RIVISTA COMUNISTA DI POLITICA E CULTURA Periodico n. 5/2015 - anno XXIV
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Rafforziamo la lotta Il governo stravolge la Costituzione per affermare un sistema autoritario che garantisca la “stabilità” necessaria al capitalismo e all’imperialismo
La borghesia, pur di raggiungere i suoi scopi, calpesta le stesse regole che si è data, compresa la sua concezione di democrazia. Vediamo la situazione di Roma. Il sindaco Marino è stato scacciato da un complotto del “rottamatore”, dopo aver vinto le primarie del Pd ed essere stato eletto dai cittadini. Con il rischio che la città torni nelle mani della destra che, con la giunta del manganellatore Alemanno, più che amministrare Roma ha sistemato amici e amici degli amici e parenti, come dimostra la stessa inchiesta su Roma capitale. Chi ha sostituito Marino? Un Prefetto e un Commissario che hanno guadagnato il posto garantendo la realizzazione del fierone di Milano chiamato Expo. Il commissario Francesco Paolo Tronca aveva già le valigie pronte, è partito subito dopo la chiusura di Expo e ha indossato subito la fascia tricolore per correre all’altare della Patria, alle fosse Ardeatine, al Tempio maggiore della Comunità ebraica (par condicio!), a Porta San Paolo, al Verano dove ha incontrato il Papa. “Sono veramente orgoglioso di poter prestare il mio servizio e la mia responsabilità per la capitale della Nazione”, ha dichiarato, pensando al primo, fondamentale impegno: il giubileo! Nel giro di un mese, infatti, dovrà gestire i 300milioni che il governo mette a disposizione per l’iniziativa del Vaticano. E’ vero che i rappresentanti dei partiti sono sempre più incapaci di governare persino una bocciofila, ma incaricare uomini “tecnici” che si comportano da podestà (figura introdotta dal fascismo quando furono soppresse tutte le funzioni
Lo scandalo Volkswagen e il crollo del mito dell’efficienza tedesca Saranno pesanti anche le ripercussioni sul piano salariale. I lavoratori che rimarranno potranno scordarsi i premi legati ai profitti aziendali, percepiti negli ultimi anni. A testimonianza del fallimento dell’illusione riformista di governare i processi capitalistici a pagina 3
svolte da sindaco, giunta e consiglio comunale), scavalcando la stessa democrazia borghese, vuol dire inculcare nell’opinione pubblica il concetto dell’uomo forte e risolutore, significa far passare la concezione autoritaria. E a farlo è un partito che ancora si definisce di sinistra e democratico, ma che si trova sulla stessa lunghezza d’onda di Forza Italia, Lega nord, Fratelli d’Italia. La trasformazione in senso autoritario dello Stato non si limita a Roma. La riscrittura di 49 articoli della Costituzione è un progetto eversivo che viene da lontano, dal “Piano di rinascita democratica” della loggia P2 - alla quale apparteneva anche Berlusconi - che vuole eliminare i principi costituzionali, quelli della Resistenza: lavoro, uguaglianza sociale, pace. Il governo Renzi (sotto la regia di Napolitano) è riuscito ad imporre la cancellazione del Senato. Per conquistarsi il consenso deve trovare una giustificazione che stia nelle corde della popolazione, cioè la diminuzione dei parlamentari. In realtà il Senato - che non sarà più eletto - viene composto da 100 sindaci e consiglieri regionali - che, nel caso avessero bisogno - potranno godere dell’immunità parlamentare. Questa “riforma”, chiaramente liberticida, apprezzata da Confindustria e dai poteri economici del paese sottrae il governo dal controllo parlamentare che il bicameralismo avrebbe dovuto garantire. E, sempre sotto le mentite spoglie della democrazia, la tendenza è verso la Repubblica presidenziale per un governo e uno Stato forti, cioè reazionaria. La sostituzione dell’art. 67 della Costituzione da “Ogni membro del parlamento rappresenta la nazione” a “I membri del Parlamento esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato” e l’art. 12 del disegno di legge Boschi che trasforma l’art. 72 introducono il potere del governo sul Parlamento ed è chiaro il riferimento al 1925 che ha determinato la nascita del fascismo quando era stato stabilito che l’odg della Camera fosse stabilito dal capo del governo, ovvero tutto il potere era in mano del capo di governo, l’allora duce. Qualcuno potrebbe obiettare: La Costituzione era nata da un compromesso post Resistenza, non siamo elettoralisti, siamo convinti che il sistema capitalista si abbatte e non si cambia, che ci importa? Ci importa perché tutti i cambiamenti in atto sono un attacco al proletariato e alle masse popolari. Capitalismo e imperialismo non gradiscono le idee antifasciste e socialiste dell’Italia del dopoguerra (e che ci sono costate le stragi di Stato) che ancora vivono nonostante la frantumazione e la disorganizzazione dei comunisti.
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Sono idee che, se diventassero lotta di classe, costituirebbero un pericolo, un ostacolo ai programmi di supersfruttamento utile al raggiungimento del massimo profitto, ai piani di riarmo, di guerra. Oggi Renzi, come qualsiasi altro governo borghese, garantisce l’affermazione del capitale. Jobs act, accordo sulla rappresentanza, attacco al diritto di sciopero, tagli sulla salute, necessitano di “riforme” costituzionali e istituzionali, autoritarismo e repressione per impedire al movimento operaio di ribellarsi allo sfruttamento e alle condizioni di schiavitù in cui si trova. Ma non basta. Il capitalismo per uscire dalla crisi ha un’altra opzione, quella della guerra. Le recenti e massicce esercitazioni che hanno coinvolto anche l’Italia sotto la direzione Nato, un’alleanza militare e sempre più aggressiva per la quale l’Italia paga 70 milioni al giorno, dimostrano le mire dell’imperialismo con a capo quello Usa verso sempre nuove guerre. Che per ora sembrano non toccarci, ma che non sono così lontane! L’art. 11 della Costituzione è ampiamente tradito con le missioni all’estero che non sono umanitarie e con il continuo riarmo. Sul nostro territorio sono collocate 120 basi Usa e Nato sempre pronte per essere utilizzate contro altri popoli, com’è già successo nel recente passato. Diventano di fondamentale importanza le lotte contro il nemico interno come contro quello mondiale. Organizziamoci per affrontarle.
Quando il proletariato si è liberato La Rivoluzione d’ottobre ha rappresentato l’apertura di una nuova epoca in tutto il mondo Continuare la battaglia politica e ideologica per la ricostruzione del Partito comunista nel nostro paese, studiare e imparare dall’imponente insegnamento di Lenin è indispensabile per liberarsi dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalle guerre. a pagina 7
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lavoro
Ma quali cooperative? Nonostante la lotta di resistenza, senza una lotta di classe generalizzata i salari dei lavoratori immigrati e degli italiani verranno sempre più spinti sotto il livello di sussistenza Michele Michelino Lo scandalo di Roma capitale nel quale le cooperative “rosse” di Buzzi (legate a Lega coop) insieme ai faccendieri neri (Carminati e camerati) facevano affari sulla pelle di immigrati, rom, ex carcerati ecc. in combutta con istituzioni e amministrazioni di centrodestra e centrosinistra, ha evidenziato agli occhi dell’opinione pubblica una pratica che ormai avveniva da molto tempo. Le cooperative sociali, nate come forma di organizzazione del movimento operaio contro lo sfruttamento del lavoro bracciantile e proletario proprio nella pianura padana dell’inizio del secolo scorso, hanno subito un radicale cambiamento andando di pari passo con lo sfaldamento dei partiti operai e le organizzazioni sindacali. Inserendosi e sostenendo la società capitalista i sindacati concertativi, ma ancora più le forze politiche PSI e PCI, a ogni avvicinamento o inserimento nell’area di governo e sottogoverno borghese si sono fatti sostenitori e spesso sono stati promotori, di leggi statali e regionali che hanno cambiato statuti e gli stessi fini delle cooperative. Così hanno trasformato le cooperative che oggi non sono più uno strumento nelle mani dei lavoratori ma il mezzo legale con cui dei nuovi padroni travestiti da soci utilizzano una “moderna” forma di caporalato per sfruttare gli altri soci lavoratori, e fare profitti che si intascano. Ormai in queste false cooperative il rapporto associativo nasconde in realtà una forma di lavoro dipendente più flessibile, precario e sottopagato di quelle tradizionali e spesso in nero. La socia e il socio lavoratore senza diritti, per esempio non possono ammalarsi perché non vengono pagati, se si infortunano, si ammalano o subentra una gravidanza vengono subito licenziati/e, altro che rapporto mutualistico. Questo aspetto è particolarmente rilevante nel settore della logistica (ma non solo) dove le condizioni di lavoro di migliaia di operai (si calcolano in circa centomila e forse più) sono a livello di sfruttamento bestiale, in alcuni casi oltre il limite della sopportazione umana. Il caso di agosto, dei braccianti - una donna italiana e due immigrati - uccisi per la fatica da padroni senza scrupoli che nella ricerca del massimo profitto non hanno esitato a mandare a morte dei lavoratori per due–tre euro l’ora e senza contratto non è isolato. Questa realtà non è confinata solo in Puglia, nel Casertano o a Rosarno, luoghi venuti alla ribalta attraverso i media nazionali, ma è diffusa su tutto il territorio nazionale. Attraverso finte comparative che dichiarano fini mutualistici solo sulla carta, i padroni sfruttano i benefici su fisco e costo del lavoro previsti dalle leggi borghesi, come qualsiasi impresa capitalistica, secondo le regole del mercato, della ricerca del massimo profitto e del comando in azienda. Nei grandi centri logistici, situati spesso in posti sperduti lavorano degli esseri umani, per la stragrande maggioranza immigrati ma anche italiani supersfruttati, che giorno e notte lavorano in condizioni disumane per rifornire gli scaffali dei supermercati. Questi lavoratori, formalmente soci di cooperative che dovrebbero partecipare agli utili, in realtà sono lavoratori di serie B (qualcuno li ha definiti i nuovi schiavi) sono persone, dei proletari, che stanno ancora peggio dei lavoratori dipendenti dell’industria
che, nonostante i continui attacchi al salario, qualche straccio di diritto ancora lo mantengono. Si calcola che queste imprese cooperative, spesso in combutta o in mano alla criminalità organizzata, producano un valore aggiunto di oltre di 40 miliardi di euro, il tre per cento del totale nazionale. La crisi economica e la latente lotta di classe che cova sotto la cenere è spesso esplosa ed è stata evidenziata in questi ultimi anni dalle lotte che hanno visto questi lavoratori organizzati dai Cobas, aiutati da compagni solidali, scendere in lotta per i loro diritti di lavoratori. Queste lotte hanno rappresentato e rappresentano uno dei pochi episodi di conflitto sociale, di lotta di classe in cui i proletari (immigrati e italiani) combattono insieme per gli stessi interessi, senza distinzione di appartenenza nazionale o religiosa. Nel corso di queste lotte la repressione padronale, statale e poliziesca è stata spesso di una violenza inaudita: pestaggi, manganellate, denunce, arresti, licenziamenti, fogli di via, ritiro dei permessi di soggiorno, espulsione dall’Italia. E’ questo il prezzo pagato per voler essere trattati con dignità, come operai salariati, esseri umani con gli stessi doveri e diritti di tutti gli altri. La radicalità delle forme di lotte per raggiungere obiettivi come il contratto di lavoro, un salario contrattuale, non a discrezione del presidente della Cooperative (in realtà il padrone o il suo prestanome) e della logistica, in alcuni casi ha portato a importanti risultati nella lotta economicasindacale. In queste lotte sono cresciuti anche politicamente dei compagni che hanno capito che la lotta economica è un aspetto della lotta di classe contro il capitale che sfrutta tutti al di là del colore della pelle delle nazionalità. Il razzismo - alla base della politica della Lega nord, di fratelli d’Italia e tutte le siglette fasciste - salvaguardia il potere dei padroni e dello Stato alimentando la guerra fra poveri e mettendo proletari contro proletari. Lottare per i propri interessi significa riconoscersi come classe sociale con gli stessi interessi che sono contrapposti a quelli dei nostri padroni. Nonostante la lotta di resistenza, senza una lotta di classe gene-
ralizzata i salari dei lavoratori immigrati e degli italiani verranno sempre più spinti sotto il livello di sussistenza. La lotta di questi lavoratori non è solo un episodio della resistenza operaia allo sfruttamento capitalista, ma un esempio di unità di classe internazionale che si deve propagare a livello generalizzato. Lottando fianco a fianco molti hanno capito che il vero nemico lo abbiamo in casa nostra: sono gli stessi padroni che ci sfruttano entrambi, perché i Consigli di Amministrazione delle varie cooperative che dovrebbero amministrare e gestire la società in realtà si sono trasformati nei nuovi padroni. Lo sfruttamento bestiale cui sono sottoposti questi lavoratori porta enormi vantaggi ai loro padroni. Ad Ancona, il 20 luglio scorso il presidente di Legacoop nazionale, Mauro Lusetti, ha illustrato le motivazioni della campagna “Stop false cooperative”, promossa dall’Alleanza delle Cooperative Italiane per una legge di iniziativa popolare contro le false cooperative. In una conferenza stampa che si è svolta al margine della direzione regionale di Legacoop Marche ha affermato: “Nel mercato pulito e trasparente, le persone oneste ovviamente vincono. In un mercato opaco, chi è più furbo può avere diritto di cittadinanza e questo in un Paese civile non può esistere. La lotta contro le false cooperative, ancor prima che un dato economico, è un dato di civiltà sociale, di opposizione all’illegalità e per un mercato pulito e trasparente”. Le stesse parole sono state ripetute sui maggiori mass-media nazionali, stampa, TV ecc. Belle parole, non c’è dubbio. Solo che nella pratica le stesse cooperative legate a Legacoop si comportano al pari delle altre false cooperative per cui sorge legittimo il dubbio che in realtà si voglia solo far fuori la concorrenza. Un esempio per tutti ed è solo l’ultimo caso, è quello di ABITARE Società Cooperativa con sede in Milano, una delle più grosse cooperative abitative a società indivisa e mista, con oltre 8000 soci che recentemente ha deciso di esternalizzare alcuni servizi, licenziando una lavoratrice comportandosi come qualsiasi società privata o come le “false cooperative” che si dice di voler combattere.
Cooperativa ABITARE licenzia e concilia in Tribunale Paga ad una lavoratrice 16 mensilità Il 9 settembre scorso, in occasione dell’udienza davanti al giudice del lavoro di Milano che doveva decidere nel merito sul licenziamento di una lavoratrice che è anche socia della Cooperativa ABITARE, il giudice dott. Martello ha invitato le parti a conciliare affermando che in caso contrario sulla base delle carte in suo possesso avrebbe deciso subito la sentenza. Le parti dopo essersi consultate con i loro avvocati (per la Cooperativa ABITARE erano presenti il Presidente Silvio Ostoni e l’avv. Alessandro Costa, per la lavoratrice licenziata l’avv. Sergio Romanotto) hanno firmato un verbale di conciliazione, trovando un accordo che mette fine a un contenzioso che da mesi vedeva contrapposti il Consiglio di Amministrazione di ABITARE Società Cooperativa da una parte e la lavoratrice licenziata (sostenuta dal sindacato CUB e da un gruppo di soci della Cooperativa ABITARE). La conciliazione comporta una transazione economica. In cambio di una rinuncia a impugnare il licenziamento da parte dell’ex lavoratrice ora disoccupata, la Cooperativa paga un importo lordo pari a 45000 euro (circa16/17 mensilità lorde). L’accordo prevede anche la compensazione delle spese legali, soldi che - insieme alle parcelle degli avvocati - dovranno uscire dalle tasche dei soci di Abitare, mentre l’avvocato dell’ex lavoratrice licenziata e del sindacato, per vincolo di solidarietà non ha richiesto compensi per non pesare né sull’ex lavoratrice licenziata né sui soci della cooperativa. Prima dell’accordo, una decina di soci di ABITARE
che nei mesi scorsi hanno raccolto oltre 300 firme contro il licenziamento hanno portato la loro solidarietà alla socia ex lavoratrice sostando davanti all’ufficio del giudice all’interno dello scintillante nuovo Tribunale del Lavoro di Milano (inaugurato da pochi mesi). L’opposizione al licenziamento della socia della cooperativa che si era già evidenziato più volte in assemblee si è formalizzato per iscritto il 4 giugno scorso in occasione dell’Assemblea Generale della Cooperativa che doveva votare il bilancio, anche perché nel frattempo si sono fatte nuove assunzioni. Come si legge nel Verbale dell’Assemblea Generale Ordinaria dei Soci del 4 giugno 2015 (pag. 301): “Il socio… riprende la relazione al Bilancio citando i fatti avvenuti dopo la chiusura dell’esercizio, più precisamente riguardo al licenziamento di una dipendente e si dichiara contrario alle esternalizzazioni, cita inoltre il cambio del servizio di assistenza fiscale e pensa che nel lungo periodo queste esternalizzazioni andranno ad aumentare i costi della Cooperativa e si riverseranno quindi sui Soci oltre che spianare la strada ad ulteriori licenziamenti ed esternalizzazioni, ad esempio dei custodi. Presenta infine una mozione scritta al Presidente dell’assemblea, di cui si riporta il con tenuto integrale: Il licenziamento della socia-lavoratrice Paola C. (cui va la solidarietà di numerosi soci per il lavoro svolto con diligenza e professionalità) e l’esternalizzazione di alcuni servizi ai soci giustificato dal CdA di Abitare con la motivazione della riduzione dei costi,
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sono in contrasto con i principi e gli scopi sociali della Cooperazione e in ogni caso ci trovano in disaccordo. In realtà queste scelte comporteranno nel medio periodo un aggravamento delle spese e dei costi di gestione e rischiano di spianare la strada ad altri licenziamenti di personale che sono anche soci della cooperativa. Pertanto i soci che sostengono questa mozione riuniti nell’assemblea per l’approvazione del bilancio sociale di Abitare chiedono al CdA di ritirare il licenziamento e impegnarsi per trovare un accordo con la lavoratrice-socia nell’interesse di entrambi le parti e di tutti i soci della cooperativa. Per il contenzioso davanti al giudice i soci potrebbero dover pagare oltre al danno morale e materiale provocato alla lavoratrice, anche avvocati spese legali altro ancora per scelte sbagliate fatte dal CdA. Per ridurre i costi di gestione e le spese, nell’interesse di tutti esistono altre strade. La mozione contro licenziamento fu bocciata dal Presidente dell’Assemblea Roberto Camagni (ex vicesindaco di Milano) con la motivazione che: “La mozione non può essere posta in votazione, in quanto l’assemblea deve votare solo ed esclusivamente sui punti iscritti nell’ordine del giorno”. Prima dell’accordo, una decina di soci di ABITARE che nei mesi scorsi hanno raccolto oltre 300 firme contro il licenziamento hanno portato la loro solidarietà alla socia ex lavoratrice sostando davanti all’ufficio del giudice all’interno dello scintillante nuovo Tribunale del Lavoro di Milano.
L’opposizione al licenziamento della socia della cooperativa che si era già evidenziato più volte in assemblee si è formalizzato per iscritto il 4 giugno scorso in occasione dell’Assemblea Generale della Cooperativa che doveva votare il bilancio, anche perché nel frattempo si sono fatte nuove assunzioni. In più occasioni, durante le assemblee, diversi soci di ABITARE si sono espressi CONTRO I LICENZIAMENTI E ESTERNALIZZAZIONI, affermando pubblicamente che queste scelte politiche economiche non fanno altro che indebolire una Cooperativa che – nei suoi principi - è una Cooperativa solidale, mutualistica e democratica, chiedendo il reintegro nel suo posto di lavoro della lavoratrice licenziata e il blocco di ogni esternalizzazione. Obiettivi in linea con la campagna partita nei mesi scorsi contro “le forme sleale di concorrenza” promossa da Legacoop dal titolo “STOP FALSE COOPERATIVE”. Il presidente di Legacoop nazionale, Mauro Lusetti, illustrando le motivazioni della campagna “Stop false cooperative”, promossa dall’Alleanza delle Cooperative Italiane per una legge di iniziativa popolare ha più volte affermato: “Nel mercato pulito e trasparente, le persone oneste ovviamente vincono. In un mercato opaco, chi è più furbo può avere diritto di cittadinanza e questo in un Paese civile non può esistere. La lotta contro le false cooperative, ancor prima che un dato economico, è un dato di civiltà sociale, di opposizione all’illegalità e per un mercato pulito e trasparente”, Un dato valido per vere Cooperative.
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Lo scandalo Volkswagen e il crollo del mito dell’efficienza tedesca Saranno pesanti anche le ripercussioni sul piano salariale. I lavoratori che rimarranno potranno scordarsi i premi legati ai profitti aziendali, percepiti negli ultimi anni
Eraldo Mattarocci Nella primavera del 2014 l’ICCT (International Council for Clean Transportation), un organismo no profit formalmente indipendente, intraprende uno studio per valutare le emissioni reali allo scarico, cioè con test in movimento di automobili rispettivamente omologate secondo la normativa europea EURO 6 (12 modelli) e secondo la normativa Nord America (3 vetture, TUTTE tedesche: 1 BMW X5, 1 Volkswagen Jetta del 2013 ed 1 Volkswagen Passat, anch’essa del 2013). Lo scopo della ricerca, così mirato da far mettere in dubbio la reale indipendenza dell’ICCT, visto che gli standard ecologici sono un’arma fondamentale nella contesa mondiale del settore automobilistico, è dimostrare come i veicoli rispondenti alla norma europea EURO 6 siano più inquinanti di quelli in regola con i più restrittivi livelli massimi di emissione previsti dalle norme U.S.A. Nel corso delle loro verifiche i ricercatori hanno constatato che le due Volkswagen, entrambe equipaggiate con motori 2.0 TDI (Turbo Diesel Iniezione), pur avendo superato regolarmente il test di omologazione fatto sul banco a rulli, quando vengono testate su strada, in condizioni di guida normali, rivelano emissioni di Ossido di Azoto (NOx) decisamente superiori ai valori richiesti (da 5 a 20 volte la Passat ed addirittura da 15 a 35 volte la Jetta). Immediatamente i ricercatori denunciano i risultati all’EPA (Enviromental Protection Agency), organismo ufficiale statunitense, che avvia un’indagine sulla Volkswagen. Poco più di un anno dopo, il 18 settembre 2015, l’EPA rende noto di aver emesso un avviso di violazione delle norme sulla protezione della qualità dell’ aria (Clean Air Act) nei confronti della Volkswagen
AG, dell’ Audi AG e del Volkswagen Group of America, in relazione ai motori 4 cilindri a gasolio del tipo EA189, utilizzati su vari modelli del periodo 2009-20015. L’accusa riguarda l’utilizzo di un software in grado di riconoscere le condizioni differenti tra il banco di prova su rulli ed il traffico reale e, pertanto, in fase di omologazione o revisione di adattare il funzionamento del propulsore ai livelli di emissioni richiesti dalla normativa. All’inizio l’EPA ritiene che la truffa riguardi circa 500 mila vetture (4 modelli Volkswagen ed 1 Audi), in realtà i numeri sono ben maggiori. La situazione precipita rapidamente ed il 22 settembre, al secondo giorno di fortissime perdite in borsa, la Volkswagen dichiara di aver montato il software incriminato su ben 11 milioni di vetture, vendute in tutto il mondo, e di avere accantonato 6,5 miliardi di euro per far fronte ad eventuali sanzioni e rivalse. La fortuna aiuta gli audaci e premia le facce toste: il giorno dopo la dichiarazione, il 23 settembre, le azioni Volkswagen alla borsa di Francoforte chiudono con un rialzo del 5,2%. Evidentemente gli investitori sono rassicurati dalla capacità dei vertici aziendali di navigare, da veri pirati, anche in acque tempestose. La stessa sera l’artefice di questa operazione, Martin Winterkorn, amministratore delegato di Volkswagen Group dal 2007 e riconfermato da poco fino al 2018, rassegna le dimissioni a fronte di una liquidazione miliardaria, dichiara che, pur non essendo al corrente della truffa, “accetta le responsabilità per le irregolarità riscontrate nei motori diesel”. A fronteggiare la più grave crisi che il
gruppo abbia mai affrontato viene chiamato Matthias Muller, prima alla Porsche. I problemi che il nuovo amministratore delegato deve affrontare non sono solo quelli causati dal “dieselgate” ma anche quelli derivanti, paradossalmente, dalle dimensioni del gruppo Volkswagen. Il dimissionario Winkerton, infatti, aveva ricevuto un ulteriore mandato alla guida del gruppo con lo scopo dichiarato di trasformare il colosso Volkswagen che, nonostante i grandi profitti degli ultimi anni e nonostante il fatto di essere diventato il primo produttore di automobili nel mondo, rischia di essere paralizzato dal suo elefantismo. Tanto per avere un’idea: il
gruppo comprende dodici marchi di sette diversi paesi europei (per le automobili Volkswagen, Audi, Seat, Skoda Auto, Bentley, Bugatti, Lamborghini e Porsche, per le moto Ducati e per i veicoli commerciali Volkswagen Commercial Vehicles, Scania AB e MAN), ha circa 550 mila dipendenti e 118 fabbriche in tutto il mondo. Le sue dimensioni mal si conciliano con i tempi sempre più ridotti nel passaggio tra progettazione e messa in produzione di nuovi modelli, sempre più avanzati tecnologicamente e sempre meno inquinanti, che la competizione tra le grandi case automobilistiche impone. Appena prima dello scandalo, in occasione del Salone dell’Auto di Francoforte, in un’intervista Winkerton dichiarava apertamente: “stiamo reinventando il gruppo sul piano tecnologico come su quello finanziario”. Le stesse autorevoli riviste di settore che pubblicano l’intervista evidenziano che i problemi di Volkswagen Group sono diversi, a partire dalla “scarsa redditività della marca capogruppo per finire alla debolezza sul mercato americano con conseguente eccesso di dipendenza da quello cinese”, sul quale peraltro ha perso nell’ultimo semestre il 32,4% del valore delle azioni. Se a questo aggiungiamo il ritardo nello sviluppo e nella commercializzazione di automobili ibride della fascia medio bassa, egemonizzata dalla Toyota, in un mercato mondiale che ha in previsione di crescere entro il 2020 fino a coprire il 10% di quella che non può più essere considerata una nicchia, vediamo come, per i padroni di Volkswagen, la necessità di procedere ad una ristrutturazione ci fosse già. Poi-
ché la rielezione di Winkerton è stata il risultato di una battaglia durissima tra gli “innovatori” ed i “conservatori” capeggiati dal fondatore del gruppo Ferdinand Piech, alleato con il governo del Land della Sassonia (che detiene il 20% delle azioni) e con i rappresentanti del sindacato dei metalmeccanici tedeschi IGMetal presenti nel Consiglio di Amministrazione, si tratta di vedere se il nuovo AD Matthias Muller sia espressione di una rivincita dei “conservatori”, di una conferma degli “innovatori” o l’elemento di compromesso che le due fazioni hanno individuato come il più adatto per affrontare la crisi più urgente in atto, cioè quella derivante dal dieselgate, rimandando ad una fase successiva la risoluzione dei nodi strategici. Sia come sia, alla fine, a pagare il prezzo più alto saranno i lavoratori, soprattutto quelli numerosi ma “invisibili” e, pertanto difficilmente conteggiabili, dell’indotto. Per quanto riguarda i dipendenti diretti, si da già per scontato il mancato rinnovo dei contratti a termine per migliaia di lavoratori e viene ventilato che ci siano, in questa fase, almeno seimila esuberi. Anche sul piano salariale le ripercussioni saranno pesanti, i lavoratori che rimarranno potranno scordarsi i ricchi premi di risultato (oltre 6000 euro nel 2014) che avevano percepito negli ultimi anni, in quanto sono una variabile legata ai profitti aziendali. Non saranno certo i potenti ma altrettanto corrotti dirigenti di IGMetal né il Partito Socialdemocratico Tedesco a salvaguardare gli interessi dei lavoratori della Volkswagen che, sacrificati sull’altare della competizione imperialista, si ritroveranno ben presto a condividere le condizioni del resto dei lavoratori europei, a testimonianza del fallimento dell’illusione riformista di governare i processi capitalistici.
Di lavoro si continua a morire Nel 2015 ancora in corso, record di morti sul lavoro Michele Michelino In Italia è in corso una vera e proprio guerra di classe in cui ogni anno migliaia di donne e uomini sono sacrificati nella ricerca del massimo profitto. Nell’Italia “democratica” nata dalla Resistenza, i lavoratori continuano a morire sebbene diminuiscano gli occupati. La modernità del capitalismo continua a uccidere i lavoratori come nell’Ottocento. Nel nostro paese ogni anno si contano oltre un milione d’infortuni sul lavoro, 1.200 di questi sono mortali. Ogni giorno in Italia ufficialmente muoiono in media 3 lavoratori per infortuni sul luogo di lavoro e molti altri a causa delle malattie professionali, cifre volutamente sottostimate dal Governo a dall’INAIL. Omicidi “bianchi”, veri e propri crimini contro l’umanità che avvengono nel più assoluto silenzio dei media salvo quando la notizia può essere spettacolarizzata. La morte sul lavoro è raccontata solo quando fa notizia. Le varie “riforme” delle pensioni che hanno innalzato fino a 70 anni l’età lavorativa, il precariato e il lavoro nero, insieme al ricatto della disoccupazione e mancanza di lavoro, oltre alla perdita di diritti e all’imbarbarimento della condizione lavorativa pesano molto anche per quanto riguarda la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Far lavorare fino a 65/70 anni nei cantieri, nelle fonderie, costringere lavoratori a salire sui tetti o scendere nelle miniere, o fare guidare camion in età così avanzata espone questi lavoratori a notevoli rischi. Secondo i dati riportati da tre diversi istituti nel 2015, gli infortuni e i morti sul lavoro sono cresciuti a ritmi impressionanti. Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna sui Morti sul Lavoro, l’Anmil (associazione nazionale mutilati e invalidi sul lavoro) e l’Osservatorio Vega Engineering
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di Mestre sono un vero record. Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna sui Morti sul Lavoro fondato da Carlo Soricelli metalmeccanico in pensione, “I morti per infortuni sui luoghi di lavoro non sono mai stati così tanti da quando nel gennaio 2008 è stato aperto l’osservatorio”. Dal 1° gennaio al 20 ottobre 2015 sono morti sui luoghi di lavoro 564 lavoratori e, con le morti sulle strade e in itinere, si superano le 1180 morti. Questa cifra in realtà è sottostimata perché nelle statistiche delle morti sul lavoro lo Stato e l’INAIL non tengono conto di molti lavoratori che muoiono
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sulle strade e in itinere. Inoltre da questi conteggi sono escluse diverse categorie come per esempio le Partite Iva individuali, Vigili del Fuoco, lavoratori in nero, pensionati in agricoltura e tanti altri. Nel 2015 le denunce per infortuni sul lavoro tra gli assicurati INAIL dall’inizio dell’anno al 31 agosto sono state complessivamente 752. Nelle statistiche dell’Osservatorio Indipendente di Bologna “Il 30,7% dei morti sui luoghi di lavoro ha un’età superiore a 60 anni. Il 32,5% è in agricoltura, di questi 116 sono stati schiacciati dal trattore, oltre il 20% sul totale di tutte le morti per infortuni. In sostanza
un morto su 5 di tutte le morti sui luoghi di lavoro sono state provocate dal trattore (è così tutti gli anni). L’edilizia 22,5%. Oltre il 50% di tutte le morti per infortuni sono in queste due categorie. Gli stranieri sono stati il 10,3% sul totale. I romeni sono come tutti gli anni la comunità con più vittime”. Davanti a questo bollettino di guerra il Governo non va oltre le frasi di circostanza e lacrime di coccodrillo ogni volta che succedono stragi di operai (come alla TyssenKrupp) tacendo sulle decine di morti silenziose che avvengono ogni giorno, non solo non intervenendo a tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, anzi aggravandola con l’applicazione dei decreti del jobs act. Nel 2014, inoltre, i circa 350 ispettori dell’Inail hanno controllato 23.260 aziende e l’87,5% è risultato irregolare. Sono stati regolarizzati 59.463 lavoratori (meno del 15% rispetto al 2013), di cui 51.731 irregolari e 7.732 in nero. Da sempre la borghesia, le classi imprenditoriali e i gruppi politici a essi collegati, ha cercato di diminuire le tutele legislative per i lavoratori. In particolare negli ultimi anni attraverso il Testo Unico del 2008, il governo Berlusconi, quello di Letta e oggi il governo Renzi sono intervenuti con decreti peggiorativi, modificandone in parte i contenuti e diminuendo in tal modo le tutele per i lavoratori. Nonostante il peggioramento il Testo Unico prevede norme di carattere penale e obblighi per il “datore di lavoro” il cui mancato adempimento comporta un reato penale perseguibile la strage di lavoratori continua. Nel sistema democratico borghese, sotto la dittatura del capitale, la lotta del movimento operaio è riuscita a imporre leggi a tutela degli sfruttati, ma il governo che tutela la proprietà privata e il profitto dei capitalisti volutamente non fa niente per applicarle, se non è costretto dalla mobilitazione dei lavoratori.
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Il jobs act renziano… e “l’Italia riparte” Dai primi “cinguettii” alla Legge Delega sul lavoro. Un inganno a danno delle lavoratrici e dei lavoratori sul quale occorre evitare che lo schiacciamento verso il basso nella garanzia della difesa del posto di lavoro e delle tutele spinga i lavoratori ancor più nelle braccia del fascio-leghismo salviniano o del grillismo pentastellato Stefano De Ranieri “E’ una giornata storica, un giorno atteso per molti anni da un’intera generazione che ha visto la politica fare la guerra ai precari ma non al precariato. Superiamo l’art. 18 e i cococo. Nessuno sarà più lasciato solo. Ci saranno più tutele per chi perde il posto e parole come mutuo, ferie, diritti e buonuscita entrano nel vocabolario di una generazione che ne era stata esclusa”. Ed ancora: “Abbiamo tolto ogni alibi a chi dice che in Italia non ci sono le condizioni per assumere. Da oggi il lavoro presenta più flessibilità in entrata e più tutele in uscita”. Infine, in perfetta continuità con lo stile berlusconiano, l’immancabile battuta finale: “Restituiamo ai pollai i cococo, cocopro e coco vari”. Così si esprimeva il Presidente del Consiglio Matteo Renzi nella conferenza stampa del 19 febbraio 2015 dopo che il Consiglio dei Ministri da lui presieduto aveva da poco approvato in via definitiva i primi due decreti attuativi - quello sul contratto a tutele crescenti e quello sui nuovi ammortizzatori sociali - del cosiddetto jobs act, mentre aveva avviato l’esame di altri due decreti - sul riordino delle tipologie contrattuali e quello sulle disposizioni in materia di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro- sempre contenuti nel medesimo provvedimento. E a seguire l’incontro con la stampa, lo scatenato “rottamatore”, come suo costume, “cinguettava” su twitter, scrivendo: “Finalmente l’Italia riparte è la volta buona”. In tal modo, dunque, il novello don Chisciotte della politica italiana, assistito dal suo fedele scudiero Sancho Panza - ops!… dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti - è partito, lancia in resta, all’attacco di quei “giganteschi” mulini a vento (in particolare l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori) che, azionati da ostili forze “conservatrici” (in primis i “terribili” sindacati), condizionano lo sviluppo del “Sistema Italia”, frenandone la ripresa economica e il rilancio dell’occupazione. Per la verità i primi “cinguettii” renziani sul jobs act risalgono all’inizio del 2014, quando il “riformatore” fiorentino - non ancora insediatosi, peraltro, a Palazzo Chigi - annunciava, sia pure a grandi linee, un piano complessivo di incentivi alle imprese e di riforma del mercato del lavoro volto a favorire l’avvio di una nuova fase di crescita e quindi di progressiva fuoriuscita del nostro Paese dalla grave crisi economica in cui oramai si dibatte da diversi anni. Il piano spaziava, dunque, su molteplici terreni: dal taglio dell’Irap del 10% e dalla riduzione sempre del 10% del costo dell’energia a vantaggio delle aziende alla revisione dell’indennità di disoccupazione e alla creazione di un’unica Agenzia Nazionale di coordinamento dei centri per l’impiego, della formazione professionale, dell’erogazione degli ammortizzatori sociali, fino a prospettare importanti cambiamenti in diversi rami della Pubblica amministrazione. Ma soprattutto si introduceva concretamente la proposta di una riduzione delle numerose tipologie contrattuali esistenti oggi in Italia, attraverso l’avvio di un <<processo di cambiamento verso un contratto di inserimento lavorativo a tempo indeterminato a tutele crescenti>>. Inoltre si rilanciava la necessità di una legge, peraltro già in discussione in quei mesi presso la Commissione Lavoro della Camera, sulla rappresentatività sindacale e sull’elezione di rappresentanti dei lavoratori nei C.d.A. delle grandi aziende pubbli-
che. Infine, il cuore del piano del lavoro renziano era occupato dal “meritorio” proposito di creare migliaia di nuovi posti di lavoro - anche se già un altro “personaggio” del panorama politico italiano, in un passato tutto sommato recente, ne aveva promesso addirittura un milione - attraverso il rilancio di sette specifici comparti lavorativi (la triade Cultura-Turismo-Agricoltura, il Made in Italy, le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT), la Green Economy, il Nuovo Welfare, l’Edilizia; la Manifattura), ciascuno dotato di un proprio piano industriale. Nel corso del 2014 il governo Renzi, tra un tweet e l’altro del suo Presidente, muove già alcuni passi significativi nella direzione del jobs act nel suo complesso e della riforma del mercato del lavoro in specifico, come ad esempio il decreto Poletti sulla liberalizzazione dei contratti di lavoro a termine o l’avvio della stesura di un nuovo codice del lavoro - soprattutto in relazione ad una nuova disciplina dei licenziamenti -, sia individuali che collettivi. Si arriva infine all’autunno del 2014 con la rapida approvazione della Legge Delega con cui il Parlamento affida, dietro voto di fiducia e per la prima volta nella storia della Repubblica Italiana, una sorta di delega in bianco al governo per ridisegnare il mondo del lavoro nel nostro Paese. Una legge delega, quella “imposta” da Renzi al Parlamento e al Paese, che si rivela dai contorni pericolosamente indefiniti e dai contenuti volutamente fumosi. La Legge Delega sul jobs act appare comunque fin da
subito in totale continuità con le politiche adottate in campo economico, sociale e previdenziale da tutti i governi che in questi ultimi anni hanno preceduto l’esecutivo renziano, in particolare dal governo Monti con la riforma che porta il nome dell’ex ministra Elsa Fornero. Una riforma, quella della signora Fornero, che aveva già comportato, tra l’altro, un indebolimento degli istituti di sostegno al reddito (come nel caso dei contratti di solidarietà), una prima modifica in senso peggiorativo delle tutele (a partire proprio dall’art.18), un innalzamento dell’età pensionabile (creando il fenomeno degli esodati e bloccando qualsiasi possibilità di ricambio generazionale nel mondo del lavoro). Certo è che il governo Renzi si è mosso, anche con largo anticipo sui tempi del dibattito (definiamolo così!) parlamentare, con un piglio decisionale e propagandistico decisamente superiore rispetto alle precedenti compagini governative, puntando nella sua serrata campagna comunicativa a sostenere progetti (nuove opportunità di lavoro, estensione degli ammortizzatori in chiave universale, nuove tutele crescenti per i precari, modernizzazione dell’intero sistema produttivo) la cui realizzazione, però, sottendeva subdolamente una sorta di meschina “resa dei conti” tra lavoratori e addirittura tra generazioni diverse di lavoratori: i giovani contro i vecchi, i precari contro gli stabili, i senza tutele contro i garantiti. Insomma, la crisi economica in cui
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versa il nostro Paese, afferma di fatto Renzi nelle sue continue apparizioni mediatiche, è dovuta esclusivamente a questo mercato del lavoro asfittico, “bloccato” dalla sopravvivenza di sacche consistenti di lavoratori privilegiati che con le loro rendite di posizione (cioè di garanzie contrattuali, normative, salariali ecc.) ostacolano l’ingresso nel mondo del lavoro di energie nuove, in grado con la loro freschezza - cioè con la loro disponibilità ad accettare qualsiasi condizione lavorativa, pur di avere finalmente un’occupazione stabile - di poter rilanciare il ruolo dell’Italia come settima potenza industriale del mondo. Alla fin fine, tutto ciò che Renzi è andato propagandando nel corso dell’anno passato e che è stato raccolto nella Legge Delega sul lavoro prima, nei decreti attuativi della medesima dopo, si è condensato in un solo, pregnante risultato: una “violenta” semplificazione delle possibilità di licenziamento per motivi economici (con l’immediata soppressione dell’art. 18 per i neo-assunti e in prospettiva per tutti i lavoratori indistintamente) e un conseguente, progressivo schiacciamento di tutti i lavoratori verso il basso nella garanzia di tutele e diritti.
I Decreti attuativi del jobs act Dunque, una volta riposte le fantasie epico-cavalleresche che il prode cavaliere “senza macchia e senza paura” può in qualche modo suscitare, resta soltanto, a questo punto, da confrontarsi con la cruda “mate-
rialità” che caratterizza i contenuti dei decreti attuativi del jobs act e delle dure ripercussioni che questi provvedimenti avranno nel mondo del lavoro in Italia.
1) I nuovi ammortizzatori sociali
Per quanto riguarda gli strumenti di tutela in costanza di lavoro, si prevede: l’impossibilità di ricorrere alla C.I.G. nel caso in cui l’azienda cessi la propria attività;
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il ricorso alla C.I.G. - fino ad un tetto massimo di 24 mesi, elevabile a 36 solo ricorrendo determinate condizioni- nelle aziende sopra i 15 dipendenti esclusivamente dopo che siano stati esperiti tutti i tentativi di riduzione dell’orario di lavoro e della retribuzione (con incentivazione, quindi, al part-time e/o ai contratti di solidarietà, peraltro anche questi oggetto di rivisitazione in relazione all’ambito di applicazione e alle regole di funzionamento); la ridefinizione, nel senso di una maggiore compartecipazione nel versamento delle aliquote contributive a copertura di tale richiesta, dell’intervento delle aziende che chiedono di accedere alla C.I.G.; l’estensione della C.I.G., sempre condizionata comunque dal limite massimo dei due anni e dai costi aggiuntivi per le aziende, ai lavoratori - stimati intorno ad un milione e quattrocentomila - di imprese che annoverino tra i 5 e i 15 dipendenti; la rimodulazione dei fondi di solidarietà per le aziende sotto i 15 dipendenti per le quali non sia invece previsto l’accesso ad alcuna forma di cassa integrazione. Invece per ciò che concerne le forme di tutela nei casi di disoccupazione involontaria si stabilisce: la revisione dell’indennità di disoccupazione, con la soppressione dei due assegni Aspi e mini-Aspi e l’introduzione della Naspi, rapportando la durata di quest’ultimo trattamento alla storia contributiva del lavoratore nei quattro anni precedenti il licenziamento;
l’erogazione, dopo la fruizione dell’intera Naspi e il perdurare dello stato di disoccupazione e di grave difficoltà economica, di un ulteriore mini assegno di disoccupazione (Asdi), soluzione “tampone” della durata di sei mesi; il lancio della Dis-Coll. (disoccupazione collaboratori), riservata ai lavoratori Co.Co.Co./Co.Co.Pro. il cui contratto di collaborazione si esaurirà nel corso del 2015. Cosa dire? Se consideriamo che uno dei leitmotiv della grancassa propagandistica del governo Renzi nel presentare non solo la necessità ma addirittura la connotazione di “sinistra” (aihmè!) di questa riforma del lavoro, è stato il continuo ricorso, in riferimento alle “nuove” possibilità di tutela dei lavoratori in difficoltà, ad una terminologia particolarmente “inclusiva” e dal carattere “universale”, già le disposizioni concernenti gli ammortizzatori sociali paiono in realtà procedere in senso contrario. Viene ulteriormente circoscritta, infatti, l’opzione del ricorso alla cassa integrazione - in attesa della definitiva scomparsa della C.I.G. in deroga dal 2016 (riforma Fornero 2012) aprendo quindi le porte a possibili licenziamenti immediati; sono nuovamente riformati - ma senza stanziamenti aggiuntivi da parte dello Stato - contratti e fondi di solidarietà nel caso sia di aziende medio-grandi (più di 15 dipendenti) che medio-piccole (meno di
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lavoro/leggi 15 lavoratori impiegati), nelle quali ultime, peraltro, eventuali interventi di questo tipo possono oggi essere attuati solo dietro autorizzazione ministeriale e fino ad esaurimento dei fondi disponibili (Decreto Sviluppo 2012). Al di là dei proclami renziani questa linea tutt’altro che “estensiva” viene seguita anche nell’ambito delle nuove indennità di disoccupazione. Come già accadeva nel passato è riconfermato il concetto per cui l’indennità è concessa non sulla base della condizione materiale - e quindi dei bisogni reali dei lavoratori e delle loro famiglie - di coloro che hanno perso il posto di lavoro, quanto piuttosto sulla storia e capacità contributiva del lavoratore ora disoccupato. Ma il verificarsi di queste condizioni raramente dipendono dalla volontà del singolo lavoratore, bensì dai contratti di lavoro imposti al medesimo dal padrone, dalla “correttezza” del datore nel versare all’ente previdenziale i contributi spettanti e ad altre scelte ancora sempre e comunque prerogativa degli imprenditori - “gli eroi del nostro tempo”, come li ha definiti il buon Matteo. Quindi ben poco possono dare come capacità contributiva e, conseguentemente, ben poco possono avere in cambio sotto forma di indennità di disoccupazione, ad esempio, quei lavoratori costretti, loro malgrado, ad accettare contratti lavorativi fortemente penalizzanti come i cosiddetti lavori atipici o quelli ad accentuato part-time. D’altro canto il fatto, di per sé favorevole, di poter contare ai fini della richiesta dell’indennità di disoccupazione sulla storia contributiva del lavoratore nei quattro anni che precedono il suo licenziamento - arco temporale sufficientemente ampio perché possa essere soddisfatto il requisito minimo della presenza di almeno tre mesi di lavoro - è vanificato dalla disposizione governativa di rendere nulli, ai fini della nuova domanda, i contributi già utilizzati in quegli stessi anni per ottenere un precedente sussidio di disoccupazione. Ciò significa che per la maggior parte dei lavoratori - si pensi ai cosiddetti “stagionali” - i periodi indennizzabili si ridurranno quasi unicamente all’ultimo lavoro svolto e per di più saranno indennizzate - come già accadeva del resto per la mini-Aspi - solo la metà delle settimane lavorate, mentre l’importo sarà pari al 75% della retribuzione media lorda mensile - come già, in questo caso, nella vecchia Aspi - calcolato sulla base delle retribuzioni percepite dal lavoratore nei quattro anni presi a riferimento. Tale importo, però, andrà calando, dopo i primi tre mesi di erogazione, del 3% per ogni restante mese di corresponsione (è da sottolineare che la già ricordata Asdi, finanziata con certezza per l’anno 2015 e solo presumibilmente per il 2016, per quei pochi disoccupati che la otterranno, avrà un importo pari al 75% dell’ultimo trattamento percepito con la nuova Naspi). Del resto anche la tanto strombazzata Dis-Coll sarà finanziata esclusivamente per il 2015 sulla base di finanziamenti aggiuntivi resisi disponibili solo all’interno dei previsti aggiustamenti della Legge di Stabilità approvata alla fine del 2014 e, comunque, non sarà finalizzata - com’era stato invece inizialmente ventilato - a soddisfare, anziché i soli cococo/cocopro, una più ampia platea di lavoratori atipici, come nel caso degli associati in partecipazione o dei fornitori di lavoro accessorio.
2) L’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (A.N.P.A.L.)
Strettamente collegato al decreto sugli ammortizzatori sociali è quello relativo alla creazione di un’Agenzia Nazionale che si occupi di lavoro, di politiche attive per l’occupazione, di riorganizzazione dei servizi che dovrebbero favorire la ripresa delle assunzioni e dell’autoimprenditorialità (soprattutto nei settori produttivi ritenuti più deboli). Stando alle intenzioni palesate dal governo, questa Agenzia unica, operativa a partire dal prossimo anno, dovrebbe assumersi il compito di rilanciare, anche tramite l’intervento delle Regioni, i Centri per l’Impiego; di sviluppare politiche attive per il lavoro (corsi di formazione e di aggiornamento, colloqui orientativi, inserimenti pre-lavorativi, tessitura di reti territoriali tra formazione professionale, contesti produttivi locali e aziende); di gestire addirittura in futuro, sottraendole all’Inps, l’erogazione delle indennità di disoccupazione (anche se pare assai arduo poter pensare che la dirigenza del maggior ente previdenziale italiano possa lasciarsi sfuggire di mano il controllo di quei milioni e milioni di euro - spesso utilizzati per finalità extraistituzionali - messi ogni anno a disposizione per il pagamento di tali sussidi). Di fatto, malgrado la drammatica situazione occupazionale esistente nel nostro Paese, il governo si appella nel decreto ai principi di efficienza e di razionalizzazione dei costi relativamente all’attuazione delle politiche attive per il lavoro e addirittura predica il “costo zero” per il riordinamento dei Centri per l’Impiego.
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Tale direttiva non potrà non avere come conseguenza se non il perpetuarsi dello stato di agonia economica ed operativa in cui versano i nostri servizi pubblici per l’occupazione -sicuramente tra i più bistrattati d’Europa, se consideriamo gli stanziamenti effettuati in questo campo in altri Paesi pur sempre pienamente collocati nell’Occidente capitalistico. E tutto ciò, come vedremo meglio più avanti, a fronte di un rafforzamento, proprio attraverso l’approvazione del jobs act, del lavoro interinale e quindi di quelle agenzie private che si occupano della “somministrazione” di questo tipo di inserimento lavorativo. Insomma anche su questo terreno, così delicato per tanti giovani e meno giovani alla ricerca di uno spiraglio lavorativo, le indicazioni date dal governo Renzi paiono risolversi in tanta propaganda a basso costo e in tante illusioni distribuite a piene mani.
3) L’Ispettorato Nazionale del Lavoro
Con gli ultimi decreti attuativi approvati dal Consiglio dei Ministri nei primi giorni di settembre, il ministro Poletti ha ufficializzato l’istituzione dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Coordinate da funzionari del Ministero del Lavoro e composte da ispettori dell’Inps e dell’Inail operanti in stretto contatto con le strutture Asl, le nuove “squadre” ispettive avranno l’incarico di migliorare, facendo lavorare assieme i rappresentanti dei tre diversi enti, <<le performance delle ispezioni… il lavoro di istruttoria e di intelligence (!)>> (così Poletti il 3 settembre 2015) prima svolto dai vari istituti in ordine sparso. In particolare, tra i compiti assegnati al neonato Ispettorato unico vi è quello di vigilare sul rispetto delle nuove norme in materia di “dimissioni in bianco”, utilizzate da sempre da molti datori di lavoro come strumento ricattatorio nei confronti dei propri dipendenti, soprattutto se lavoratrici. Da ora, infatti, per lasciare definitivamente il posto di lavoro non sarà più possibile presentare un semplice foglio bianco con la firma del lavoratore ma occorrerà scaricare uno specifico modulo, numerato e datato, dal sito del Ministero del Lavoro. Ciò, secondo l’opinione espressa dal competente ministro, dovrebbe costituire elemento di “rassicurazione” circa la reale volontà del lavoratore di volersi effettivamente dimettere in quella data e non in un altro momento deciso invece dal suo datore di lavoro.
4) Il riordino delle forme contrattuali
Questo passaggio costituisce senz’altro la parte più controversa dell’intero jobs act, nella fase tanto della Legge Delega quanto dei Decreti Attuativi della medesima. Esso prevede in sintesi: interventi di analisi, di semplificazione, di modifica
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e/o di superamento delle decine di tipologie contrattuali oggi in vigore nel nostro Paese; di promuovere, in linea con l’Europa, l’assunzione a tempo indeterminato come forma contrattuale privilegiata; di introdurre, per le nuove assunzioni, il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Dunque, al fine di armonizzare le forme contrattuali esistenti nel nostro Paese <<con la loro effettiva coerenza rispetto al tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale>> - così si è espresso, con fare un po’ criptico, il fido scudiero del cavalier Matteo - il governo Renzi ha mobilitato decine di esperti e di tecnici ministeriali nel tentativo di razionalizzare le 46 tipologie contrattuali sovrappostesi, dal Pacchetto Treu fino ad oggi, l’una sull’altra. Una molteplicità di forme contrattuali - di cui hanno fatto largo uso tanto imprese private quanto amministrazioni pubbliche - che, sottratte ad ogni controllo, hanno generato, ovunque se ne sia fatto ricorso, sfruttamento e abusi di ogni sorta; che hanno permesso alle aziende, attraverso l’imposizione di rapporti di lavoro sempre più precari, di scaricare sui salari e sui diritti dei lavoratori il peso della crisi economica e della contrazione dei profitti. Ma, come spesso accade, la montagna ha finito per partorire il classico… topolino. Ed è così che di semplificazione, rispetto alla giungla contrattuale creatasi nel mondo del lavoro, se n’è vista veramente poca. Scompaiono dal nostro ordinamento solo le forme contrattuali che si sono rivelate di più difficile gestione e/o di scarso profitto per le aziende come l’associazione in partecipazione ed il job sharing (o lavoro ripartito). Nel primo caso l’imprenditore si accordava con un lavoratore che, pur svolgendo un lavoro dipendente a tutti gli effetti, era ricompensato con una quota di partecipazione agli utili aziendali (?). Uno strumento contrattuale, questo, di cui si è molto abusato soprattutto nel settore del commercio per inquadrare in modo improprio commessi, baristi, parrucchieri e altre figure e che ha finito col generare inevitabilmente centinaia di vertenze. Nel secondo caso - comunque verificatosi raramente nel nostro Paese - due lavoratori si dividevano consensualmente all’interno dell’azienda lo stesso posto di lavoro, adempiendo ad un’unica e identica obbligazione lavorativa. Un ragionamento a parte meritano le decisioni prese circa i contratti cococo/cocopro che si collocano in una sorta di zona “grigia” tra lavoro dipendente e lavoro autonomo (quasi sempre trattasi del primo, mascherato con il secondo) e coinvolgono nel nostro Paese circa 502mila lavoratori. “Oggi è il giorno atteso da anni. Il jobs act rottama i cococo vari e scrosta le rendite di posizione dei soliti noti “lavoltabuona””.
precisazione Nell’editoriale del numero scorso per un errore di battitura è apparso, riferendosi all’articolo della Costituzione sulla salute, il 31 (che riguarda il sostegno alla famiglia) anziché il 32 che recita: la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività...
Così l’immancabile tweet del “rottamatore” che in tal modo pone fine a questa tipologia contrattuale introdotta dalla Legge Biagi nel 2003. In realtà questa cancellazione riguarda eventuali nuovi contratti - che non potranno, quindi, più essere stipulati - mentre quelli già in essere proseguiranno alle stesse condizioni fino alla loro naturale scadenza. Tuttavia dal 1° gennaio 2016 alle collaborazioni “camuffate”, cioè quelle in realtà totalmente gestite dal committente (datore di lavoro), sarà applicata la disciplina del lavoro subordinato (prestazione di lavoro personale caratterizzata da continuità e ripetitività, con modalità, tempi e luoghi di lavoro decisi dal datore). Per spingere ad un rapido passaggio dalle collaborazioni al lavoro dipendente a tutti gli effetti, il decreto prevede una sorta di “sanatoria” per i datori di lavoro che - “birichini” (!)- abbiano imposto in questi anni ai propri “collaboratori” condizioni di lavoro “fasulle”. Nel testo si parla, infatti, di “estinzione delle violazioni in materia di obblighi contributivi, assicurativi e fiscali connessi all’eventuale erronea qualificazione del rapporto di lavoro pregresso”. In cambio il datore non potrà estinguere il rapporto di lavoro nell’anno successivo all’assunzione come dipendente dell’ex collaboratore, il quale, a sua volta, rinuncerà “a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro”. Negli altri casi, ha sottolineato Poletti: <<chi di fatto è una partita Iva, dovrà aprire una partita Iva>>. Altrimenti, se i “severi” controlli promessi dal ministro del Lavoro dovessero appurare il perpetuarsi di lavoro autonomo “fasullo”, saranno applicate tout-court le regole del lavoro dipendente ma a “tutele crescenti” (di cui tratteremo tra poco). Rimane invece a disposizione dei datori di lavoro tutta la vasta gamma delle altre tipologie contrattuali che pure avrebbero dovuto anch’esse subire una sforbiciata e che, viceversa, continueranno a garantire ai nostrani imprenditori opportunità di sfruttamento massiccio della forza lavoro e di ricerca del massimo profitto a danno dei lavoratori (“Non siamo stati abbastanza bravi a trovare un’alternativa adeguata”, ha affermato, dispiaciuto, sempre il Sancho Panza del governo Renzi). Per cui restano ancora in vigore, tra i più rilevanti rapporti di lavoro precari: i contratti a tempo determinato (dalla durata massima di 36 mesi comprensivi di 5 proroghe) liberalizzati dal Decreto Poletti (cioè senza che il datore di lavoro debba specificare la causale del ricorso a tale tipo di contratto); i lavori a chiamata (sia in relazione a singole giornate lavorative che all’interno di periodi contrattuali più ampi); i contratti di “somministrazione di lavoro” propri delle agenzie interinali; i voucher; i diversi contratti particolari che regolano alcuni lavori occasionali e/o discontinui; i nuovi contratti di apprendistato, con i quali si unificano, al fine di ridurre i costi delle imprese, il primo livello (quello relativo al diploma e alla qualifica professionale) e il terzo (quello concernente l’alta formazione e la ricerca). In particolare per ciò che riguarda il lavoro interinale è prevista una sua estensione ad un maggior numero di settori lavorativi e, anche in questo caso, l’eliminazione delle causali. Rimane il limite del suo utilizzo, circoscritto al solo 10% (!) degli assunti con questo tipo di contratto rispetto al totale dei lavoratori a tempo indeterminato presenti all’interno dell’azienda. Invece i voucher - che costituiscono una delle forme contrattuali precarie in maggiore “ascesa” - vedono elevarsi con il jobs act da 5mila a 7mila euro il tetto massimo dell’eventuale compenso annuale per il lavoratore. Questo “strumento”, il cui esordio risale al 2003, doveva favorire l’emersione del lavoro sommerso soprattutto in ambito domestico e agricolo. La riforma Fornero ha ampliato l’uso dei voucher ad altri numerosi campi lavorativi (la ristorazione ad esempio). Tanto che oggi il voucher (dal valore nominale di 10 euro, comprensivo di copertura Inail/Inps) serve di fatto a mascherare sempre più forme di vero e proprio sotto-inquadramento salariale (il lavoratore viene pagato poco ma rispettando la “legalità”) e di minore copertura previdenziale. Inoltre il “buono lavoro” (che si acquista ovunque, anche in tabaccheria), non corrispondendo, secondo la normativa, ad un determinato compenso orario e quindi a un’ora precisa di prestazione lavorativa, finisce per occultare in modo furbesco zone estese di lavoro nero.
segue sul prossimo numero
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La scuola (di nuovo) in movimento
Nonostante tutte le nefandezze che il Partito democratico sta operando a livello nazionale e locale, ancora esistono energie per manifestare tutta l’indignazione e l’opposizione alle politiche devastatorie del Governo Renzi e, per traslazione, delle giunte locali provinciali e della Regione Toscana guidata da Rossi brugio Nel frattempo, i tagli agli Enti Locali (Comuni e Province) rendono sempre più problematica, fino a rasentare la tragedia, la manutenzione e la messa in sicurezza degli edifici: molte scuole non vengono più neppure sottoposte a controlli, e quando questi vengono effettuati non emerge il reale stato di trascuratezza perché in molti casi non ci sono risorse per intervenire tempestivamente. Ricordiamo i diversi incidenti, che avvengono nella più incredibile indifferenza. Ricordiamo inoltre il gravissimo episodio avvenuto a Pisa, con la deportazione forzata dei rom dal campo di via Bigattiera e il ricorso alle “ruspe democratiche” evocate da Rossi ed elogiate dal fascio-leghista Salvini, che hanno distrutto il lavoro di anni e anni delle maestre di Marina di Pisa impegnate a garantire il diritto allo studio ai bambini del campo. L’inizio dell’anno scolastico è stato, infatti, caratterizzato dalla propaganda del governo Renzi che ha imbambolato l’opinione pubblica con la favola della fine del precariato, inanellando cifre sulle assunzioni che risultano in numero ben inferiore a quelle dello scorso anno. Anche con la prossima tornata attesa a novembre, i numeri reali restano ben al disotto del totale dello scorso anno, che tra stabilizzazioni da turn-over per i pensionamenti (circa 40mila) e incarichi annuali (supplenze lunghe), arrivavano ai duecentomila. Quest’anno si arriverà, complessivamente a non oltre i cinquantamila neoassunti, a voler essere ottimisti.
Intanto i presidi sono stati dotati di poteri e di responsabilità (di fatto arbitrarie e che alimenteranno clientelarismo e soggezione) che consentiranno di scegliere i “bravi” distinguendoli dai “mediocri”: i primi, saranno quelli dediti all’incremento dell’offerta formativa (progetti di ogni tipo, a discapito del lavoro quotidiano in classe), al rastrellamento di risorse (reperimento di finanziamenti e sponsor, vendendo l’anima e qualcos’altro al diavolo del Mercato), all’obbedienza cieca e assoluta (proni e deferenti verso i DS e il dettato della Legge 107), alla messa in mostra delle proprie prerogative pedagogiche in linea coi tempi (concorrenzialità e individualismo esasperati, contro l’idea di insegnamento fondato sulla collegialità e sulla collaborazione). Tutto questo mentre il contratto langue ormai dimenticato da anni, mentre la perdita di potere d’acquisto non potrà essere recuperata dalle briciole propagandistiche del “bonus” per chi accetterà di barattare la propria dignità professionale con l’attribuzione dell’elemosina ministerial-aziendale, tramite il cavallo di Troia dei Comitati di Valutazione che romperanno quel poco di solidarietà ancora esistente all’interno dei collegi e tra lavoratori della scuola (addirittura la Legge 107 non fa praticamente menzione del personale ATA). Chi dice che la lotta non paga non si è accorto che le mobilitazioni massicce e determinate da marzo a luglio, almeno, hanno convinto il governo a mantenere gli organi collegiali, che altrimenti sarebbero stati soppressi: una magra consolazione, forse, ma possono rappresentare
gli organi assembleari da cui far rinascere un’idea di scuola pubblica degna di questo nome, sottratta alle leggi asfittiche e mefitiche del mercato e della privatizzazione surrettizia. Le responsabilità nazionale e locale del Partito Democratico è evidente: politiche di tagli, di restrizioni, di smantellamento del patrimonio e dei servizi pubblici, nella scuola come nella sanità, stanno riportandoci indietro di trent’anni, o forse anche di più. Per questo, ogni mobilitazione, ogni manifestazione, ogni sussulto sociale, a maggior ragione se proviene dalle nuove generazioni, è una ventata di speranza. Nella scuola, dopo le mobilitazioni massicce da marzo a luglio, che hanno mostrato un’unitarietà delle sigle sindacali mai espressa prima, e una compattezza dei lavoratori nell’opporsi alla cosiddetta “Buo-
na Scuola”, sono adesso gli studenti i primi a rialzare la testa: nelle scorse settimane testimoniano di una scuola ancora reattiva, mobilitata contro il governo Renzi e le articolazioni locali e regionali del Partito Democratico, sempre più forza demo-fascistoide intenta a smontare la Costituzione, con l’apporto di massoni e pidduisti, e a scippare alle classi popolari e alla cittadinanza servizi e beni comuni essenziali. Appoggiare gli studenti e tutto il mondo della scuola che resiste è necessario: occorre prepararsi ad una battaglia di lunga lena in vista anche della “Buona Università” di cui non sono chiare le linee guida, ma è chiaro l’intento politico complessivo, il progetto della mercificazione coatta della conoscenza, della privatizzazione del sistema nazionale dell’istruzione pubblica, della dismissione culturale e scientifica per ridurre all’analfabetismo di ritorno la
popolazione e le nuove generazioni. Ribellarsi allo scippo di futuro, di cultura, di esistenza è dunque un dovere, oltre che un diritto, degli studenti, di tutti i lavoratori e le lavoratrici: per questo, bisogna stare al fianco degli studenti contro la distruzione del sistema nazionale dell’istruzione e per la difesa della scuola e delle università pubbliche. La scuola dunque non è pacificata, e le mobilitazioni degli studenti rappresentano il primo passo di un nuovo movimento che deve crescere, sostenuto e alimentato dai lavoratori della scuola, docenti e personale ATA, in vista della manifestazione regionale a Firenze il 24 ottobre organizzata da tutte le sigle sindacali e dello sciopero del 13 novembre, durante la discussione della nuova manovra finanziaria della Legge di Stabilità, per sbloccare i contratti fermi da cinque anni.
La caduta del muro di Berlino e la moltiplicazione dei muri in Occidente Pubblichiamo questo articolo del prof. James Petras apparso circa un anno fa su Global Research perchè offre una visione politica complessiva sulla questione dei “muri”. Al di là della retorica ufficiale, dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, sono stati eretti 45 nuovi muri: dai confini Usa-Messico alla Palestina. Le promesse di pace e prosperità fatte dalla cancelliera Merkel nel corso delle celebrazioni per il 25° anniversario, sono un’auto-costruzione sciovinista che distorce le reali conseguenze di una Germania unita. James Petras L’idea che la Germania sia stata unificata democraticamente è di dubbia precisione storica. Le conseguenze di una potente Germania unita non hanno portato ad una prospera e pacifica Europa e il ruolo attuale della Germania nelle politiche mondiali, particolarmente versio il Medio Oriente, Grecia, Nord Africa e Ukraina, è tutto tranne che pacifico.
I muri delle libertà e i muri delle prigioni Mentre i regimi della NATO celebrano la “caduta del muro di Berlino” come la più alta espressione di libertà, i loro stessi leader supportano, finanziano e promuovono la costruzione di muri oppressivi da un capo all’altro del mondo. La Germania Unificata e i suoi partner della NATO hanno sostenuto il muro di separazione che in Israele divide e ingabbia milioni di Palestinesi da quasi vent’anni. Apparentemente sembra ci siano “muri” progressisti e “muri” reazionari - “muri buoni” e “muri cattivi”. Diversamente dai Palestinesi, i Berlinesi non vennero mai privati delle necessità di base e sottoposti ad espulsioni o perfino ad assassinio - l’aiuto aereo dell’occidente fornì ogni cosa ai Berlinesi Ovest. Il muro di se-
parazione di Israele ha comportato la divisione e la confisca della terra Palestinese, case ancestrali, fattorie, scuole e luoghi di cultura mentre boschi di olivi centenari venivano rasi al suolo - privando i loro proprietari del reddito di produzione. Gli Stati Uniti hanno costruito il loro massiccio “Muro di Sicurezza” lungo il confine messicano, incarcerando e anche sparando ai rifugiati che fuggivano dalla militarizzazione voluta da Washington di Messico e Centroamerica. Il muro di “sicurezza” USA condanna milioni di messicani e centroamericani a vivere nel terrore e nella miseria in sanguinari narco-Stati clienti USA. Negli ultimi sette anni, più di 100.000 cittadini Messicani sono stati uccisi sotto il regno di presidenti sostenuti dagli Stati Uniti, eletti con la frode, che implacabilmente perseguono il mandato USA della “Guerra alla Droga”. Stragi a livelli simili devastano Honduras, El Salvador e Guatemala, paesi in cui bande di narcotrafficanti, spalleggiati da politici, militari e poliziotti corrotti, terrorizzano città e campagne. La mortalità dovuta agli interventi militari USA in Centroamerica è molto più elevata di quella dell’ex Unione Sovietica nell’Europa Orientale. Il muro di confine degli Stati Uniti assicura che i sopravvissuti a questo terrore rimangano esposti al brutale governo dei regimi filo USA. Allo stesso tempo, la civile Unione Europa ha eretto i suoi muri di terra e di mare contro i rifugiati da Irak, Siria, Libia e Palestina, che fuggono dalle invasioni dirette dalla NATO e dalle guerre fomentate per procura nei loro paesi. Fino a giugno 2014, secondo la Commissione delle Nazioni Unite sui Rifugiati, 13 milioni di civili sono stati costretti a sfollare dalle guerre USA in Siria e Libia. Molti di coloro che fuggono si scontrano con i muri eretti in Europa o con i “muri legali” - come restrizioni all’immigrazione, concentrazione o internamento in campi e prolungate detenzioni che accolgono la loro “lotta per la libertà”. La Cancelliera Merkel ha scelto di non menzionare questi muri “civilizzati” contro la gente che fugge dagli interventi umanitari della NATO. Nè hanno dato riconoscimento i Primi Ministri e Presidenti di Europa, Stati Uniti e del loro “alleato” Israele delle morti e delle sofferenze... perchè questi sono i loro muri, le loro barriere alla libertà.
Riunificazione democratica o annessione forzata? Angela Merkel glossa sul fatto cruciale che i tedeschi dell’est mai sono stati consultati o hanno potuto tenere libere elezioni per decidere che tipo di rapporti avrebbero voluto con il regime della Germania Ovest. Mai gli è stato chiesto in quali termini e con quali tempi la “riunificazio-
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ne” avrebbe dovuto avvenire. Il regime della Germania Ovest si è impadronito del comando e ha dettato le politiche economiche e sociali che hanno distrutto l’economia dei loro vicini dell’est. Centinaia di migliaia di operai della Germania Est hanno dovuto affrontare brutali quanto arbitrari licenziamenti di massa nel momento in cui i capitalisti dell’Ovest hanno dichiarato la chiusura delle fabbriche di Stato. I contadini della Germania Est facevano da spettatori indifesi alla dissoluzione delle loro stabili e prospere cooperative per ordine dei burocrati della Germania Ovest. Dov’era la democrazia in questa politica di annessione brutale che ha colpito violentemente i livelli di vita precedenti dei tedeschi dell’est, che ha decuplicato il livello di disoccupazione, che ha gravemente pregiudicato i livelli di assistenza e di occupazione femminile e devastato i pensionati? Più di 1,5 milioni di lavoratori della Germania Est sono stati sradicati e ridotti a rifugiati economici nell’Ovest dove i salari erano il doppio che nella Germania Est “liberata”. Le paghe erano più alte, ma più alta era anche l’insicurezza del lavoro e la perdita dei benefici del welfare dell’Est. E se la morte di 138 tedeschi dell’Est nel corso di 28 anni, nel tentativo di fuggire sul muro, fu una tragedia, allora cosa dovremmo dire delle migliaia di persone che sono annegate o morte di altre orribili morti cercando di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa o di scalare il muro che separa gli Usa dal Messico, o del muro di Israele che sta strangolando sei milioni di Palestinesi? Ci sono molte “strisce di morte” che non riconoscono a Latinoamericani, Palestinesi, Mediorientali la loro libera volontà, bloccando la loro fuga dalle guerre USA-NATO e dal genocidio di Israele. Ma questi “atroci muri” non vennero menzionati dalla Cancelliera Merkel alla Porta di Brandeburgo durante la celebrazione del 25° anniversario della caduta del muro di Berlino. Gli scribacchini del New York Times, del Financial Times e del Washington Post non hanno menzionato questi muri veri, contemporanei e la loro brutale mortalità. La denuncia selettiva di certi muri contrasta con le politiche di costruzione di altri più formidabili muri. I muri occidentali di esclusione portano con sè la negazione delle responsabilità per le condizioni politiche ed economiche che hanno condotto milioni di rifugiati a fuggire dal Centro America, Palestina, Medio Oriente e Nord Africa. L’intervento e il sostegno degli Stati Uniti ai regimi che si avvalgono delle squadre della morte e della brutalità militare in Centro America, dagli anni ‘60 ai ‘90, ha avuto come conseguenza la morte di oltre 250.000 civili e l’esodo di oltre 2 milioni di rifugiati. Le invasioni e le guerre procurate da USA ed UE in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria per più di un decennio hanno sradicato più di 13 milioni di persone e ucciso ben oltre il milione di civili.
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anniversari
Quando il proletariato si è liberato La Rivoluzione d’ottobre ha rappresentato l’apertura di una nuova epoca in tutto il mondo
Emiliano Il 7 novembre ricorre l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Dopo la prima esperienza di presa del potere da parte del proletariato durante la Comune di Parigi del 1871 la Rivoluzione d’ottobre rappresenta l’apertura di una nuova epoca in tutto il mondo, quella delle rivoluzioni proletarie. I dieci giorni che sconvolsero il mondo rappresentarono per il proletariato di tutto il mondo non solo una grande speranza di libertà e di liberazione dal giogo dello sfruttamento ma anche la costituzione di una roccaforte proletaria da cui suscitare la rivoluzione internazionale. La costituzione del primo Stato proletario e la sua difesa ha permesso di sconfiggere le aggressioni imperialiste che la volevano soffocare e diventare la spinta propulsiva per sconfiggere la barbaria fascista e nazista e portare il socialismo all’ordine del giorno in tutto il mondo e i comunisti erano al potere in oltre metà del mondo nell’immediato dopoguerra, mentre i popoli in lotta contro il colonialismo per la loro liberazione nazionale trovavano sicuri e potenti alleati. Lo scontro tra proletariato e borghesia è uno scontro mortale: la dittatura del proletariato è la lotta di classe del proletariato che ha vinto e ha preso nelle sue mani il potere politico, contro la borghesia sconfitta ma non di-
strutta, ma non scomparsa, che continua a resistere e intensifica la propria resistenza indicava Lenin mettendo in guardia il proletariato dal pericolo dell’imperialismo internazionale... che con tutta la potenza del suo capitale, con la sua tecnica militare organizzata in modo superiore, la quale costituisce una forza effettiva, una effettiva fortezza del capitale internazionale che non può in nessun caso e a nessuna condizione convivere con il potere proletario. In questa fase storica la lotta è stata vinta
Le guerre di Israele e l’occupazione ai danni del popolo Palestinese hanno prodotto più di 500.000 insediamenti coloniali di ebrei impadronitisi della terra palestinese fin dal 1967. L’auto proclamato stato ebreo ha forzatamente espulso centinaia di migliaia e ucciso, mutilato e imprigionato oltre 300.000. Ammettere che l’Occidente costruisce e mantiene il proprio sistema di atroci muri inevitabilmente indirizza alla politica di decenni di prolungate e sanguinose guerre imperialiste la cui conseguenza principale sono i milioni di rifugiati. Le guerre imperiali sono caratterizzate dalla costruzione e dal mantenimento di complessi “muri occidentali”, molto più mortiferi e brutali del muro di Berlino e con meno probabilità di cadere. Infatti i muri dell’Occidente si stanno moltiplicando e fortificando con la più recente tecnologia di sorveglianza. Budget sempre più consistenti ed armi sempre più letali per la polizia anti-emigranti, hanno portato ad una brutale caccia, cattura e incarcerazione dei rifugiati - mentre i regimi dell’Ovest diventano sempre più stati di polizia.
Le malefiche conseguenze della caduta del muro di Berlino e l’annessione della Germania Est
sul piano internazionale dalla classe borghese allenata da secoli ad esercitare il potere sulle masse popolari e sul proletariato che invece ha potuto esercitarlo solo per brevi periodi e in condizioni di estrema difficoltà. Una sconfitta che paghiamo cara ma che non mette in discussione la certezza della necessità del comunismo per salvare l’umanita dalla catastrofe. Il proletariato ha perso una battaglia anche se molto importate, ma non la guerra. L’epoca delle rivoluzioni è ancora attuale, il capitalismo nella
sua fase imperialista non riesce d’ottobre sono indissolubilmen- giustizia. Se si guarda alla attuaad uscire dalle contraddizioni te legati al leninismo, alla sua te- le situazione che stiamo viveninsite nel suo sistema che gene- oria dell’anello debole della cate- do sembra impossibile pensare rano crisi sempre più profonde na imperialista e della necessità a tanto, ma sarebbe sbagliato, con aumento dello sfruttamen- e possibilità di realizzarla anche perchè non tutto è perduto, anzi! Nella nostra epoca i camto, della disoccupabiamenti sono repentini e zione, della povertà Continuare la battaglia politica il contagio delle crisi anche e della miseria, per e ideologica per la ricostruzione di piccoli paesi possono far gran parte dell’uprecipitare la situazione e manità, mentre alla del Partito comunista nel nostro lo sviluppo delle contradricerca del massimo dizioni tra paesi capitalisti profitto sono pronti paese, studiare e imparare si può trasformare in una a scatenare nuove e dall’imponente insegnamento crisi generale irreversibile tremende guerre . con una situazione paraGli insegnamenti di Lenin è indispensabile dossale determinata dall’edella Rivoluzione per liberarsi dallo sfruttamento, norme sviluppo delle forze produttive che lo stesso dall’oppressione, dalle guerre sistema ha creato, che facilita il mantenimento del potere proletraio mentre l’arretratezza della organizin solo paese, dove le condizioni zazione - determinata dalla lotta si determinano senza esitazioni dell’imperialismo attraverso la e attendismi. Per cogliere questi frantumazione dei comunisti “momenti giusti” il proletariato può rallentare il processo rivoludeve dotarsi di un unico “Stato zionario. maggiore” della classe, attraver- Un proletariato che senza il so la costruzione del suo par- suo stato maggiore diventito che sappia sviluppare una ta cieco e incapace di coglieteoria e un programma per la re l’occasione della debolezza rivoluzione, che organizzi la sua del suo avversario di classe. parte migliore e combattiva e Ricordare la Rivoluzione d’ottomantenga un profondo legame bre per noi comunisti deve escon le altre componenti, capace sere da sprone per continuare di unire intorno a se la grande la battaglia politica e ideologica massa dei diseredati di una so- per la ricostruzione del partito cietà capitalista. Prendere il po- comunista nel nostro paese, per tere politico, abbattere lo Stato studiare e imparare dall’impoborghese, è il sistema per fare nente insegnamento di Lenin. E le vere riforme del proletariato allora: Viva la Rivoluzione d’ottocon le proprie leggi e la propria bre, Viva il leninismo.
di lingua russa dell’est. Il sogno di Merkel è convertire l’Ukraina in uno stato cliente di Germania ed USA, in cui l’export tedesco vada a sostituire le merci russe e gli investitori dell’agro-minerario tedesco possano sfruttare le materie prime del paese.
Conclusione E’ ovvio che Merkel, Obama ed altri governanti imperialisti abbiano una doppia misura per quanto riguarda i “muri” - essi denunciano i “muri comunisti” mentre sostengono i feroci “muri capitalisti” contro i rifugiati; essi celebrano la caduta del Muro di Berlino mentre costruiscono muri anche più feroci contro le vittime delle loro guerre imperiali. Al di là dell’ipocrisia della burocrazia occidentale, vi è una logica politica che guida queste scelte. I criteri adotatti dall’Ovest per decidere quali muri siano da sostenere e quali quelli da far cadere, corrono lungo le seguenti linee: Muri che tengono fuori le vittime delle guerre imperialiste sono progressisti e necessari per la sicurezza nazionale; Muri che proteggono i regimi comunisti, nazionalisti o di sinistra sono repressivi, disumani e devono cadere. Se consideriamo le più ampie conseguenze
politiche di un evento, come la caduta del Muro di Berlino e la conseguente e arbitraria annessione dell’Est, è chiaro che l’esercizio del potere della Germania “ri-unificata” ha prodotto un impatto profondamente negativo sulle economie del Sud Europa ed ha concentrato poteri politici dittatoriali nelle mani dei decision-maker tedeschi che operano tramite gli uffici UE a Bruxelles. La Germania ha rinunciato al suo ruolo passivo e ri-affermato il suo ruolo nelle politiche mondiali: lentamente all’inizio, in qualità di partner subordinato nelle guerre imperialiste USA in Medio Oriente, e ora, più decisamente, legandosi con i golpisti Ukraini e i loro massacri ed imponendo sanzioni economiche alla Russia. La “grande caduta” della Germania dopo la II Guerra Mondiale ha richiesto mezzo secolo per “rimettere tutti i pezzi assieme”. Ma una volta sistemati, la Germania cerca di proiettare la sua potenza mondiale, in particolare attraverso i propri rappresentanti nella UE e nella NATO, in alleanza con l’imperialismo USA. Il Quarto Reich guarda insistentemente indietro al Terzo Reich. da Global Research - trad. Luciano Orio
L’annessione della Germania Est aumentò enormemente il potere economico della Germania, fornendo alla Germania capitale parecchi milioni di lavoratori esperti e ingegneri formati a costo zero. L’incremento della potenza della Germania determinò il corso della politica economica dell’Unione Europea. Con l’inizio della crisi economica, l’élite politica e capitalista si trovarono nella posizione migliore per dettare i termini del “recupero” - e imposero l’intero peso sulla classe operaia e sul ceto medio del Sud Europa ed Irlanda. La classe dirigente tedesca, sotto stretto controllo del direttorio UE, obbligò Grecia, Portogallo, Spagna, Italia ed Irlanda ad accettare i “programmi di austerità”. Queste politiche regressive, che assicuravano ai creditori il rimborso dei loro prestiti con gli interessi, condussero all’incremento dei tassi di disoccupazione, in alcuni casi di più del 50% tra la popolazione giovanile, e a lungo termine, al declino su vasta scala degli standard di vita. La “Germania Unificata” flettè i muscoli della sua ritrovata economia ed estese la sua egemonia sull’Unione Europea, assicurandosi i pagamenti dei debiti dai suoi sudditi europei. Il potere economico della Germania Unificata portò alla ripresa delle aspirazioni politiche e militari per intraprendere e affermare la propria presenza nelle guerre imperiali condotte dagli Stati Uniti nel Medio Oriente, Nord Africa, Sud Asia ed Ukraina. Già per il primo decennio del 21° secolo la “Germania unita” era in grado di trarre profitti dalla fornitura di armi, logistica e missioni militari in Afghanistan. Ha fornito ad Israele armi e aiuti economici mentre i Palestinesi venivano espulsi dalla loro terra e dalle loro case. Le ambizioni militari di Angela Merkel si rivelarono nel suo sostegno incondizionato al colpo di stato di estrema destra in Ukraina. Successivamente la Germania ha imposto sanzioni alla Russia e sostenuto il brutale blitz militare di Kiev contro il Donbass. In Ukraina, la Germania ancora una volta come negli anni 30, ha trovato alleati tra i collaborazionisti e gli assassini neo-nazisti, disposti a massacrare i federalisti
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Cuba
Appunti su un anno vissuto intensamente Come diceva Che Guevara: “All’imperialismo non bisogna concedere neanche tanto così”
Daniela Trollio (*) Scrivere qualcosa su Cuba non è mai facile: parte della difficoltà è legata alla mancanza o – meglio – alla cronica deformazione delle poche notizie che ci arrivano. Altra difficoltà è la sistematica abitudine (storica, del resto) di certa “sinistra”: se i processi non si svolgono seguendo gli schemi che noi abbiamo in testa, non cerchiamo mai di analizzarli, ci limitiamo a criticarli se non corrispondono a tali sistemi, o ad assumerli senza cercare di capirli. E allora si cade nella retorica. Ma, visto che di Cuba in questo scorcio di anno si è parlato parecchio, vale la pena di rischiare di farlo ugualmente, lasciando soprattutto parlare loro, i cubani.
Cuba-USA, 5 a 0: i Cinque Eroi Fidel l’aveva detto, nel giugno 2001, due anni dopo il loro arresto: “Volveran” (ritorneranno). E sono tornati – Gerardo Hernàndez Nordelo, Ramòn Labanino Salazar, Antonio Guerrero Rodrìguez, Fernando Gonzàlez Llort e René Gonzàlez Sehverert - i 5 Eroi, nella loro patria. Nel gennaio 2015 erano tutti a casa, dopo quasi 16 anni passati nelle carceri statunitensi. La loro storia è nota ai lettori di Nuova Unità e non è il caso di ripercorrerla. Quello che vale la pena di sottolineare è - oltre al loro coraggio, alla loro dignità in tutti gli anni di sofferenza, alla loro coerenza - la pazienza e la fermezza con cui i cubani hanno lottato in tutti questi anni, facendo appello alla solidarietà internazionale, nella testarda convinzione che prima o poi la giustizia deve trionfare a dispetto di tutte le difficoltà. Pochi credevano, fuori dall’isola, che sarebbe stato possibile ma, come diceva il Che: “Siamo realisti, vogliamo l’impossibile”. E così è stato.
Cuba: 191; Stati Uniti: 2 L’ONU è formata da 193 Stati membri. Nel 2014 188 di questi paesi hanno votato a favore della risoluzione cubana intitolata “Necessità di porre fine al blocco economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti d’America contro Cuba”, fatta eccezione per Stati Uniti, Israele e uno Stato della Micronesia. Un blocco economico inteso a punire Cuba per essersi liberata dal dominio degli Stati Uniti e per il ‘cattivo esempio’ cha ha dato resistendo fino ad oggi. Pochi giorni fa, il 27 ottobre di quest’anno, USA e Israele si sono trovati addirittura soli a votare contro la risoluzione, con un imbarazzatissimo ambasciatore nordamericano in difficoltà a spiegare il mantenimento del “bloqueo” ad un paese con il quale erano appena stati ristabiliti rapporti diplomatici. Non ci sono state astensioni e mai, nella storia di questa istituzione, una questione posta in discussione ha ricevuto un appoggio così totale dagli altri Stati membri. Un bello schiaffo, che prende il via dal lontano 1992, anno in cui per la prima volta questa risoluzione fu approvata da 59 paesi, con l’astensione di 71. Una schiacciante maggioranza, praticamente un’unanimità, che la dice lunga sul prestigio internazionale che Cuba si è guadagnata davanti al mondo e sull’isolamento e la perdita di egemonia USA. Da dove nascerà mai questo prestigio? Dalla solidarietà internazionalista concreta data a tutti i processi di liberazione in Africa, in Asia e in America Latina? Dal fatto che questo internazionalismo continua ancor oggi, ai tempi della crisi, con i medici cubani presenti in ogni disastro naturale (terremoto ad Haiti, terremoto in Nepal, epidemia di Ebola in Africa – dove 2 medici cubani sono morti -, per ricordare solo gli ultimi in ordine di tempo), medici e infermieri che poi, spente le telecamere, non se ne tornano a casa propria ma restano là fino a terminare il proprio compito? Dal fatto che, mentre l’impero o, meglio, il capitalismo finanziario più feroce di tutti i tempi che chiamiamo ‘globalizzazione’, accendeva guerre in tutto il mondo per rapinare quanto è rimasto ai popoli, Cuba ha lottato per l’unità e l’integrazione del continente con l’ALCA, la CELAC e tutta una serie di istituzioni “per i popoli” e non per il capitale di rapina che sta distruggendo il pianeta? Perché neppure la crisi scoppiata più di 5 anni fa, che sta devastando le nostre vite anche qui, nella vecchia Europa, l’ha messa in ginocchio e costretta ad abbandonare il suo progetto socialista? Perché è una società dotata di mezzi limitati – mai dimenticare che Cuba fa parte, e si considera parte del Terzo Mondo – ma capace di dare gli stessi diritti a tutti i cittadini, di proteggere i più deboli e di proseguire testardamente nella realizzazione del suo progetto socialista, pur con tutti gli errori e le correzioni necessarie? Vedete voi.
Stelle e strisce all’Avana Con un corteo di luccicanti limousines, funzionari nordamericani sono approdati all’Avana per la riapertura dell’ambasciata USA e il ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra i due paesi.
La migliore spiegazione di quella che indubbiamente è una clamorosa vittoria dell’Isola rivoluzionaria l’ha data il suo nemico, rappresentato in questa occasione da John Kerry, vice-presidente USA: “Per più di 50 anni abbiamo cercato di isolare Cuba dal sistema emisferico e chi ha finito per essere isolato siamo stati noi.”. Senza aver mai rinunciato ad uno solo degli obiettivi della rivoluzione, e delle sue conquiste storiche, la piccola isola ha costretto l’impero a venire a patti. Un fatto epocale, e molti si sono chiesti cosa avrebbe “concesso” ora Cuba all’imperialismo USA. Dopo una lotta di oltre 50 anni credo che la domanda sia un po’ ingenua, ma Raùl Castro ha risposto così, all’ultima assemblea dell’ONU, cioè davanti al mondo intero: “Dopo 56 anni di eroica resistenza del popolo cubano, sono state ristabilite le relazioni diplomatiche e le ambasciate nelle rispettive capitali. Ora inizia un lungo e complesso processo verso la normalizzazione delle relazioni che sarà raggiunta quando verrà posto fine al blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba; quando verrà restituito al nostro paese il territorio occupato illegalmente dalla Base Navale di Guantànamo; quando finiranno le trasmissioni radio e televisive e i programmi di sovversione e destabilizzazione contro Cuba e quando verrà compensato il nostro popolo per i danni umani ed economici che ancora soffre”. In altre parole, il progetto cubano di società e il suo internazionalismo non sono negoziabili. In altri tempi, il Che Guevara aveva espresso lo stesso concetto con parole più stringate: “All’imperialismo non bisogna concedere neanche tanto così”. Siamo forse così sciocchi da pensare che, in più mezzo secolo di lotta e di esperienza, la rivoluzione cubana e il suo popolo abbiano dimenticato cos’è l’imperialismo, o che basti qualche bandiera sventolante a farglielo dimenticare?
Il cambio economico Altro tema bollente di discussione negli anni scorsi è stato quello dell’attualizzazione del suo modello economico (i famosi “Lineamenti della Politica Economica e Sociale”), con la de-statalizzazione di una serie di settori. Nonostante la direzione rivoluzionaria avesse chiarito senza equivoci che i settori ritenuti strategici sarebbero rimasti sotto il controllo dello Stato, tutti si attendevano una “esplosione” di capitalismo (che non pare esserci stata: spiacenti per i soliti uccelli del malaugurio... e per i cosiddetti ‘esperti’ di casa nostra). Facciamo un passo indietro e parliamo prima di democrazia, quella democrazia che si dice non esista a Cuba. Per definire il progetto dei Lineamenti nell’isola si sono tenute 163.000 riunioni a tutti i livelli, dal Partito alle fabbriche, ai quartieri. Quando il progetto è stato finalmente approvato dal VI congresso del Partito Comunista di Cuba – il 18 luglio 2011 – era stato modificato per il 68%, proprio a seguito di questa amplissima partecipazione popolare alla sua redazione. Qualche anno più tardi Ricardo Alarcòn, che è stato presidente dell’Assemblea Nazionale del Potere Popolare fino al 2013, commentava con un po’ di ironia: “Non sono sicuro che i governi che hanno applicato misure drastiche di austerità, che hanno tagliato i bilanci della sanità e dell’educazione, che hanno aumentato l’età pensionabile a causa della crisi sistemica neoliberista che colpisce numerose nazioni, abbiano chiesto la loro opinione ai propri cittadini rispetto ai profondi cambiamenti che pregiudicano il loro livello di vita quotidiano”. Dopo 4 anni, questo è il bilancio (citiamo solo alcuni passi, ovviamente) tracciato da Raùl Castro il 15 luglio scorso, durante le sessioni della VIII Legislatura: “... Certamente si è invertita la tendenza alla decelerazione della crescita del PIL manifestatasi in anni recenti. Al 30 giugno il PIL era cresciuto del 4,7% e stimiamo che per la fine dell’anno rimarrà al 4%… Nonostante alcuni obiettivi non raggiunti, è cresciuta la produzione delle industrie dello zucchero e manifatturiera, così come quella delle costruzioni, il commercio, l’attività turistica e la produzione agricola e zootecnica, anche mentre questa soffre degli effetti dell’intensa siccità che colpisce tutto il territorio nazionale... Si mantiene in marcia il processo sperimentale di creazione di cooperative non agricolo/zootecniche, che ha come priorità il consolidamento del funzionamento di quelle esistenti e l’avanzamento in modo graduale della costituzione di nuove cooperative, senza ripetere le distorsioni già identificate. A questo si unisce il fatto che poco più di mezzo milione di cubani lavorano come lavoratori per proprio conto in varie attività, cifra che continuerà a crescere nell’aggiungere a questa forma di gestione un insieme di attività gastronomiche e di servizi alla popolazione, con lo Stato che manterrà la proprietà degli immobili. Continueremo al nostro ritmo il processo di trasformazioni nella società cubana che abbiamo deciso sovranamente con l’appoggio della maggioranza del popolo, in vista della costruzione di un socialismo prospero e sostenibile, garanzia essenziale della nostra indipendenza”. Il cambio climatico Argomento sempre più all’ordine del giorno. Davanti allo sfacelo del pia-
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neta, ai disastri che accadono ogni giorno su questo fronte a causa dello sfrenato sfruttamento incurante delle conseguenze e delle sofferenze umane, nel mese di novembre ci sarà l’ennesima riunione internazionale per tentare di mettervi un freno. Tra i ‘primati’ di Cuba ce n’è uno, a questo riguardo, purtroppo negativo. Pochi sanno chi fu, in un’assise internazionale, a denunciare per primo i pericoli dello sfruttamento e della rapina imperialista dissennata del pianeta. 1992, Conferenza dell’ONU sull’Ambiente e lo Sviluppo, Rio de Janeiro. Fidel Castro pronuncia il suo discorso in cui afferma: “I boschi spariscono, i deserti si estendono, migliaia di milioni di tonnellate di terra fertile finiscono ogni anno nel mare. Numerose specie si estinguono. La pressione della popolazione e la povertà conducono a sforzi disperati per sopravvivere, anche a costo della natura. Non è possibile incolpare di questo i paesi del Terzo Mondo, ieri colonie, nazioni sfruttate e saccheggiate oggi da un ordine mondiale ingiusto. Se si vuole salvare l’umanità da questa autodistruzione, bisogna distribuire meglio le ricchezze e le tecnologie disponibili sul pianeta … Utilizziamo tutta la scienza necessaria per uno sviluppo sostenibile senza inquinamento. Paghiamo il debito ecologico e non il debito estero. Che sparisca la fame e non l’uomo. Domani sarà troppo tardi per fare quello che avremmo dovuto fare da molto tempo”. ‘Profeta’ purtroppo inascoltato. 21 anni dopo, il 23 agosto 2013 è stato il primo Earth overshoot day, ovvero il giorno del superamento delle capacità della terra di riproduzione di quanto consumato. “Da quel giorno l’umanità ha esaurito le risorse naturali rinnovabili che aveva a disposizione per l’intero 2013. Questo significa che in poco meno di otto mesi sono state consumate le riserve di cibo (vegetale e animale), acqua e materie prime che sarebbero dovute bastare fino a fine dicembre, immettendo nell’ambiente (suolo, fiumi, mari, atmosfera) una quantità di rifiuti e inquinanti superiore alla capacità di smaltimento del pianeta. Se continuiamo così nel 2050 avremo bisogno di più di due pianeti” (Il Fatto Quotidiano). Cuba rivoluzionaria: “… società complessa, imperfetta, ma che ha il merito di aver scelto di stare con i diseredati e di aver messo l’essere umano al centro del suo progetto nazionale” (intervista al prof. Salim Lamrani in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “ Cuba, la parola alla difesa”). Vorrei finire queste poche e sparse note con le parole di un altro cubano, Fernando Martìnez Heredia (nella prefazione all’edizione spagnola del libro di Giulio Girardi “Cuba dopo il crollo del comunismo”, 1996, edizioni Borla). “Senza futuro né passato, il mondo deve respingere o deridere gli ideali, deve abbandonare le speranze riguardanti l’equità nella distribuzione delle ricchezze, la pratica della solidarietà fra le comunità e i popoli, i progressi nella condizione umana. La battaglia principale di questa guerra culturale è quella della vita quotidiana: in essa devono diventare normali le disuguaglianze e le ingiustizie più gravi, in essa tutti devono consumare lo stesso cibo spirituale e seguire le stesse istruzioni generali. … In questo mondo, per Cuba non c’è posto. Il blocco culturale si incarica di qualificarla, etichettarla o caricaturarla, ma soprattutto di cancellarla e di consegnarla all’oblio”. Così non è stato e, con tutta probabilità come dimostra quanto sopra, non sarà. (Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)
nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) Anno XXIV n. 5/2015 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Brugio, Emiliano, Michele Michelino, Luciano Orio, Stefano De Ranieri, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 14856579 intestato a: nuova unità - Firenze Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine Chiuso in redazione: 15/10/15
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