,8 milioni (dati Ministero del Lavoro, 1/5/2020). Per alcuni versi è stato il modo per garantire una fonte di reddito, evitando di ricorrere agli strumenti ben più temibili delle casse integrazione e dei licenziamenti. D’altra parte, la celebrazione di questo strumento da parte della politica e dei mezzi di informazione, spesso con toni eccessivamente entusiastici, non ha trovato sempre una corrispondenza nella realtà pratica. Con lo smart working, com’è noto, non vige l’obbligo di doversi recare sul luogo di lavoro, si può al contrario lavorare ovunque ci siano le condizioni necessarie per svolgere in sicurezza le proprie mansioni. Non si è inoltre tenuti ad osservare orari di lavoro prestabiliti, con la facoltà quindi di gestirsi in autonomia le otto ore della giornata lavorativa. È innegabile che il lavoro in regime di smart working porti dei vantaggi per quanto riguarda il bilanciamento vita-lavoro: la riduzione degli spostamenti e dei relativi costi, la diminuzione delle emissioni inquinanti. Molti lavoratori sperimentano con lo smart working condizioni di vita migliorate, soprattutto considerando le situazioni dei pendolari con lunghe tratte di percorrenza quotidiana. Si riesce a minimizzare i tempi morti, ritagliandosi spazi per riorganizzare impegni personali in orari che diversamente sarebbero impossibili, e rimane più tempo anche per gestire le incombenze domestiche. In queste settimane la decretazione d’emergenza ha temporaneamente liberalizzato lo smart working, consentendo l’accesso ad una platea molto vasta di lavoratori che hanno usufruito per la prima volta delle possibilità suddette. Il lavoro agile del resto ha molti altri aspetti meno edificanti, che a occhi poco attenti possono sfuggire in un primo momento. Non ci riferiamo solo a quegli inconvenienti che ben presto vengono riscontrati, cioè la frequente inadeguatezza delle postazioni di lavoro domestiche, con gli inevitabili mal di schiena e mal di testa che la posizione scorretta comporta. Non ci riferiamo neanche a quell’altro effetto collaterale, seppur molto serio, che è l’isolamento, il calo drastico della possibilità di contatto sociale, di confronto e crescita che un ambiente di lavoro tradizionale dovrebbe teoricamente garantire. Questi fattori nel lungo periodo iniziano a pesare sensibilmente sull’umore e sulla motivazione del lavoratore. Partiamo semmai dalla considerazione che lo smart working rappresenta un enorme risparmio dal punto di vista aziendale. Si abbassano prima di tutto i costi di struttura: pochi dipendenti in sede contemporaneamente significano bollette più basse per energia, acqua e gas; la possibilità di locali più piccoli e quindi di affitti più bassi; si risparmia sulle spese di pulizia; si risparmia sui costi di mensa e buoni pasto. Il punto è che quasi tutte queste voci ricadono invece sulle spalle del dipendente, le cui spese aumentano per i pasti da consumare, per il riscaldamento invernale e per il condizionamento estivo dell’aria, per le altre utenze domestiche, oltre che per la connessione internet e l’eventuale computer, che non sono disponibilità gratuite o da dare per scontate. Oltre a questo, diversi studi indicano che il rendimento del lavoratore in smart

working cresce mediamente del 20%, a tutto vantaggio del datore di lavoro. L’immagine idilliaca del dipendente che lavora sereno all’ombra di un pergolato, padrone dei propri spazi e dei propri tempi, si scontra con quella più realistica del lavoratore costretto a condividere connessione internet e ambiente domestico, spesso privo del diritto alla disconnessione e con tendenza a lavorare ben oltre le otto ore quotidiane. Situazione aggravata ancor di più, in questo periodo di emergenza sanitaria, dalla necessità di conciliare il lavoro con la presenza di eventuali coniugi e figli, questi ultimi costretti in casa dalla chiusura delle scuole fino a data da stabilire. Soprattutto, le ricerche evidenziano che il lavoro smart, senza adeguati vincoli, tende a spostarsi in molti casi dal lavoro su base oraria verso il lavoro ad obiettivi. Uno scenario frequente è questo: al datore di lavoro non importa come il dipendente distribuisca nella giornata le ore di lavoro (meglio, perché così perde senso il concetto di straordinari, e si ha il pretesto per fare richieste in orari improbabili), in realtà non interessa neanche più molto se lavora le classiche otto ore, basta che sia tutto pronto per dopodomani. Il risultato è che quello che sulle prime sembra una conquista di libertà, nelle mani delle imprese più aggressive e nei confronti dei dipendenti più precari diventa presto uno scivolamento verso il cottimo, un ritorno a modalità di lavoro domestiche pre-industriali, ottocentesche, con carichi di lavoro superiori al consueto. In sostanza lo smart working, ad un livello più generale, costituisce l’ennesimo strumento ideato dall’impresa per massimizzare i profitti senza dover fare investimenti, innovazione o formazione. Le aziende riescono così a essere più competitive, semplicemente erodendo reddito dai lavoratori. Questa ennesima estrazione di profitto alimenta un enorme trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto (dal lavoro al capitale, come sarebbe più corretto dire) che a livello globale si stima raggiungerà i 10.000 miliardi di dollari entro il 2030 (fonte Regus).

Senza considerare le agevolazioni fiscali riservate alle imprese che adottano modalità di lavoro agile, un’ulteriore deviazione di risorse pubbliche dai lavoratori verso le imprese. In questo quadro che già di per sé chiarisce gli interessi in gioco, si aggiunge la difficoltà per i lavoratori di organizzarsi e lottare per i propri diritti. Quando il lavoro si frammenta, e si è divisi non più solo in piccole unità lavorative, ma addirittura atomizzati come entità lavorative individuali, ogni rivendicazione sindacale può diventare un obiettivo irraggiungibile per l’ovvia difficoltà di confrontarsi e riunirsi, anche fisicamente. In questo senso lo smart working rappresenta a nostro avviso l’ultima tappa di quell’imponente processo di ristrutturazione capitalistica che già a partire dagli anni ’70 ha avuto la funzione di neutralizzare le lotte sindacali e annichilire il movimento operaio. Per riuscire a smontare coesione e potere contrattuale dei lavoratori, non ci si è serviti solamente dell’automazione, del toyotismo, della precarizzazione, della disoccupazione strutturale, delle delocalizzazioni, delle esternalizzazioni, della rottura dell’unità dei lavoratori dividendoli per livelli. Si è agito anche attraverso il progressivo frazionamento delle masse lavoratrici su unità produttive più piccole, fenomeno di cui lo smart working rappresenta oggi il punto di arrivo. La disgregazione del corpo lavorativo oggi è ai massimi storici, al contrario dell’organizzazione sindacale dei lavoratori. In questa vera e propria guerra di classe condotta dall’alto, che punta a riprendersi quanto è stato conquistato prima degli ultimi quarant’anni, si colloca anche l’altro fronte aperto per indebolire l’avanzata delle rivendicazioni operaie, quello culturale. L’impresa si propone sempre più come sponsor dei nuovi valori dell’attuale pensiero dominante, quello fondato sui miti della competizione e del successo, sul primato dell’individuo sul collettivo, sulla leadership, sul talento, con i quali punta a dotare il lavoratore di nuove lenti di lettura del mondo, privandolo delle sue

storiche categorie concettuali, quelle di classe. In questa ottica vanno viste le attività di team building, le feste, i regali, i momenti motivazionali, l’adozione di ritualità e codici di comunicazione propri, la retorica dell’interesse comune azienda/lavoratori. Strategie che mirano a promuovere un universalismo culturale aconflittuale ed entusiastico, ad addomesticare il consenso del dipendente, ad incentivarne l’identificazione nell’azienda. Strategie funzionali in ultima istanza a stroncare ogni residuo antagonismo di classe tra capitale e lavoro, ancora oggi la bestia nera per l’impresa. L’attuale pandemia rappresenta un’opportunità unica per l’impresa di accelerare il processo di diffusione delle modalità di lavoro agili e informali, ora che lo Stato ha eliminato rapidamente ogni vincolo di accordo sindacale e ne incentiva l’adozione, mentre le classi dirigenti inviano i loro esponenti e i loro tecnici a magnificare su tutti i mezzi di informazione i miracoli che lo smart working promette. È chiaro che non tutte le aziende contribuiscono consapevolmente a questo processo di ridefinizione del rapporto di lavoro, molte più pragmaticamente ne sfruttano solo i vantaggi. Quello che è certo è che ne sono ben consapevoli le loro associazioni di categoria, Confindustria in primis, che hanno individuato un nuovo strumento per accrescere i margini di profitto e il comando sul lavoro, e come tale lo incoraggiano presso i propri associati. Lo smart working può essere in definitiva uno strumento utile nelle mani dei lavoratori, solamente quando è un’opzione e non un obbligo. Sta a noi utilizzarlo intelligentemente perché le sue modalità di fruizione garantiscano tempo liberato dal lavoro, usandolo e non facendosene usare come nuova modalità di sfruttamento. Sta a noi fare in modo che non rappresenti l’atto finale di quella controrivoluzione neoliberista che pezzo per pezzo sta provando a smontare il ruolo dei lavoratori e i loro diritti, così faticosamente conquistati nel tempo.

Abbonati, fai abbonare, regala

“nuova unità”

ABBONAMENTO ANNUO ITALIA EURO 26.00 c/c postale nr. 1031575507 intestato a nuova unità – Firenze


nuova unità 4/2020

5

Notizie in breve dal mondo - giugno no tedesco “lavori attivamente per mettere fine alla politica del bloqueo illegale degli USA”. Tra i firmatari ci sono i registi Wim Wenders, Margarethe von Trotta, Fatih Akın, Hans Peter Weyman e Volker Schlöndorff; i musicisti Jan Delay e Konstantin Wecker; gli scrittori Thomas Brussig, Robert Menasse e Peter Schneider; l’attrice Hanna Schygulla e l’ex calciatore del St. Pauli Benny Adrion, fondatore della ONG “Viva con Acqua”, tra altri.

Nuova Zelanda – 1° giugno

Nelle città di Auckland, Christchurch, Dunedin e Wellington migliaia di neozelandesi sono scesi in piazza per protestare contro l’assassinio di George Floyd a Minneapolis. Ad Auckland i manifestanti hanno circondato il consolato statunitense, che era stato chiuso.

Amsterdam, Olanda – 1° giugno

Washington, USA – 26 giugno

Tremila persone in piazza Dam protestano contro l’assassinio di George Floyd. I giornali scrivono che il forte numero di manifestanti impedisce l’applicazione delle misure di distanziamento sociale, nonostante i manifestanti portino le mascherine.

Sanaa, Yemen – 3 giugno

Il portavoce del Ministero della Salute, Youssef Al-Hadri, afferma oggi che ogni giorno 300 bambini yemeniti muoiono di denutrizione e di malattie infettive. Secondo Al-Hadri 25 donne muoiono ogni giorno per complicazioni in gravidanza o nel parto. 200 mila persone muoiono ogni anno per malattie croniche. I responsabili: l’aggressione e il blocco della coalizione guidata dall’Arabia Saudita.

Durante lacrsi del Covid-19 Cuba ha inviato missioni mediche, richieste direttamente dai governi interessati, a 9 paesi tra cui l’Italia. Attualmente i medici cubani all’estero sono 28.000 in 57 paesi, dei quali 37 presentano casi di Covid-19. Nel corso degli anni sono stati più di 400.000 i sanitari cubani che hanno compiuto missioni in 164 paesi.

Polonia – 4 giugno

Washington, USA – 19 giugno

Londra, Inghilterra – 13 giugno

Caracas, Venezuela – 21 giugno

Cominciano, in una località del nord-est del paese, le manovre militari “Defender Europe 2020” con la partecipazione di militari statunitensi. Alle manovre partecipano, nonostante la pandemia, 6.000 soldati, di cui 2.000 polacchi, 100 carri armati e più di 230 veicoli da combattimento, più artiglieria e sistemi missilistici. L’obiettivo dichiarato delle manovre è “aumentare la preparazione strategica e l’interazione tramite la capacità di dispiegamento rapido di truppe statunitensi in Europa”. Fino ad oggi in Polonia ci sono stati più di 24.800 contagi per Covid-19 e 1.117 morti. Mentre nelle strade migliaia di persone manifestavano pacificamente nel quadro delle proteste per l’uccisione di George Floyd, sono accaduti diversi incidenti dopo che membri del gruppo di estrema destra Britain First hanno cercato di entrare nella piazza del Parlamento dove erano concentrati i manifestanti antirazzisti, con la scusa di difendere i monumenti da ‘possibili atti vandalici’. Ci sono stati scontri tra polizia e manifestanti antirazzisti. Manifestazioni anche a Belfast e a Brighton.

Parigi, Francia – 13 giugno

Momenti di grande tensione durante la manifestazione antirazzista per ricordare la morte di Adama Traoré, un ragazzo nero di 23 anni ucciso per soffocamento, come George Floyd, in una caserma di polizia nel 2016. La polizia ha fatto uso di gas lacrimogeni contro le decine di migliaia di persone che partecipavano alla manifestazione. Il 2 giugno scorso la polizia aveva arrestato 18 persone che partecipavano ad una manifestazione non autorizzata (con circa 20.000 partecipanti) organizzata dal comitato d’appoggio alla famiglia Traoré.

Washington, USA -15 giugno

Oggi Donald Trump annuncia che ritirerà dalla Germania “la metà” delle truppe di stanza e lascerà soltanto 25.000 militari. L’annuncio ha l’obiettivo dichiarato di far pressione su Berlino perché aumenti i suoi contributi all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (la NATO). Il taglio sarà effettivo finchè Berlino non aumenterà al 2% del suo PIL le spese per la difesa. Attualmente il livello di spesa di Berlino è dell’1,38%. “Sono morosi – ha aggiunto Trump – devono migliaia di milioni di dollari e lo sono da anni”. Gli ha risposto l’ambasciatrice tedesca a Washington, Emily Haber, ricordando a Trump che il suo paese ha truppe in Germania per proteggere i suoi interessi: “Le truppe USA non sono qui solo per difendere la Germania, sono qui per difendere la sicurezza atlantica. Sono qui per proiettare il potere statunitense in Africa e Asia”.” ha detto Habel. 22 congressisti e senatori repubblicani hanno espresso la loro opposizione al progetto e chiesto a Trump di riconsiderare la sua decisione. La Germania è il paese europeo con più truppe nordamericane, seguito da Italia, Inghilterra e Spagna.

Washington, USA – 18 giugno

Un gruppo di senatori repubblicani ha presentato un progetto di legge per castigare i paesi che contrattino le missioni mediche cubane. Nel progetto di legge vengono considerati complici della tratta di persone. Uno dei senatori, Ted Cruz, di padre cubano, lo ha così spiegato: “Queste missioni mediche sembrano gesti di buona fede, ma in realtà sono usate da Raùl Castro e Miguel Dìaz-Canel per riempire i forzieri che finanziano l’oppressione del popolo cubano. Questo progetto di legge chiarirà chi sono i loro complici internazionali”.

La Corte Suprema ha confermato quanto già stabilito da tribunali minori: la decisione di Trump del 2017 di mettere fine al programma che protegge dalla deportazione centinaia di migliaia di immigranti, i cosiddetti “Dreamers” che entrarono senza documenti negli USA da bambini, è illegale. Il programma chiamato DACA (Azione Differita per coloro che sono arrivati durante l’infanzia) era stato creato nel 2012 da Barak Obama. Tale decisione della Corte significa che i circa 649.000 immigrati giovani attualmente iscritti al DACA continueranno ad essere protetti dalla deportazione e potranno richiedere permessi di lavoro della durata di 2 anni rinnovabili. Il cancelliere venezuelano Jorge Arreaza pubblica sul suo account Twitter alcune pagine del libro dell’ex consigliere alla Sicurezza Nazionale di Trump, John Bolton, dal titolo “La stanza dove successe: Una memoria della Casa Bianca” (in inglese: The Room Where It Happened, che verrà pubblicato tra pochi giorni), pagine in cui Bolton descrive come il Regno Unito – nella persona del suo ministro degli Esteri Jeremy Hunt - “era felice di cooperare” con gli Stati Uniti a congelare i depositi in oro del Venezuela affidati alla Banca d’Inghilterra. La Banca d’Inghilterra congelò l’oro venezuelano nel febbraio 2019, poco dopo che il governo inglese riconoscesse Juan Guaidò quale presidente del Venezuela.

Madison, Wisconsin, USA – 25 giugno

Dopo una notte di violenze in cui sono state abbattute due statue, una delle quali che ricordava un eroe anti-abolizionista della Guerra Civile, il governatore dello Stato ha chiamato la Guardia Nazionale. I manifestanti anti-razzisti hanno lanciato anche una bomba incendiaria e tentato di entrare nel palazzo del Congresso, scontrandosi con la polizia che ha fatto uso di gas urticanti. Madison è nota per essere una città progressista con una lunga tradizione di proteste sociali, come quelle avvenute nell’Università negli anni ’60. Quando nel 2011 l’allora governatore Scott Walker mise in atto una serie di misure amnti-sindacali, più di 100.000 persone risposero manifestando.

New York, USA – 25 giugno

Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, gli esperti governativi dei Centri per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie ritengono – basandosi sulle prove sierologiche - che gli statunitensi infettati dal coronavirus siano più di 20 milioni, 10 volte di più delle statistiche ufficiali. Fino ad ora i morti di Covid-19 sono più di 120.000.

Kinshasa, Congo – 25 giugno

Mentre il mondo parla del Covid-19, il Ministro della Salute congolese annuncia oggi la fine della 10° epidemia di ebola nell’est del paese, la seconda più mortale della storia del paese. Il numero di contagiati risulta di 3.470, i morti sono 2.287. L’epidemia sopravvive ancora nella parte occidentale della parte occidentale della Repubblica. La scomparsa dell’ebola dalle regioni dell’est rappresenta un alleggerimento delle difficoltà della popolazione, stretta tra conflitti storici e presenza di numerosi gruppi armati.

Berlino, Germania – 25 giugno

“Cuba aiuta gli altri. Chi aiuta Cuba?” è il titolo di una petizione organizzata da più di 60 personalità della cultura e della scienza tedesche che chiedono al governo la fine del bloqueo degli USA e la ripresa della cooperazione tedesca con Cuba e che, durante la presidenza del Consiglio della UE che la Germania terrà nella seconda metà del 2020, il gover-

Il presidente USA Donald Trump ‘molla’ Juan Guaidò: in una dichiarazione al portale Axios, egli ha messo in dubbio la strategia del suo burattino per mettere fine al governo legittimo di Nicolàs Maduro e ha detto di essere pronto a incontrare il presidente venezuelano, che ha ribattuto di essere disposto a discutere “rispettosamente” con lui. Cosa faranno ora i paesi dell’Unione Europea e dell’America Latina che, obbedendo supinamente a Washington, si sono allineati e hanno riconosciuto Guaidò come “presidente incaricato”? Per ora stanno zitti e mantengono un silenzio assordante.

Ginevra, Svizzera – 26 giugno

Il relatore speciale dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati, Michael Link, afferma che l’Unione Europea deve utilizzare la sua influenza per prevenire l’annessione da parte di Israele di parti della Cisgiordania. Secondo Link l’annessione, prevista per il mese di luglio, “causerà un notevole peggioramento della situazione dei diritti umani nel territorio palestinese occupato e nella vita quotidiana di milioni di palestinesi.”. Egli sottolinea che la comunità internazionale e, in particolare, l’Unione Europea devono prendere misure per garantire che venga castigata una violazione così grande del diritto internazionale, aggiungendo che “qualsiasi annessione contraddice la Carta delle Nazioni Unite ed è un’azione fondamentalmente illegale”.

MEMORIA

Bologna 2 agosto 1980. Muoiono 85 persone e

sono ferite 200 in un attentato di matrice fascista che segue alle stragi di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 e del treno Italicus del 4 agosto 1974. Solo nel maggio scorso la procura generale di Bologna ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex militante di Avanguardia nazionale Paolo Bellini, in quanto esecutore dell’attentato alla stazione. Secondo le accuse, Bellini avrebbe agito in concorso con l’allora capo della P2 Licio Gelli, con l’ex capo dell’ufficio Affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato, con l’imprenditore e finanziere piduista Umberto Ortolani e con il giornalista Mario Tedeschi. Tutti coinvolti come possibili mandanti o finanziatori, ma nel frattempo tutti morti. Le altre richieste di processo riguardano l’ex generale del Sisde Quintino Spella e l’ex carabiniere Piergiorgio Segatel per depistaggio, e Domenico Catracchia, accusato di false informazioni al fine di sviare le indagini. Catracchia, a cavallo fra anni ‘70 e ‘80, gestiva le società (legata ai servizi segreti) che affittava gli appartamenti di via Gradoli dove nel 1981 trovarono rifugio esponenti dei Nar e, in uno di quegli appartamenti, è stato tenuto prigioniero Aldo Moro nella prima fase del sequestro.

6 Agosto 1945: Bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki

Il mattino del 6 agosto 1945 alle 8.16, l’Aeronautica militare statunitense lanciò la bomba atomica “Little Boy” sulla città giapponese di Hiroshima, seguita tre giorni dopo dal lancio dell’ordigno “Fat Man” su Nagasaki. Il numero di vittime dirette è stimato da 100.000 a 200.000, ma la gravità dei danni sulla popolazione esposte alle radiazioni e sull’ambiente causati dal primo utilizzo di tali armi è stato distruttivo per anni. Dopo l’11 settembre, l’amministrazione Bush ha dichiarato di non escludere l’uso delle armi nucleari e ha intrapreso la militarizzazione dello spazio. Ma il “potere nucleare” non ha mai smesso di essere un fattore strategico di primaria importanza sullo scacchiere politico internazionale. Molti Stati possiedono circa 15.000 testate nucleari. Oltre il 90% appartiene a Stati Uniti e Russia: ciascuno ne possiede circa 7 mila, la Francia 300, la Cina 270, la Gran Bretagna 215, il Pakistan 120130, l’India 110-120, Israele 80, la Corea del Nord 10-20. Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia hanno insieme circa 150 testate nucleari statunitensi dispiegate sul proprio territorio. Il governo italiano è tra quelli che non hanno firmato, né ratificato il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN) approvato alle Nazioni Unite il 7 luglio 2017.


nuova unità 4/2020

6

Come Stalin impedì a Churchill di provocare una guerra sovietico-statunitense In premessa, un paio di osservazioni. Igor Šiškin, storico, vice direttore dell’Istituto per i paesi della CSI, da tempo parla delle crisi e dei conflitti mondiali dei decenni passati, come risultato della politica britannica. Anche analizzando i presupposti della Seconda guerra mondiale, Šiškin mostra come gli anglosassoni avessero preparato i tedeschi alla marcia verso oriente, come intendessero utilizzare la Germania nazista per risolvere la questione che, dal 1917, terrorizzava il mondo liberale: l’esistenza dello Stato sovietico. Con questo intervento, egli inquadra anche il piano “Unthinkable” in tale costante britannica. Al pari di molti storici e politici russi, anche per Šiškin l’esaltazione dell’URSS è vista per lo più quale momento di celebrazione di una “Grande Russia”, zarista o sovietica che sia, oscillando tra due “patriottismi”: uno nazionalista pro-sovietico e uno Grande-russo, in cui si celebrano unità della nazione e giustizia sociale, estraniate dalla lotta di classe, il tutto intrecciato in una miscela retorica russo-sovietica. Come scriveva anni fa un altro storico russo, Jaroslav Butakov, il piano “Impensabile” fissava l’attacco “alleato” all’URSS per il 1 luglio 1945 e prevedeva di “liberare” Polonia e DDR con forze USA, britanniche, polacche e tedesche. Il totale delle forze alleate in Europa era di 64 divisioni americane, 35 britanniche, 4 polacche e 10 tedesche; ma, di fatto, gli alleati potevano mobilitare al massimo 103 divisioni, di cui 23 corazzate, contro 264 divisioni sovietiche, di cui 36 corazzate. Šiškin accenna anche alla questione di Rudolf Hess, la seconda personalità del Reich nazista. Vari storici ritengono che Hitler avesse attaccato l’URSS nel 1941 solo dopo essersi assicurato il non intervento britannico. Dall’11 maggio 1941, Hess era in Inghilterra, dove aveva recato una proposta di pace. In Germania era stato dichiarato pazzo e ufficialmente il Governo britannico negò qualsiasi trattativa e lo dichiarò prigioniero di guerra. Fatto sta che Hess, condannato all’ergastolo a Norimberga, morì in prigione nel 1987, in circostanze misteriose. I documenti che lo riguardavano, secretati dal Governo britannico per 30 anni, nel 2017 sono stati secretati per altri 50 anni. Come nel 1940, a guerra a occidente già iniziata, Francia e Gran Bretagna si apprestavano a inviare corpi di spedizione in appoggio alla Finlandia, contro l’Unione Sovietica, così nel 1945, a guerra conclusa, a Ovest ci si preparava a un nuovo conflitto contro l’URSS. La guerra, “calda e fredda”, iniziata nel 1918, continuava.

Con il piano “Impensabile”, nell’estate 1945 il mondo fu a un passo dalla Terza guerra mondiale

********

1. La Seconda guerra mondiale non era stata una guerra di tutta l’umanità progressista contro la “peste bruna”, il che avrebbe reso automaticamente inconcepibile l’unione con le forze del male contro un proprio alleato del campo delle forze del bene. Essa, così come la Prima, era stata generata dalla lotta delle grandi potenze occidentali per l’egemonia, per il potere, la finanza, le risorse. L’unica differenza della Seconda guerra consisteva nel fatto che, per tutti i suoi organizzatori (Inghilterra, USA, Germania) uno degli obiettivi era la distruzione dell’URSS. (...) 2. ... il piano per l’operazione “Impensabile” venne compilato su ordine diretto del Primo ministro dell’Impero britannico; dunque, deve esser valutato esclusivamente nel sistema di coordinate geopolitico. 3. Churchill era uno dei politici più in vista della Gran Bretagna e non una fanciulla esaltata, portata a comporre progetti inconcepibili. Il suo obiettivo principale, nel corso di tutta la guerra, era stato la salvezza dell’Impero britannico (...) 4. Fino alla metà del secolo scorso, l’Inghilterra non era un’isoletta accogliente e ben curata, su cui aspirano a vivere i nuoviricchi di ogni angolo della Terra. (...) Secondo i risultati della Prima guerra mondiale, 1/5 di ogni kmq della terra era controllato dalla “dominatrice dei mari” e ¼ degli abitanti del pianeta le pagava tributi. 5. (...) il principio fondamentale della politica estera britannica, immutato nei secoli: “L’Inghilterra non ha né alleati eterni, né nemici permanenti; eterni e permanenti sono solo i propri interessi”. (...) A partire dal XVI secolo, … si sviluppò il “marchio di fabbrica” inglese: combattere con mani altrui, facendo scontrare i nemici l’uno con l’altro... A chi, nei secoli, non è toccato di dover svolgere la funzione di “spada britannica nel continente”? La vittoria nelle guerre napoleoniche, raggiunta principalmente con sangue altrui, soprattutto russo, aveva reso l’Inghilterra indiscussa egemone europea... [ma] sulla strada degli eterni e permanenti interessi britannici venne a trovarsi l’Impero russo…

fp

Igor Šiškin (…) L’operazione “Impensabile”, messa a punto su ordine di Churchill, prevedeva un attacco di sorpresa delle forze angloamericane, con la partecipazione anche di divisioni tedesche arresesi sul fronte occidentale, ma non disarmate. La consolidata percezione di tale operazione è appunto di qualcosa di “impensabile”. (…) Il punto di vista standard è stato espresso con molta precisione dallo storico americano Michael Peck, su The National Interest: “Si sarebbe potuto escogitare un obiettivo più inaudito in quel momento: far scatenare alla Gran Bretagna, esausta e straziata da due guerre mondiali, una guerra preventiva per sconfiggere il colosso sovietico? ... Quel piano era stato messo a punto, o scambiando un desiderio per realtà, o per pura disperazione ... L’operazione “Impensabile” era davvero impensabile”. (...) Ci sono tuttavia tutti i motivi per sostenere che, in questa faccenda, di strano ci fosse solo il nome: “Impensabile”. Il tentativo di Churchill di provocare una guerra sovietico-americana immediatamente dopo la vittoria sulla Germania era tutt’altro che “inconcepibile”, e il mondo, nel maggio-giugno 1945, venne davvero a trovarsi a un passo dalla Terza Guerra Mondiale. Essa non scoppiò non perché fosse “impensabile”, ma perché il Cremlino si fece trovar pronto a un tale sviluppo degli eventi. (...) Citerò tre esempi, che confermano come non ci fosse nulla di “inconcepibile” in quella iniziativa di Churchill. L’idea di utilizzare le truppe della Germania sconfitta contro la Russia, non era un “know-how” del 1945. Churchill aveva tentato di realizzare quella stessa idea subito dopo la fine della Prima guerra mondiale: “Sottomettere al proprio potere l’ex Impero russo non è solo una questione di spedizioni militari, ma è una questione di POLITICA mondiale... noi possiamo conquistare la Russia solo con l’aiuto della Germania”. (...) Secondo esempio. Alla fine della conferenza di Teheran, due

anni prima di “Impensabile”, quando l’Impero britannico stava velocemente perdendo influenza e l’ordine mondiale post-bellico stava per esser determinato da due centri di forza – USA e URSS – Churchill aveva dichiarato che, dopo la guerra con la Germania, “può svilupparsi un’altra guerra ancor più sanguinosa”. Terzo esempio. Il Primo ministro britannico, Lloyd George,

avendo avuto notizia della rivoluzione di febbraio [nel 1917] e della caduta dell’Impero russo (in quel momento, alleato della Gran Bretagna nell’Intesa) aveva esclamato esultante: “Uno dei principali obiettivi della guerra è stato raggiunto!”. (...) Per un adeguato intendimento dell’operazione “Impensabile”, è necessario tener conto di alcuni fattori.

Gli eterni interessi britannici La Prima guerra mondiale, provocata dall’Impero britannico, sembrava aver rimosso tutti gli ostacoli alla realizzazione dei suoi interessi eterni e permanenti. L’Impero tedesco era sconfitto, gli Imperi austro-ungarico e ottomano distrutti, la Francia esangue, caos e guerra civile nell’ex Impero russo... Tuttavia, Londra dovette nuovamente scoprire che non esiste “bene” senza “male”. La Prima guerra mondiale aveva portato nella lotta per l’egemonia un nuovo predatore: gli Stati Uniti d’America. Per di più, questo giovane predatore era riuscito ad arricchirsi favolosamente con la guerra e diventare l’economia leader del mondo. Per la prima volta da vari secoli, non furono gli inglesi a trarre profitto dalla carneficina da loro organizzata, ma qualcun altro.

Come non bastasse, l’Impero russo si trasformò nella Russia Sovietica e divenne, da ostacolo sulla via del dominio mondiale, un’aperta minaccia all’esistenza stessa dell’Impero britannico. Lo slogan dei conservatori inglesi - “Affinché viva la Gran Bretagna, il bolscevismo deve scomparire”, non era paranoia, era realismo. Ma, né la geografia, né i mezzi bellici dell’epoca, consentivano di provocare, secondo uno sperimentato algoritmo, due dei suoi nuovi nemici mortali, Unione Sovietica e America, a farsi guerra a vicenda (come le era riuscito con Impero russo e Secondo Reich). E, d’altronde, l’Impero britannico non era nemmeno in grado di distruggerli da solo. (...) La risposta britannica alla nuova sfida fu la rianimazione artificiale della Germania sconfitta, la politica di “appeasement”, volta a organizzare una nuova grande guerra in Europa. L’Unione Sovietica e il Terzo Reich dovevano frantumare l’un l’altra le proprie forze e la Francia adempiere alla funzione di “spada britannica sul continente”, che trafigge il vincitore, esausto, della guerra sovietico-tedesca. La Gran Bretagna, avrebbe così ottenuto gli allori di salvatrice della civiltà dal bolscevismo, messo sotto controllo il potenziale industriale europeo e le risorse russe. Le pretese americane all’egemonia venivano “annullate”. Un’avventura? Indubbiamente. Ma era l’unica chance di salvezza dell’Impero britannico. Con il Patto Molotov-Ribbentrop, Stalin aveva però fatto deragliare lo scenario inglese della Seconda guerra mondiale. Di fatto, era la condanna a morte dell’Impero britannico. Dopo la sconfitta della Francia, rimanevano a Londra solo due opzioni, nessuna delle quali poteva salvare l’Impero. Nella prima, allearsi alla Germania, prima contro l’URSS, e poi contro l’America e, in caso di vittoria, venir divorata dai tedeschi come dessert. Nella seconda opzione, allearsi a URSS e USA contro la Germania e, dopo la vittoria, essere ugualmente divorata per dessert dall’America. Tra le élite britanniche, aveva avuto la meglio la seconda variante di realizzazione degli eterni e permanenti interessi inglesi. Quanto aspra sia stata la disputa “dei bulldog sotto il tappeto” lo testimonia il “caso Hess”. Il motivo della scelta della seconda variante non era ovviamente l’odio per il nazismo. Il motivo era dato dalla possibilità, per quanto infinitamente piccola, per l’Impero britannico di sopravvivere, o almeno di esser liquidato con perdite minime per la metropoli. Più precisamente, esistevano due micro-chance.


nuova unità 4/2020

7

La prateria brucia Milioni di persone in tutto il mondo si ribellano contro il razzismo, prodotto del capitalismo e dello sfruttamento. La loro rabbia, la loro volontà di conquistare un mondo diverso può essere l’occasione di un’unione tra antirazzismo e anticapitalismo, l’occasione per ricordare che “il capitalismo non è la soluzione, è il problema”...

Daniela Trollio (*) Il 25 maggio George Floyd, un afroamericano di 46 anni disoccupato, viene ucciso a Minneapolis da 4 poliziotti. Non è il solo e non è il primo, ma è la scintilla che incendia la prateria. La protesta dei neri, dei giovani antifascisti, dei disoccupati, della gente comune dilaga in tutti gli Stati Uniti. Centinaia di migliaia di manifestanti si scontrano nelle strade con la polizia, con la guardia nazionale, affrontano gas e pallottole di gomma e arrivano fino a Washington dove, in una dimostrazione di grande coraggio, il presidente Donald Trump – dopo aver minacciato di far sparare ai manifestanti - non solo fa erigere in tempi strettissimi una cancellata attorno alla Casa Bianca, ma cambia velocemente casa e si fa rinchiudere nel bunker progettato per un’eventuale guerra nucleare. Anche al di là dell’oceano si trovano i Franceschiello… La prateria brucia, lo dicono i numeri: le proteste avvengono in più di 40 grandi città (in totale in più di 500 tra città e paesi), in vari Stati viene decretato il coprifuoco e viene mobilitato il più numeroso contingente della Guardia Nazionale, 10.000 persone vengono arrestate. Non solo negli USA ma in tutto il mondo si manifesta contro il razzismo e contro la polizia (compresa quella del proprio paese), identificata come il braccio armato di un sistema profondamente brutale e ingiusto. Trump chiede che scenda in campo l’esercito ma i suoi generali si rifiutano di mobilitare i soldati. Purtroppo non c’è bisogno di andare molto lontano per capire il perché ed è un perché che spiega molte cose, non solo degli USA ma anche di casa nostra. Non esiste, se non in minima parte (come dimostra l’esistenza di “Antifa”, il gruppo antifascista accusato da Trump di terrorismo e che torna alla luce quando scoppiano queste lotte), un’organizzazione stabile del proletariato americano che si ponga l’obiettivo dell’abbattimento del

sistema capitalista e sia in grado di portare questa idea all’interno della classe. Il PC nordamericano da molti anni fa delle elezioni il banco principale della “lotta”, rinunciando alla critica di classe. Molte delle avanguardie che si sono espresse nel corso di più di 50 anni hanno finito per adagiarsi nelle pieghe del sistema stesso, nelle università, nelle accademie. Non da oggi sono quelli che propongono politiche di riforma e inclusione, di non discriminazione, la “diversità” e il “multiculturalismo”: i rappresentanti del capitale globale hanno buon gioco, nessuno mette in discussione il sistema e viene così cancellato (come è successo anche in Europa) il linguaggio di classe e con esso la coscienza, l’identità di classe. In questi giorni bollenti giornali, televisioni, star della politica, del cinema, dello

sport sono tutti pronti, apparentemente, a sostenere le rivendicazioni dei manifestanti. Ma se abbattere statue è un atto di giustizia simbolica, non mette minimamente in discussione il sistema. D’altra parte bisogna riconoscere una cosa: il maccartismo, l’odio per il comunismo organizzato dallo Stato, è nato ed ha prosperato per anni e anni negli Stati Uniti. E questo vuol dire qualcosa anche rispetto allo scollamento tra il movimento sociale di protesta che riempie le strade e una avanguardia organizzata che potrebbe dare una prospettiva anti-capitalista a coloro che si battono per un mondo più giusto. Sappiamo, per averlo già visto e sperimentato in molte altre occasioni, che dalle crisi il capitale esce facendo pagare alle classi subalter-

segue da pagina 6 Chance di salvezza dell’impero Prima micro-chance: nella guerra, l’URSS si dissangua e consegue una vittoria di Pirro; l’America, impegnata nella guerra col Giappone, è costretta a lasciare l’Europa, proprio come accaduto dopo la vittoria sul Secondo Reich: l’Impero britannico non è ovviamente il trionfatore, ma nemmeno il dessert per gli yankee. Seconda micro-chance: la guerra congiunta contro Hitler, significa lo sbarco degli americani in Europa e questo apre la possibilità per Londra di provocare uno scontro USA-URSS. Con tale scenario, di nuovo, gli yankee avranno altro cui pensare che non al dessert. In sostanza, per Churchill, tutta la Seconda guerra mondiale non è che una lotta disperata per realizzare una di queste due micro-chance, una lotta per “non presiedere alla liquidazione dell’Impero britannico”. Una lotta in cui egli passò di sconfitta in sconfitta. La vittoria dell’Esercito Rosso nella battaglia di Kursk e la conferenza di Teheran mostrarono inequivocabilmente che non c’era possibilità alcuna di realizzare la prima micro-chance; che l’URSS, nonostante perdite colossali, sarebbe uscita dalla guerra al picco della propria potenza. La conferenza di Jalta aveva messo una pesante croce anche sulla seconda microchance. Stalin e Roosevelt avevano trovato un linguaggio comune a spese degli interessi dell’Impero britannico. In cambio del riconoscimento del controllo americano sull’Europa occidentale e dell’impegno a entrare in guerra contro il Giappone, gli USA riconoscevano l’Europa orientale sfera di influenza dell’URSS. Ciò non eliminava affatto l’acutezza delle contraddizioni tra Mosca e Washington. (...) E, però, l’esistenza dell’impero britannico era chiaramente esclusa dai piani di Stalin e Roosevelt. Sicuramente non si sarebbero combattuti per far piacere a Londra. L’improvvisa scomparsa di Roosevelt aprì per breve tempo uno “spiraglio di opportunità” per Churchill. Molto si è scritto, che Hitler prese la morte del Presidente americano come un miracolo che avrebbe potuto salvare il Terzo Reich. Si può presumere che la reazione di Churchill poco differisse da

quella di Hitler. E se Hitler poteva solo sperare nello scoppio di una guerra sovietico-americana, Churchill ebbe l’improvvisa opportunità di provocarla, contando sull’inesperienza di Truman e sull’atteggiamento antisovietico e russofobo dei militari americani, quali il generale Patton. (...) Il suo obiettivo non era una rapida disfatta dell’URSS, ovviamente impossibile, ma una guerra di reciproco sterminio e sfinimento tra USA e URSS (...) Perché, anche dopo la morte di Roosevelt, Churchill non riuscì a sfruttare questa micro-chance di salvare l’Impero britannico? La risposta è ovvia: Stalin non lo consentì. In quasi tutte le decisioni chiave della Stavka negli ultimi mesi di guerra, c’è la comprensione della minaccia di una nuova guerra con gli alleati della coalizione anti-hitleriana. (...) Lo storico Aleksej Isaev ha definito la presa di Berlino come la “bomba atomica sovietica”. Quell’operazione fu una dimostrazione di potenza dell’URSS, così come i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki furono una dimostrazione di potenza USA. Essa mostrò l’assoluta superiorità dell’esercito sovietico, la sua incredibile potenza e arte militare. (...) Quando, alla vigilia del giorno X del piano “Impensabile”, il maresciallo Žukov riposizionò improvvisamente le truppe sovietiche in Europa, e in tal modo fece capire agli Alleati che non ci sarebbe stata alcuna sorpresa e che, di conseguenza, solo pochi fortunati sarebbero stati in grado di riattraversare La Manica, la provocazione di Churchill fallì definitivamente. La Terza guerra mondiale nel 1945 non iniziò. Ma non grazie a Churchill. In conclusione, va notato che Churchill ha continuato a lottare per gli eterni e permanenti interessi britannici anche dopo il fallimento dell’operazione “Impensabile”. Il famoso discorso di Fulton, che segnò l’inizio della guerra fredda, è spesso interpretato solo come l’esecuzione di un ordine americano da parte di Churchill. Ma questo è un approccio molto semplicistico. Churchill conduceva il proprio gioco, diretto sia contro l’URSS che contro gli USA. (...) (traduzione a cura di Fabrizio Poggi)

ne le sue perdite, sia economicamente che dal punto di vista della militarizzazione della società. Dal 2008 abbiamo vissuto una crisi continua che ha visto una grande risposta a livello globale. Infatti, prima che un ‘provvidenziale’ Covid-19 svuotasse le strade, una nuova ondata di lotte aveva percorso il globo – dalla Francia all’Iraq, dal Cile al Libano, all’India e agli stessi Stati Uniti. Ora milioni di persone in tutto il mondo si sono ribellate contro il razzismo, prodotto del capitalismo e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La loro rabbia, la loro volontà di conquistare un mondo diverso, che ha riportato nelle strade milioni di proletari, può essere l’occasione di un’unione tra antirazzismo e anticapitalismo, l’occasione per ricordare che “il capitalismo non è la soluzione, è il problema”... (*) CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni

Una sintetica raccolta di materiali, di Enrico Vigna, che aiuta a comprendere l’insieme delle forze palestinesi che combattono a fianco del popolo siriano Edizioni “La città del sole”, euro 15


nuova unità 4/2020

8

Lettere La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo

Inaccettabile il Nobel per la pace alla NATO Cari amici di fronte alla “incredibile” e vergognosa notizia della proposta di conferire il premio Nobel per la Pace alla più aggressiva e sanguinosa alleanza militare internazionale dal 1945 ad oggi, come Forum Belgrado per un Mondo di Eguali Italia, come Centro di Iniziative per la Verità e la Giustizia e come Associazioni di Solidarietà “SOS Yugoslavia” e “SOS Kosovo Metohija”, ci associamo e sosteniamo la lettera pubblica redatta dalla direzione centrale del Forum in Serbia, rendendoci disponibili ad eventuali iniziative pubbliche di denuncia di questo vero e proprio misfatto e insulto al valore della parola PACE. Enrico Vigna portavoce del Forum Belgrado Italia, presidente di SOS Yugoslavia-SOS Kosovo Metohija

Quali valori? “Fino a quando il colore della pelle non sarà considerato come il colore degli occhi, noi continueremo a lottare” (Che Guevara). Nella frase che abbiamo messo come titolo per noi sta la differenza profonda fra razzismo e antirazzismo, fra civiltà e barbarie ed è da questa angolatura che vogliamo affrontare come Sgb la questione della regolamentazione dei lavoratori immigrati presenti nel nostro paese. Regolamentazione che ad oggi è semplicemente un palliativo perché non sarebbe per tutti, e solo per sei mesi, senza più possibilità di ricerca di ulteriore lavoro alla scadenza dei sei mesi. Abbiamo un capitalismo che marcia su due binari: da una parte un mercato del lavoro formalmente legale con i diritti ridotti al minimo e continuamente flessibilizzato e teso a ridurre il costo della forza lavoro, dall’altra un mercato del lavoro illegale dove oltre alla flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro vi è la disumanità organizzata dei capitalisti mafiosi. Mano d’opera invisibile, flessibile e fatta lavorare a cottimo nei campi e nei cantieri per 2-3 euro all’ora. Questa è la civiltà organizzata e disumanizzata del braccio mafioso del capitalismo italiano. Lo Stato italiano tollera e chiude gli occhi perché ciò gli serve a competere sui vari mercati, dunque è semplicemente complice di questa incivile disumanità. Sono state organizzate campagne ideologiche reazionarie utili a condizionare i cervelli delle persone a tutto vantaggio dei capitalisti, un esercito di servi infami è stato pagato con soldi pubblici unicamente per spargere menzogne e veleno. Le forze politiche di centro destra hanno montato campagne ideologiche apertamente reazionarie e razziste e quelle di centro sinistra da una parte parlano di solidarietà e dall’altra varano riforme e leggi funzionali alle esigenze del capitale. Sono mesi che i razzisti fanno circolare a livello di massa una balla spaziale: “gli immigrati ci rubano il lavoro”. Purtroppo in questa cretinata sono caduti anche tanti operai che invece di guardare e denunciare i padroni italiani che gli rubavano davvero il lavoro, trasferendolo nei paesi dove potevano guadagnare di più, se la prendevano con i lavoratori immigrati supersfruttati. Cosa dire di questi operai/e incosciamente filo-capitalisti? Che al posto del cervello hanno un cassonetto di immondizia e che si stanno prestando a quello che il capitalista vuole? Cioè scaricare la rabbia e la conflittualità addosso ai lavoratori facendogli fare la guerra fra poveri. Un capolavoro politico e culturale che fa percepire ai proletari come nemici i proletari che stanno peggio di loro. Morale l’obiettivo finale è che abbiamo un mercato del lavoro estremamente flessibile, con salari da fame e un mercato del lavoro illegale flessibile con salari inesistenti gestito dalla mafia. Lo slogan che ha dominato per mesi diceva: “Dobbiamo difendere i nostri valori”: ma quali sono questi valori? Prima di tutto il valore assoluto è, da decenni, “il mercato”. In nome del mercato sono stati tagliati sanità, scuola, assistenza e la possibilità di dare un futuro ai giovani. A Rosarno nel 2010, dove i raccoglitori di arance e pomodori vivono tuttora in condizioni di schiavitù, ecco il solito “folle” che spara e uccide. Di sfruttamento non muoiono solo gli “immigrati”, perché i padroni non sono razzisti, sfruttano allo stesso modo bianchi e neri. Nel 2015 e nel 2017 due donne italiane, braccianti nelle campagne di Andria e di Taranto, sono morte - letteralmente - di sfinimento. Altro che “prima di tutto gli Italiani”, ai padroni interessa la realizzazione del plusvalore, cioè quella parte di lavoro gratuito che va nelle sue tasche e non gli importa se a produrlo sono operai italiani o stranieri. Dunque la regolarizzazione di tutti i lavoratori immigrati dovrebbe essere un obiettivo di tutto il movimento dei lavoratori, non una regolarizzazione a tempo e solo per alcuni, una definitiva, con uguale salario, orario di lavoro e diritti sociali e previdenziali, e contrapponendo alla flessibilità capitalista la rigididità operaia dei diritti. Antonio, Pisa

Se vi interessa reperire i numeri precedenti potete trovarli su Issuu profilo

nuova unità

Continua la discriminazione politica contro il dirigente comunista e partigiano Fosco Dinucci Mi ricollego alla pagina di “nuova unità” dedicata alle commemorazioni del 25 Aprile scorso (giornata della resistenza partigiana). Nelle commemorazioni (sembra) nella località denominata “Alla Romagna” sui monti pisani, l’amministrazione locale (sembra di sinistra) non ha fatto menzione di chi comandava come commissario politico laformazione Nevilio Caasarosa su questi monti. Contraddicendo in ciò quegli stessi esponenti partigiani compagni di battaglia di Fosco Dinucci come il tenente Ilio Cecchini che parecchio tempo fa ne tennero la commemorazione funebre. La stessa Anpi di Pisa in un riquadro sul giornale locale “Il Tirreno” di anni fa, non so se per mano del partigiano Uliano Martini dedicarono pubblicamente un omaggio a Fosco Dinucci. La falsa coscienza di quel che rimane della sinistra (definita/definiamola così) ufficiale è dura a morire e i personaggi scomodi e non in linea vengono messi nel dimenticatoio come Fosco Dinucci, Alberto Bargagna comandante della 23° Brigata Garibaldi “Guido Boscaglia” o si pensi a personaggi scomodi come Pietro Secchia o lo stesso Filippo Frassati, autore di innumerevoli opere sulla Resistenza partigiana, vicepresidente - insieme ad Amendola dell’istituto Gramsci e autore con Pietro Secchia della “Resistenza e gli Alleati”. Ottorino Dinucci, Pisa La differenza tra la generica sinistra e i comunisti è che i comunisti non dimenticano figure che sono state fondamentali nella storia partigiana e nel portare avanti l’ideologia comunista, come Fosco Dinucci. A lui dobbiamo anche la nascita di “nuova unità” e i compagni che da lui hanno preso il testimone continuano la lotta - interrotta dallo sviluppo del revisionismo - per l’unità dei comunisti, l’abbattimento del capitalismo al fine di arrivare a costruire una società socialista. la redazione

Basta spese militari! Covid 19 ha dimostrato l’insufficienza sanitaria per affrontarlo. Anni e anni di tagli e mancati investimenti mentre continuano ad aumentare le spese militari anche con l’acquisto di nuove armi di attacco. Forse il governo italiano sta preparando una guerra di conquista di qualche paese e rinverdire il passato mussoliniano? Non bastano i 70 milioni al giorno che paghiamo per l’alleanza atlantica, cioè alla NATO il cui compito è proprio quello di aggredire e rapinare le risorse dei popoli che vogliono vivere autonomamente? Molto spesso si sente paralre di riduzione delle spese militari a favore di quelle sanitarie. Sarebbe il momento di dire: basta spese militari! Francesco Martini, Oneglia

nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) anno XXIX n. 4/2020 Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Emiliano, Eraldo Mattarocci, Michele Michelino, Fabrizio Poggi, Daniela Troilo abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 1031575507 intestato a: nuova unità - Firenze

Chiuso in redazione: 25/06/2020


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.