16 nu novembre

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comma 20/B art. 2 Legge 662/96 filiale di Firenze

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Proletari di tutti i paesi unitevi!

nuova unità fondata nel 1964

Periodico comunista di politica e cultura n. 6/2016 - anno XXV

Il potere politico moderno è solo un comitato che amministra gli affari comuni dell’intera classe borghese Karl Marx

Togliere il potere ai nostri oppressori: è possibile! Le contraddizioni del sistema capitalista si acuiscono, ma la classe operaia stenta a rafforzare la sua capacità politica ed organizzativa, a noi comunisti, forti della nostra concezione di società nuova e dei principi ideologici basati sulla teoria marxista-leninista, l’onere di lavorare per rafforzare la lotta di classe Chiudiamo questo numero alla vigilia dell’anniversario della Rivoluzione socialista dell’Ottobre del 1917, la rivoluzione che ha portato il proletariato al potere nel primo Stato operaio della storia a dimostrazione che, con un autentico Partito comunista, la vecchia società si può distruggere, che è possibile abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione. L’esperienza storica dimostra che la questione fondamentale è quella di mantenere e difendere il potere conquistato e, per questo, è indispensabile il ruolo del Partito comunista (nella sua composizione operaia), della dittatura del proletariato ed evitare alla reazione di contrattaccare e riprendersi il potere politico ed economico. Per varie ragioni, tra le quali non di secondaria importanza l’azione dell’imperialismo, la prima esprienza di socialismo ha subito una momentanea sconfitta. Sempre in balia dell’imperialismo. Infatti quello marcato Washington (vedremo in quale senso andrà il “sognare in grande” del razzista Trump), attraverso la Nato, si espande nei Paesi dell’est (vedi a pag. 5) con lo spauracchio del ritorno dell’Urss e - mentre le popolazioni hanno perso ogni diritto: dal lavoro al sociale - e i comunisti sono sotto attacco e messi fuori legge. Si colpiscono ideologia, simboli, i mezzi di comunicazione russi e quelli delle repubbliche indipendenti del Donetsk e Luhansk che contengono “propaganda” comunista o promozione delle istituzioni sovietiche. A sostegno di queste manovre che hanno al centro la guerra c’è l’Italia belligerante con le sue 27 “missioni” militari in 19 Paesi. Un costo che si aggiunge alle spese di armamenti, alla produzione di armi, sempre più sofisticate e potenti, di appartenenza alla Nato e che nessuna forza politica mette in discussione. Terremoti, calamità naturali, messa in sicurezza del Paese potrebbero essere affrontati subito se si eliminassero le spese militari, o almeno si tagliassero. Più facile invece è tagliare sugli ammortizzatori sociali, la sanità, i trasporti. L’invio di 150 soldati al confine tra Russia e Lettonia è l’ultima decisione del servilismo atlantico del governo Renzi, fedele esecutore degli ordini dei poteri forti, che mantiene il silenzio sulle retate fasciste del governo turco Erdogan il cui esercito, nell’indifferenza generale dei governi capitalisti e delle ONG “umanitarie”, invade anche il territorio siriano a Nord di Aleppo (altra città rivendicata da Erdogan). nuova unità I soldati italiani (130 incursori del 17° stormo dell’Aeronautica dislocati a Erbil e 500 militari a presidiare la diga di Mosul) sono in prima linea in

tinuare a sfruttare meglio i lavoratori, ma per continuare a farlo - e meglio - vuole utilizzare un Patto mettendo al centro l’economia e fare ripartire la produttività, dove i lavoratori siano i “protagonisti attivi”. Che cosa intende Confindustria è ben Contro la ferocia chiaro. L’attacco al modello contrattuale che del capitalismo Confindustria sostiene: “ha dimostrato e i governi dei padroni di non funzionare bene nel momento attuale di deflazione”; l’abbattimento delporre fine alle divisioni le tutele finora conquistate; l’aumento sindacali dell’orario di lavoro, l’ulteriore restrizione del diritto di sciopero, dopo l’Accordo pagina 2 del gennaio 2014, che già impedisce alle organizzazioni firmatarie del contratto di scioperare - modello che vogliono esportare nel pubblico -. Con questo Patto vuole abbattere ulteriormente la conflittualità: ai giovani industriali il compito di richiedere la collaborazione dei sindacati confederali i quali dovranno cogestire il In nome della produttività futuro che ci aspetta fatto di tagli occue del profitto, i padroni e i pazionali e salariali. Per far passare le politiche antipopolari e loro governi risparmiano guerrafondaie i governi hanno bisogno anche i pochi centesimi di misure repressive, della violenza poliziesca - questa sì e non quella attribuita per la sicurezza dai mezzi di disinformazione in occasione della protesta di piazza a Firenze per costringendo gli operai la presenza di Renzi - e per la quale è stata Iraq nell’attacco della coalizione internazionale a lavorare in condizioni per la presa di Mosul, caduta un paio di anni fa vietata l’autorizzazione. Come ai tempi del fascisotto il controllo dei fanatici dello Stato islamico, smo si arriverà agli arresti preventivi dei militanti pericolose con le complicità qatariote, saudite, turche oltre per evitare le manifestazioni contro i rappresenpagina 3 che statunitensi, e a difendere la sede e gli uomini tanti del governo. Perciò anche il nostro impegno della ditta Trevi alla quale è affidata la messa in nel campo antifascista deve essere rafforzato. Ribadiamo: il nemico è in casa nostra. È la lotsicurezza dell’impianto. Che questo Governo sia fedele esecutore dei po- ta che in questa fase non deve mancare: contro teri forti non ci sono dubbi anche di fronte all’ac- l’aumento dello sfruttamento, la disoccupazione, celerazione delle riforme per realizzare il diktat il precariato,l’austerità, il fascismo, il razzilanciato dall’agenzia finanziaria statunitense smo, la “buona scuola”. Contro la militarizzazione Se noi lavoratori europei, J.P.Morgan contro le costituzioni “antifasciste” e del territorio - determinata dall’emergenza del “socialisteggianti”, comunque troppo rigide e con terrorismo che proprio il capitalismo alimenta -, ormai supersfruttati eccessive tutele a difesa della classe lavoratrice, le guerre di conquista di risorse e territori, le aggressioni ad altri popoli, per disarmare il nemico, anche se pensiamo come quella... italiana. Da mesi siamo sottoposti al bombardamento di portare avanti il processo di emancipazione ed di non esserlo, non ci una campagna sul referendum costituzionale per ottenere veri cambiamenti a favore della classe la quale sono stati stanziati 3 milioni di euro (gran lavoratrice e delle masse popolari. È nella lotta sveglieremo, i muri che parte dal finanziamento pubblico) che occupa che si vincono riformismo e opportunismo che tutti gli spazi di TV, radio e della grande stampa frenano il rovesciamento del sistema capitalista e si stanno costruendo alle dove, capitalisti e banchieri mettono a disposizio- la presa del potere da parte della classe sfruttata. nostre frontiere grazie Oggi le contraddizioni del sistema capitalista si ne tutti i loro mezzi a sostegno del Sì. Mentre i lavoratori - costretti ad interessarsi di un acuiscono, ma la classe operaia stenta a rafforzaanche al silenzio di noi terreno scelto dal nemico sono fuorviati dai pro- re la sua capacità politica ed organizzativa, a noi pri reali problemi e dalle tragedie internazionali comunisti, forti della nostra concezione di società che ci viviamo dentro, ci delle guerre - Confindustria prosegue il6/2016 suo assal- nuova e dei principi ideologici basati sulla teoria 1 cadranno addosso. to. In un recente convegno, alla presenza dei ver- marxista-leninista, l’onere di lavorare per rafforzatici Cgil-Cisl-Uil, ha lanciato il “Patto di fabbrica”. re la lotta di classe e togliere il potere ai propri pagina 4 La sostanza è sempre la stessa ovvero come con- oppressori.

Unità e lotta di classe

Sfruttamento e morti sul lavoro

Elezioni USA Scegli il tuo demonio


lavoro/scioperi

Unità e lotta di classe

Contro la ferocia del capitalismo e i governi dei padroni porre fine alle divisioni sindacali Emiliano Il forte attacco alle condizioni di vita e di lavoro del nostro Paese portato avanti negli ultimi decenni dai vari governi, sia di centrodestra che di centrosinistra, calpesta il diritto al lavoro e la stessa dignità delle lavoratrici e dei lavoratori. La disoccupazione e la sottoccupazione sono diventate fenomeni di massa mentre le prossime generazioni sono condannate alla scelta tra disoccupazione o lavoro precario. “Lavoro” malpagato e a intermittenza, a chiamata o con i voucher (in nero) e senza diritti. Un enorme esercito di riserva utile alla borghesia per piegare chi si batte nei luoghi di lavoro dove vengono imposti turni massacranti, un regime di repressione crescente, favorita dall’abolizione dell’art.18 (secondo i dati INPS nel 2016 sono aumentati di oltre il 30% i licenziamenti per “giusta causa”), e dove si continua a morire, per negata sicurezza. Parallelamente sono stati tagliati i diritti dello “stato sociale” conquistati dal movimento operaio in decenni di lotte e rivendicazioni, è stato allungato il periodo della permanenza al lavoro con la famigerata riforma Fornero e tagliato le stesse pensioni già oltremodo basse. Viene attaccato il diritto alla salute attraverso uno strisciante e continuo smantellamento del servizio sanitario nazionale a favore dei privati; viene negato il diritto alla casa - si moltiplicano in tutto il paese gli sfratti per morosità di affitti e mutui -; aumentano in percentuale e in numero assoluto i poveri (così classificati dalle stesse fonti statistiche dello Stato) mentre è ulteriormente negato il diritto allo studio con la “buona scuola” che amplia la scuola di classe a favore dei più abbienti e la trasforma in azienda. Attraverso le privatizzazioni vengono ridotti o azzerati i servizi pubblici: dai trasporti all’acqua, al ciclo dei rifiuti che, insieme alle “grandi opere”, sono fonti di grandi profitti per il grande capitale e utili solo ai maneggi delle corruzioni e dei ladrocini, a discapito della stessa salute dei cittadini. Tutto ciò non sarebbe potuto accadere “pacificamente” se i sindacati, in particolare la CGIL, non avessero dormito un sonno diventato connivenza (già una costante per CISL e UIL) con le politiche padronali e dei vari governi amici e no. Sindacati più preoccupati a mantenere le loro strutture fatte di funzionari, i loro stipendi e le loro liquidazioni (vedi quella di Bonanni, CISL), gli enti bilaterali pronti a gestire i vari fondi pensioni, previdenziali o della sanità integrativa ecc. Il loro ruolo è quello di concertare illudendo i lavoratori di fare i loro interessi mentre li tradiscono a favore del padronato. Ma i lavoratori in questi anni hanno reagito e contrastato sui posti di lavoro le proposte al ribasso dei sindacati compiacenti alle richieste padronali, fatte in nome della ripresa e dei sacrifici necessari al bene del paese, organizzandosi in sindacati di base e/o con coordinamenti di lotta. Per fiaccare anche questi focolai di resistenza, i sindacati collaborativi (CGIL, CISL, UIL) hanno sottoscritto l’Accordo sulla rappresentanza sindacale del 10 gennaio 2014 con Confindustria. Un accordo teso ad eliminare o ridurre fortemente la presenza del cosiddetto sindacalismo di base e a garantire la controparte con l’impegno a non proclamare scioperi sugli accordi firmati (sempre più al ribasso), auspicando una prossima trasformazione dell’accordo in legge. Una richiesta che - guarda caso - ben si inquadra nella strategia del governo Renzi con il Job act (passato senza un’ora di sciopero prima dell’approvazione e proclamato dalla CGIL solo dopo l’avvenuta approvazione del Parlamento). Accordo che sarà rafforzato con la riforma istituzionale che, in caso di vit-

nuova unità

toria del referendum, darà via libera veloce e senza lacci e lacciuoli, alla legge sul diritto di sciopero già fortemente limitato da mille vincoli e prescrizioni (vedi legge 146). Questa situazione generale ha messo in forte difficoltà la massa dei lavoratori - già divisi dalle condizioni di vita con la paura di perdere il posto, impauriti dalla prepotenza padronale e dello Stato che non lesina l’uso dei manganelli e le denunce per tutti coloro che lottano pur lasciati senza una guida sindacale di cui possono fidarsi, capace di organizzare la difesa e la resistenza su vasta scala, capace di dare una prospettiva alla ripresa di quella lotta di classe contro quella che padroni e governo hanno lanciato. In questo panorama l’unità di tutti i lavoratori, è un senso comune che accomuna tutti: operai e studenti, vecchi e giovani, occupati e disoccupati, italiani e stranieri. Un’esigenza che si riassume nella parola d’ordine “Uniti si vince”! Parola d’ordine che è stata snaturata dai vertici della CGIL per giustificare la loro rincorsa delle direzioni di CISL e UIL. Mentre sono più interessati alle esigenze delle aziende sia pubbliche che private e alle manovre opportuniste concertate con governi e padroni per mantenere il loro motivo di esistere. Parola d’ordine snaturata anche dalle tendenze autoreferenziali di ampi settori del sindacalismo di base, malati in piccolo dello stesso male, quello di perpetuare i propri gruppi dirigenti. Impegnati, come sono, in scontri egemonici tra le varie (troppe) sigle, rischiano di perdere di vista l’orizzonte dell’unica e vera egemonia utile allo sviluppo della lotta di classe quella degli interessi del proletariato. Gli ultimi scioperi generali proclamati dai sindacati di base in particolare quelli del 21 ottobre e del 4 novembre devono farci riflettere non tanto perchè sono troppi, in un lasso di tempo cosi breve, ma perchè questo protagonismo di scioperi generali non corrisponde alla reale mobilitazione e forza della nostra classe. Come l’inflazione svaluta il valore della moneta e fa cadere il potere d’acquisto, così l’inflazione della proclamazione degli scioperi dei vari sindacati di base mette a repentaglio la loro incisività. Lo sciopero, soprattutto se generale, deve essere inteso, come atto di forza e arma di lotta e non ridotto alla sola rivendicazione e applicazione di un diritto democratico-borghese. Come sosteneva Lenin: “Ogni sciopero ricorda ai capitalisti che i veri padroni non sono loro ma gli operai. Oltre ad essere scioperi di minoranza - diventati ormai una tradizione del nostro paese - rischiano di diventare un’arma contro lo stesso strumento di lotta, un modo per fiaccarne il significato. La perdita progressiva della fiducia nella lotta da parte dei lavoratori e anche dei propri iscritti sempre meno disposti a gettare via giornate di salario per la “gloria” delle direzioni nazionali tanto impegnate nella battaglia autoreferenziale della concorrenza tra strutture da “dimenticare” i giorni di franchigia nei trasporti o che le festività soppresse sono pagate, in alcune categorie, con la maggiorazione. Ma poco interessa a chi proclama lo sciopero generale per la propria sigla sindacale e non per gli interessi di classe anche se su obiettivi giusti e condivisibili. Per i comunisti, ovunque collocati sindacalmente, deve essere prioritaria la battalia per l’unità di classe e alla base, contro la frammentazione che ci indebolisce e serve solo ai padroni. Dobbiamo superare le sigle sindacali autoreferenziali e settarie ma, in questa fase, rimanere divisi in vari sindacati ma colpire uniti, sarebbe già un grande passo avanti. È fondamentale impegnarsi nella denuncia dell’Accordo sulla rappresen-

tanza, sia come negazione del diritto di scegliere i propri rappresentanti nei luoghi di lavoro, sia come strumento padronale per la limitazione del diritto di sciopero. Un impegno che deve vederci protagonisti per affermare la democrazia proletaria contro le burocrazie delle direzioni staccate dalla base e autoreferenziali, il protagonismo dei diretti interessati senza deleghe sia nei posti di lavoro, che nelle strutture sindacali comprese quelle di base. Obiettivo primario è la difesa e l’estensione del diritto di sciopero per arrivare ad un vero e consistente sciopero generale nazionale capace di fermare il paese e danneggiare il capitalismo come viene fatto in Grecia e in Francia. Una mobilitazione che non deve esaurirsi nel voto per il referendum costituzionale impegnandoci per evitare che quelle forze riformiste del fronte del NO trasformino l’eventuale vittoria in uno strumento per incanalare la protesta verso soluzioni parlamentari, paghi di aver vinto, per ottenere con compromessi e promesse (mai mantenute) posizioni di favore nel governo del paese e per non concedere alla destra di appropriarsene demagogicamente. Coscienti che se vince Renzi e la compa-

gine governativa dobbiamo difenderci dall’attacco che ne seguirà, ancora più arrogante e prepotente, teso a limitare il diritto di sciopero e di rappresentanza, ad attaccare la contrattazione nazionale per piegare alle esigenze padronali il mondo del lavoro e portare il nostro paese in pericolose avventure di guerra. Dobbiamo aumentare la mobilitazione per scongiurare possibili governi di larga intesa di quel “partito della nazione” che ha come unico scopo quello di

sfruttare meglio e di più i lavoratori per aumentare i propri profitti, in competizione con gli altri paesi imperialisti della UE. La ferocia dell’attacco padronale e la pericolosità del momento - determinato dallo scontro in atto tra i vari settori dell’imperialismo - deve chiamare tutti al senso di responsabilità nei confronti della propria classe e deve spingerci a cercare l’unità nei nostri ranghi e una rinnovata determinazione nella lotta.

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Sardegna contro i conquistatori Il mare, gli stagni ai pescatori Via le truppe di occupazione Le manifestazioni di questi giorni delle marinerie Oristanesi rappresentato un ulteriore passo avanti nella lotta contro le basi e l’occupazione militare. Fino a oggi i pescatori, ostacolati dalle esercitazioni militari, si sono mobilitati solo per avere gli indennizzi previsti per il “fermo pesca” durante i periodi di interdizione alla navigazione. Gli stessi indennizzi vengono corrisposti a tutte le marinerie con esclusione di quelle Oristanesi. A differenza del passato, gli obiettivi delle manifestazioni di questi giorni non sono solo rivendicazioni economiche ma anche contro le esercitazioni militari, per la chiusura del poligono di Capo Frasca, la bonifica del mare, degli stagni, e la riappropriazione della risorsa economica del territorio soprattutto quella della pesca. Ricordiamo come negli anni ‘70, nel corso di un addestramento, un aereo della Nato mitragliò una barca di pescatori nello stagno di Marceddì che rimasero feriti. Queste mobilitazioni sono un momento storico importante

perché uniscono le popolazioni dei paesi interessati. Non dobbiamo dimenticare la funzione delle basi militari, quali strumenti di guerra, e delle esercitazioni e addestramenti che avvengono in Sardegna e altrove, esse sono prove speciali di eserciti speciali che aggrediscono popoli e stati, in lotta contro le potenze imperialiste e guerrafondaie non dimentichiamoci che dalle zone di guerra scappano i profughi e cercano rifugio nei nostri territori. È necessario organizzarsi e sviluppare la più vasta unità delle masse popolari su contenuti di classe contro l’occupazione militare, con la costituzione di un ampio fronte unico antimperialista, anticolonialista, antifascista. Queste giornate di lotta si inseriscono nelle iniziative antimilitariste in Sardegna alla quali diamo l’adesione e pieno sostegno. Il Collettivo Comunista (marxista-leninista) Nuoro 10 ottobre 2016

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lavoro

Sfruttamento e morti sul lavoro

In nome della produttività e del profitto, i padroni e i loro governi risparmiano anche i pochi centesimi per la sicurezza costringendo gli operai a lavorare in condizioni pericolose Michele Michelino Da gennaio a settembre 2016 sono 753 le morti bianche (meglio chiamarle col loro vero nome: omicidi) rilevate in Italia, di cui 549 infortuni mortali avvenuti in occasione di lavoro e 204 quelli accaduti in itinere. Questi dati sono stati elaborati e forniti dall’Osservatorio Sicurezza sul Lavoro Vega Engineering di Mestre sulla base di dati Inail. Anche per il 2016 lo scenario che si apre sugli infortuni mortali in Italia continua a essere tragico. Una media di 83 vittime al mese, 20 infortuni mortali a settimana. L’unico dato positivo è che - rispetto allo stesso periodo del 2015, quando si contavano 856 morti sul lavoro - c’è una diminuzione dei morti del 12,3 per cento. Il settore economico che conta il maggior numero di “morti bianche” (74, pari al 13,5% del totale dei casi di morte in occasione di lavoro) è rappresentato dall’industria delle costruzioni. Al secondo posto vengono le “Attività manifatturiere” con 65 decessi (pari all’11,8% del totale) e al terzo il “settore del Trasporto e Magazzinaggio”, con 62 casi pari all’11,3%. Da gennaio a ottobre si contano 84 stranieri deceduti (il 15,3 per cento del totale) e 36 donne. La fascia d’età più colpita - che costituisce il 33,3 per cento di tutte le morti rilevate in occasione di lavoro – è sempre quella compresa tra i 45 e i 54 anni.

Anche se i dati provvisori registrano un calo degli infortuni mortali, in alcuni settori come l’edilizia a ottobre 2016, si assiste invece a un aumento di oltre il 27% rispetto al 2015. Un dato che colpisce è che la maggioranza delle vittime di infortuni, anche mortali, riguardi gli over 60 anni: il numero dei morti è più che raddoppiato rispetto allo scorso anno. Il lavoro nero senza rispetto dei contratti e della sicurezza è la condizione che accomuna molti incidenti proprio a causa della mancata applicazione delle regole. Le vittime sono spesso lavoratori autonomi che autonomi non sono, lavoratori occasionali in nero o pagati con i voucher nei cantieri. Davanti a questa guerra di classe che fa morti e feriti solo da parte, quella dei lavoratori, le istituzioni e il governo non vanno oltre le frasi di circostanza, mentre le grandi centrali sindacali confederali si limitano a proteste simboliche. Il 7 novembre i sindacati di categoria degli edili - Feneal-Ui, Filca-Cisl e FilleaCgil - hanno proclamato uno sciopero nazionale del settore di un’ora. Obiettivo: sensibilizzare e contrastare il dramma delle morti sul lavoro richiedendo una maggiore sicurezza sul fronte della sicurezza e salute sul lavoro. Una sola ora di lavoro per protestare contro questa mattanza di operai morti sul lavoro! Naturalmente i dati sopra riportati non tengono conto dei lavoratori in nero e di quelli non iscritti all’INAIL. Secondo

“Art. 21” “l’INAIL non riconosce circa 500 infortuni mortali sul lavoro ogni anno. I dati degli ultimi sei anni che riportiamo in dettaglio dicono che: Anno 2010: Denunce per infortunio mortale 1501, infortuni mortali riconosciuti 997 Anno 2011: Denunce per infortunio mortale 1387, infortuni mortali riconosciuti 895 Anno 2012: Denunce per infortunio mortale 1347, infortuni mortali riconosciuti 851 Anno 2013: Denunce per infortunio mortale 1215, infortuni mortali riconosciuti 710 Anno 2014: Denunce per infortunio mortale 1107, infortuni mortali riconosciuti 662”

Che gli operai e i lavoratori nella società capitalista siano considerati una merce usa e getta si vede anche da quanto vale la loro vita per l’ente assicurativo pubblico, l’INAIL. Le morti sul lavoro e da lavoro, gli infortuni, le malattie professionali sono un dramma che ha gravi conseguenze per le vittime e per le loro famiglie che, oltre al danno, devono subire la beffa. Il coniuge o, in mancanza, i figli o chiunque dimostri di aver sostenuto le spese in occasione della morte del lavoratore, se hanno i requisiti per fruire della rendita a superstite, hanno diritto all’assegno di rimborso delle spese funerarie, che dal 1° luglio 2016 è di ben (!) 2.136,50 euro. Anche i dati “ufficiali” vanno comunque

NO a derive reazionarie NO a illusioni referendarie

Riceviamo e pubblichiamo la presa di posizione del Coordinamento comunista toscano (CCT) che condividiamo pienamente

Domenica 4 dicembre, elettori ed elettrici sono chiamati a votare sul referendum di revisione costituzionale per la modifica di 47 articoli della Costituzione del 1° gennaio 1948, approvata dopo la vittoria della Resistenza sul nazi-fascismo. Un referendum non voluto e sicuramente non capito dalla massa di lavoratori e lavoratrici alle prese con la quotidianità dei mille problemi, ma voluto dal Pd quale principale partito di governo e dal suo segretario generale e presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi. I burattinai di questo referendum sono Confindustria, Unione Europea e Usa per sottomettere la prima legge di questo Stato (appunto la Carta costituzionale) al servizio dei potenti e dei poteri forti. Un referendum utile a ristabilire le regole per i mutati rapporti fra le classi e le frazioni dell’imperialismo. Un referendum che permette persino alla destra moderata ed eversiva di presentarsi come democratica e di fare la sua propaganda demagogica e populista occultando i veri motivi del suo dissenso. Nel sistema capitalista, i padroni - che detengono il potere economico, finanziario, politico, militare e della comunicazione - impongono le loro leggi e gli interessi della classe dominante alle classi meno abbienti. La democrazia borghese necessaria e compatibile con la ricerca del massimo profitto nel capitalismo industriale delle manifatture è diventata sempre più un intralcio nell’epoca dell’imperialismo; lacci e lacciuoli da rimuovere per adeguare la sovrastruttura e la politica alle nuove esigenze della competizione imperialista. I tentativi di stravolgere parti della Costituzione, a destra come a “sinistra”, hanno lo scopo di garantire e salvaguardare ancora meglio questi interessi. Una modifica combinata con la nuova legge elettorale denominata “Italicum” che garantisce un ampio premio di maggioranza a chi prende più voti anche se rappresenta la minoranza di un paese dove l’astensione è a livelli del 50%. Leggi come la Fornero sulle pensioni o come il Jobs act sono state approvate nonostante la Costituzione, con il ricorso al voto di fiducia, ma questo ancora non basta a garantire il potere per attuare ennesime svolte autoritarie e antipopolari vitali al capitale di fronte all’avanzare della crisi interna e internazionale caratterizzata da pericolosi venti di guerra. Insieme alla controriforma del Parlamento, il governo prevede anche l’innalzamento del numero delle firme necessarie per presentare leggi d’iniziativa popolare (da 50.000 a 150.000) e per referendum abrogativi (da 500 mila a 800 mila). La Costituzione è già stata nel tempo “riformata”. In particolare il Titolo V, oggi rimesso in discussione, che riguarda la par-

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te sulle autonomie locali: regioni, province e comuni; “riforma” iniziata negli anni ‘70 e conclusa con quella del 2001 (approvata con una maggioranza di centrosinistra e poi confermata dal referendum) per dare allo Stato italiano una parvenza più “federalista” con la quale i centri di decisione e di spesa si sarebbero trasferiti dai livelli più alti, lo Stato centrale, a quelli locali, “avvicinandosi” così ai cittadini. Anche questa riforma non ha favorito la vita dei lavoratori e più in generale delle masse popolari che si sono trovate con maggiori tasse locali da pagare mentre i servizi pubblici - dalla sanità ai trasporti, all’istruzione - sono peggiorati con le privatizzazioni, le aziendalizzazioni, le politiche di project financing, ecc., veri e propri centri di corruzione trasformati in “salvatori di facciata” del governo centrale. Questo a memoria e insegnamento di quanti pensano e sperano di cambiare le cose democraticamente, a colpi di referendum. Se il governo vince questo referendum, viene stabilizzato e rafforzato il potere esecutivo e le lotte del proletariato saranno ancora più difficili; se prevale il NO viene, temporaneamente, indebolito questo progetto. E, tra l’altro, aumenterebbe le difficoltà di Renzi e del suo governo. Sappiamo bene che la storia ed il diritto sono determinati dai rapporti di forza tra le classi e che, con Renzi o altro presidente del Consiglio, per i proletari e le masse popolari non migliora la propria situazione se non si sviluppa e si determina coscienza di classe, autorganizzazione e mobilitazione di massa in grado di abbattere questo sistema e questa formazione economico-sociale. Anche se, a gran parte delle masse popolari, alle prese con ben altre problematiche (peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita), questo referendum interessa poco o niente, per noi comunisti è un’occasione: - per denunciare le manovre antipopolari del governo Renzi, come comitato d’affari della borghesia imperialista; - per informare sui pericoli di guerra insiti nella competizione capitalista; - per condurre la lotta per l’unità della classe operaia e del proletariato contro divisioni pretestuose interessate e volute dai padroni; - per la mobilitazione del movimento dei lavoratori contro il fascismo in tutte le sue forme e contro lo sfruttamento, l’oppressione e la repressione sui posti di lavoro e nella società. Noi comunisti ci battiamo contro le illusioni referendarie, parte integrante del cretinismo parlamentare ed elettorale, nella chiarezza che la stessa “Costituzione nata dalla Resistenza” stabilisce una serie di principi, di diritti e di doveri dei cittadini di uno Stato democratico-borghese capitalista. Uno Stato capitalista che i proletari sono costretti ad abbattere se vogliono liberarsi dalle catene dello sfruttamento e abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione e costruire quella Costituzione che sancisca il potere della classe operaia e del proletariato. Ottobre 2016 Coordinamento Comunista Toscano (C.C.T.) coordcomtosc@gmail.com

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presi con le pinze. Molte delle famiglie delle vittime degli infortuni e malattie professionali conoscono le difficoltà che hanno dovuto attraversare per far valere i loro diritti. L’INAIL è in conflitto d’interessi, perché è l’ente assicurativo che deve riconoscere l’infortunio e nello stesso tempo pagarlo, per cui ha tutto l’interesse a risparmiare sulla pelle delle vittime. Da qui la rivendicazione portata avanti da diverse associazioni e comitati di togliere all’INAIL il compito di riconoscere infortuni, morti sul lavoro e malattie professionali, affidando a un ente terzo il riconoscimento e lasciando all’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro, assicurazione pubblica, il solo compito di pagare il danno.

Le malattie professionali Agli infortuni e alle morti sul lavoro si aggiungono quelle delle malattie professionali. I numeri forniti dall’INAIL per il 2015 confermano che le malattie professionali sono in crescita, anche se l’aumento delle denunce di malattia professionale è dovuto quasi esclusivamente alla “gestione agricoltura” che ha visto un aumento del 10,16% rispetto all’anno precedente (+1.100 domande). Nel 2015 sono state 58.825 le denunce di malattia professionale, circa 1.500 in più rispetto al 2014 e in aumento di oltre il 33% rispetto al 2010. Queste denunce hanno riguardato circa 44 mila soggetti ammalati. Di lavoro si continua ad ammalarsi e a morire, più che in guerra. Ogni anno, in nome della produttività e del profitto, i padroni e i loro governi risparmiano anche i pochi centesimi per la sicurezza costringendo gli operai a lavorare in condizioni pericolose. Il capitale si alimenta dello sfruttamento operaio e le sue istituzioni, legittimandolo, sono funzionali allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. I morti sul lavoro non dipendono mai dalla fatalità. L’aumento dello sfruttamento è la causa principale degli infortuni.

Antirazzismo: un benvenuto solidale Le manifestazione razziste contro gli immigrati in alcuni parti d’Italia, le barricate di stampo razzista contro 8 donne migranti, di cui una incinta, a Goro, hanno scritto una pagina nera sulla popolazione locale e sugli italiani, popolo di emigranti, anche se tendiamo a dimenticarcene. Anche a Milano si sono fatte vive le solite iene, i leghisti, i fascisti di CasaPound e Fratelli d’Italia davanti alla Caserma Montello con presidi di un centinaio di manifestanti - pochi gli abitanti del quartiere, in maggioranza politici di professione, con onorevoli, senatori, consiglieri regionali e comunali che hanno colto l’occasione per farsi pubblicità. Tutti i quotidiani e le TV hanno dato enfasi, alimentando la paura del “diverso”. Ma stavolta gli è andata male. Stanchi di strumentalizzazioni, alcuni abitanti di Zona 8 (del quartiere in cui si trova la Caserma Montello) hanno deciso che era arrivato il momento di reagire e sono scesi in piazza contro il fascismo e il razzismo. Così il 1 novembre 2016, davanti alla Caserma dove lunedì 31 ottobre sono arrivati sessanta profughi nella struttura che ospiterà 300 migranti fino al 31 dicembre 2017, si è svolta una festa solidale organizzata da Zona 8 Solidale dal titolo “Note e sapori dal mondo”, con buon cibo, musica e intrattenimento con la parola d’ordine “Qui nessuno è straniero”. Alla manifestazione hanno aderito molte associazioni e centri sociali e vi hanno partecipato alcune migliaia di persone. La festa è iniziata alle 10 e durata fino al tardo pomeriggio con spettacoli di un’associazione senegalese, con la Banda degli Ottoni, sostituita nel pomeriggio dalla Banda di Via Padova, balli popolari peruviani e animazione per bambini. Alla festa hanno partecipato anche decine di giovani migranti, donne e uomini, usciti dalla caserma circondata da ingenti “forze dell’ordine”, polizia e carabinieri in tenuta anti sommossa. Scortati da membri del Consiglio di Zona 8, hanno percorso i pochi metri che li separavano dai manifestanti fra gli applausi dei presenti, e sono stati accolti da abbracci e dallo striscione trilingue ‘Marhaba, benvenuti, welcome’. Ad accoglierli anche alcuni eritrei, etiopi e sudanesi. Fra i molti striscioni di solidarietà e benvenuto appesi dagli organizzatori nel perimetro del grande giardino di fronte alla caserma, anche quelli antifascisti “Gli unici stranieri, i fascisti nei quartieri” e “Il vento fischia ancora a difesa della Costituzione”. Come in altre occasioni, la Milano Medaglia d’Oro della Resistenza ha detto NO alle discriminazioni razziali e fasciste che, non va dimenticato, 70 anni fa hanno portato la ‘civile’ Europa a contare 40 milioni di morti, ricordando che prima di tutto siamo tutti esseri umani. M.M.

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elezioni USA

Scegli il tuo demonio

Se noi lavoratori europei, ormai supersfruttati anche se pensiamo di non esserlo, non ci sveglieremo, i muri che si stanno costruendo alle nostre frontiere grazie anche al silenzio di noi che ci viviamo dentro, ci cadranno addosso Daniela Trollio (*) Ho preso a prestito il titolo di questo articolo da una riflessione che Mumia Abu-Jamal (il giornalista nero ingiustamente incarcerato da più di 35 anni, di cui 30 passati nel braccio della morte) ha rivolto qualche giorno fa ai votanti afroamericani. Mi sembra sia il modo migliore di definire le elezioni appena avvenute negli USA (ma non solo), che hanno visto quale vincitore il miliardario Donald Trump e quale sconfitta la “regina del caos” Hillary Clinton. Qualcuno che se ne intendeva parecchio - il generale Dwight Eisenhower, 34° presidente USA, nel suo discorso d’addio alla scadenza del mandato nel 1961 – definiva il vero potere dietro le istituzioni nord-americane come “il complesso militare-industriale”. Qualcun altro lo chiama “il governo invisibile”, chiunque sieda sulla poltrona dello Studio Ovale. Ma da chi è fatto questo “governo invisibile”? Paul Craig Roberts, economista, sottosegretario al Tesoro sotto l’amministrazione Reagan (curioso che quando cessano di avere un ruolo ufficiale, e anche ufficioso, persone come lui si vogliano togliere dei sassolini dalle scarpe…) ne fa un breve elenco: . Wall Street e le banche “troppo grandi per fallire” che - negli 8 anni della crisi, hanno corrisposto ai due mandati di Obama - la Federal Reserve ha salvato a spese di milioni di statunitensi; . il comparto militare-industriale che ha speso trilioni di denaro pubblico per sostenere 15 anni di guerre, basate tra l’altro su menzogne; . le aziende statunitensi che hanno spostato le proprie produzioni all’estero, in paesi come Cina, Messico, India, realizzando altissimi profitti grazie al bassissimo costo della mano d’opera; . le società del comparto agricolo, come Monsanto, Novartis e simili; . l’industria estrattiva (energia, leggi petrolio; mineraria, leggi materie prime e strategiche, tra cui l’acqua). In altre parole – nostre adesso – le multinazionali e il capitale finanziario/industriale più aggressivo. La storia USA, con l’alternanza formale tra Democratici e Conservatori, dimostra che è proprio questo governo-ombra il motore

della macchina. In forme diverse, ma non poi così tanto. Questo duopolio è l’elemento essenziale per spartirsi le quote di potere tra i settori dominanti e negoziare le contraddizioni tra gli interessi diversi dei vari gruppi. La politica, infatti, ne è la dimostrazione. Solo un esempio: se il conservatore Bush poteva vantare interventi militari in 60 paesi, il democratico Obama ha allargato la platea a 130. Parliamo allora di questo. Sono in molti ormai a riconoscere che la crisi di questi ultimi 8 anni è probabilmente più grave della “Crisi” del 1929. Da lì si uscì con l’avvento del nazismo (cui i capitalisti nord-americani come Henry Ford, Prescott Bush e Joseph Kennedy vendettero armi ed equipaggiamenti, oltre a consistenti appoggi finanziari) e con la 2° Guerra Mondiale, con la distruzione di gran parte dell’Europa e una “ricostruzione” del Continente che rimise in moto il meccanismo di accumulazione dei profitti. E la guerra, se ci pensiamo bene, è la strategia scelta, da Hiroshima alla Siria – e ancor più applicata oggi, nella crisi. L’economia finanziaria, che sembra essere la forma dominante oggi, è strettamente legata a quella industriale. Ma, alla fine dei conti – e i capitalisti lo sanno benissimo - la finanza pura e semplice è fatta di carta, che può diventare in brevissimo tempo straccia. Ad essa è sempre associata, guarda caso, la rapina delle materie prime, la distruzione dei concorrenti ‘stranieri’ anche a costo di distruggere intesi paesi in quanto tali. La Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, il Medio Oriente, la Siria sono gli ultimi esempi in ordine di tempo. L’intera Africa è una polveriera e gli USA stanno accerchiando Cina e Russia che, dal canto loro, vi si stanno preparando attivamente (non è un caso che, con la visione millenaria che ha sempre avuto, la Cina abbia comprato enormi estensioni di terra coltivabile proprio in Africa). La guerra si fa in tanti modi - l’intervento umanitario, la lotta al terrorismo, la difesa delle “innocenti” popolazioni civili (che ne diventano in primis le vittime) – senza chiamarla “guerra”, parola che potrebbe spaventare la gente. Si fa anche attraverso eserciti in-

terposti, com’è il caso del DAESH, dell’ISIS e della miriade di gruppi terroristici, creati ad hoc, finanziati, addestrati e armati dalle forze economico-finanziarie che ci stanno dietro. Oppure si fa direttamente, ma sempre con una maschera. “Errore”: la parola in questi anni è stata talmente abusata fino a perdere il suo significato. La Jugoslavia fu bombardata perché Milosevic stava attuando una pulizia etnica. Peccato che proprio pochi mesi fa lo stesso Tribunale Penale Internazionale (quello di Carla Del Ponte, per intenderci) abbia riconosciuto, assolvendolo – e ben pochi giornali lo hanno riportato – che non era vero. Errore. L’Iraq fu invaso e distrutto (un milione e mezzo di morti, centinaia di migliaia di feriti) perché Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa. Colin Powell e Blair riconobbero anni dopo che non era vero. Errore. Afganistan, Sudan, Libia, Siria… una lunga lista di errori. Non ci sono errori, tutti i paesi che

hanno messo in discussione l’economia unipolare guidata dagli Stati Uniti sono stati castigati. La guerra imperialista usa un vestito nuovo ogni giorno, per nascondere quello che chiama “necessità del sistema”. Ma si tratta sempre del medesimo vestito intriso di sangue. Una strategia di camuffamento che permette di violare la legalità internazionale, di agire nella barbarie più completa, che punta all’amnesia e alla distruzione programmata di qualsiasi resistenza ideologica nei paesi coinvolti nella guerra. Così si evita che, ad esempio, i cittadini europei si rendano conto che in guerra ci sono già perché non solo i principali Stati europei, Italia compresa, partecipano all’avventura bellica guidata dagli USA, ma perché la pagano, ormai da anni, con l’aumento vorticoso delle spese militari, con la distruzione dello stato sociale e di tutti i diritti dei lavoratori. Già, anche questo è un tratto tipico degli Stati in guerra: niente diritti sindacali, nessuna protesta, giù la testa e a lavorare con sala-

ri sempre più miserabili. Non la chiamano ancora “economia di guerra”, la chiamano “mercato”, ma è la stessa cosa. Come ci insegnano tutte le guerre del passato, gli ingredienti fondamentali perché i governati non protestino sono due: un nemico, vero o presunto tale, e la paura. Il nemico che va di moda oggi è il terrorismo, e non ci spenderemo altre parole. La paura: l’Europa, e altri paesi “liberi e democratici”, si stanno riempiendo di muri e di campi di concentramento, perché a quanto pare rischiamo di essere invasi… dai rifugiati, prodotto delle guerre e delle rapine imperialiste. Noi europei, perché gli USA decidono di fare le guerre ma sono lontani, le zattere non riescono ancora ad attraversare l’Atlantico. Ma i muri hanno due facce, un’esterna e una interna. Se noi lavoratori europei, ormai supersfruttati anche se pensiamo di non esserlo, non ci sveglieremo, i muri che si stanno costruendo alle nostre frontiere grazie anche al silenzio di noi che

ci viviamo dentro, ci cadranno addosso. È già successo, 70 anni fa, e 40 milioni di morti lo testimoniano. Gli ingredienti ci sono tutti: crisi, repressione, razzismo, militarizzazione. Se proprio non riusciamo a pensare ad altro che a noi stessi, senza voler riconoscere all’altro – l’immigrato, il rifugiato – la stessa qualità di umano che riconosciamo a noi stessi, dovremmo renderci conto che il controllo non è diretto solo contro di “loro” ma contro di noi prima di tutto, per impedire in ogni modo che il riconoscimento delle cause e degli effetti ci permetta di unirci agli altri sfruttati e oppressi contro una guerra che è di classe, di spoliazione totale, unità che è l’unica alternativa ad un sistema di sfruttamento e di controllo di cui l’imperialismo ha disperatamente bisogno per sopravvivere. (Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)

memoria storica

La notte in cui morì la Rivoluzione Francese Guadi Calvo (*) Cinquantacinque anni fa, il 17 ottobre 1961, 3 o 400 algerini, su circa 30.000 che manifestavano pacificamente contro le leggi razziste che il governo del presidente Charles De Gaulle aveva imposto - in particolare contro i cittadini di quell’origine e, per estensione, contro ogni cittadino proveniente dal Maghreb - furono “cacciati” e assassinati in piena Parigi dalla polizia del regime. Sebbene gli eredi della Rivoluzione Francese l’avessero già ferita a morte nelle risaie dell’Indocina, nelle caverne del nord dell’Algeria e nei boschi e nei deserti africani, quella notte, in piena Parigi, le diedero il colpo di grazia. “Se la prendevano coi più deboli, con quelli che già sanguinavano, fino ad ucciderli, io l’ho visto” Saad Ouazen

nuova unità

Il fatto più oscuro che si registri nella Ville Lumière fino ad oggi non è mai stato debitamente chiarito e non c’è neppure una lista comprovabile e sicura dei morti e men che meno dell’insieme delle responsabilità. Il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) algerino, diretto da Mohamed Budiaf e da Ahmed Ben Bella dal 1954, che combateva una guerra contro la dominazione della Francia, che aveva invaso il suo territorio nel 1830, chiamò le migliaia di algerini che risiedevano allora a Parigi a manifestare pacificamente contro il ‘coprifuoco’ imposto alla popolazione magrebina dal prefetto Maurice Papon, che durante l’occupazione nazista era stato responsabile della deportazione dei cittadini ebrei di Burdeos a Parigi, con destinazione finale i campi di concentramento. Il coprifuoco proibiva ai lavoratori algerini di rimanere nelle strade tra le 20.30

e le 5.30 e le caffetterie dei musulmani dovevano chiudere alle ore 19. Centinaia di migliaia di cittadini si videro allora costretti a rimanere rinchiusi nelle loro cadenti casupole nelle bidonvilles di Nanterre, Bezons, Courbevoie, Puteaux e Colombes, anche se già erano abituati alla minaccia permanente delle “rattonades” (razzie) poliziesche. La direttiva del FLN era chiara e precisa: i manifestanti nonn dovevano portare alcun tipo di arma, e si invitavano a partecipare anche donne e bambini quali garanti che non ci sarebbe stata, da parte degli organizzatori, alcuna intenzione di violare le norme. Inoltre i manifestanti dovevano sfilare sui marciapiedi, per non interrompere il traffico sulle strade e sui viali. Appena iniziata la protesta la polizia di Papon cominciò la battuta di caccia alla pelle: chiunque fosse “scuro” o moro, trovato per strada, sarebbe stato

arrestato. I 7.000 effettivi di Papon, insieme alla Polizia Ausiliaria (APF) meglio conosciuta come gli Harkis di Parigi, algerini riconvertiti in anti-rivoluzionari che operavano contro i loro connazionali, si erano preparati da giorni, col beneplacito dei loro superiori, il che comprendeva la tacita approvazione di De Gaulle. Come apparvero i primi manifestanti, cominciò la repressione che avrebbe lasciato un saldo, secondo le cifre ufficiali, di 11.730 arrestati e 3 morti. I cerberi di Papon si erano disposti minacciosi nelle strade del Quartiere Latino, sui grandi boulevards e nelle vicinanze degli Champs Elysées. Aspettavano gli algerini alle uscite dei metro, ai terminals degli autobus. Li attaccarono con estrema violenza, senza perdonare vecchi, donne incinte nè bambini. In poche ore gli arrestati sarebbero arrivati a

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imperiallismo

L’espansione a est della Nato e i pericoli di guerra

Anche l’ex segretario Nato Anders Fogh Rasmussen è tornato a chiedere che gli USA “intervengano maggiormente nei conflitti internazionali”, dato che si ha bisogno degli Stati Uniti quale “gendarme mondiale” Fabrizio Poggi

A partire dalla fine dell’Urss, sempre più paesi dell’Europa orientale sono però entrati nella Nato, o ne sono divenuti partner di fatto. Nel 1999 entrano nella Nato Ungheria, Polonia e Repubblica

Ceca e, nel 2004, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia e Paesi baltici. Nel 2009 entrano Albania e Croazia. Nel maggio scorso, i 28 Ministri degli esteri hanno firmato un protocollo di ammissione del Montenegro come osservatore. Oggi in Occidente giurano di non aver mai fatto alcuna promessa e che si tratta solo di “propaganda e falsità russe”: sono parole dell’ex ambasciatore USA a Mosca, Michael McFaul. Ma Komsomolskaja Pravda ha messo in rete registrazioni secondo cui, ad esempio, Polonia e Paesi baltici sarebbero dovuti rimanere neutrali. Oltreoceano sostengono che “simili promesse non ci sono mai state” e che, oltretutto, è “la Russia a essersi spostata a ovest, venendosi a trovare alle porte della Nato”! Ma, il 31 gennaio 1990, l’ex Ministro degli esteri della RFT, Hans Dietrich Genscher, da Washington, aveva dichiarato: “Ci siamo accordati per il non allargamento a est del territorio Nato. Tra l’altro, ciò non riguarda solo la DDR, che noi non vogliamo semplicemente conquistare. L’allargamento della Nato non ci sarà in generale”. Sempre nel 1990, è l’allora Segretario generale Nato Manfred Wërner a dichiarare che “Il fatto stesso che noi siamo pronti a non dislocare truppe Nato fuori del territorio della RFT, offre all’Unione Sovietica dirette garanzie di sicurezza”. Il Los Angeles Times ha poi scovato le dichiarazioni dell’ex Segretario di Stato USA, James Baker che, incontrandosi con Mikhail Gorbačëv nel 1990, affermò “La sfera di influenza della Nato non si sposterà di un pollice verso Est”. E nel libro del consigliere speciale al Ministero degli esteri USA Strobe Talbott e del politologo americano Michael Beschloss, in cui sono riportati i protocolli degli accordi di Gorbačëv con i rappresentanti statunitensi, si cita il Segretario alla difesa Robert McNamara, secondo cui “gli Stati Uniti si impegnano a non espandere mai la Nato a est, se Mosca sarà d’accordo per la riunificazione della Germania”. Promesse.

12.000. Tutto era stato calcolato millimetricamente, automezzi della polizia e autobus della compagnia RATP erano stati requisiti. Con questi gli arrestati furono trasportati all’Ospedale Beaujon a Vincennes, alla sede della polizia, allo stadio Pierre de Coubertin e al Centro espositivo. I detenuti, ammassati per giorni, soffrirono pestaggi e ogni tipo di abuso poliziesco, in orribili condizioni igieniche, senza né acqua né cibo. Nessuno di loro osava chiedere di andare in bagno, visto che quelli che l’avevano fatto non erano più tornati. In quei luoghi avvennero torture, violenze sessuali e molti assassinii. Per coprire le prove, alcuni giorni dopo il ministro dell’interno, Roger Frey, prima della riaper-

tura dell’Assemblea Nazionale, annunciò il ritorno forzato in Algeria di molti “indesiderabili”: senza liste, senza che potessero congedarsi dai loro familiari e neppure senza poter portare con sè nulla, molti furono deportati, e tanti di loro non arrivarono mai in Algeria. Senza vergogna, davanti alle telecamere, ai giornalisti e ai passanti, la polizia massacrò la protesta; i manifestanti furono selvaggiamente colpiti, altri furono assassinati con armi da fuoco a bruciapelo. Le strade di Parigi si riempirono di morti, di rivoli di sangue e di feriti: uomini, donne e bambini furono assassinati dalla polizia, altri – feriti – gettati nella Senna; non pochi corpi apparvero impiccati sui Champs Elysées.

Nel corso della riunione di fine ottobre a Bruxelles, i Ministri della difesa dei 28 paesi della Nato hanno discusso del dispiegamento, a partire dal 2017, dei quattro battaglioni internazionali di 1.000 uomini ciascuno in Polonia e Paesi baltici, sancito al vertice di Varsavia del luglio scorso. Confermato anche il rafforzamento della Nato nella regione del mar Nero, nel Mediterraneo orientale e il supporto alla coalizione a guida Usa in Siria e Iraq. Per quanto riguarda il primo punto, basti dire che è diventato ora di dominio pubblico quanto stabilito da mesi, ma taciuto: la partecipazione italiana al battaglione a guida canadese in Lettonia. L’allargamento della presenza nel mar Nero, oltre alla prevista flottiglia con base in Romania, riguarda l’impianto di sistemi antimissilistici: come da copione, per contrastare “l’aggressività russa”. A Bruxelles è stato toccato anche un altro tema tradizionale: l’aumento di spese per la difesa (+3% rispetto allo scorso anno: il 2% del PIL) che gli USA chiedono ai paesi europei; secondo gli analisti, questo costituisce un altro mezzo con cui Washington cerca di creare ulteriori difficoltà economiche ai paesi UE, per contrastarne la concorrenza. L’espansione della Nato verso est, col sempre più serrato accerchiamento delle frontiere russe, costituisce il nodo centrale degli attuali crescenti pericoli di guerra; un’espansione che i massimi esponenti USA ed europei, poco prima della fine dell’Urss, quando si trattava di strappare a Mikhail Gorbačëv il ritiro dei 380.000 soldati sovietici dall’Europa orientale e il via libera all’annessione della DDR da parte della RFT, avevano giurato e spergiurato non sarebbe mai avvenuta.

Dalla fine dell’Urss

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Le sparate del generale Joseph Votel Molto diverse dalle dirette sparate del generale USA Joseph Votel, che ha dichiarato pubblicamente che “obiettivo principale della Russia è quello di non farsi accerchiare da truppe e basi Nato; il compito della Nato è fare proprio questo”. Di fatto, ogni paese esteuropeo entrato a far parte della UE, si è poi unito anche alla Nato. Se questa è “preistoria”, la realtà odierna testimonia che gli USA, sotto il cui comando agiscono i paesi Nato, si apprestano a schierare anche nei Paesi baltici sistemi di difesa antiaerea “Patriot”, dopo aver trasferito in Europa centrale numerosi caccia multifunzione F22 “Raptor” e dopo l’installazione in Romania e Polonia dei sistemi di direzione automatica “Aegis”, armati di missili-intercettori “Standard-3”. A breve, una forza autonoma USA di 4.500 uomini verrà dislocata in vari paesi esteuropei ai confini russi. Nella base aerea polacca di Łask, già da tre anni sono di stanza alcuni F-16 e a ciò si aggiungono le prime uscite in Estonia di due droni multifunzione MQ-1 “Predator” USA. A fronte di ciò, non hanno più soluzione di continuità le manovre militari che la Nato organizza ormai in permanenza ai confini della Russia. Come in un gioco di scatole cinesi, esercitazioni si aprono nella cornice di altre manovre, a loro volta inquadrate in altre più ampie. Nel pieno svolgimento delle “Anaconda”, con il coinvolgimento di due dozzine di paesi Nato, ecco le “Swift Response” per truppe aviotrasportate e le “Baltops” per la fanteria di marina e poi il teatro si allarga a Germania, Polonia, Paesi baltici, Romania e Bulgaria per le “Saber Strike”, con l’impiego anche di tre bombardieri strategici B-52 e, all’interno di queste, le “Gelezinis Vilkas” (Iron Wolf), in Lituania. E via di questo passo. Con le “Sea Breeze” navali, manovre congiunte Nato-Ucraina, ci si sposta nelle acque di fronte a Nikolaev e di Odessa, destinata quest’ultima a diventare base navale Nato, dopo il ricongiungimento alla Russia della Crimea e

Qui si affogano algerini Alcuni giorni dopo la repressione, sui muri che costeggiano la Senna, cominciano ad apparire strane scritte che dicono “qui si annegano algerini” e nel fiume galleggiano decice di corpi, alcuni con colpi di arma da fuoco e altri con evidenti segni di torture. Era chiaro che il massacro perpetrato dal prefetto Papon e benedetto da De Gaulle era stato eseguito con “stile”. Si calcola che vennero raccolti almeno 150 cadaveri nelle acque tra Parigi e Rouen. Il presidente dichiarò che il massacro era “un affare secondario” e diede per terminato l’affare con i 3 morti iniziali.

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della base di Sebastopoli. Sopra il mar di Barents, volano aerei spia statunitensi RC-135 e “Typhoon” britannici.

E l’Italia? Per quanto riguarda direttamente l’Italia, oltre alla prossima presenza “simbolica” in Lettonia, non manca quella sul mar Nero, così come, da tempo, caccia nostrali effettuano pattugliamento a rotazione nei cieli del Baltico. Reparti italiani entreranno nella prevista forza di reazione rapida (aerea, navale e di terra) forte di quarantamila uomini (Stoltenberg ha precisato che nel 2018 proprio l’Italia ne sarà paese guida) che la Nato dislocherà in una rete di “agili punti di forza, con rotazione di truppe e depositi per attrezzature militari”, dopo l’apertura dei sei centri (Nato Force Integration Unit) in Lituania, Bulgaria, Lettonia, Polonia, Romania ed Estonia.

Quale democrazia?

ultimi 20 anni si è trasformata in piazzaforte avanzata dell’Alleanza Atlantica. Da parte sua, la Georgia, sin dagli anni ’90 sta percorrendo la strada dell’adesione a Euro-Atlantic Partnership Council, programma Nato “Patnership for Peace” e “Individual Partnership Plan” e nel luglio 2015 ha inaugurato il nuovo centro di addestramento Nato nella base di Krtsanisi. In Asia centrale, il contrasto alla “aggressione russa” passa per Kazakhstan e Kirghizistan, orientate verso Mosca con l’Unione doganale e, insieme al Tadžikistan, membri dell’Organizzazione di Sicurezza Collettiva, di cui fanno parte anche Russia, Armenia e Bielorussia. Per l’anno finanziario 2017, Obama ha chiesto al Congresso 3,4 miliardi di $ (quattro volte di più dei fondi attuali) per poter aggiungere una brigata corazzata alle due brigate di fanteria schierate in permanenza in Europa: naturalmente, per il “rafforzamento della sicurezza europea, alla luce delle sempre più aggressive azioni russe”.

E, mentre si allarga a dismisura la presenza militare diretta, non si rinuncia alla tradizione yankee di un anello sempre più fitto di “rivoluzioni colorate” attorno alla Russia. Per il bilancio 2017, il Dipartimento di stato USA ha pianificato 953 milioni di $ al “sostegno della democrazia” nei paesi vicini alla Russia – in particolare Georgia, Moldavia, paesi dell’Asia centrale e Ucraina - sotto l’eloquente voce “Azioni di contrasto all’aggressione russa attraverso la diplomazia sociale, programmi di aiuti esteri e creazione di un governo stabile in Europa”, per cui si prevede una spesa complessiva di 4,3 miliardi di $. Ma già nel 2016, Washington ha stanziato 117 milioni di $ per l’Ucraina e 51 per Moldavia e Georgia: paesi che hanno già avuto le loro rivoluzioni arancioni. In Ucraina, per prepararla al golpe del 2014, si erano foraggiate qualcosa come duemila organizzazioni antigovernative; ma, più in generale, con la creazione di enti, organizzazioni, istituzioni pubbliche e private, infrastrutture civili e militari per l’integrazione nella Nato, l’Ucraina negli

Secondo dati del Ministero della difesa russo, dal 1991 la presenza di uomini e mezzi di terra Nato in Europa orientale, in particolare Paesi baltici, Polonia, Bulgaria e Romania, è aumentata di 13 volte e 8 volte quella di mezzi aerei. È così che nel marzo 2015 Mosca aveva annunciato il ritiro dall’Accordo sulle armi convenzionali, per il rifiuto della Nato di sottoscrivere un nuovo accordo, che sostituisse quello del 1990, non più rispondente alla situazione attuale, con la frenetica attività Nato di potenziamento del fianco orientale. Tra l’altro, anche il previsto dislocamento di 250 tra carri armati M1A2 Abrams, blindati trasporto truppe M2 Bradley e artiglierie pesanti in Bulgaria, Paesi baltici, Romania, Polonia e Germania, è visto da Mosca come una violazione del trattato Russia-Nato del 1997 sulla dislocazione di nuove forze stazionanti in Europa. Violazione

Grazie alla compiacenza ufficiale, l’8 febbraio del 1962 un’altra manifestazione contro la guerra d’Algeria e il ruolo dell’organizzazione paramiliatre OAS (Organizzazione dell’Armata Segreta) finì con un nuovo massacro, conosciuto con il nome di “massacro di Charonne” (nome di una stazione del metrò parigino) dove ancora gli uomini di Maurice Papon assassinarono questa volta 9 militanti del sindacato CGT, la maggioranza dei quali appartenenti al Partito Comunista. Per finire la sua macabra opera, il 17 giugno 1966 De Gaulle approva una legge di amnistia che comprendeva “gli atti commessi nel quadro di operazioni di polizia, amministrative o giudiziarie”, con la quale si impedisce

qualsiasi tipo di inchiesta sulle mattanze del 17 ottobre e della stazione Charonne, tra molte altre violazioni dei diritti umani. I fatti del 17 ottobre 1961 ebbero un tale impatto sulla politica francese che accelerarono i negoziati terminati con gli accordi di Evian del 18 marzo 1962, con cui termina la guerra d’Algeria. Il massacro di ottobre fu silenziato per i due decenni seguenti fino a che, come gli annegati della Senna, cominciarono ad emergere le prove incontestabili contro il prefetto Maurice Papon. Nel 1981 il giornale Le Canard Enchainé ottenne una serie di documenti in cui veniva rivelata la partecipazione di Papon nello sterminio degli ebrei. Nel 1988, dopo 7 anni di inchieste e

Il ritiro dall’Accordo sulle armi convenzionali

cui Mosca riporta anche la partecipazione di militari svedesi e finlandesi alle manovre militari Nato. La Russia ha fatto sapere di esser pronta ad adottare misure di risposta, nel caso la Svezia divenga membro della Nato: quest’ultima, secondo il Cremlino, “ha già violato l’atto fondamentale del 1997 in cui è detto che non dovranno essere dislocate consistenti forze armate sul territorio di nuovi membri”.

L’arrivo di Curtis Scaparrotti In definitiva, nessuna meraviglia che, a maggio 2016, appena entrato in carica, il 18° Supreme Allied Commander Europe, il generale yankee Curtis Scaparrotti, abbia inserito la Russia tra le nuove “sfide lanciate alla sicurezza dell’Alleanza Atlantica”. Nel discorso di insediamento al Supreme Headquarters Allied Powers Europe, ha detto che “dopo la seconda guerra mondiale, l’Alleanza ha contenuto la minaccia di aggressione sovietica e la rinascita del militarismo in Europa. Oggi, oltre alle operazioni in Afghanistan e alle minacce terroristiche in Nord Africa e Asia, abbiamo di fronte la Russia, che cerca di riposizionarsi quale potenza mondiale”.

Le richieste di Rasmussen Nessuna meraviglia che l’ex segretario Nato Anders Fogh Rasmussen sia tornato a chiedere che gli USA “intervengano maggiormente nei conflitti internazionali”, dato che si ha bisogno degli Stati Uniti quale “gendarme mondiale”. Ancora meno sorpresa che, all’allargamento a est della Nato, il presidente della Commissione difesa del Consiglio federale russo, Konstantin Kasačëv, abbia risposto che gli USA “confondono i confini dei propri interessi con i confini mondiali. Ciò viene attuato da un paese che crede che la verità stia nella forza”. Una forza che sta avvicinando sempre più il mondo a un conflitto di cui, se gli USA saranno i fomentatori, non ne saranno però i vincitori.

processi, egli viene condannato a 10 anni di carcere, anche se non ha mai ricevuto una condanna per i crimini dell’ottobre 1961. Venne scarcerato nel 2002 a 92 anni per cause di salute, anche se morirà nel 2007. De Gaulle morirà nel 1969 e riceverà un pomposo omaggio durante i funerali, nonostante sia stato responsabile dell’assassinio della Rivoluzione Francese. (*) Giornalista argentino, analista politico specialista del Medio Oriente (da: portalalba.org; 17.10.2016, traduzione di Daniela Trollio CIP “G.Tagarelli”, Sesto S.Giovanni)

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note di classe

Revisionismo costituzionale e distruzione della scuola pubblica

Ovvero: come la “buona scuola” e tutte le leggi anti-lavoro e contro-sociali abbiano anticipato la revisione costituzionale al servizio del padronato e degli speculatori finanziari brugio Tra poche settimane saremo chiamati a votare per il referendum costituzionale in cui i cittadini italiani (o meglio, chi andrà a votare) decideranno se confermare la revisione costituzionale imposta dalla coppia crtipto-massonica Renzi-Boschi. Non ci addentriamo nella complessità e profondità della devastazione del testo costituzionale operato dalla Commissione e approvato definitivamente ad aprile, ma focalizziamo l’attenzione sul significato di questa operazione e sulle ricadute sostanziali che avrebbe qualora venisse confermato. Intanto, ricordiamo una volta ancora che nel maggio del 2013 un memorandum dell’agenzia finanziaria statunitense J.P.Morgan ormai tristemente storico, spesso citato ma non abbastanza diffuso e divulgato, conteneva un vero e proprio diktat scagliato contro le costituzioni antifasciste e “socialisteggianti”, comunque troppo rigide e con eccessive tutele a difesa delle classi lavoratrici, dunque inefficienti e poco flessibili per le finalità di utilizzazione della politica da parte delle imprese e del mondo speculativo. La crisi economica che ha colpito con la violenza di una guerra mondiale le economie capitalistiche occidentali (e che sta contagiando le economie dei paesi emergenti che fino all’inizio degli anni dieci avevano mostrato una maggiore tenuta) troverebbe difficile soluzione nell’area dell’euro (la UEM, Unione Monetaria Europea) poiché i paesi periferici (Portogallo, Spagna, Italia, Grecia) sarebbero costruiti su “sistemi politici… instaurati all’indomani della dittatura” e dunque “segnati da quell’esperienza”; infatti, secondo la relazione, queste “Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, riflettendo la forza politica che i partiti di sinistra acquisirono dopo la sconfitta del fascismo”. E allora la soluzione, secondo J.P.Morgan, potrebbe avvenire manomettendo proprio quei sistemi politici: si rilevava che già un “cambiamento sta cominciando a prendere piede”, come in Spagna che ha attivato “un controllo fiscale più forte delle regioni” e si intravedeva qualcosa di simile anche in Italia “dove il governo ha

chiaramente un’opportunità di ingranare riforme politiche piene di significato” (da: The Journey of National political reforms [Il percorso delle riforme politiche nazionali], pag. 12). Più chiaro di così... La revisione costituzionale, dunque, era già in agenda da tempo, ma i governi precedenti a quello di Renzi avevano evidentemente un’andatura da bradipi e le organizzazioni padronali (nazionali, europee, internazionali, i poteri economico-finanziari, le banche, Confindustria) bussarono al Presidente Napolitano per imporgli la svolta politica a ratifica della modernizzazione turbo-capitalistica nell’ambito politico-istituzionale: così Renzi, il pupillo di banchieri e massoni dell’area fiorentinoaretina, di mestatori e faccendieri rampanti toscani e non solo, il rottamatore della vecchia politica post-comunista (!), è diventato il più dinamico e convinto rottamatore della Costituzione italiana, tanto da mettere la propria testa (politica) sul piatto della bilancia (per poi tentare goffamente di ritirarla) per rafforzare il consenso sulle “riforme” e soprattutto sulla revisione costituzionale. Questo è lo scenario che occorre tenere presente se vogliamo comprendere il

senso profondo della devastazione della Costituzione, già abbondantemente sfigurata nel corso degli ultimi decenni (l’ultimo sfregio è l’inserimento nell’articolo 81 del “pareggio di bilancio” che ha fatto calare la mannaia sulle spese sociali dello Stato, già abbondantemente depredate dalle leggi finanziarie dei governi di destra e di centrosinistra): una Costituzione quella del 1948 che, come abbiamo più volte ripetuto, non era socialista, ma profondamente antifascista e dettata dallo spirito dei costituenti del ’4647, che raggiunsero un compromesso storico-culturale altissimo per una costituzione borghese con contenuti a carattere sociale e tendenzialmente egalitaria. Quello che non è ancora del tutto chiaro, anzi è assolutamente mantenuto nascosto ai “cittadini”, è che buona parte dei provvedimenti legislativi del governo Renzi va nella direzione che la revisione costituzionale sancirebbe, cioè: la distruzione dei principi sociali e (idealmente) egalitari che la Costituzione del 1948 aveva nella sua ispirazione fondamentale; la decomposizione di quei diritti che, pur circoscritti in un sistema economico capitalistico che preserva la proprietà privata e sociale che mantiene la divisione

di classe, tuttavia prescriveva l’indirizzo politico/legislativo per superare le diseguaglianze [articolo 3: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”]; la divisione sempre più rigida e la divaricazione sempre più netta tra le classi, a loro volta divise all’interno in strati sociali in lotta tra loro (con gli strumenti della flessibilità e della precarizzazione del lavoro e dell’esistenza). Votare no al referendum costituzionale del 4 dicembre non è un appello retorico allo spirito originario del 1948, ma la constatazione che l’aggressione economicosociale subita dalle classi lavoratrici (dal proletariato e da una ipotetica “classe media” del lavoro dipendente) dagli anni Ottanta all’inizio del XXI secolo (e che continua senza pietà), con il riversamento di ricchezze enormi dai salari ai profitti e alle rendite speculative soprattutto finanziarie, ha raggiunto il livello politico-istituzionale. Le classi dominanti, le borghesie nazionali e transnazionali, i poteri

padronali e finanziari, pretendono allora che sia ratificato, nella forma costituzionale, la riappropriazione delle porzioni di ricchezza e dei diritti che nella seconda metà del Novecento erano stati conquistati dal proletariato e dalle classi lavoratrici. Questo è il significato reale della revisione costituzionale che Renzi/Boschi, portatori insani degli interessi dominanti impregnati di intrighi massonici e propagandati negli incontri leopoldini, hanno veicolato tramite l’azione del governo e imposto al Parlamento. Se dovesse passare, la revisione costituzionale sancirebbe definitivamente il profilo giuridico/istituzionale che l’agenzia J.P.Morgan richiedeva nella sua relazione, e delineerebbe il quadro generale in cui le varie leggi (dalla 183/14, detta jobs-act alla 107/15 detta della “buona scuola”!!!) troverebbero collocazione formale.

Scuola: dirigenti e alternanza Precarizzazione e gerarchizzazione del lavoro, centralizzazione e concentrazione del potere nelle mani dei dirigenti apicali (capi): questo è il senso complessivo delle riforme sul lavoro, sulla

sanità, sulla scuola, oltre agli immancabili tagli delle risorse economiche per lavoratrici e lavoratori. In particolare, per quanto riguarda sanità e scuola (appartenenti al comparto del Pubblico Impiego), è bene ricordare che la vacanza contrattuale è ormai di sette anni, e che le proposte di rinnovo presentano cifre di aumenti salariali e stipendiali risibili (si parla di 18/20 euro lordi per gli insegnanti). Ma la questione fondamentale è il principio di comando che viene affidato al Dirigente scolastico: l’assunzione del personale tramite bando e presentazione dei curricola, l’attribuzione arbitraria del bonus ai meritevoli (secondo criteri fumosi e volutamente ambigui) determina una struttura gerarchica attorno al Preside/ feudatario, che conquista così la fedeltà dei suoi vassalli e si circonda di leali servitori pronti a dissotterrare l’ascia di guerra contro chiunque pretenda di far valere i diritti sindacali e contrattuali di tutti, sui privilegi di pochi. Vi è inoltre la norma sull’alternanza scuola-lavoro, che ha introdotto contro l’obbligo delle 400/200 ore di descolarizzazione (tra due e tre mesi minimo di assenza dai banchi scolastici): una massa di ragazzi e ragazze a disposizione di aziende e settori (turismo, ristorazione, servizi, soprattutto) a costo zero, anzi con contributi statali per la disponibilità a sottoscrivere le convenzioni con le scuole e accettare di “accogliere” gli studenti, una massa di manodopera gratuita che impara a mettersi a disposizione senza rivendicare alcun diritto o avanzare pretese salariali quando, tra qualche anno, si troverà scaraventato nel selvaggio mondo dello sfruttamento precario del lavoro. In questo senso il collegamento tra legge 107 (tra le altre) e revisione costituzionale è determinante: perciò, chiunque abbia a cuore la difesa della scuola pubblica e intenda opporsi alla distruzione del diritto allo studio dovrà votare no contro questa ignobile revisione del testo costituzionale.

L’ineffabile ministra Pinotti e la medaglia della Liberazione Michele Michelino Sabato 15 ottobre scorso presso la sala Verdi del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano si è tenuta la cerimonia di conferimento ai partigiani e agli ex internati nei lager nazisti della Medaglia della Liberazione in occasione del 70° anniversario della Guerra di Liberazione e della Resistenza, per ricordare - come ha scritto il Prefetto di Milano Alessandro Marangoni - “il loro impegno per l’affermazione dei principi di libertà e indipendenza sui quali si fonda la nostra Repubblica”. La medaglia è stata consegnata anche al nostro compagno Ettore Zilli, classe 1924, abitante da molti anni a Sesto San Giovanni, uno dei pochi sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Ettore è membro onorario del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio e frequentatore del Centro di Iniziativa Proletaria da molti anni. La sua è la storia di molti giovani di allora. Dopo l’8 settembre, a 19 anni, con un assalto alla caserma del paese si impadronì di alcuni fucili che successivamente passò ai partigiani. Il 28 ottobre del 1944 viene arrestato con altri partigiani e portato a Pordenone e poi nel carcere di Udine. È quindi internato nel campo di lavoro e di sterminio di Dachau in Germania, dove all’entrata campeggiava la scritta

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tristemente famosa “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi), come ad Auschwitz Un’altra medaglia è stata assegnata a Carlo Rovelli partigiano, comunista, abitante a Niguarda, una delle nove zone in cui è divisa Milano, fuggito in montagna e combattente delle brigate d’assalto della Val Grande e in Val d’Ossola, nostro amico e compagno. Perché parliamo di questa cerimonia? Ce lo spiega la testimonianza del Presidente dell’ANPI Angelo Longhi.

L’ineffabile ministra Pinotti Incaricato da una delle famiglie dei partigiani che sono stati premiati con la medaglia della Liberazione questa mattina mi sono recato alla cerimonia della premiazione alla sala del Conservatorio. Mi scuso con quelli che hanno letto il mio articolo su Zona nove. Perché la medaglia non era d’oro come avevo annunciato ma con mia grande DELUSIONE di una lega imperscrutabile tra lo stagno e il bronzo. Quindi non solo questa ministra non è riuscita a consegnare in tempo a 6 mila partigiani le medaglie promesse (la scadenza era il 25 Aprile 2015, 70° anniversario, sono stati premiati questa mattina 15 ottobre 2016) ma

al momento della consegna ha recapitato nelle mani dei partigiani NEL FRATTEMPO SOPRAVVISSUTI, una specie di medaglia di bronzo color della cacca che aveva in sovrappiù sul retro, il suo nome come Ministro della Difesa. Il suo nome? Ma com’è possibile? La medaglia che riconosce i partigiani deve essere dello stato italiano tutto, maggioranza e opposizione, cioè delle istituzioni, non del ministro Pinotti. Ma dove siamo? Infine. Qualche anima bella del PD mi ha detto che non c’erano i fondi per farla d’oro. Escusatio non petita… dicevano gli antichi. Agli ineffabili compagni del PD ho suggerito di andare loro, a raccontare ai nostri partigiani che un ministro che ha voluto acquistare tutti e 90 i cacciabombardieri F35 con una spesa complessiva di 12 MILIARDI di EURO, non ha trovato i 100 mila euro per le medaglie d’oro ai partigiani. Io dal canto mio ne ho riso con Carlo Rovelli, nome di battaglia Rovo, comunista delle Brigate d’Assalto della Val Grande. Una persona molto più degna della ministra della Repubblica. Angelo Longhi Pres. A.N.P.I. NIGUARDA sez. “Martiri Niguardesi”

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recensioni

Mercanti di morte

Nelle sale cinematografiche il film “Trafficanti” basato su una storia vera Pacifico Si sa, l’immediato dopo estate non è il periodo migliore per poter vedere dei film quantomeno guardabili. Di solito propinano minestre riscaldate, oppure paccottiglie destinate a finire, meritatamente, nel dimenticatoio nel giro di due settimane, giusto il tempo di smaltire la sbornia delle ferie. Eppure, contro ogni ragionevole pronostico, in questo drammatico e turbolento 2016, che vede i teatri di Ucraina, Siria e Libia infuocarsi sempre più complice la politica insipiente e guerrafondaia dell’imperialismo eurosionamericano, esce nelle sale un film molto interessante. l titolo è “I Trafficanti” regia di Todd Phillips, non proprio un luminare e nemmeno un militante, ma si sa non siamo nei tempi di giganti come Elio Petri. Pur non essendo un capolavoro, il film ha il merito di metter in luce, con linguaggio semplice, graffiante e irriverente, una delle perversioni peggiori del “complesso militar industriale” che ancora tiene in vita il putrescente capitalismo occidentale. La narrazione del film si ispira ad una storia vera raccontata dalla rivista Rolling Stone e successivamente pubblicato in un libro intitolato Arms and the Dudes. I protagonisti sono David Packouz ed Efrain Diveroli. Il primo massaggiatore a domicilio che cerca di arrotondare il salario vendendo lenzuola a case di riposo, il secondo rampollo ricco e sfacciato di una ricca famiglia ebrea di Miami Beach. I due mettono in piedi una società di intermediazione di armi, la AEY Inc.

I due si incontrano per caso dopo tanti anni dalla fine del liceo, e il secondo, già esperto nel fiutare affari, sfrutta “l’opportunità” data dal governo Bush di far partecipare agli appalti per

la fornitura di armi all’esercito USA anche imprese “medie” o “piccole”. Lo stesso governo Bush diede una forte accelerata alla “privatizzazione” della guerra, che prevedeva l’appalto ad aziende private di settori sempre più ampi dello sforzo militare: dalla costruzione e protezione di basi militari, alla protezione del personale diplomatico, fino ai famigerati contractors (tra cui, se ricordate, vi furono tanti italiani). I “nostri” giovani protagonisti capiscono entrambi che, se vogliono diventare ricchi, è sufficiente entrare nelle grazie di un solo grande cliente che non bada a spese quando si tratta di armi e munizioni: il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. “Chi vi dice che la guerra si fa per la democrazia o per qualsiasi ideale, vi dice una stronzata, la guerra è solo un affare”, è una frase che uno dei due protagonisti nel raccontare, con la tecnica del flash back, la sua parabola. In effetti solo l’equipaggiamento di un solo soldato americano costa poco più di 17000 dollari, più o meno il CUD di una dichiarazione dei redditi di un lavoratore italiano medio. Come l’antico impero romano pesava sulle spalle di schiavi, contadini e plebei, l’imperialismo attuale succhia ricchezze e speranze ad un proletariato e agli strati più bassi di una classe media sempre più vittime di mancanza di rappresentanza politica e sindacale. “Trafficanti” può essere considerata una commedia scorretta che in parte ricorda il film del 1974 “Finché c’è guerra, c’è speranza” con Alberto Sordi. Il film, con artifizi registici, tende a ridicolizzare e denunciare, non solo i due protagonisti, ma anche tutto il sistema di sfrutta-

mento della morte. La guerra è un affare in continua crescita (si è passati da un giro di affari di 145 miliardi di dollari nel 2001, a 390 nel 2008). Il film spiega che le fette grosse se le prendono le solite multinazionali, senza che vi sia concorrenza (chi crede ancora alle “teorie” di Adam Smith?), poi vengono le “briciole”, ove si infilano personaggi legati anche ad organizzazioni criminali. Insomma, l’imperialismo, come dimostrato con il commercio di droga in Afghanistan (vedere il libro di Enrico Piovesana Afghanistan 2011-

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2016. La nuova guerra dell’oppio. Arianna Editrice), non si fa nessuno scrupolo ad allearsi con le mafie, questo noi italiani lo sappiamo molto bene da quando gli americani vennero a “liberare” la Sicilia… Nella narrazione del film (così come nella realtà) però, lo scandalo non emerse tanto per questo, quanto per il fatto che le due new entry in questo commercio avevano cercato di accaparrarsi una fetta più grande di quella loro destinata, calpestando qualche mignolo di chi invece era abituato, “per diritto acquisito” ad occupare certe posizioni. Per vincere un appalto da 300 milioni di dollari, i nostri protagonisti intrecciano un’alleanza con la mafia albanese, grazie ai contatti con Heinrich Thomet, faccendiere svizzero, denunciato anche da Amnesty International per traffico d’armi anche laddove vi erano embarghi internazionali, ma che godeva di ottime referenze presso la Difesa degli USA, per via di forniture precedenti. Thomet e i suoi contatti procurano ai due giovani protagonisti un

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deposito di armi dell’ex esercito popolare dell’Albania di Enver Hoxha a prezzi stracciati. Lo scandalo è che i proiettili che si procurano, e che poi avrebbero dovuto rifornire l’esercito ascaro del governo vassallo dell’Afghanistan, erano di fabbricazione Cinese (la Cina, dopo che la cricca di Kruscev sale al poter nel dopo Stalin, fu l’unico paese a rimanere alleato dell’Albania). Sulla Cina pende, dopo i fatti di piazza Tienammen del 1989, un blocco per il commercio di armi da parte degli statunitensi. La cosa fu presa a pretesto dalle ditte concorrenti che non videro di buon occhio l’ingresso nel fruttuoso mercato di morte dei due nuovi insider, ragion per cui cominciarono a far pressioni al Dipartimento della Difesa Usa. La notizia fu data per prima dal New York Times nel 2008 (http:// www.nytimes.com/2008/03/27/ world/asia/27ammo.html?_

r=2&ref=world&oref=slogin). Il film, velatamente, denuncia altresì anche certo giornalismo di inchiesta compatibile col sistema. Di recente ne abbiamo avuto un esempio, laddove si è parlato (più nella stampa estera) del coinvolgimento dei Sauditi negli atti terroristici dell’11 settembre, senza però mai denunciare il fatto che dall’epoca è il Governo statunitense stesso che pone il veto su ogni possibile inchiesta che faccia luce sulla faccenda. Quando sono andato a vederlo la sala era piena di ragazzi sui vent’anni, di cui spesso ci si lamenta per l’indifferenza cronica. In parte questo può essere vero, ma anche vero che a volte è solo un problema di linguaggio. Con i mezzi giusti, forse, sarà possibile quel ricambio generazionale indispensabile a dare speranze e prospettive per una nuova umanità.

Ciao Adriana Siamo rattristati dalla scomparsa, il 27 ottobre, della compagna Adriana Chiaia. Non solo perché perdiamo una sostenitrice, abbonata storica, collaboratrice - il suo ultimo articolo lo abbiamo pubblicato sul n. 1/2916 - ma per il suo ruolo di studiosa sempre coerentemente marxista che la portava a chiamare le situazioni con il loro nome: fascismo, guerre imperialiste, revisionismo, occupazione da parte dello Stato sionista di Israele dei territori della Palestina. Il suo schieramento di classe e la visione del mondo sempre positiva, convinta che la vittoria finale sarà di chi combatte la causa degli sfruttati e degli oppressi di tutto il mondo, emerge anche nei libri da lei curati: “Contro il revisionismo” di Kurt Gossweiler, Babij Jar - l’occupazione nazista di Kiev del 1941 raccontata da Anatolij Kuznetsov -. O come per “Vivere come lui” - Adriana seguendo il racconto coinvolgente della moglie Phan Thi Quyen - inquadra il sacrificio di Nguyen Van Troi, simbolo della lotta di liberazione del Vietnam, nel suo contesto storico. E come l’abbiamo apprezzata e conosciuta per la sua militanza di comunista, antifascista, internazionalista, per il suo instancabile lavoro, con le sue rigidità, con la sua saggezza, la ricorderemo. la redazione di “nuova unità”

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lettere

La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo

Il Sistema sa chi premia e quando lo fa Il giornalista argentino Carlos Aznarez, in un articolo pubblicato da Telesur noticias, commenta in questo modo l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace al presidente colombiano Juan Manuel Santos: “Il Sistema sa chi premia e quando lo fa. Lo stesso premio Nobel è stato dato a Obama perché ampliasse impunemente la guerra in Medio Oriente e mantenesse la base per le torture a Guantanamo. Per quanto si possa camuffare, Santos ha un passato di sostenitore delle strategie guerrafondaie dell’establishment colombiano. Ha diviso il governo con Alvaro Uribe Velez ed è stato suo complice nell’applicazione di politiche genocide contro il popolo colombiano. Basta ricordare la sua partecipazione nell’operazione che consisteva nel riempire di cadaveri di contadini il territorio colombiano. Un’operazione che venne conosciuta come “falsi positivi” Uomini e donne che non appartenevano alla guerriglia, che il governo sequestrava, gli metteva addosso un’uniforme verde olivo e li assassinava. I media del sistema facevano il resto, indicandoli come “sovversivi” e integranti di bande terroriste. I militari dell’esercito di Santos fotografavano i cadaveri e, per ognuno dei “falsi positivi”, ricevevano un premio in denaro. Un’altra perla nel curriculum di Santos è “l’Operazione Fenix”, con cui la forza aerea colombiana violò la sovranità territoriale dell’Ecuador e bom-

bardò l’accampamento del comandante della FARC Raul Reyes nella zona di Sucumbios. Un’operazione organizzata con la consulenza del MOSSAD israeliano e della CIA, effettuata mentre i guerriglieri stavano dormendo. Oltre a Reyes massacrarono altri 22 guerriglieri. La carneficina si estese anche ad alcuni studenti messicani della UNAM che visitavano l’accampamento delle FARC. Quando assume la presidenza Santos continua con la strategia uribista. Durante la sua gestione vengono assassinati il Mono Jojioy e il massimo dirigente Alfonso Cano, contando sempre con l’aiuto dei servizi israeliani e nordamericani. In conclusione, non c’è dubbio sul fatto che questo premio è assegnato in un momento in cui la sua immagine di “bianca colomba” è offuscata dai risultati negativi del plebiscito. Adesso era urgente dargli “una manina” che gli permettesse di continuare la sua carriera e fare pressione sulle FARC per rinegoziare gli accordi firmati, dopo avere concordato questi cambi col suo socio Uribe. Gli elementi di ipocrisia che appaiono dietro le quinte di queste distinzioni internazionali sono più che odiosi. Servono per assicurare l’impunità dei violatori di tutti i diritti umani, li giustificano e concedono loro più potere per imporre i loro criteri di ‘’pace’’”. A.C.viaemail

Cuba da ammirare Quando si tratta di dare notizie positive su Cuba, i giornalisti italiani (Tv e carta stampata) sono in genere recalcitranti. Però sia pure “optortocollo” questa notizia l’hanno dovuta dare: difronte ai mille e oltre morti di Haiti, a causa del ciclone Matthew, Cuba non ha avuto neppure un morto, notevoli danni sì, ma morti neppure uno. E questo grazie al perfetto piano di evacuazione messo in atto dal governo di Cuba e prontamente seguito dalla popolazione. Ancora una volta Cuba e il suo popolo sono degni di ammirazione, alla faccia dei detrattori e di chi le vuol male. P.s. Da notare che all’indomani del ciclone medici e operatori cubani erano già ad Haiti per dare il loro prezioso aiuto. Germana Oppici Milano

Nessuna illusione Io non mi faccio illusioni sul fatto che se rimane la Costituzione, tutto rimanga un eden per la democrazia. Dove erano allora per esempio, quelli che in occasione dell’aggressione alla Jugoslavia da parte del governo D’Alema con la Nato a guida Usa, che non ha rispettato l’art. 11 proprio della Costituzione, che recita “l’Italia Ripudia la guerra”? Dove erano tutti coloro al rientro in Italia dei discendenti della Casa Savoia? Nonostante una disposizione transitoria (XIII) della Costituzione lo vietasse? Dove erano tutti coloro che si sono visti ricreare il partito fascista, nonostante un articolo della Costituzione

lo vietasse? E si potrebbe continuare con l’art. 4. Io voterò no, ma non mi illudo per la salvezza della democrazia con questa cricca politica bipartisan di venduti e di corrotti. Anche D’alema ora fa lo sponsor del no. Proprio lui che come scrivevo prima è andato a massacrare la Jugoslavia nonostante il sopracitato art. 11 lo vietasse. Non illudiamoci troppo perché se avete notato anche i sindacati non si pronunciano più di tanto. Anzi la Cisl è già schierata in modo definitivo per il sì. Per quanto riguarda l’Anpi è risaputo che è una costola del Pd. Alfredo FinottiMilano

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Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Luciano Orio, Emiliano, Michele Michelino, Pacifico, Fabrizio Poggi, Daniela Trollio

Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine Chiuso in redazione: 22/10/16

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“Vladimir Ilyich “Lenin” Ulynavov disse che, a differenza delle tartarughe, gli esseri umani non vivono centinaia di anni, La storia dell’umanità non va quindi analizzata per un secolo ma per decenni. Bernardo Caprotti, fondatore della catena di supermercati Esselunga, e Andrzej Wajda, regista cinematografico polacco nonché senatore del controrivoluzionario Solidarnosc, sono morti in queste settimane alla ragguardevole età di 90 anni, avvicinandosi solo alla centenaria vita delle tartarughe. A parte la loro longevità, che cosa ha apparentato Bernardo Caprotti e Andrzej Wajda? Nelle prossime righe cercherò di svelare il misterioso arcano. Nella compilazione della fimografia di Andrzej Wajda compare nel 2007 il film Katyn, dove rovesciò la verità storica, ormai accertata anche dal “Processo di Norimberga”, che il massacro, avvenuto nei mesi di agosto e settembre 1941 nella foresta di Katyn, dei circa 10000 ufficiali e sottufficiali polacchi era stato compiuto dei nazisti tedeschi, bensì dai sovietici del NKVD (Commissariato del popolo per gli affari interni), su ordine di Stalin. Per dovere di cronaca, per ben due volte, ho visionato l’orrido e rivoltante film Katyn di Andrzej Wajda. Nonostante la doppia visione e nonostante che fossi a conoscenza dell’avvenimento storico (a differenza della transumanza delle scolaresche portati alla sala cinematografica e indottrinati dagli “insegnanti democratici”...) se poi qualcuno mi avesse chiesto come era il film, non sarei riuscito a rispondere per quanto l’ho trovato aggrovigliato e confuso nella sua scrittura, a parte lo stomachevole finale. Il critico cinematografico Goffredo Fofi, che ha scritto nel tempo andato cose degne di stima, ha definito invece il film Katyn nientepopodimeno che un capolavoro e invece Tullio Kezich sentenziò che “In un paese che insiste a dirsi civile, questo sarebbe un film da vedere in piedi” (per la contentezza degli esercenti che avrebbero salvaguardato le poltrone dalla loro naturale usura...). Goffredo Fofi si stupì anche “della colpevole freddezza con cui venne accolto il film dalla nostra critica” (date le comuni origini con Fofi, chiesi qualche tempo fa un’opinione sulla figura del critico a un editore napoletano che rispose “che era un trombone”). Il film “Katyn”, nonostante tutta la propaganda mediatica dei canali di “mamma borghesia”, risultò un colossale flop (meno di 500 euro per copia), dando tutte le colpe alla difficoltà di distribuzione del film per un boicottaggio politico-culturale. A questo punto entrò sulla scena Bernardo Caprotti, che mandò le sue “truppe cammellate” dell’Esselunga, composte da direttori e allievi direttori con il loro cartellino di riconoscimento ben esposto, a vedere al cinema il film “Katyn”, come mi è stato personalmente racconta-

to da un proiezionista di un cinema milanese. Tutto ciò non fu sufficiente a Bernardo Caprotti, perché esaurita la vita del film in sala, fece allestire in molti suoi supermercati quadruple pile di DVD, su sfondo di gigantesco cartonato rosso sangue, con il film “Katyn” in vendita alla modica cifra di euro 9,90. L’anticomunismo e l’antistalinismo (“l’antistalinismo è l’inizio dell’anticomunismo”, Enver Hoxha) hanno accomunato il patron Bernardo Caprotti (autore tra l’altro del celebre saggio antiCoop “Falce e Carrello”) e il regista Andrzej Wajda. Wajda non ha virato in un altro porto, mantenendo la sua rotta anche per il suo ultimo film “Powidoki” (Immagini residue), che rappresenterà la Polonia nella corsa al prossimo Oscar del miglior film 2016 in lingua straniera. “’Powidoki” è un film biografico incentrato su Wladyslaw Strzeminski, pittore di punta del formalismo polacco e autore della teoria artistica dell’unismo (l’unità dell’opera d’arte è data dalla privazione di qualsiasi contrasto e dinamica). Il film racconta che il pittore fu vittima delle persecuzioni del regime comunista dal 1949 al 1952 per non aver adeguato la sua arte astratta ai dettami del realismo socialista. Strzeminski fu costretto a lasciare la sua cattedra all’Accademia di Belle Arti di Lodz. Wladislaw Strzemimski insieme alla moglie Katarzyna Von Robro, di origini nobili e proveniente da una ricca famiglia di mercanti di Riga, aveva sottoscritto nel 1940, quando Lodz era sotto occupazione nazista, “la lista russa” che raccoglieva cittadini russi e bielorussi, dichiaratamente anticomunisti, cui venivano garantiti dei privilegi rispetto alla popolazione polacca. Non solo reazionario ma pure “smemorato”... Wajda dato che dimentica “la guerra fredda culturale” (definita da Edward Barret, segretario di Stato statunitense, “la battaglia per la conquista delle menti”) dove la CIA finanziò e sostenne anche la pittura astratta statunitense, con i pittori Jackson Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, per contrastare il realismo socialista. A questo proposito mi permetterei di consigliare la lettura del saggio di Frances Stonor Saunders “La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti”. Nelson Rockefeller definì “l’espressionismo astratto statunitense come l’arte della libera impresa”. La “libera impresa” di Nelson Rockfeller approda anche in Italia nell’anno 1957 dove fonda, con Bernardo Caprotti e altri, la prima catena italiana di supermercati “Supermarkets Italiani, che in seguito divenne Esselunga. “Ho sempre rappresentato - attraverso il realismo - contenuti di fervore umano, di anelito verso la giustizia, di denuncia civile, di slancio verso la bellezza e la dignità dell’uomo, valori che con un volto proprio, corrispondono a quelli della grande arte di tutti i tempi, fin dai più antichi”. “Il due volte genio” Gabriele Mucchi pittore realista morto a 103 anni, lui sì come le tartarughe. Stefano Valsecchi Milano

Disinformazione e falsità contro la Siria

Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) Anno XXV n. 3/2016 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info

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Caprotti e Waijda accomunati dall’anticomunismo

Prensa Latina, in un articolo del 18 agosto, denuncia quanto segue: “Molti, con squisitezze tecniche esagerate, sono i continui video in internet o in siti come Sky News destinati a propagandare le disinformazioni sul dramma che vive la Siria”. Così accade dal 2011, quando fallirono i calcoli per promuovere una guerra civile in Siria che propiziasse l’intervento diretto degli Stati Uniti. Allora si sono succeduti i piani B, C e D, fino ad esaurire tutte le lettere dell’alfabeto. Fu la promozione del terrorismo come metodo di azione per provocare il panico e indurre il pericolo della morte nelle strade di Damasco e qualunque altra città della Siria. Non meno di 600 attentati diretti contro installazioni statali o private e che distrussero la vita di migliaia di persone, riempirono di incertezza, impotenza e inquietudine coloro che non immaginavano una politica di distruzione sistematica dei valori storici, sociali, politici e religiosi in questo paese del Levante. Recentemente Sky News ha parlato di “un migliaio di russi contrattati per combattere in Siria, dei quali 500 morti in combattimento”. Quella catena ha diffuso ampiamente un reportage con protagonisti falsi, in scenari falsi e circondati da un alone di fantascienza degno dei migliori film del genere. Una catena russa, la NTV, dimostrò le falsità al riguardo quando intervistò uno dei famosi “mercenari” conosciuto come Dimitri nel video di Sky e che risultò essere in realtà l’attore di un teatro di Mosca, Alexander Agbabov. Ma Sky News è solo una parte di un’impalcatura propagandistica contro la Siria che include non meno di 12 canali di televisione via satellite radicati fondamentalmente in Arabia Saudita e in Qatar. Aldo CalcideseMilano

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