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RIVISTA COMUNISTA DI POLITICA E CULTURA Periodico n. 6/2015 - anno XXIV

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All’oscuro dei pericoli di guerra

Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale... (Antonio Gramsci) Ci sono notizie che non sono ritenute tali dai massmedia come le aggressioni fasciste a Torino, Roma, Napoli verso gli studenti e di natura sessista nei confronti di studentesse e le gravi aggressioni contro delegati Rsu a Brescia. O come le morti sul lavoro soprattutto se si tratta di operai impiegati nelle ditte d’appalto all’Ilva di Taranto o nelle cave delle Apuane avvenute in novembre. I massmedia sono il megafono dei padroni, del potere, dei partiti borghesi. Ci martellano solo con le “informazioni” - l’expo di Milano è un esempio clamoroso - che fanno l’interesse del governo e che ingannano l’opinione pubblica per condizionarne le scelte. Come potrebbero il Presidente del Consiglio e i ministri far passare le loro porcate contro i lavoratori se non avessero un ampio spazio mediatico? Ad esempio l’ultima trovata del ministro del Lavoro Poletti che si chiede se l’orario di lavoro sia ancora utile ha avuto bisogno di una “verifica” pubblica sul lancio della trasformazione dei contratti di lavoro nazionali che vincolino la retribuzione ai risultati e non al tempo. Niente di nuovo, esisteva già quando si chiamava cottimo. Forte della collaborazione dei sindacati confederali che riassumono il compito di far digerire ogni “riforma”: jobs act, accordo sulla rappresentanza, taglio di stipendi, aumento produttività ecc. il Pd, con tutti i suoi discorsi sul futuro, riporta il lavoro indietro di un secolo. Renzi occupa tutto lo spazio televisivo possibile per far apparire un Paese che non c’è e poi si lamenta che la sua Leopolda n. 6 è stata annebbiata dai risparmiatori truffati mentre ad essere oscurati sono stati i sindacati di base, i movimenti sociali, i comunisti che a Firenze hanno manifestato contro la sua politica e le scelte del suo governo, così come i familiari delle vittime di Viareggio che stanno lottando per impedire che il processo nel quale è coinvolto l’uomo del Pd, Moretti - promosso a capo di Finmeccanica dopo la strage - vada in prescrizione. Quanto l’informazione sia superficiale, strumentale e al servizio del potere la verifichiamo anche in determinati momenti come l’arrivo degli immigrati o la strage in Francia. Per l‘attacco a Parigi quotidiani e reti nazionali hanno fatto un battage diretto al cuore dell’opinione pubblica, lo stesso

non è successo per altri attentati, ad Ankara, a Beirut, a Suruc, all’aereo russo in Egitto ecc. La Francia era alla vigilia delle elezioni, l’avvenimento doveva essere sfruttato politicamente. Al Governo francese non era sufficiente il pugno contro l’entrata degli immigrati, doveva mostrare i muscoli sia nella sporca guerra in Siria, sia sul piano interno. Sul piano interno ha prodotto un clima di stato d’assedio, scatenato la caccia all’islamico e un notevole consenso elettorale alla Le Pen. Ma Hollande doveva bombardare la Siria oltre gli attacchi sporadici. Evidentemente non ha funzionato la strategia messa in piedi dal 2011 mandando agenti speciali del Dsge, il controspionaggio dei servizi segreti francesi, nel nord Libano e in Turchia per istruire e organizzare contingenti armati dell’al Gays as Suri al Hur, cioè l’esercito siriano libero (Esl) per scatenare una vera e propria guerra civile. Se prima il nemico era Al Qaeda ora è l’IS, tutte creature alimentate e sostenute dalle potenze imperialiste. La strategia non è nuova: puntando sull’emotività creata ad arte per la caduta delle torri gemelle la Cia, che aveva reclutato 4mila mujahiddin per ottenere la caduta dell’Urss in Afghanistan, ha iniziato la caccia a Bin Laden scatenando una guerra (oviamente con la partecipazione dell’Italia). Lo ha confessato recentemente persino Hillary Clinton. La guerra è la soluzione alle crisi economiche dell’imperialismo e il complesso militare-industriale è sempre più produttivo. Si spendono miliardi per aumentare gli armamenti – compresi quelli nucleare - per colpire intere popolazioni – creando masse di disperati - e cambiare i governi non graditi all’imperialismo Usa e Ue e poter disporre delle ricchezze dei loro paesi. E la guerra deve essere accettata da chi non la subisce direttamente, con i pretesti umanitari, con la paura dell’immigrato, con misure repressive, con la revisione delle Costituzioni (non solo in Italia) in nome della sicurezza. Francia e Gran Bretagna sono la punta di diamante dell’interventismo Nato verso Siria-Iran in aiuto alle petromonarchie del Golfo, all’Italia sono stati assegnati i bombardamenti sull’Iraq (a 25 anni dai primi) e un eventuale intervento in Libia.

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L’Italia, inoltre prosegue la sua difesa dei mercanti privati mettendo a disposizione il proprio esercito. Si pagano i militari per difendere le petroliere - come nel caso dei marò fatti passare per vittime – e ora si inviano 450 militari in Iraq per proteggere la riparazione di una megadiga da parte di un’impresa privata. Quando non serve più mantenere viva la tensione utile alla creazione del consenso popolare calano assordanti silenzi. Ucraina, Palestina, Grecia, Kurdistan. Oblio sullo Yemen, bombardato da mesi, proprio da bombe e armi francesi, inglesi, tedesche e, naturalmente, italiane. L’Arabia Saudita, col suo regime medievale, alleato principale della Nato nella regione e amica del governo Renzi (grande amico anche dei governanti sionisti di Israele), così ha deciso. Chi non ricorre alla controinformazione sulla situazione internazionale che cosa ne sa di tutte le guerre scatenate in ogni parte del mondo e delle vere cause? Cosa ne sa del ruolo della Nato, che l’Italia paga 70 milioni di euro al giorno per l’appartenenza? La massiccia (40mila soldati) e dispendiosa esercitazione NATO di un mese fa (ne abbiamo scritto sul numero scorso), una prova generale di guerra, che ha coinvolto i territori italiani, è stata ignorata dalle reti nazionali. Viviamo, quindi, su una polveriera, in un periodo pericoloso saturo di guerre che i governanti - con la complicità della “grande informazione” - ci tengono nascosto, manipolano o deformano. E tutto in chiave anticomunista. È sempre più urgente denunciare il ruolo delle forze socialdemocratiche e del PD schierate con l’imperialismo. È sempre valida la denuncia di Lenin quando invitava il proletariato a decidere da che parte stare. Essere partigiani e non abulici, non indifferenti, evitare di farsi confondere, non abboccare alle fandonie raccontate da chi sta al potere e studiare (anche se è molto faticoso) ed essere curiosi su tutto perché la conoscenza permette di capire il mondo di cui siamo parte, la vita, i rapporti con gli altri, di essere liberi. E organizzarsi per affermare la propria ideologia di classe dimostrando che può esistere un sistema sociale che rappresenta effettivamente gli interessi dei lavoratori.

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Il jobs act renziano… e “l’Italia riparte” Seconda parte del documento che affronta l’inganno a danno delle lavoratrici e dei lavoratori sul quale occorre evitare che lo schiacciamento verso il basso nella garanzia della difesa del posto di lavoro e delle tutele spinga i lavoratori ancor più nelle braccia del fascio-leghismo salviniano o del grillismo pentastellato Stefano De Ranieri segue dal n. 5

Tempo indeterminato e tutele crescenti Dunque riconfermate - se non rafforzate, soprattutto perché ancora molto vantaggiose per i profitti aziendali - gran parte delle precedenti tipologie contrattuali, il fiore all’occhiello dell’intero jobs act è, senza ombra di dubbio, il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Tutto il percorso intrapreso da Renzi e dai suoi compagni (mi si perdoni l’uso del termine!) d’avventura, dai primi “tweet” ad oggi, è stato finalizzato proprio al raggiungimento di questo obiettivo strategico nell’ambito delle relazioni industriali del nostro Paese. Infatti non si tratta, come fin troppo superficialmente hanno giudicato il provvedimento taluni critici, della semplice introduzione nel nostro ordinamento del lavoro della quarantasettesima - dal 1997 ad oggi - tipologia contrattuale. Né tantomeno dell’auspicato allineamento, come invece hanno positivamente interpretato alcuni fautori dell’act renziano, alle direttive europee in materia di lavoro (viene comunque voglia di dire: “ma da che pulpito viene la predica”!), che individuano nell’assunzione a tempo indeterminato la forma contrattuale da privilegiare e sostenere. Il contratto a tempo indeterminato evocato da Renzi, anziché suscitare speranze per milioni di disoccupati, finisce per costituire, con quella tutt’altro che rassicurante dicitura “a tutele crescenti”, un potente strumento atto a ridefinire ulteriormente, grazie allo smantellamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, i rapporti di forza, già nettamente sbilanciati a favore dei primi, tra padroni e lavoratori. Con il contratto a tutele crescenti i lavoratori neoassunti - dal 1° febbraio 2015 possono essere liberamente licenziati per motivi economici, anche se questi ultimi dovessero poi risultare insussistenti. Al lavoratore licenziato, senza giusta causa e senza possibilità di reintegro, spetterebbe in cambio un modesto indennizzo economico: due mensilità per ogni anno di anzianità lavorativa, dopo un’eventuale sentenza giudiziaria; una mensilità per ogni anno, se si accederà alla proposta conciliativa del datore di lavoro. Con questo tipo di contratto il lavoratore di fresca assunzione inizierà a maturare solo dopo alcuni anni (tre) di servizio nella stessa azienda le prime tutele (compreso l’art. 18?). All’inizio, pertanto, il lavoratore da poco assunto potrà avere un basso salario, scarse garanzie normative e previdenziali (cosa accadrà di diritti come ferie e permessi o malattia e Legge 104?); non potrà disporre di garanzie sindacali: diritto di organizzazione, diritto di sciopero ecc. E sarà passibile di licenziamento in qualsiasi momento della sua attività lavorativa. Poi forse, una volta dimostrate le proprie capacità professionali -o meglio… la propria capacità di “adeguamento” alla volontà padronale - il “giovane” lavoratore considerato tale non necessariamente solo per una mera questione anagrafica - potrà finalmente aspirare alla stabilità e alle tutele del lavoro dipendente a tempo indeterminato. Diversi esperti, che pure hanno concorso a tradurre in termini tecnici le direttive politiche impartite dal governo in merito al jobs act, hanno rilevato come il contratto a tutele crescenti possa determinare all’interno di un luogo di lavoro una disparità di trattamento, in caso di licenziamenti per motivi economici, tra i dipendenti con maggiore anzianità di servizio e tutelati dall’art. 18 (quindi con possibilità di rein-

tegro in azienda) e i nuovi assunti privi, appunto, di tale garanzia. Da qui il profilarsi all’orizzonte di tensioni, di diatribe a non finire, di vertenze giudiziarie ecc. Ma niente paura! L’”illuminato” presidente dell’Inps Tito Boeri - uno dei padri ispiratori delle tutele crescenti - ha immediatamente rassicurato i “gufi”, sostenendo che tale incresciosa situazione potrà essere superata nel giro di pochi anni, quando le modalità di assunzione di gran parte dei lavoratori italiani - compresi, forse, anche quelli del settore pubblico - saranno state tutte uniformate alle nuove forme contrattuali basate sulle tutele crescenti. Tale affermazione lascia prevedere l’avviarsi di una fase di inasprimento dei licenziamenti - facilmente giustificati dal prosieguo della crisi economica - e quindi di incremento della disoccupazione, in attesa che maturino in via definitiva per le aziende le condizioni per assumere - o addirittura, perché no, ri-assumere

mento disciplinare messo in atto, non c’è possibilità di recupero del posto di lavoro ma solo la corresponsione di un’indennità economica commisurata all’anzianità di servizio e sottratta, pertanto, alla discrezionalità del giudice (in particolare il risarcimento dovrebbe essere calcolato in misura pari a due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di 4 e un massimo di 24 mesi). Al fine di evitare il ricorso al giudice, si può usufruire del nuovo istituto della Conciliazione Facoltativa Incentivata (C.F.I.). Nel qual caso il datore di lavoro offre al dipendente licenziato una somma in denaro (pari ad un mese per ogni anno di servizio, non inferiore a 2 e sino ad un massimo di 18 mensilità), esente da imposizione fiscale e contributiva e pagata “brevi manu” tramite assegno. Ovviamente con l’accettazione di tale accordo il lavoratore rinuncia per sempre alla causa giudiziaria verso il proprio ex datore (non è stato invece in-

eccezione alcuna, nella garanzia di tutele e diritti.

gli stessi lavoratori prima licenziati - usufruendo questa volta dei nuovi contratti a tempo indeterminato ma soprattutto a tutele crescenti (e l’aumento delle domande di disoccupazione - a seguito di licenziamenti spesso giudicati inspiegabili dagli stessi lavoratori che ne sono vittime - rilevate in tutti i Patronati dall’inizio dell’anno, potrebbe avere proprio come spiegazione quella del progressivo riadattamento di molte aziende alle nuove condizioni contrattuali messe a disposizione dal jobs act).

serito nel testo governativo, nonostante le pressioni esercitate in tal senso da alcune componenti dell’esecutivo renziano, l’opting out, meccanismo con il quale l’azienda, pur condannata dal giudice per licenziamento disciplinare ingiustificato di un proprio dipendente, potrebbe optare, anziché per il reintegro del lavoratore, per il pagamento di un indennizzo economico più cospicuo di quello previsto dalla nuova disciplina in materia); -) Nel caso di licenziamenti collettivi per motivi economici non c’è reintegrazione nel posto di lavoro ma solo un indennizzo monetario (da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità), come già per i licenziamenti individuali. E tutto ciò si applica anche a quei lavoratori il cui attuale contratto sia convertito in assunzione a tempo indeterminato dopo l’entrata in vigore del decreto; -) nel caso di licenziamenti nelle piccole imprese, la reintegra resta solo per licenziamenti discriminatori, nulli, espressi in forma orale. Per i licenziamenti economici è prevista l’erogazione di un’indennità monetaria (una mensilità per anno di servizio con un minimo di 2 e un massimo di 6 mensilità). Anche in questi casi è stato rilevato, da più parti, il possibile manifestarsi di una diversità di trattamento tra lavoratori protetti e non dallo Statuto dei Lavoratori. Anche in questo caso si cercherà di porre rimedio a questa differenziazione procedendo nel tempo ad un progressivo livellamento verso il basso di tutti i lavoratori, senza

Lavoratori vigilava sul divieto per il datore di lavoro di demansionare il profilo professionale del dipendente, con le conseguenti ripercussioni sul piano sia qualitativo (professionalità) che quantitativo (retribuzione) (Tra l’altro, nel 2003, il demansionamento è stato considerato dalla Cassazione atto incostituzionale, giacché lesivo dell’art. 2 della Carta Costituzionale che afferma il valore del pieno sviluppo della personalità umana in tutti i contesti in cui essa si trovi ad operare. Ma si sa che la Costituzione Italiana è ricca di bei principi, regolarmente violati per garantire la difesa degli interessi politici ed economici della borghesia!). Nonostante tale barriera, alcune eccezioni si erano già nel tempo verificate. Innanzitutto, per il tramite di un accordo sindacale, era possibile demansionare in aziende che avessero proclamato lo “stato di crisi”. Per cui, al fine di evitare probabili licenziamenti, si poteva addivenire ad intese, sia pure concepite come temporanee, che prevedessero per i lavoratori un cambiamento delle loro mansioni e delle relative retribuzioni. Ma è con il Decreto 138 del 2011 (governo Berlusconi) che la questione demansionamento assume una valenza legislativa ben più rilevante. Con questo decreto, infatti, i contratti aziendali e territoriali potevano operare in deroga alle disposizioni di legge in materia di mansioni e orari di lavoro, assunzioni e licenziamenti nonché alle relative regolamentazioni contenute nei C.C.N. di lavoro. Ma se quelle disposizioni

5) La nuova disciplina sui licenziamenti Certo è che l’adozione del contratto a tutele crescenti, con la soppressione di fatto dell’art. 18 relativamente ai neoassunti (ma in prospettiva, chissà?), ha offerto l’opportunità per una rivisitazione complessiva dell’intera disciplina sui licenziamenti, sia individuali che collettivi. Per cui oggi ci troviamo di fronte ad una situazione di questo tipo: -) nel caso di licenziamenti discriminatori, nulli per le modalità con cui sono stati comunicati o intimati solo in forma orale, vige la reintegrazione nel posto di lavoro così come previsto, almeno fino ad oggi, per tutti i lavoratori; -) nel caso di licenziamenti disciplinari la reintegra avverrà solo quando si riesca ad accertare, in sede giudiziaria, l’insussistenza del fatto materiale contestato. Viceversa, sgombrato il campo da qualsiasi ipotesi di licenziamento discriminatorio, laddove si consideri motivato il licenzia-

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6) Il demansionamento Ma all’interno del decreto sul riordino delle tipologie contrattuali vi è un altro passaggio - in genere sottovalutato anche nelle analisi più critiche del jobs act - che può sortire effetti immediati su tutti i lavoratori indistintamente, al di là della loro maggiore o minore anzianità di servizio o della loro posizione contrattuale. Si tratta dell’ampliamento del possibile ricorso da parte dell’imprenditore al demansionamento, sia verticale che orizzontale, di un proprio dipendente. Tale opportunità costituisce, al pari dei contratti a tutele crescenti o della nuova disciplina sui licenziamenti, un altro formidabile strumento di ricatto e di ritorsione a disposizione del padrone contro i lavoratori della propria azienda. Fino ad oggi l’art. 13 dello Statuto dei

legislative consentivano un solo livello di demansionamento, il jobs act potrebbe essere derogato anche in peggio, fissando il provvedimento, ad esempio, fino a due livelli di declassamento. E ciò potrà ora accadere anche in imprese non necessariamente in crisi ma che dichiarino solo il proposito di voler avviare un processo di ristrutturazione dell’azienda e della sua organizzazione produttiva. Pertanto, in caso di variazione degli assetti organizzativi aziendali che vadano ad incidere sulla posizione del lavoratore, lo stesso potrà essere assegnato tanto a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore quanto a maggior ragione vedersi rallentare il passaggio a mansioni proprie di un livello più alto. E se Poletti afferma, peraltro in modo tutt’altro che convincente, che l’inquadramento e il trattamento economico - fatta eccezione per tutte quelle voci accessorie connesse alla precedente mansione - rimarranno invariati, lo stesso Ministro del Lavoro sostiene la possibilità di stipulare accordi individuali, in “sede protetta” (cioè? Davanti ad un giudice? In presenza di rappresentanti sindacali?), tra datore di lavoro e lavoratore che possano portare ad una modifica anche del livello di inquadramento e della retribuzione, con l’obiettivo di mantenere il posto di lavoro; di acquisire, attraverso possibili ma non obbligatori “percorsi formativi”, una diversa professionalità; di migliorare le condizioni di vita (?) riorganizzando il proprio orario di lavoro. (Tra l’altro altre ipotesi di assegnazione di mansioni inferiori possono essere previste anche all’interno dei contratti di lavoro collettivi nazionali ed aziendali). Risulta evidente che con il jobs act a disposizione, la proprietà aziendale può mettere il dipendente - soprattutto se neoassunto- di fronte ad un imperioso autaut: o accetta le sue condizioni “capestro” - e cioè: demansionamento, abbassamento del livello di inquadramento, riduzione dello stipendio- oppure sarà licenziato con un indennizzo di poche migliaia di euro. Infine, come già anticipato, il demansionamento del lavoratore, così come stabilito nel decreto, può essere attuato non solo in senso verticale ma anche orizzontale. Si tratta di una modifica, apparentemente solo formale ma di fatto assai sostanziale, apportata dal jobs act agli articoli in materia di lavoro che già trattavano la questione del demansionamento. Pertanto, anziché di “mansioni equivalenti”, ora si parla di “mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. Ciò offre il “potere” al datore di declassare un lavoratore, pur mantenendolo all’interno di uno stesso livello, spostandolo ad esempio da un’unità produttiva ancora florida ad un’altra, facente capo alla medesima proprietà, avviata viceversa al declino se non addirittura alla sua dismissione. Questo trasferimento finirebbe per collocare il lavoratore, così penalizzato, su una sorta di binario morto, senza più garanzie future di eventuale avanzamento se non addirittura di conservazione del posto di lavoro.

“Il potere unilaterale dell’imprenditore” “Il potere unilaterale dell’imprenditore”: è con questa significativa espressione che il giuslavorista Andrea Lassandari, docente di diritto del lavoro presso l’Università di Bologna, sintetizza le proprie critiche al jobs act nel suo complesso e ad alcuni passaggi del medesimo in particolare come quello, per l’appunto, del demansionamento. Ed è proprio questa espressione che

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lavoro/leggi riassume, forse meglio di qualsiasi altra, l’aria che si respirerà nei prossimi anni nelle aziende italiane - grandi industrie, fabbriche di medie dimensioni, laboratori artigiani, uffici ecc. Con questo atto il governo Renzi ha voluto - oltre che premiarli con sgravi fiscali - assicurare agli imprenditori una totale libertà d’azione nella fase tanto dell’assunzione - garantendo loro ancora un vasto spettro di opportunità contrattuali - quanto del licenziamento - sopprimendo l’art. 18 - del lavoratore; ha delineato ampi spazi di manovra a favore dei datori di lavoro nei processi di riassetto organizzativo e produttivo dell’impresa - il demansionamento ne costituisce un elemento particolarmente incisivo - con la possibilità di costruire in sede aziendale “un diritto del lavoro à la carte” (Lassandari, Il F.Q., 23/02/2015), in spregio alla dignità del singolo lavoratore e al rispetto delle tutele sindacali. Nelle imprese del nostro Paese si creerà un clima molto pesante e minaccioso, fatto di intimidazioni da parte della proprietà verso i lavoratori tutti e verso quelli più combattivi in particolare. Un clima di ricatto e di possibile ritorsione verso chi non si piegherà ai diktat padronali; di controllo e di sanzione disciplinare verso chi opporrà resistenza alle sempre maggiori pretese delle direzioni aziendali e alle continue vessazioni inferte ai lavoratori. Non va dimenticato, in tal senso, che tra i decreti attuativi di più recente approvazione vi è anche quello riguardante la modifica dell’art. 4 dello S.d.L. che dovrebbe impedire ai datori di lavoro la sorveglianza a distanza dei propri dipendenti attraverso strumenti quali telecamere - in realtà già abbondantemente posizionate e giustificate per motivi di sicurezza soprattutto all’esterno e all’ingresso di molte aziende - microspie ecc. I confini entro cui attuare la videosorveglianza, nonché il controllo complessivo del lavoratore anche tramite intercettazioni telefoniche od ispezioni sui computer utilizzati per il proprio lavoro, dovrebbero viceversa allargarsi, scardinando - checché affermi il ministro Poletti - il già fragile equilibrio esistente tra esigenze dell’impresa e difesa della libertà dei lavoratori, lasciando mano libera alle direzioni aziendali nel decidere come vigilare sui propri dipendenti. D’altronde, in presenza di lavoratori considerati scomodi o poco produttivi, oggi non sarà difficile per il datore di lavoro sbarazzarsene. Basterà invocare la necessità di dover procedere a licenziamenti, individuali o collettivi che siano,

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per gravi motivi economici (calo delle commesse, restrizione dei mercati, ristrutturazioni aziendali per ragioni tecniche e/o organizzative ecc.) senza che gli eventuali ricorsi possano portare al reintegro del lavoratore espulso dall’azienda. Perché, quand’anche un lavoratore fosse licenziato per aver aderito ad uno sciopero o per aver manifestato idee politiche invise al proprio datore; perché si è ammalato o non ce la fa a sostenere ritmi e carichi di lavoro sempre più pesanti; giacché pretende il rispetto delle norme di sicurezza sugli impianti e per i suoi colleghi di lavoro; oppure perché lavoratrice in stato di gravidanza o comunque mamma di bambini ancora piccoli e da accudire, nessun datore ammetterà mai di aver licenziato per motivi discriminatori - o anche semplicemente disciplinari. Egli si appellerà a superiori ragioni di efficienza e di economia aziendale, impedendo alla lavoratrice o al lavoratore la possibilità di dimostrare il contrario. E dopo aver prodotto danni gravissimi e permanenti nel diritto del lavoro, restano di tutto ciò gli effetti a breve termine nel mercato del lavoro. Da questo punto di vista paiono manifestarsi, come rivelano anche i dati sull’occupazione di questi primi nove mesi dell’anno, spinte tra loro contrastanti ma, in realtà, solo apparentemente contraddittorie. Infatti, se da un lato si registra, per le ragioni accennate poco sopra, un aumento dei licenziamenti e di conseguenza della disoccupazione, dall’altro si palesa - ovviamente con grande rimbombo mediatico - l’incremento dei contratti a tempo indeterminato. Questa seconda spinta è favorita senz’altro da un doppio e formidabile incentivo per le aziende che decidono di assumere lavoratori con questo tipo di contratto: il più volte ricordato jobs act, con l’abrogazione per tutti i nuovi assunti della tutela contro i licenziamenti illegittimi, inteso come elemento strutturale e permanente delle nuove relazioni industriali; gli sgravi fiscali e contributivi introdotti dalla Legge di Stabilità per gli assunti nel corso del 2015, con un risparmio per le aziende di circa 8000 euro l’anno per tre anni, concepiti invece come stimoli immediati al rilancio dell’occupazione. Dunque, una convergenza di incentivi - eliminazione dell’art.18 e sostanziosi vantaggi economici - sicuramente appettibile per molte aziende (si pensi soltanto a tutte quelle ditte che operano nel regime degli appalti, alle quali, una specifica norma del decreto legislativo, consentirà di assume-

re i lavoratori “ereditati” dal precedente appaltatore ricorrendo ai nuovi contratti che prevedono la liberalizzazione del licenziamento). E’ possibile poi che nel breve periodo, considerate le opportunità offerte dal sistema delle tutele crescenti, anche molti contratti a tempo determinato e/o di collaborazione - questi ultimi comunque destinati ad esaurirsi - vengano da subito trasformati in contratti a tempo indeterminato, salvo poi riservarsi le aziende la facoltà di ritornare, a salvaguardia del proprio profitto, a scegliere in futuro tra la molteplicità di forme contrattuali di tipo precario ancora in vigore e a loro completa disposizione.

Se Marchionne sorride, a noi… “non ci resta che piangere”

Non sfuggono a nessuno gli sguardi compiaciuti dell’Ad di F.C.A., Sergio Marchionne, ogni volta venga ripreso mentre - le mani incrociate sul petto, quasi in perfetto stile andreottiano - tesse le lodi del jobs act e delle sue ricadute sulle relazioni industriali del nostro Paese. Ugualmente non può sfuggire il profondersi in grandi elogi riservati al “rottamatore” e ai suoi collaboratori dal Presidente di Confindustria Squinzi o dall’intramontabile Presidente di… Telethon (ah dimenticavo… anche di Alitalia e chissà di quant’altro ancora, ora ed in futuro), Cordero

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di Montezemolo. Già solo questo schieramento di forze pro-Renzi dovrebbe far inorridire milioni di lavoratrici e di lavoratori che nulla hanno da sperare di buono quando questi signori plaudono, soddisfatti, a ciò che è stato approvato da un governo diretto da un partito che si proclama di “sinistra” (aihmè!). Salvo cadere, situazione purtroppo ricorrente, nella trappola del famigerato detto “siamo tutti sulla stessa barca”, mettendo gli uni accanto agli altri, sullo stesso piano, imprenditori e lavoratori, come dal titolo di un famoso film del mai dimenticato Massimo Troisi, a noi… “non ci resta che piangere”. Anche perché i “sorrisini” confindustriali, oltre ad esprimere apprezzamento per i contenuti del provvedimento governativo o per l’umiliazione inflitta ai lavoratori e ai sindacati italiani, sono manifestazione evidente della gioiosa presa d’atto dell’inconsistenza, se non addirittura della risibilità, dei sindacati confederali, della “sinistra” italiana e del movimento di opposizione al jobs act. Dalle ipocrisie della cosiddetta “sinistra dem” ai pruriti vendoliani provocati dall’affannosa ricerca di un nuovo soggetto politico che, inglobando anche il massimalismo di Landini e di quella parte della Fiom più sensibile ai richiami dell’esperienza politica, rilanci le quotazioni politiche del leader pugliese; per finire, con le posizioni mistificatorie - si pensi soltanto alle dichiarazioni rilasciate più volte dalla dirigenza pentastellata sulla questione sindacale - del M5S, che pure nella considerazione di molti lavoratori è apparso come l’unico oppositore, almeno sul piano istituzionale, alla cancellazione dell’art.18. Solo la presa di coscienza dei lavoratori e la loro mobilitazione in piazza e nei luoghi di lavoro può ergersi a barriera contro il jobs act, le tutele crescenti, il precariato diffuso, il lavoro nero, lo sfruttamento massiccio, la ricerca del profitto ad ogni costo e senza regole, che tante volte ci ha fatto e ci farà veramente piangere di dolore e di disperazione pensando alle centinaia di lavoratori morti sul lavoro e per il lavoro. Purtroppo molti lavoratori, pur dando comunque prova di volontà di partecipazione e di disponibilità alla lotta, sono incappati nella polverizzazione e nella faziosità

di gran parte del sindacalismo di base che non ha saputo sfruttare occasioni importanti di mobilitazione, come lo sciopero sociale del 14/11/2014; oppure nella crisi dell’apparato burocratico del sindacalismo confederale, stretto nella morsa della necessità di non precludersi spazi di compromesso con le controparti confindustriali e governative e del bisogno auto-conservativo di riprendersi, attraverso il ricorso strumentale alla piazza, dallo sbandamento seguito al tradimento perpetrato dal governo amico (!). Tutto ciò ha avuto come risultato quello di rendere vani altri importanti momenti di lotta, come la manifestazione nazionale del 25/10/2014 o lo sciopero generale del 12/12/2014, e di frustrare in tal modo le speranze dei tantissimi lavoratori mobilitatisi in quei giorni nel nostro Paese.

Dunque… che fare? Ecco presentarsi l’annoso quesito che immancabilmente toglie il sonno ad un movimento comunista frantumato e rissoso, come quello che si agita nel nostro Paese, ed al quale solo un grande rivoluzionario calvo e con pizzetto seppe dare nel 1917 una “efficace” risposta. Certo è che, riposti i fazzoletti grondanti lacrime e sangue nei cassetti, tocca proprio alle comuniste e ai comunisti rimboccarsi le maniche e cercare di riannodare le trame disperse dell’unità di classe, dell’incontro tra lavoratori e tra generazioni diverse di lavoratori, del confronto tra chi vive esperienze lavorative diverse o tra chi, pur provenendo spesso da continenti diversi, si ritrova accomunato dalla questione “lavoro”, dallo sfruttamento capitalistico, dall’oppressione del lavoro salariato. Quando l’”effetto doping sul mercato del lavoro” - come lo ha definito Luigi Mariucci, altro giuslavorista critico verso il jobs act, in Notiziario Filt-Cgil Regione Veneto - frutto di quella convergenza di incentivi di cui sopra, tenderà ad attenuarsi; quando ci si renderà conto del progressivo “prosciugamento” delle risorse stanziate a sostegno dei lavoratori in difficoltà (le diverse forme di CIG, l’indennità di disoccupazione e di mobilità, i fondi di solidarietà) e del fallimento delle “nuove” politiche

attive per l’occupazione, il grande bluff di cui si è reso promotore Renzi comincerà a svelarsi. Quando a seguito del jobs act, del contratto a tutele crescenti, dell’abolizione dell’art. 18 i lavoratori conosceranno una condizione di precarietà totale e definitiva del loro rapporto con il lavoro, l’”era felix” di Renzi - così in un suo tweet - mostrerà la sua vera natura classista e reazionaria. (Vale la pena ricordare che è stato calcolato che un imprenditore particolarmente “spregiudicato” potrebbe, giostrando tra diverse tipologie contrattuali, tenere in scacco, cioè in una situazione di precarietà, un proprio dipendente tra i 5 e i 9 anni. E’ da notare che la stima dei 5 anni proviene dalla voce dell’economista Pietro Garibaldi, nientemeno che un altro dei padri ispiratori del contratto a tutele crescenti). Dunque, quando l’inganno perpetrato da don Matteo (Renzi) a danno delle lavoratrici e dei lavoratori si manifesterà definitivamente, occorrerà evitare che lo schiacciamento verso il basso nella garanzia della difesa del posto di lavoro e delle tutele ad esso connesse, spinga i lavoratori italiani ancor più nelle braccia del fascio-leghismo salviniano o del grillismo pentastellato. Solo una costante denuncia ed attività dei comunisti all’interno delle organizzazioni sindacali e di base, delle assemblee operaie, dei luoghi di studio e di lavoro, permetterà loro di raccogliere i frutti di una rinnovata opposizione al disegno reazionario che si va realizzando nel mondo del lavoro.

P.S. Spero che una grande penna come quella di Cervantes possa perdonarmi per aver più volte accostato il suo grande eroe de La Mancha ad un “dittatorello” in embrione qual è Matteo Renzi, servo di poteri forti, economici e finanziari, italiani ed esteri, pronti a schiacciarlo nel momento in cui non dovesse svolgere fino in fondo la lezioncina che gli è stata assegnata. La speranza è che, proprio come don Chisciotte, anche il “rottamatore” possa alla fin fine stroncarsi contro le pale di quei mulini.

la prima parte è stata pubblicata sul n. 5/2015

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lavoro/salute

Amianto continua la strage di lavoratori Quattromila morti ogni anno, mille morti solo per mesotelioma

Michele Michelino A 23 anni dalla messa al bando dell’amianto, con la legge 257 del 1992, ci sono in Italia ancora 32 milioni di tonnellate di amianto e le bonifiche sono tuttora da fare. Chi sperava che dopo l’approvazione della legge, l’amianto sarebbe stato rimosso dalle nostre vite deve ricredersi: la decontaminazione dalla fibra è fallita. Ad oggi ci sono oltre 400 norme regionali e nazionali sull’amianto, un labirinto legislativo che fa comodo a molti che per i propri interessi speculano sulla vita delle persone.

Istituzioni, padroni, governi, giocano scaricando le responsabilità su altri Il profitto viene prima di qualsiasi diritto alla salute e alla sicurezza e si realizza sulla pelle dei lavoratori e cittadini. L’amianto è un problema sociale, sanitario, medico, una bomba ecologica non ancora disinnescata, che prima ha ucciso i lavoratori esposti alla fibra killer e oggi avvelena la popolazione. Nonostante la legge 257/1992 che metteva al bando l’amianto lo preveda, a tutt’oggi manca una mappatura completa dei siti contaminati da amianto e da bonificare e molto spesso sono datate o inattendibili. L’articolo 10 della legge 257/1992 stabilisce che le regioni in mancanza di adozione dei Piani Regionali amianto, possono essere commissariate, ma nonostante ciò diverse regioni non lo hanno ancora adottato e molte non lo hanno ancora rinnovato (come Lombardia, Toscana ed Emilia Romagna, ad esempio). In Italia come sempre fatta la legge si trova subito l’inganno. La legge ha bandito l’utilizzo del minerale killer, ma non ha obbligato lo smaltimento, e la polvere d’amianto continua ad uccidere almeno 8 italiani al giorno e avvelenarne altre migliaia. In Italia esistono tuttora oltre 300 mila edifici, di cui almeno 3000, rappresentano un grave rischio di contaminazione per tutta la popolazione, uomi-

ni, e donne, bambini e anziani, e più di 2400 sono scuole italiane contaminate dall’amianto e come ha riconosciuto la presidente della Commissione di inchiesta sugli infortuni sul lavoro del Senato Camilla Fabbri, “di questo passo ci vogliano 85 anni per smaltirlo ed eliminarlo dalle nostre vite”. Tutti conosciamo la storia di Casale Monferrato grazie alle lotte condotte dagli ex lavoratori dell’Eternit e dai cittadini, ma lo sviluppo industriale, il “progresso” di questo paese si fonda sul sangue di decine di migliaia di proletari e i cittadini, spesso dimenticati. La stessa Unione Europea nel quadro strategico per la sicurezza sul lavoro dal 2007 al 2011 afferma che anche se in Europa si assiste ad una diminuzione degli infortuni del 28%, i morti per amianto sono in continuo aumento. Il mesotelioma, il tipico tumore maligno continua a colpire e uccidere senza pietà, in tutto il paese, dal nord al sud, ma l’amianto provoca anche molti altri tumori maligni di cui si parla poco nei mass-media. Secondo recenti dichiarazioni del presidente di INAIL, Massimo De Felice, i lavoratori vittime dell’asbesto decedute assicurate all’INAIL sono stati 17.428 e oltre 21mila i casi di mesotelioma tra il 1993 e il 2014. I numeri ci dicono che l’amianto continua ad uccidere oggi come nel passato e purtroppo senza bonifiche dei siti industriali e del territorio la lista dei morti e malati continuerà a crescere ancora per molti anni. Tutti sono a rischio, nessuno è esente dal pericolo.

In questo le denunce dei lavoratori e comitati sono servite. La procura contesta agli indagati di non essersi adoperati per rimuovere in passato l’amianto dai manufatti nei vari locali, soprattutto tecnici, ma anche dal famoso lampadario all’interno del teatro. Per l’accusa non sarebbe stato fatto il censimento dell’amianto previsto dalla legge del 1992, e il minerale avrebbe provocando la morte dei lavoratori. Tra le persone morte per esposizione alla sostanza cancerogena dagli anni ‘70-80, ci sono un siparista, un macchinista, un vigile del fuoco, un falegname, un addetto al trasporto delle scene e anche una cantante lirica. Questo dramma è solo uno dei tanti. Anni di omertà e complicità da parte di tutte le istituzioni hanno finora garantito l’impunità a padroni

e manager colpevoli di aver mandato consapevolmente a morte migliaia di lavoratori nelle fabbriche pur di realizzare i massimi profitti. In questi anni molti processi sono stati esempi d’ingiustizia per le vittime e i loro familiari assolvendo i padroni nel merito o per prescrizione. In ogni caso la mobilitazione dei lavoratori e delle vittime organizzate in comitati è servita per portare sul banco degli accusati i padroni e manager assassini di tanti operai. Anche se la giustizia per le vittime dell’amianto non arriva quasi mai e quando arriva è tardiva come dimostra il processo Eternit di Casale Monferrato, le vittime, i comitati e le associazioni continuano a lottare: oggi in Italia sono in corso più di 50 processi per amianto.

La Scala di Milano Anche nel tempio della musica, il Teatro della Scala di Milano (dove abbiamo manifestato in occasione della prima) l’amianto ha fatto delle vittime, e per le morti sospette per amianto alla Scala sono indagati quattro ex sindaci di Milano, Carlo Tognoli, Gian Paolo Pillitteri, Giampiero Borghini e Marco Formentini. Indagato anche l’ex sovrintendente Carlo Fontana indagati, con altre persone, per omicidio colposo e lesioni colpose per sette decessi e altri casi di malattia dovuti all’amianto presente al Teatro alla Scala.

Processo Pirelli bis per amianto negli stabilimenti milanesi Il 25 gennaio 2016 la sentenza Con l’udienza del 16 dicembre sono finite le arringhe dei difensori dei 10 manager imputati accusati di omicidio plurimo colposo per la morte di 24 lavoratori degli stabilimenti milanesi della Pirelli di viale Sarca, via Ripamonti e via Caviglia. Ancora una volta gli avvocati degli imputati, pur riconoscendo la presenza dell’amianto, hanno minimizzato i rischi cui erano esposti i lavoratori, affermando che il rischio era “modesto”, che il “talco usato in Pirelli era puro ed esente d’amianto”, che le ammine aromatiche usate in Pirelli non erano cancerogene, e hanno chiesto per i loro assistiti l’assoluzione con formula piena.

All’inizio dell’udienza il giudice Anna Maria Gatto presidente della V Sezione Penale del Tribunale di Milano ha sciolto la riserva sulla perizia psichiatrica depositata nella precedente udienza dal difensore di Guido Veronesi (fratello del noto oncologo) che aveva chiesto l’uscita dal processo per il suo assistito perché “non in grado di intendere e volere”. Il giudice ha disposto la sospensione dal processo dell’imputato Veronesi per “deficit cognitivo”, disponendo una perizia del tribunale, stralciando la sua posizione e rinviando la decisione al 16 maggio 2016 (in caso di respingimento sarà giudicato da un altro giudice).

In ogni caso non ci sarà un allungamento dei tempi processuali. La dott.ssa Gatto ha comunicato di volere concludere il processo per gli altri 9 imputati, fissando per il 25 gennaio 2016 - dopo le brevi repliche del P.M. Maurizio Ascione (che ha chiesto per 7 dei 10 imputati pene dai 4 anni e sei mesi fino ai 9 anni) e dei legali delle parti civili - la Camera di Consiglio per pronunciare la sentenza. La Pirelli e i manager imputati arrivano alla fine del processo dopo aver risarcito quasi tutte le parti offese e le parti civili istituzionali, monetizzato la morte e la salute; solo due vittime non hanno accettato una transa-

zione economica. Il nostro Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio, parte civile nel processo insieme a Medicina Democratica, Associazione Italiana Esposti Amianto e alla Camera del Lavoro di Milano, considera vergognoso che questi signori - già condannati in contumacia nel primo processo - non si siano mai presentati in aula e non abbiano mai avuto un’espressione di cordoglio chiedendo scusa alle vittime e alle loro famiglie. Lo stesso vale per i loro avvocati difensori che, con cinismo, hanno trattato le vittime come numeri, come cose e non come es-

seri umani. La salute e la vita umana sono il bene più prezioso. I responsabili di questi crimini vanno perseguiti e condannati, affinché serva da monito a tutti coloro che non rispettano la sicurezza sui posti di lavoro e nel territorio, lucrando sulla pelle dei lavoratori e cittadini anteponendo il profitto. Il giorno della sentenza il nostro Comitato come sempre sarà presente in tribunale. La lotta continua. Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio (Sesto S. Giovanni)

Sostenete “nuova unità”, la stampa comunista Un altro anno sta per finire, riorganizziamoci per affrontare il prossimo Vogliamo prima di tutto ringraziare i numerosi compagni che hanno mandato il loro contributo economico per sostenere le spese legali del processo che sta affrontando la compagna Carla, direttore di “nuova unità”, per aver manifestato contro la guerra in Libia. La solidarietà dei compagni che sostengono le nostre idee e il nostro operato - oltre ai soldi sempre utili e necessari - è lo strumento che ci sprona ad andare avanti nella nostra lotta contro un mostro come quello del sistema capitalistico e imperialista. Ma siamo costretti ancora a battere cassa, come ogni anno, per sostenere anche il nostro giornale con sottoscrizioni e abbonamenti. Sono tempi duri per tutti, i nostri lettori sono principalmente proletari, pensionati, precari o disoccupati e quindi togliere dal magro bilancio personale il contributo a nuova unità è un sacrificio che apprezziamo molto e che vogliamo valorizzare. La crisi economica falcidia le famiglie che si trovano ormai con un disoccupato od occupato con finti lavori saltuari e malpagati in casa. L’attacco alla libertà di stampa, quella cartacea viene da lontano è subdola e non dichiarata, avviene sul piano economico e “democraticamente” attraverso l’aumento dei costi di stampa e spedizione, attraverso gli aumenti delle bollette di luce e telefono e per il mantenimento della sede/redazione siamo lentamente strangolati. Viene offerto in cambio lo strumento gratuito delle nuove tecnologie del web, dall’apparenza ancora più democratica, alla portata di tutti e che ormai tutti o quasi in qualche maniera utilizziamo, spesso una scelta obbligata da molti giornali militanti che hanno dovuto ripiegare su questi mezzi. Noi finché riusciamo vogliamo continuare a mantenere vivo il giornale su carta - necessario alla diffusione militante nelle iniziative, alla discussione e allo studio, alla creazione di legami – e anche perché un sistema come quello capitalistico che non ha niente di democratico, e lo vediamo in questi giorni quando spirano venti di guerra, può in qualsiasi momento e senza troppi sforzi oscurare, con qualche scusa magari sulla sicurezza, i siti web che ritenesse scomodi o pericolosi. Resistiamo, in un momento di feroce attacco all’ideologia comunista in Europa e nel mondo per affermare la visione del mondo socialista, senza sfruttamento e oppressione – se non per i borghesi - portare avanti l’unità dei comunisti e ricostruire il Partito Comunista. Il Partito capace di guidare la lotta di classe fino alla sconfitta del capitalismo e alla instaurazione della dittatura del proletariato. Allora compagni abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza (Gramsci) ma anche e ancora dei vostri contributi, dei vostri abbonamenti e del vostro impegno per la diffusione di nuova unità.

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la redazione

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bilancio EXPO

Una pagliacciata pagata cara dai lavoratori Nella Milano del 2015 si è testato un nuovo “sistema Italia” fatto di sfruttamento dei lavoratori, massimizzazione dei profitti e assenza di ogni traccia di amministrazione “pubblica”, sostituita da una gestione esclusivamente ad uso e consumo delle imprese

Pacifico Finalmente Expo 2015 è terminato, e con lui tutto il carico di retorica insopportabile. Tuttavia gli effetti e le conseguenze del “grande evento” si abbatteranno su cittadini e lavoratori per i prossimi anni a venire. Ritengo quindi opportuno fare una prima valutazione anche sulla base degli scenari che si prospettano. Per cominciare, partiamo dal lato dei costi, cioè quanti soldi ci hanno rubato anche stavolta, senza che un minimo accenno di ribellione si manifestasse, conseguenza di una propaganda e di una retorica che nemmeno i cinegiornali Luce ai tempi di Benito Mussolini avevano mai raggiunto. Già quest’estate si scorgeva sulla stampa che mancavano all’appello 1,5 miliardi (MILIARDI!!!) dai conti (visitatore di expo italiano medio, ricordati questo numero tutte le volte che ti faranno aspettare 6 mesi per una radiografia di cui paghi profumatamente il ticket). Infatti, la pagliacciata EXPO, è costata 2,4 miliardi di fondi pubblici (EXPO Fiera 2015 è al 70% pubblica in quanto in mano alla Regione Lombardia, e al comune di Milano), di cui si recupereranno solo 860 milioni.1 La cifra però non tiene conto degli extra costi: varianti, riserve e penali chieste dalle imprese. Solo per il padiglione Italia sono stati riconosciuti extra costi per 29 milioni. Riassumendo ecco i dati complessivi:  Biglietti venduti: 21.5 milioni  Ricavo medio per biglietto: 19 euro  Ricavo totale biglietti: ca. 410 milioni Come vedete molto probabilmente siamo ben lontani dai 500 milioni auspicati da Sala che, ciononostante, si è guadagnato la candidatura a sindaco di Milano. E attenzione! Per costi qui Sala intende solo quelli della macchina organizzativa, ovvero della società Expo 2015. I costi reali dell’Expo sopportati dal contribuente italiano, terreni acquisiti da Arexpo, infrastrutture logistiche e padiglioni, a 14 miliardi di euro. Non fatevi imbrogliare dalla narrativa televisiva sul grande successo di visitatori. Con un calcolo per assurdo – ma indicativo per l’assurdità di cui è impregnata la retorica di regime – per coprire i 14 miliardi Expo avrebbe dovuto vendere 360 milioni di biglietti a 39 euro. Una cifra surreale che smaschera l’inganno di chi parla di successo di Expo in base a 19 o 20 milioni di ingressi. Ingressi che sono stati in ogni caso molto inferiori a quasi tutte le Expo 2 precedenti (es. Siviglia 1992: 41 milioni). Ma Expo 2015 è anche questo:  Terreni agricoli pagati 7 volte il loro valore di mercato;  Subappalti mafiosi – presunti per ora – e commissariamenti di imprese;  Arresti a non finire, da Gianstefano Frigerio e Primo Greganti ai vertici di Infrastrutture Lombarde;  Interessi di cosche calabresi;  Ritardi causati dai politici cui si è posto riparo ricoprendo di denaro pubblico le imprese, per pagare turni notturni e straordinari;  Biglietti Expo abbinati alla tessera del PD (“due schifezze al prezzo di una”);  Affidamento dell’intera ristorazione a Eataly: ottomila metri quadrati, 20 ristoranti e circa 2,2 milioni di pasti da distribuire, senza gara e a condizioni da amico (ben il 95% dei ricavi restano a Farinetti);  Consulenti di comunicazione che fatturano poche centinaia di migliaia di euro che si aggiudicano appalti per decine di milioni;  Donazioni perlomeno singolari da parte di Expo, come gli 80 mila euro concessi all’associazione ecclesiale“Rinnovamento nello Spirito Santo” per la manifestazione “10 piazze per 10 comandamenti“, la chiesa non rinuncia mai, come al solito, a mettere la sua zampa;  Almeno 1.000 ettari di terreni agricoli cementificati per sempre;  La scarsa trasparenza dell’organizzazione Expo: il bilancio consuntivo 2014 non è consultabile online (“file corrotto”, ovviamente il formato è incompatibile con quello di un normale PC) e quello previsionale 2015 non è pubblicato, anche se si parla di soldi nostri. Expo 2015 risulta inoltre un’operazione in perdita, anche sotto l’aspetto immobiliare. La gara per la vendita dei terreni è andata deserta. Fondamentalmente per tre motivi: l’alto valore economico delle aree, i vincoli urbanistici per l’operatore immobiliare e la crisi del mercato immobiliare. Fattori che

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determinavano un livello di rischio troppo alto. Per questo, è stato necessario chiamare in causa il Governo. Il suo ingresso segna una ridefinizione dei rapporti pubblico-privato. Il pubblico, come al solito, farà quadrare i conti iniettando denaro e svolgendo il ruolo di garante nei confronti delle banche. Il privato, invece, si metterà in tasca i profitti. Insomma le conclusioni sono due: 1) Nell’italietta oggi come ieri si governa esclusivamente se si fanno favori a imprenditori/banche, alle varie mafie e alla chiesa; 2) Come al solito si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti, in barba ad ogni retorica neoliberista. E a noi dicono di continuo che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e che si devono tagliare le spese. Tuttavia, anche qualora emergesse un sostanziale pareggio tra costi e ricavi per quanto riguarda i 6 mesi di evento, si tratterebbe di un equilibrio ottenuto comprimendo fortemente il costo del lavoro e introducendo nuovi dispositivi di sfruttamento come il lavoro gratuito dei volontari. Il circo EXPO è una realtà fatta di condizioni di lavoro precarie, turni fino a 13/14 ore e mancato pagamento degli stipendi e degli straordinari dei lavoratori all’interno dei padiglioni. Inoltre, va osservato che, rispetto alle tematiche dell’esposizione, il dibattito è stato del tutto ininfluente. Ciò che ha prodotto è stata la ‘Carta di Milano’ che, per usare le parole del Segretario generale di Caritas Internationalis – non certo etichettabile come estremista – “riflette le vedute di Paesi ricchi piuttosto che rappresentare i poveri del mondo”. L’ennesimo documento fatto di enunciazioni di principio destinate a rimanere lettera morta. D’altra parte, all’interno di Expo 2015 hanno trovato posto sia le ONG (secondo me da considerare alla stregua di qualsiasi azienda, che lucrano sulle sventure altrui, e pienamente funzionali al sistema capitalista che vuole gli stati sempre più disinteressati alle sorti dei più deboli), che alcune multinazionali impresentabili – Monsanto, Coca Cola, Nestlè, Selex, McDonald’s, per citarne alcune – ma che hanno trovato ugualmente spazio all’interno dei padiglioni, che sono le principali responsabili dell’impoverimento di popolazioni di interi continenti come l’Africa. E’ facile poi ragliare contro gli immigrati “per motivi economici”, come se multinazionali, banche non facciano gli stessi danni (a volte anche peggiori con minor sforzo) delle bombe e delle armi che l’occidente, direttamente o per interposta persona, come i mercenari dell’IS, o stati terroristi come Israele (osannato durante EXPO), scarica contro gli stati che non si allineano ai suoi diktat. Lontano anni luce da ogni discorso sulla lotta alla fame, mi pare che Expo abbia invece favorito su questo tema i ben noti meccanismi di predazione dei territori anche attraverso la trasformazione del cibo in merce, ad uso e consumo delle necessità del mercato. Altro che diritto all’alimentazione! Expo 2015, è stata solo una squallida vetrina dei meccanismi di espropriazione della ricchezza prodotta da chi la terra la lavora, da chi le fabbriche le vive (o sopravvive) per un’intera giornata per salari da fame (appunto) e da chi sopporta le condizioni e gli orari sempre peggiori delle catene distributive e di vendita.

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A questo proposito occorre riflettere sul fatto che pare sempre più evidente quale fosse il vero obiettivo: istituzionalizzare il ‘modello Expo’. Un sistema che in questi 6 mesi si è caratterizzato per bassi salari, orari di lavoro di 13-14 ore al giorno, utilizzo in deroga dei contratti a termine, di apprendistato e degli stage, utilizzo abusivo dei volontari, ma soprattutto, conflittualità sindacale assente. Il post Expo, quindi, si sta configurando come la ricetta borghese e capitalista di uscita dalla crisi. In quest’ottica, il successo, non è quello del numero di visitatori (è probabile che sapessero la reale entità degli ingressi, contrariamente a quanto dichiarato ufficialmente), visto che rispetto a quanto dichiarato in pompa magna all’inizio fino ad oggi l’asticella si è progressivamente abbassata fino a quota 20 milioni, ma quello di realizzare una zona franca dello sfruttamento, in nome della “crescita, dell’occupazione e del rilancio economico”. Expo, non diversamente dalle “Zone economiche speciali”, è stato il laboratorio privilegiato in cui testare sperimentazioni da generalizzare, allora è evidente che con l’Esposizione universale nella Milano del 2015 si è testato un nuovo “sistema Italia” fatto di sfruttamento dei lavoratori, massimizzazione dei profitti e assenza di ogni traccia di amministrazione “pubblica”, sostituita da una gestione esclusivamente ad uso e consumo delle imprese. Per quanto riguarda poi le ipotesi di utilizzo delle aree, l’idea è quella di trasferire alcune delle facoltà scientifiche – quelle attinenti al tema di Expo – dell’Università degli Studi di Milano e realizzarvi un campus universitario dismettendo l’area di Città Studi. Collegato a questo primo progetto c’è anche l’insediamento del Centro per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA) e la realizzazione, da parte di Assolombarda, di un polo tecnologico, in grado di far convergere tutti gli attori coinvolti nella filiera italiana dell’Information Technology. All’interno dell’area troverebbero posto anche diversi uffici della Pubblica Amministrazione. L’investimento complessivo si aggirerebbe intorno al miliardo di euro e servirebbe a realizzare ‘un’area per l’innovazione’, cioè una zona giuridicamente indipendente con un’autonomia legale, economica, amministrativa e politica. Sull’esempio di quanto effettuato già a Shenzhen, Hong Kong, Singapore o Dubai, si tratterebbe di creare un’area con una fiscalità bassa, assenza di burocrazia ed un sistema legale snello attirando investimenti produttivi sull’area.3 Il progetto riguarderebbe solo 60-70 mila metri quadri, su un’area che ne comprende più di un milione.4 Quindi una goccia nel mare. Staremo a vedere, ma date le premesse, non dobbiamo aspettarci nulla di buono. Il modello EXPO, unito al Jobs act, costituisce l’ennesimo attacco ai lavoratori, assecondando quella che è la più grossa ossessione del padronato: abbattere il costo del lavoro, nonché un sistema di regalie, tangenti, favori volte a favorire tutto il tessuto della grossa e media imprenditoria che costituisce il blocco sociale al potere e che sostiene questo governo. La sinistra antagonista e di classe deve quanto prima cercare di prendersi la scena e creare quantomeno un pensiero critico. Deve assolutamente risolvere, una volta per tutte, quello che secondo me è il suo più grave handicap: numericamente è via via più esigua, sempre più isolata dal corpo sociale che in qualche modo si vuole rappresentare (quello del lavoro: salariato, disoccupato, precario, non pagato, o pagato in nero). Altra questione centrale riguarda la creazione di consenso attorno a pratiche conflittuali. E’ questo ciò che manca, ed è da qui che si deve ripartire, da subito, tornando a fare politica, cioè costruendo un discorso conflittuale che vada di pari passo al sentire comune della classe. Senza accelerazioni inutili o altrettanto inutili attendismi.

1 Il Fatto Quotidiano 5 agosto 2015 “Il miracolo di Expo: alla fine ci costerà 1,5 miliardi” di Gianni Barbacetto 2 Fonte www.scenarieconomici.it 3 http://www.sosfornace.org/perche-expo-2015-non-e-stato-un-successo/ 4 Il Fatto Quotidiano “L’ideona di Renzi che umilia Milano” Gianni Barbacetto 10 novembre 2015

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attualità

Un punto di vista sulle riforme costituzionali

La riforma dell’illusione costituzionale come via formale all’introduzione dell’autoritarismo di potere Luciano Orio

La scelta di classe rimase la stessa negli anni di Berlinguer e del compronesso storico, fino a quando il crollo dell’URSS diede modo ai dirigenti di allora di abbandonare definitivamente la scelta di campo ed annullare il nome del partito. Dopodiché il PCI, divenuto PDS, DS, PD, immedesimato nella logica politica dell’alternanza di governo, assume, per conto del grande capitale, il ruolo di partito di governo. La continuità storica di questa formazione politica è assicurata: il PD non è altro che il prodotto del PCI di allora.

Porcellum, Italicum, prove di autoritarismo non autorizzato Il governo Renzi, forte di una maggioranza parlamentare ottenuta con una legge dichiarata incostituzionale, si appresta a cambiare la Costituzione, senza alcun rispetto per la prassi parlamentare, con lo stesso schema con cui ha già fatto approvare la nuova legge elettorale (Italicum). Si tratta di modifiche indispensabili proprio per rendere efficace la riforma elettorale, che assegna uno sproporzionato “premio di maggioranza” al partito che risultasse primo nel ballottaggio, indipendentemente dalla maggioranza effettiva dei votanti. Un colpo di mano diretto a stravolgere la democrazia rappresentativa, concentrando nelle mani del governo e di chi lo guida potere esecutivo e potere legislativo ed eludendo il controllo parlamentare che il bicameralismo avrebbe dovuto garantire, condizionando l’elezione degli organi di garanzia e controllo quali il Presidente della Repubblica, i giudici della Corte Costituzionale e i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Nello specifico dei principali punti della riforma, scopriamo che: - è previsto il superamento dell’attuale bicameralismo: il senato infatti viene trasformato in un organo che dovrebbe rappresentare le istituzioni territoriali, privato del potere di dare o togliere la fiducia al governo. - si attribuisce al Governo il potere di dettare alla Camera dei Deputati i tempi per l’approvazione di leggi ritenute importanti. A tale scopo viene inserito l’istituto della “tagliola”, che permette al Governo di imporre la chiusura del dibattito entro il termine di 70 giorni, per passare subito al voto finale sul testo proposto. I deputati non potranno discutere, né proporre modifiche, vedranno il proprio ruolo svilito a “passacarte”. Si tratta di uno strumento di ingerenza che viola il principio di separazione dei poteri. - si riduce significativamente il diritto di iniziativa legislativa popolare, che vede il numero delle firme necessarie alla presentazione della proposta di legge triplicarsi, da cinquantamila a centocinquantamila. Queste modifiche costituzionali saranno combinate con il nuovo sistema elettorale, che è già stato approvato ed entrerà in vigore il 1° luglio 2016 (a cancellazione avvenuta del Senato come camera elettiva). Obiettivo del nuovo sistema elettorale è attribuire ad un unico partito la vittoria elettorale ed il governo del paese, abolendo le coalizioni. Con questo sistema, se nessuna lista raggiunge il 40% al primo turno, si svolge un ballottaggio tra le due liste più votate. Chi vince il ballottaggio si aggiudica il premio di maggioranza, indipendentemente dalla percentuale di voti raggiunta. Nel caso di due partiti che raggiungano circa il 25% al primo turno, l’elettore si vedrà costretto, al secondo turno, a votare uno di quei due partiti. Anche dovesse restare a casa il risultato non cambierebbe. In ogni caso uno dei due partiti vincerà le elezioni, aggiudicandosi il premio di maggioranza e potendo così governare da solo il paese. La regola democratica per la quale “il voto è personale ed eguale, libero e segreto”, espressione del principio di eguaglianza per cui tutti i voti hanno peso uguale e che vince le elezioni e governa chi ha più voti, viene stravolta. Con il nuovo sistema potrà governare chi ha ottenuto solo il 25%, senza curarsi del restante 75% dei cittadini che hanno scelto diversamente, il cui voto varrà 3 o 4 volte meno del voto degli elettori del partito che conquista il “premio”. Inoltre, con il ballottaggio, si istituzionalizza la regola del votare “il meno peggio”. Il Governo, nelle intenzioni dei “padri costituenti”, aveva bisogno, per governare, della fiducia del Parlamento. Il Parlamento, con queste due riforme, costituzionale ed elettorale, vedrebbe drasticamente ridotta la propria centralità, svilita alla sola funzione di ratifica dei provvedimenti del Governo. Senza alcuna legittimazione l’attuale maggioranza sta apportando modifiche sostanziali alla Costituzione, dirette a ridimensionare la centralità del Parlamento, quale istituzione rappresentativa della sovranità popolare, realizzando una forzata concentrazione di poteri nelle mani del Governo. Questo è quanto ci aspetta sul campo delle “riforme istituzionali”. Ovviamente Renzi ed il suo governo, come d’abitudine, liquidano ogni critica come frutto di resistenze di vecchi imbecilli ad un’inarrestabile

Sarà Renzi il nuovo padre costituente?

modernità. Ma dall’altra parte l’opposizione batte pochi colpi ed è priva di una compiuta valutazione storica e politica del problema: la deriva costituzionale del nostro paese non origina dalla controriforma di Renzi, ma con essa invece si compie, dopo un lungo percorso iniziato all’atto stesso del varo del “patto costituzionale”. La Carta Costituzionale “nata dalla Resistenza” e “legge più importante” per gli italiani è stata veramente quel caposaldo indispensabile per la difesa della democrazia (borghese)? È veramente il caso di nutrirsi di “illusioni costituzionali”, vagheggiando la “riconquista” della Costituzione del 1948; una posizione tipica degli esponenti democratico-borghesi, imbevuti di parlamentarismo. Dovremmo veramente darci l’obiettivo politico di costruire comitati per la difesa della Costituzione (Prc)?

Una costituzione “sovietica”? Partiamo dall’inizio. Con la “svolta di Salerno”, dell’aprile ‘44, Togliatti, segretario generale del PCI, impose, per ragioni internazionali, che la lotta di Resistenza al nazi-fascismo si sviluppasse sulla base di una strategia di alleanza tra i partiti antifascisti di massa (comunisti, socialisti e cattolici), indirizzata allo sviluppo di una “democrazia progressiva”, individuata come unica possibilità storicamente determinatasi per un cambio di regime nel nostro paese. Già nell’aprile ‘44 Togliatti ebbe a dichiarare: “Non si pone oggi agli operai italiani il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia”, dando a questa opinione una “natura programmatica”. La strategia fu quella di un fronte unito senza pregiudiziali, che abbandonò partigiani e militanti comunisti e i loro sogni di rivoluzione. Non si trattò di attendere momenti più favorevoli, accumulando forze nella lotta per il socialismo. No, semplicemente Togliatti e dirigenti del PCI imposero a governi e partiti borghesi la propria presenza di forza politica organizzata per la gestione del potere attraverso gli organismi istituzionali: parlamento, governo, autorità locali. A tal fine, nell’ambito dell’Assemblea Costituente (‘46-’48), Togliatti operò affinché la magistratura costituisse un ordine autonomo e indipendente da altri poteri (dal governo, ma anche da forme di controllo popolare). Si adoperò poi per l’istituzione del bicameralismo, per cui, ogni legge per essere approvata deve passare al vaglio sia della Camera che del Senato. Infine il PCI favorì l’approvazione delle leggi di autonomia regionale, estendendo alle regioni poteri molto ampi, come quello di legiferare, amministrare e spendere. Così il gruppo dirigente del PCI cercò di imporre la propria influenza sugli apparati dello Stato. Non fu strategia per il socialismo, ma un’abile tattica per ritagliarsi all’interno del sistema borghese un proprio spazio economico e politico (e clientelare). Togliatti giustificò la validità della propria scelta qualificandola come una singolare via costituzionale al socialismo: “La lotta politica per dare alla democrazia italiana contenuti nuovi, socialisti, ha nella Costituzione un ampio terreno di sviluppo”, “una linea politica

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di conseguente sviluppo democratico e di sviluppo nella direzione del socialismo attraverso l’attuazione di riforme di struttura previste dalla Costituzione stessa”. La strategia delineata si sarebbe col tempo ulteriormente affinata ed affermata: riconoscere la legittimità dei governi borghesi (DC), nei confronti dei quali legittimarsi come forza di opposizione, per far parte, in pianta stabile, del sistema di potere della grande borghesia italiana. A tal fine la grande “alleanza con le masse cattoliche”, lungi dal rappresentare l’accumulo di forze proletarie e popolari per una improbabile “via italiana al socialismo”, finì col diventare compromesso politico con la DC, in funzione “atlantica” (adesione alla NATO), per l’espansione dei grandi monopoli pubblici e privati e per il controllo e la repressione delle lotte operaie e contadine. E la Costituzione? Rimase, come la “via italiana” al socialismo, un’opera incompiuta che nei suoi principi ispiratori non si realizzò e non poteva realizzarsi perché l’impedimento era insito nei rapporti di forza: non si cambia la società senza conquistare il potere. O una foglia di fico: anni e anni di retorica costituzionale non ci hanno salvato da leggi emergenziali, terrorismo fascista, corruzione dilagante, guerre umanitarie, disoccupazione e, soprattutto, da una devastante ingiustizia sociale. La costituzione fu una tappa di quella strategia dell’inganno che ha proprio nel PCI il suo vettore principale: mentre da un lato si discuteva di “grandi diritti sociali” e di “socialismo”, dall’altro si lasciava mano libera ai padroni. Così, quella italiana, divenne la migliore Costituzione del mondo, una costituzione assolutamente meravigliosa, che prevedeva “riforme strutturali improntate al socialismo”; che affermava “... il principio della sovranità popolare” e “dello Stato fondato sul lavoro” e assegnava “alle forze del lavoro un posto nuovo e preminente”; riconosceva “il diritto dei lavoratori ad accedere alla direzione dello Stato”. Ribadiva “la necessità di trasformazioni politiche necessarie per muovere la società nazionale nella direzione del socialismo”; perché la classe operaia italiana può organizzarsi “in classe dirigente... nell’ambito del regime costituzionale” e che “il rispetto, la difesa, l’applicazione integrale della costituzione repubblicana è il cardine di tutto il programma politico del partito”. Tutte queste (e molte altre) frasi altisonanti di Togliatti e del gruppo dirigente del PCI hanno mascherato per decenni la realtà più cruda: tra tutti i 139 articoli contenuti nella Costituzione, l’articolo 42, il quale prevede che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”, ne rappresenta più di ogni altro la natura di classe. Del resto, le disposizioni contenute nelle costituzioni di tanti paesi a favore di libertà e diritti civili, contengono allo stesso modo altre disposizioni che li annullano o li cancellano. Come disse Marx: “ciascun articolo contiene la propria antitesi: si annulla completamente”. La parabola del PCI ha origine da questa fase storica.

Tornando alla Costituzione, ironia della sorte vuole che il governo Renzi si appresti ora a rimuovere quegli intralci alla propria “governabilità”, così vitali per i suoi predecessori di “partito” ai tempi della Costituente. In tempi di crisi economica endemica e di guerra generalizzata serve un deciso rafforzamento dei poteri dell’esecutivo e gli impedimenti posti da alcune norme costituzionali vanno rimossi, minimizzandone quanto possibile gli effetti negativi, convincendo ampi settori dell’opinione pubblica che esistono autoritarismi dal volto umano, tanto più necessari quando servono a disciplinare un paese disordinato e confusionario come il nostro. Cosa già tentata da Berlusconi nel 2006 e sonoramente bocciata nel referendum. Ora il governo Renzi, incostituzionale e mai eletto dal popolo italiano, si appresta a svuotare quel che resta della democrazia rappresentativa per divenire lo strumento esecutivo delle decisioni di istituzioni extra nazionali, subendo l’egemonia USA e i ricatti dell’Unione europea, a salvaguardia degli obblighi di pareggio del bilancio e del pagamento del debito pubblico. Certo, non possiamo pensare in assoluto che rivedere una costituzione significhi la rovina della democrazia; tuttavia quel revisionismo storico e politico tracciato da Togliatti nella carta costituzionale e sviluppato poi in decenni di riformismo democratico borghese, che ha svuotato di significato la lotta per il socialismo, mette a rischio lo stesso spirito originario del patto fondativo della Repubblica “nata dalla Resistenza”, cioè l’antifascismo. L’evidente progressione del sistema politico italiano verso un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo (con l’indebolimento del Parlamento e della sovranità popolare) e lo svuotamento della democrazia partecipativa fa ritenere che l’Italia abbia dimenticato molto della propria tradizione democratica. In Francia la guerra al terrorismo richiede misure autoritarie e liberticide come lo stato d’emergenza e la revisione autoritaria della costituzione. Abbiamo ceduto fette consistenti della nostra sovranità a vantaggio dell’Unione europea e delle banche (che hanno il privilegio non secondario di emettere valuta) e forgiato una nuova “etica” della guerra nel contesto dell’ingerenza umanitaria NATO. Abbiamo assegnato una centralità assoluta all’economia di mercato. Siamo forse di fronte all’agonia della democrazia borghese?

Cosa ci riserva il futuro? Con ogni probabilità si andrà ad un nuovo referendum abrogativo. La parola tornerà allora ai cittadini, ma sarà una parola incerta, debole. Non sarà espressa con la lingua del protagonismo dei lavoratori e popolare, quanto invece con l’ennesimo sterile ricorso alle urne. Sterile perché alla lunga sarà perdente, bloccato dal clima politico di reazione, come già nell’occasione di altri referendum si è potuto notare. Non c’è scelta: la battaglia per la difesa dei diritti costituzionali va appoggiata alla lotta per i diritti sociali, cioè alla lotta di classe, e questa non ha certo bisogno di essere accreditata da istituzioni ed istituti delegittimati e lontani da lavoratori e proletari.

note “Legge elettorale e riforma costituzionale” - breviario delle ragioni del NO - Associazione Nazionale Giuristi Democratici - www.giuristidemocratici.it “Ancora sulle divergenze fra il compagno Togliatti e noi” - Edizioni Oriente Milano “Da Togliatti a Renzi” - http://www.pennabiro.it

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attualità

Parigi val bene una messa… … così si tramanda abbia esclamato Enrico di Navarra, protestante, quando fu informato che per divenire re di Francia (siamo nel 1594) avrebbe dovuto convertirsi al cattolicesimo. Con il che si dimostra che gli interessi materiali – da sempre, ieri come oggi – prevalgono sulla morale, sull’etica ecc. ecc. Daniela Trollio (*) Gli orribili attentati avvenuti in Francia il 13 novembre scorso, dove come sempre ne hanno fatto le spese innocenti civili – francesi, europei e arabi, badate bene – hanno immediatamente risolto alcuni spinosi problemi (questo ci ricorda forse qualcosa? A me vengono in mente Pearl Harbor, il golfo del Tonchino, lo stesso 11 settembre...).

1°. I profughi non sono più un nostro problema Le potenze capitaliste occidentali non avranno più problemi con i profughi che fuggono dalle guerre e dalla miseria causate dalla loro avidità: a Bruxelles le suddette potenze hanno deciso, il 29 novembre, di dare graziosamente 3 miliardi alla Turchia per la “gestione” dei migranti.

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Strana scelta, visto che è ormai un segreto di Pulcinella – ben prima che Putin lo dicesse a voce alta - non solo il fatto che per anni la Turchia ha aperto le sue frontiere con la Siria e fatto tranquillamente passare i “terroristi” che hanno costituito l’IS, ma anche il fatto che proprio questo paese sarebbe il canale di vendita del petrolio del Califfato (petrolio venduto a prezzo inferiore a quello di mercato, quindi estremamente appetibile). Sarà per questo che la Turchia ha abbattuto un aereo russo (forse i piloti avevano visto qualcosa che non dovevano vedere?), nonostante che in teoria Turchia e Russia stiano dalla stessa parte nella coalizione contro l’IS? I profughi, dicevamo. Dopo le lacrime di coccodrillo – dovute certamente ai nostri tanto sbandierati “valori“ – sparse dai politici e dai media sul bimbo siriano di 3 anni di nome Aylan Kurdi, annegato su una spiaggia turca, la Caritas – bellamente ignorata dai suddetti – ricorda che nel solo 2015 di bambini annegati ce ne sono stati ben 700. Già ci eravamo dimenticati del milione di bambini iracheni morti in 10 anni di guerra, di quelli palestinesi che muoiono da cinquant’anni, di quelli uccisi ogni giorno dalla fame o da malattie curabili con pochi centesimi. Ora, con la scusa del terrorismo, possiamo dimenticarci tranquillamente che questi 700 piccoli, insieme alle loro famiglie, fuggivano dalle guerre, dalle bombe, dalla miseria causata dalla rapina imperialista delle potenze occidentali.

2°. Non si bada a spese Dall’inizio della Crisi con la maiuscola, crisi per i proletari perché la finanza, le banche, il grande capitale hanno arraffato profitti mai visti durante i periodi normali, i nostri diritti sono stati cancellati via via: il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, ad una vecchiaia dignitosa ecc. ecc. non erano più compatibili con le necessità del capitalismo. La parità di bilancio, l’abbattimento del debito pubblico erano i mantra ripetuti ogni giorno, si è distrutto un paese – la Grecia – perché il concetto fosse chiaro. Ma… Ma le spese per le misure anti-terrorismo non entreranno nei pareggi di bilancio richiesti “dall’Europa”. Se in tutti i paesi della UE si sono tagliati spietatamente i fondi per la sanità, per le pensioni, per il poco welfare che resta, i mercanti d’armi, le banche, la finanza possono aspettarsi altri grassi affari su cui nessuno avrà nulla da dire perché sono per la “nostra sicurezza”. Quanto

servano poi alla nostra sicurezza le spese militari lo dimostra un semplice fatto, oltre a quanto andiamo dicendo da anni: nei giorni precedenti all’attentato di Parigi, la città era strapiena di uomini dei servizi segreti dei paesi che avrebbero partecipato alla conferenza sul cambiamento climatico, oltre che di quelli francesi. Che i soldi per le spese militari ci siano è ben chiaro. Il primo ministro britannico, David Cameron, ha già annunciato un aumento del bilancio della difesa di 16.800 milioni di sterline, con un’ulteriore riduzione della spesa pubblica per educazione e salute. L’Arabia Saudita ha appena comprato dagli Stati Uniti missili per 1.75 mila milioni di dollari, col pretesto di combattere i ribelli Houthi nello Yemen, quelli che – essendo sciiti – sono automaticamente nemici, poiché sono considerati parte del gioco dell’Iran per il potere nella regione. Tenendo conto che gli Houthi non hanno nemmeno un elicottero, è un acquisto curioso. Qualche cifra: le spese militari dell’anno scorso sono state di 1,7 bilioni di dollari. Gli Stati Uniti, il paese che spende di più, avevano un bilancio della difesa di 711.000 milioni di dollari, seguiti dalla Cina con 143.000 milioni di dollari, un incremento del 170% dal 2002. La Russia ha registrato un aumento del 53% dal 2014 e ora ha un bilancio di 72.000 milioni di dollari, superando la Gran Bretagna, con 62.700 milioni e la Francia, che raggiunge i 62.500 milioni di dollari. Ai bilanci militari della difesa ora va aggiunta la spesa derivata dall’antiterrorismo. L’Istituto per l’Economia e la Pace (IEP) ha stimato i costi diretti dell’antiterrorismo nel 2014 in circa 53.000 milioni di euro. Se il mondo assegnasse solo il 10% delle spese militari alla sicurezza umana, questo si tradurrebbe nell’incredibile cifra di 170 mila milioni di dollari, sufficiente a portare a buon fine gli ambiziosi obiettivi di sviluppo sostenibile indicati in settembre alle Nazioni Unite da tutti i capi di Stato del mondo, risolvendo così tutti i problemi sociali.

3°. Stracciamo quanto resta delle Costituzioni Dopo gli attentati di Parigi, non la fascista e razzista Marine Le Pen ma il socialista Hollande ha proposto – tra le altre misure anti-terrorismo - l’internamento preventivo dei musulmani (il Consiglio di Stato per ora gli ha risposto che una

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tale misura non è proprio costituzionale). In Francia sono schedate con la lettera “S” le persone sottoposte a controlli “per prevenire minacce gravi alla sicurezza pubblica o alla protezione dello Stato, qualora delle informazioni o degli indizi reali siano stati raccolti a loro carico”. Si tratta in totale di circa 20 mila persone (compresi estremisti di destra o antagonisti di sinistra), delle quali 10 mila sono sospettate di islamismo radicale e vicinanza agli ambienti jihadisti. La domanda rivolta dal governo francese al Consiglio di Stato è la seguente: “Può la legge autorizzare una privazione di libertà degli interessati a titolo preventivo e prevedere la loro detenzione in centri previsti a questo scopo?». Credo ci sia un solo precedente storico: all’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Giappone, vennero internati in campi di concentramento tutti i giapponesi residenti negli States. Non è la prima iniziativa di questo genere in Francia. La legge sull’informazione di intelligence votata nel giugno di quest’anno è stata presentata come una risposta agli attentati di Charlie Hebdo, ma aveva già un anno di vita. Questa legge autorizza l’installazione di “scatole nere” presso i providers di Internet per captare in tempo reale i dati degli utenti. Permette anche l’installazione di microfoni, di dispositivi di localizzazione, di telecamere e di programmi informatici spia. I destinatari di queste misure, che sono precedenti e non sono servite a prevenire alcun attentato, sono stati i cittadini francesi nella loro totalità. Siamo di fronte al fascismo del 21° secolo, cominciato con il Patriot Act di Bush dopo l’attentato alle Torri Gemelle, che conferiva alle forze “dell’ordine” poteri senza precedenti. La privacy di un cittadino poteva essere violata dalla polizia sulla base di futili sospetti, in modo arbitrario, senza richiedere l’autorizzazione, motivata, all’autorità giudiziaria. Si potevano inoltre potevano arrestare e trattenere persone anche se non avevano commesso alcun reato, sulla base di semplice ‘sospetto’. Da noi il pagliaccio Renzi si è subito accodato: il 18 novembre è stato presentato alla Camera un emendamento al solito “decreto missioni” che prevede la creazione di forze speciali, che godranno di “garanzie funzionali”: tradotto, questo significa impunità per eventuali reati commessi durante l’esercizio delle loro funzioni. Non è una novità neanche questa. Ricordiamo le “renditions” (in cui sono

stati coinvolti tutti i paesi europei, compresa l’Italia), i campi di internamento e tortura segreti nei paesi dell’est Europa, il “waterboaring”, Abu Ghraib e Guantanamo. Ma ora c’è un quadro legale che lo permette. Finora i poteri speciali conferiti alle forze di sicurezza e alla polizia erano un tratto distintivo di quelle che chiamavano “dittature”. Ora, in nome della sicurezza, diventano un attributo delle nostre “democrazie” borghesi. Questi i problemi risolti dagli attentati di Parigi. È brutto, scomodo e difficile, ma va detta onestamente e chiaramente una cosa: i più di 130 morti e 350 feriti – come qualcuno ha scritto - sono il bilancio di una “noiosa” mattina in città come Bagdad, Damasco o Tripoli. La scelta delle città non è casuale. Esse hanno in comune almeno due cose. La prima: odorano tutte di petrolio e di importanza geostrategica, e non aggiungeremo altro in merito. La seconda: erano le capitali dei tre paesi più laici dell’Africa. Non si sono attaccati e bombardati l’Arabia Saudita o il Qatar – patrie e finanziatori del fondamentalismo waabita che guida formazioni come Al Qaeda e l’IS. Sono invece i “nostri” alleati.

Il mondo a testa in giù In nome dei “diritti umani”, il capitalismo e l’imperialismo hanno inventato le “guerre umanitarie”, seminando con l’uranio impoverito morte e distruzione anche per le generazioni future dell’ex Jugoslavia. Per portare la “pace” (forse quella dei cimiteri), hanno moltiplicato esponenzialmente le guerre. Per il “progresso” hanno riportato i lavoratori alle condizioni dell’Ottocento. Per la difesa della “democrazia” si viola e si cancella ogni principio di umanità e di solidarietà. Se il “peccato” del Novecento era il nazismo, oggi gli untermenschen sono gli arabi, in toto. Per il “futuro”, oltre a sfruttare a morte classi e popoli sottomessi, stanno distruggendo il pianeta nella cieca corsa al massimo profitto. Rosa Luxemburg scriveva, nel 1915, “Socialismo o barbarie”. Nella barbarie ormai ci siamo, affondati mani e piedi. Non ci è concesso più molto tempo per salvarci. (Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)

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La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo

Tutti inzuppano il panettoncino nella notizia natalizia L’articolo sette della Costituzione dice: Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. Come si vede una definizione ambigua e volutamente ambigua. Ognuno può essere contento: laico, religioso, ateo. Ma almeno una considerazione chiara dovrebbe uscire, per quanto riguarda il rapporto scuola-chiesa. Non è fra gli imperativi didattici cantare a Natale Tu scendi dalle stelle. Altri obblighi toccano la scuola, altre necessità si impongono. Poi a Natale si fa questo – cantare - ed altro – presepe ecc. Ma non è un obbligo scolastico. È una specie di uso che va bene a tutti, giusto come l’ambiguo articolo sette della Costituzione, nella prima parte, i Principi fondamentali.I guai che sono toccati al preside di una scuola omnicomprensiva di Rozzano, alle porte di Milano, invece riaccende i soliti e triti discorsi banalmente idioti: ha fatto bene, ha fatto male, nessuno tocchi il presepe. E dai, canzoncine ispirate dalle voci della destra più becera, che, diamine, difende il diritto di festeggiare il Natale, diritto-dovere, che come abbiamo visto, neppure lo

Scandali in vaticano e papa “riformatore” Si è sempre saputo che le gerarchie ecclesiastiche per tenore di vita e potere economico si guardano bene dal seguire la povertà evangelica e gli insegnamenti di S. Francesco. La bibliografia e i documenti che provano questa verità sono innumerevoli. Per questo motivo non mi ha certamente meravigliato il recente scandalo suscitato dalla fuga di documenti sulla gestione dell’ingente patrimonio edilizio del Vaticano, sulla sfarzosità delle abitazioni cardinalizie e sull’esigua percentuale dei denari ricevuti in elemosine, impiegati in effettiva beneficenza. Il Cristianesimo ha certamente esercitato un’azione di progresso nei primi anni dopo la morte di Cristo. Predicare l’uguaglianza degli uomini in una società basata sulla schiavitù, era rivoluzionario; come rivoluzionario era rivendicare il diritto a seguire la propria fede. Questa carica progressista del Cristianesimo venne gradatamente svirilizzata, sminuita, resa puramente formale dal potere politico dell’impero romano. Si capì che l’aspetto mite di “porgere l’altra guancia” che l’affermazione che “gli ultimi saranno primi nel Regno dei Cieli”, poteva essere usata (per dirla con Marx) come oppio del popolo. E così fu, a partire dall’Editto dell’imperatore Costantino del 313 con il quale si assunse il Cristianesimo come religione di Stato. Da quella data le gerarchie ecclesiastiche divennero la punta di lancia delle classi dominanti, appoggiarono sempre e sistematicamente il potere economico-politico. Ogni movimento rivoluzionato fu condannato e ostacolato dalla Chiesa: basta pensare agli esempi più rilevanti storicamente come la Rivoluzione francese, il Risorgimento italiano, la Comune di Parigi e la Rivoluzione d’Ottobre. Questo giudizio complessivo delle Gerarchie ecclesiastiche non vuole oscurare figure isolate come S. Francesco d’Assisi, o per stare più vicini ai nostri tempi, i sostenitori della Teologia della Liberazione, oppure

stato chiaramente recita nella Costituzione. Il preside in questione ha poi rassegnato, in seguito alla bufera di attacchi che gli sono stati rivolti, una specie di semi dimissioni da capo della scuola elementare. Tutti inzuppano il biscottino, o panettoncino natalizio, sulla notizia. Questo fatto, con la retromarcia del preside, è stato un bel regalo alla compagine di centro destra che, a corto diidee, basta sentire quello che dice Salvini, con presepe incorporato, finalmente può difendere un diritto sacrosanto, nel senso pieno del termine, e pretendere che ad ogni fine lezione si canti l’inno di lode al Buon Gesù, oppure che si dica la preghierina prima delle lezioni e si guardi bene al crocefisso appeso ai muri, non fa niente se scrostati, delle classi delle scuole italiane. E se poi quel muro è pieno di umidità, se cade il soffitto, se mancano sedie, insegnanti – occhio che adesso un po’ dovrebbero essercene e allora occorre che questi dicano tre Pater Ave Gloria per avere ricevuto il posto di lavoro dopo decenni di precariato – se gli stipendi ai supplenti, bidelli compresi, vengono pagati con mesi di ritardo, se mancano soldi per le ristrutturazioni, contratti non firmati da sei anni, classi pollaio ecc. ecc. tutto si sana con un bel Silent Night, Holy Night. Tiziano Tussi Milano

tanti preti vicini e solidali con il popolo come don Gallo o il Vescovo di Molfetta Tonino Bello. Se vissuta in modo autenticamente fedele al Vangelo, la religione Cristiana può divenire parte del fronte progressista. Resta la necessità per un marxista di combattere (ideologicamente e lasciando la libertà individuale della fede) ogni religione come portatrice di irrazionalità e atteggiamenti antiscientifici. Una considerazione mi sento di fare, anche se la mia posizione di marxista e di ateo può non avere sufficiente autorevolezza: tutti coloro che si richiamano ed operano in nome del Vangelo dovrebbero per coerenza e credibilità dissociarsi dalla Religione Cattolica ufficiale e dalla sua Gerarchia. In caso contrario possono, anche involontariamente, divenire la foglia di fico che nasconde la natura retrograda e reazionaria del cattolicesimo. E proprio partendo da questa ultima considerazione, la figura dell’attuale Papa mi sembra avere solo la funzione di ridare credibilità ad una struttura marcia, reazionaria ed antipopolare. I casi possono essere due ed in entrambe avrebbero l’effetto di perpetuare l’operato nefasto della Chiesa cattolica: - il Papa vuole davvero riformare la Chiesa ed allora verrà ostacolato in ogni modo dalla Gerarchia anche con l’uccisione (ricordiamoci che il Diritto canonico vieta l’autopsia dei pontefici per evitare ogni prova dell’eventuale eliminazione fisica); - il Papa vuole solo dare l’impressione di fare alcune “riforme”. La seconda ipotesi mi sembra più probabile. Due fatti rendono ambigua la figura di Bergoglio: è stato vescovo in Argentina, ha taciuto durante la dittatura di Videla ed ha sempre combattuto contro la Teologia della Liberazione; è stato gesuita, cioè quanto di più lontano da S. Francesco e poi ne prende il nome…. Orlando Simoncini Empoli

Contro i nuovi nemici di classe Il Pd, non contento di aver votato l’infame legge Fornero, dopo oltre 3 anni di governo, nulla ha fatto ne farà per alleviare la più grave ingiustizia perpetrata a danno dei lavoratori. La maggioranza dei suoi elettori, pensionati con 15-35 anni di contributi mantengono il loro privilegio a spese di chi neppure dopo 40 anni può andare in pensione. Oppure politicanti pagati profumatamente dai nostri sacrifici decidono che chi ha la fortuna di avere un lavoro deve mantenerlo sinchè morte non li separi. Chi scrive è un ex amico dell’Unità per la diffusione domenicale ed iscritto per oltre 30 anni a partiti di sinistra, quindi tenetevi i vostri commenti sulla vittoria della destra. La destra economica è il Pd, e di destra è chi gode di privilegi a scapito di altri. PD finchè avrò forza ti combatterò, elettori Pd siete i miei nuovi nemici di classe. Maurizio Casalini Savona macchinista di quasi 58 anni, vita media della categoria 65 anni, 41 anni di contributi...

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lettere

Benvenuti nel regno della prepotenza Sul numero 5/2014 di “nuova unità” veniva pubblicato il mio contributo: L’avventura a ritroso di un sindacalista comunista in Brianza. In quel periodo mancava la parte giudiziale che si è conclusa il 25 febbraio 2015 con le seguenti modalità: Presso il Tribunale di Monza sezione Lavoro in unica udienza il Giudice del Lavoro dott.ssa Capelli ha accolto il mio ricorso disponendo il pagamento da parte della società Molteni Spa di 32.500€ lordi (25.000€ netti) corrispondenti a circa 15 mensilità a mio favore a titolo di risarcimento per il licenziamento intimatomi oltre al pagamento delle spese legali. Così si è dissolto di fatto il teorema sul quale era stato costruito il licenziamento. Va detto a onor del vero che essendo un licenziamento disciplinare teoricamente sarebbe stato previsto il reintegro - unico caso sopravvissuto alla demolizione dell’art.18 - ma è rimasta solo una possibilità astratta in quanto con la nuova legge i giudici non hanno più nessuna volontà di pronunciarsi in tal senso. Il renzismo così ha invaso anche i Tribunali del Lavoro. Conclusione: chi vorrà passare da via Rossini 50 a Giussano sede della Molteni Spa, nel triangolo di territorio che divide la Brianza Monzese da quella Comasca potrà leggere nell’aria il seguente slogan: BENVENUTI NEL REGNO DELLA PREPOTENZA. Fiorenzo

Alla NATO non interessa l’opinione dei Montenegrini La NATO ha annunciato lo scorso 2 dicembre che il Montenegro dovrà entrare a far parte dell’Alleanza. L’annuncio viene presentato come un “invito” dai nostri media, che alla NATO sono asserviti, nonostante l’opposizione della popolazione montenegrina sia stata fragorosamente evidenziata da recenti proteste conclusesi anche con pesanti scontri di piazza. D’altronde, quegli stessi media hanno preferito dipingere le proteste come genericamente “antigovernative” sottacendo la questione cruciale della ventilata annessione del Montenegro alla NATO. La possibilità di tale adesione è il frutto delle manovre del governo di destra e del “leader eterno”, il contrabbandiere di sigarette e fiancheggiatore della camorra Milo Djukanovic, ininterrottamente in sella nel paese da un quarto di secolo nono-

stante tutto, il quale non a caso menziona il “referendum del 2006 per l’indipendenza” come il suo altro grande successo: un referendum-truffa vinto grazie ai brogli elettorali avallati dalla UE. Giustamente il Segretario Generale Stoltenberg ritiene che li “attende un grande lavoro (...) per assicurare l’appoggio dell’opinione pubblica all’adesione del Montenegro alla NATO”, vale a dire un grande lavoro di repressione delle proteste di piazza, disinformazione strategica sui media e, all’occorrenza, strategia della tensione e stragismo, così come avvenuto ad esempio nella vicina Italia, dove durante la Guerra fredda solo dosi massicce di propaganda e bombe nelle piazze hanno potuto ridurre al silenzio l’opposizione in quello che era il paese con il più forte partito comunista d’Occidente. Italo Slavo Roma

Processo Ilva, si ricomincia dall’inizio Dopo la tragedia per favore risparmiateci la farsa. Con rabbia e indignazione i 120 operai Ilva, i lavoratori e operatori del cimitero S.Brunone, i cittadini di Tamburi e Paolo VI – autorganizzati come parti civili dallo Slai Cobas Taranto e patrocinati dai legali di Torino Bonetto-Vitale-Pellegrin e dai legali di Taranto Silvestre-Lamanna hanno accolto la notizia proveniente dal Tribunale/SARAM del ritorno del processo al GUP non ci pare possibile che per un cavillo legale si debba ricominciare tutto da capo e fare quindi di questo maxi-processo un maxi-scandalo delle lungaggini della giustizia e della impunità dei responsabili di morti e disastro ambientale per il profitto. È possibile che ci sia una volontà di non arrivare fino in fondo al processo e che dietro vi siano padroni, politici, governo che da sempre hanno ostacolato il lavoro dei magistrati? Certamente non intendiamo scoraggiarci e facciamo appello a tutti i lavoratori e cittadini a comprendere l’importanza storica e pratica del processo che abbiamo sempre segnalato e comprendano che senza la partecipazione popolare nessuno avrà giustizia né i morti né i vivi e l’Ilva da tragedia si trasformerà in farsa. Slai Cobas per il sindacato di classe Taranto slaicobasta@gmail.com

nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) Anno XXIV n. 6/2015 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Emiliano, Michele Michelino, Luciano Orio, Pacifico, Stefano De Ranieri, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 14856579 intestato a: nuova unità - Firenze Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine Chiuso in redazione: 15/11/15

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