comma 20/B art. 2 Legge 662/96 filiale di Firenze
Spedizione in abb. postale 45%
Proletari di tutti i paesi unitevi!
nuova unità fondata nel 1964
Periodico comunista di politica e cultura n. 3/2017 - anno XXVI
A Pietroburgo, a Mosca, nelle città e nei centri industriali, il comportamento delle donne proletarie durante la rivoluzione fu superbo. Senza di loro, molto probabilmente non avremmo vinto V.I.Lenin
Invertire la rotta
Le contraddizioni del sistema capitalista sono sempre più evidenti, ma la classe lavoratrice stenta a rafforzare la sua capacità organizzativa. Eppure è all’ordine del giorno la necessità di una svolta unitaria e radicale Anche i bambini hanno un colore, come i soldi. Se muoiono a Manchester o sotto le bombe in Siria quando è conveniente attribuirle al governo Assad si alza un gran polverone sui vari mass media e i fatti vengono strumentalizzati a proprio favore dalle forze politiche reazionarie e conservatrici. Non fanno notizia i milioni di bambini costretti a lavorare né quelli che ogni giorno e da anni muoiono sotto le bombe e di fame in Iraq, Afghanistan, Libia, Palestina (dove sono anche imprigionati dal governo isreliano) o che affogano nel Mediterraneo. I bambini sono bambini a secondo dell’interesse degli imperialisti che hanno favorito e foraggiano il terrorismo, attraverso operazioni targate Nato, e che a parole dicono di voler combattere. Proprio com’è successo al G7, ospitato a Taormina. Due giorni per bruciare 37,5 milioni di euro dei contribuenti e sentire la piena soddisfazione di Gentiloni su quanto accordato nella rinnovata “lotta al terrorismo”, tema che li vede tutti d’accordo e che si riverserà sempre più contro gli immigrati e per la riduzione delle libertà democratico-borghese, di agibilità politica, di manifestazione già in atto con il decreto Minniti-Orlando e come si è visto proprio in occasione della protesta contro il G7. Taormina, una sede scelta dall’ex governo Renzi per ribadire il ruolo geostrategico della Sicilia per il controllo del Mediterraneo, del nord Africa e del medio Oriente (non a caso Trump ha visitato la base di Sigonella), e dove la mafia la fa da padrone, per riunire i capi delle potenze imperialiste a discutere di come ripartirsi il mondo rapinando, schiacciando e reprimendo i popoli in nome della lotta contro i terroristi che loro stessi armano. E di come - insieme allo sviluppo dello sfruttamento attraverso le controriforme, l’imposizione di nuovi sacrifici alle masse popolari e il rinvio della soluzione della devastazione dell’ambiente - estendere la guerra. Nel suo primo viaggio all’estero, Trump - dopo aver affermato la cooperazione con Israele - ha venduto all’Arabia Saudita armi per 110 miliardi di dollari (che arriveranno a 350), armi che sono destinate a colpire i civili in Yemen. e a sostenere i banditi dell’IS. Debutto tra i G7 del neo presidente della Francia che, fiduciario ed erede di Holland, ne garantisce il ruolo coloniale della Francia nelle aree concessagli dall’imperialismo Usa (Africa occidentale e Sahel) e favorevole a fornirgli contributi nelle aree di predazione in Afganistan, Iraq, Siria, Yemen, Somalia. A Macron, respinto da una quota di astensionismo mai vista dal 1969, simpatizzante di Soros e “figlio” di Rothschild del quale rappresenta la politica neoliberista, repressiva e antisociale si deve, in coppia con Manuel Valls la famigerata Loi travail, la corrispondente del Jobs act. Governi e apparati statali proseguono sistematicamente la loro opera antipopolare e repressiva, accomunati dall’asservimento ai padroni, agli imperialisti, al Vaticano tra guerre commerciali e nuove crisi economiche che scaricano sulla classe lavoratrice e sulle masse popolari. Scelte che aumenteranno povertà e disuguaglianza sociale, e che rendono fertile il terreno per lo sviluppo del populismo, del fascismo, del nazionalismo e della xenofobia. Teorie convenienti a distrarre e identificare i veri responsabili e i veri nemici contro cui lottare.
Tra disoccupazione, sottoccupazione e lavoro nero - difficile da tenere nascoste persino con le statistiche manipolate - si intensifica lo sfruttamento e la repressione che oggi si manifesta anche con le multe e i licenziamenti disciplinari e politici. Sono continui i ricatti nei confronti dei lavoratori che ogni giorno perdono un pezzo delle libertà conquistate a fatica e con grandi sacrifici a partire dal dopoguerra, e sono messi di fronte alla scelta tra lavoro e salute, completamente abbandonati da quei vertici sindacali conniventi con il padronato che operano per il mantenimento della pace sociale - l’accettazione del jobs act e della cancellazione del referendum sui voucher sono solo ultimi esempi - e che paralizza la risposta del movimento operaio. L’offensiva capitalista avanza di pari passo con il progetto autoritario, di fascistizzazione, eversivo e guerrafondaio. Dopo brexit, illudendosi di poter sostituire l’Inghilterra, Pinotti-Gentiloni hanno subito pensato ad una “Schengen della difesa per rispondere al terrorismo” per “Rafforzare la capacità operativa (dell’UE) nelle aree di crisi e nella lotta al terrorismo”, ovvero nelle aggressioni imperialiste contro lavoratori e i popoli del Medioriente, e così rafforzare l’industria militare italiana ed europea. Un rinnovato militarismo già ratificato nell’incontro di Ventotene tra Renzi, Merkel, Hollande lo scorso agosto sulla portaerei Garibaldi. Ma il governo italiano, indipendentemente da chi lo regge, non accentua solo il suo europeismo. Al tempo stesso ribadisce il suo filoatlantismo mantenendo le richieste USA come “alleato vitale”. Servilismo che lo impegna ad accettare la richiesta - ribadita da Trump nell’incontro del 19 aprile con Gentiloni alla Casa Bianca - di portare al 2% del Pil (100 milioni di euro al giorno) la quota di appartenenza alla Nato alla quale si aggiunge l’enorme spesa del riarmo militare e del mantenimento delle “missioni” all’estero. Nel disegno imperialista c’è la guerra e va estesa perché - come sosteneva Lenin - “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. In occasione del 60 anni dai Trattati che hanno dato vita all’UE abbiamo assistito a dichiarazioni, interventi, celebrazioni intrisi di retorica e demagogia sul fatto che la sua costituzione ha impedito la guerra in Europa. E allora quella che ha distrutto la Jugoslavia nel 1999, in alleanza con Usa e Nato, come dobbiamo chiamarla? Ancora una volta non possiamo che essere d’accordo con Lenin quando analizzava che “in regime capitalistico gli Stati Uniti d’Europa sarebbero impossibili o reazionari. Il capitale è divenuto internazionale e monopolistico. Il mondo è diviso fra un piccolo numero di grandi potenze, vale a dire fra le potenze che sono meglio riuscite a spogliare e ad asservire su grande scala
altre nazioni”. Non sarebbero se non quello che sono già, un sistema armato di nazioni alleate e in concorrenza, con una forte proiezione militare ai propri confini (Est e Mediterraneo), una tendenza ad accordi commerciali che favoriscono i monopoli a scapito delle classi subalterne, un ampio mercato finanziario e commerciale in cui spartirsi ruoli e spazi “secondo la forza”. Eppure di fronte a questa offensiva prolungata della borghesia imperialista la classe lavoratrice continua ad essere divisa, le lotte in corso rimangono isolate, non capisce che si può vivere senza i padroni. Padroni che non si dividono in buoni e speculatori come ha predicato il Papa a Genova (città prossima alle elezioni) agli operai dell’Ilva, già in cassa integrazione da tempo un gruppo per il quale i candidati acquirenti prevedono fino a 6mila esuberi. Lavoratori che, influenzati da anni da politiche revisioniste, socialdemocratiche e opportuniste, non credono sia possibile rompere con il capitalismo e costruire una società socialista. È solo una questione di tempo, quello necessario a prendere coscienza della propria forza e della necessità della rivoluzione per abbattere questo sistema, prepararla giorno dopo giorno con organizzazione, impegno e partecipazione militante, per fare vivere anche oggi la storica vittoria del proletariato sulla borghesia capitalista come insegna la Rivoluzione d’Ottobre.
Disoccupazione e divisione di classe. Disoccupazione e sottoccupazione sono funzionali al sistema capitalistico: un enorme “esercito di riserva” difficile da organizzare, arma di ricatto sugli occupati per poter abbassare i salari e far loro accettare aumenti di orari e ritmi e contratti capestro, insomma condizioni di lavoro sempre peggiori e divisione tra il proletariato
pagina 2 Per i capitalisti aumenta il potere e la ricchezza. Come cambiano le classi sociali, occupati e disoccupati nel rapporto Istat 2017
pagina 3 Come si governa l’insicurezza. Decreto Minniti: è chiaro che il governo vuol fare dei profughi un problema di polizia, per evocare la paura, controllare, colpire le lotte e dominare in piena libertà
pagina 4 Venti di guerra. È necessaria una battaglia senza quartiere per “liberare l’umanità dagli orrori, dalle calamità, dalla crudeltà, dalla barbarie che oggi regnano” (Lenin 1915)
pagina 6
nuova unità 3/2017 1
lavoro
Disoccupazione e divisione di classe
Disoccupazione e sottoccupazione sono funzionali al sistema capitalistico: un enorme “esercito di riserva” difficile da organizzare, arma di ricatto sugli occupati per poter abbassare i salari e far loro accettare aumenti di orari e ritmi e contratti capestro, insomma condizioni di lavoro sempre peggiori Emiliano A sentire i vari telegiornali che diffondono le veline del governo sarebbe in corso una ripresina con risultati positivi anche sul fronte dell’occupazione. Notizie che si scontrano con la realtà e con gli stessi dati forniti dai vari istituti di statistica che, pur deformando le cifre, non riescono a nascondere totalmente la verità dei numeri: oltre 12 milioni di poveri e una persistente disoccupazione generale, in particolare di quella giovanile che supera il 40%. Disoccupazione e sottoccupazione sono funzionali al sistema capitalistico, rappresentano un enorme “esercito di riserva” difficile da organizzare e pronto a tutto o quasi per aumentare la “concorrenza” e, quindi, la divisione tra il proletariato. La disoccupazione, inoltre, è utile ai padroni come arma di ricatto sugli occupati per poter abbassare i salari e far loro accettare aumenti di orari e ritmi e contratti capestro, insomma condizioni di lavoro sempre peggiori. L’attacco alle condizioni di vita e di lavoro parte da molto lontano quando, dopo le lotte degli anni ‘70, il padronato teme di perdere il controllo sociale e rivendica i propri “diritti”. Le tappe di questo attacco risalgono alla cosiddetta “svolta dell’EUR” del ‘77 quando, tra l’altro, viene giustificata sia la “necessità” di liberarsi degli esuberi, sia l’introduzione della mobilità del lavoro. È lo stesso segretario generale della CGIL di allora Luciano Lama a dichiarare pubblicamente: “È un diritto dei padroni che dimostrano di essere in crisi quello di liberarsi dagli esuberi” per poi sostenere nei documenti sindacali che: “La mobilità nel quadro di un coerente programma di sviluppo è una necessità, sia all’interno delle imprese che fra le imprese, sia fra diversi settori di attività economica...”. La politica di sacrifici che sindacati confederali e PCI chiedono ai lavoratori per contrastare la crisi in nome dell’interesse nazionale (cioè del padronato) si traducono nella campagna per “il contenimento delle rivendicazioni... per ridurre le ripercussioni della crescita delle retribuzioni dirette sul costo complessivo del lavoro”. Il risultato fu una spirale infernale, i bassi salari costrinsero al doppio lavoro e questo contribuì ad espellere dal lavoro operai e impiegati diventati esuberi con il conseguente aumento della disoccupazione. La politica dell’unità nazionale e del siamo tutti sulla stessa barca fa aumentare la disoccupazione e i profitti dei capitalisti mentre porta alla rovina la massa dei lavoratori. Le altre tappe significative sono l’approvazione del cosiddetto pacchetto Treu nel ‘97 che, varato con la giustificazione del contrasto alla disoccupazione, introduce i contratti a tempo determinato e il lavoro interinale. Successivamente, nel 2003, la legge Biagi amplia i provvedimenti presi nel ‘97 e disarticola completamente il mercato del lavoro facendo del precariato una legge di vita, fino al recente Job act. Tutti questi anni di “impegno” per l’occupazione dei vari governi hanno visto solo il padronato ricevere contributi e incentivi per miliardi mentre i salari sono diminuiti e con questi le pensioni, la disoccupazione è progressivamente aumentata e l’ambiente è peggiorato tanto che i lavoratori si trovano davanti alla spietata scelta tra lavoro e salute. L’apertura ad una maggiore concorrenza tra lavoratori viene sancita e allargata dalla sostituzione degli uffici di collocamento - che attuavano assunzioni con richiesta numerica - con le assunzioni nominative attraverso i centri per l’impiego, praticamente inutili perché il lavoro passa attraverso le agenzie interinali - veri e propri centri di caporalato legalizzato - un passaggio che inculca anche una conce-
zione nuova del lavoro in quanto sposta la lotta da appartenenti ad una classe sociale alla capacità individuale di “adattarsi”, di essere più “furbi” o servili, più “disponibili”, più “flessibili”, situazione che aumenta le difficoltà di organizzarsi e lottare come classe. Ognuno - perso il contatto con il luogo di lavoro - partecipa individualmente al “mercato libero” del lavoro con i curricula, il lavoro interinale ecc. accettando di vendere le proprie prestazioni sia del lavoro manuale che intellettuale a condizioni e salari sempre più bassi. Un mercato dove conta l’esteriorità e la bella presenza mentre per le donne è rilevante persino l’aspetto fisico anche di fronte a ottimi curriculum ed esperienza. Mentre il valore del lavoro è stato impoverito con l’introduzione di tutte queste “riforme”, con l’uso dei contratti a termine, a tempo determinato o a chiamata e dei voucher, il padronato - protetto e garantito anche da leggi come il Jobs act con l’eliminazione dell’art 18 - per gli assunti aumentano la repressione e i licenziamenti per motivi “disciplinari”. I licenziamenti collettivi sono all’ordine del giorno. Clamorosi sono i casi di Almaviva o di Alitalia dove ai lavoratori sono state fatte proposte inaccettabili e giustamente respinte. Come in Alitalia anche attraverso un referendum truffa con la “pistola padronale” puntata alla testa dall’arroganza di chi fa affari sulle privatizzazioni ma continua a licenziare, precarizzare ed impedire ogni minima forma di democrazia sindacale, tant’è che il referendum è già messo in discussione. Favoriti dalle leggi sopracitate oggi i principali strumenti di frammentazione sociale sono le cooperative nate in questi anni per coprire settori di servizi come pulizie, mense, facchinaggio, assistenza ecc. che sono stati esternalizzati da aziende sia pubbliche che private, dalle ferrovie alle scuole, fino alla sanità sempre più spostata da pubblica a privata. Esternalizzazioni effettuate sempre con una riduzione di personale, un sistema che porta a dividere i lavoratori tra quelli rimasti alla ditta madre e quelli divisi in una miriade di piccole cooperative che spesso hanno un solo ed esculsivo “cliente”. Tutto ciò aggravato dal sistema degli appalti al massimo ribasso che scaricano sui
propri soci e lavoratori la capacità di “stare sul mercato”, obbligandoli a rinunciare a parti di salario e a diritti elementari e ad accettare orari super flessibili, uno sfruttamento bestiale che per i soci diventa autosfruttamento, pur di mantenere l’occupazione. Molte volte sono sacrifici inutili per l’entrata in campo di cooperative più grosse, più capitalizzate, più inserite nel sistema politico e di potere dei governanti di turno. Cooperative create ad arte dalle stesse ditte “madri” utilizzate come strumenti di divisione e di vero e proprio crumiraggio, ma in mano ai padroni per non pagare neanche quel poco previsto dai contratti nazionali ed evitare il rispetto delle normative . La nuova frontiera del capitale e dei suoi governi è il lavoro gratuito. Attraverso gli stage utilizzati per la selezione dei “migliori”, finanziati da enti pubblici a spese della collettività, i giovani sono costretti a fornire lavoro gratuito - come previsto dalla “buona scuola” con l’inserimento del dispositivo scuola-lavoro favorevole solo alle imprese, e lavorare gratis in cambio dell’arricchimento del proprio curriculum
o addirittura a pagare i cosiddetti corsi di formazione senza avere in ogni caso alcuna contropartita occupazionale. I lavori socialmente utili, snaturati dal loro originale significato, sono poi diventati oggetto di scambio tra l’indennità percepita dai lavoratori in mobilità e la loro disponibiità a fornire 20 ore gratuite a settimana presso enti pubblici a discapito di nuove assunzioni. Con il decreto Minniti-Orlando sono estesi agli immigrati/rifugiati in cambio dell’accoglienza, rischiando di allargare il conflitto tra poveri (con buonapace della destra) che mina la lotta di classe e la necessità di unità degli sfruttati nel nostro Paese. Dall’inizio dell’anno anche la mobiità è stata eliminata e sostitituita con la Naspi, proprio mentre decine di aziende continuano a minacciare chiusure, ridurre l’organico o spostare le loro attività all’estero, persino da una regione all’altra e il governo strombazza l’istituzione dell’assegno di reinserimento come se si trattasse di soldi veri, mentre sono dei buoni da spendere presso le agenzie di formazione private. La Naspi, oltre a ridurre notevolmente la durata dell’indennità e la condizione che
la fine del rapporto di lavoro sia conclusa senza contenzioso, prevede delle pesanti sanzioni per chi non rispetta gli obblighi previsti dalla sottoscrizione - peraltro singola - del “patto di servizio” che vanno da un minimo di 8 giorni di decurtazione dell’indennità, alla perdita del diritto a percepirla e fino alla decadenza dello stato di disoccupazione. Un passaggio automatico nel campo degli “inattivi” che non sono conteggiati neanche dall’ISTAT. Con l’introduzione e l’uso allargato dei contratti di solidarietà, con i quali i lavoratori delle aziende in crisi cedono una parte del salario per evitare il licenziamento degli “esuberi” lavorando meno ore, Governo e Confindustria studiano una forma di “contratto di solidarietà allargato” che, tradotto, vuole dire accorciare la giornata lavorativa e ridurre il relativo salario per sostenere l’occupazione. Coerente con la filosofia del fare sacrifici “perchè siamo sulla stessa barca - padroni e operai - per uscire dalla crisi in nome del bene del paese”. Un modo pratico per far pagare alla classe lavoratrice una crisi creata proprio dai padroni, dal grande capitale, dal sistema basato sul massimo profitto. Ripercorrere la storia delle leggi su lavoro e pensioni di questi ultimi 40 anni diventa utile a capire quanto il riformismo rappresenti l’ideologia del capitalismo e del suo sfuttamento, a capire come siamo arrivati a questo punto. Come siano proprio i riformisti e i sindacati concertativi - veri e propri soccorritori del capitalismo in crisi - gli strumenti per snaturare obiettivi e parole d’ordine del movimento operaio, influenzarlo e trasformarlo in punti di forza per lo Stato borghese e delle sue leggi. Il movimento operaio ha sempre lottato per l’aumento dell’occupazione perché ciò è utile ad aumentare i suoi ranghi e la sua forza contro il potere del capitale. Portare avanti questa battaglia oggi significa battersi per il diritto al lavoro nella consapevolezza che bisogna passare dal diritto all’obbligo del lavoro come fu fatto con la Rivoluzione sovietica quando, eliminando il capitalismo e conquistando il socialismo, fu concretizzata la parola d’ordine di lavorare meno lavorare tutti per costruire il proprio avvenire senza sfruttamento .
Il compagno partigiano Carlo Rovelli ci ha lasciato il 24 maggio a 91 anni Michele Michelino Carlo, membro del PC clandestino, aveva partecipato alla Resistenza giovanissimo, come tanti altri ragazzi come lui. Era un comunista e tale è rimasto fino allo scioglimento del PCI; in seguito è stato, come tanti di noi, un comunista senza partito, iscritto solo all’ANPI. Anche negli ultimi mesi, quando non poteva più camminare, è sempre stato lucido, un attento lettore dei giornali e gli piaceva essere informato. Nel ricordarlo, voglio riportare qualche brano delle lunghe chiacchierate fatte quando andavo a trovarlo al Circolino e a casa sua, dove andavo a cambiargli una lampadina o a riparargli un guasto all’impianto elettrico e quando gli portavo Nuova Unità, che commentavamo insieme – lui, sua moglie Adriana ed io. A 18 anni Carlo, figlio di un antifascista riparato in Francia, inizia la sua attività antifascista e antinazista a Niguarda (quartiere operaio e popolare di Milano) – dove poi parteciperà, il 24 aprile – alla liberazione, con altri suoi coetanei, distribuendo volantini e facendo scritte sui muri. Riconosciuto da alcune spie, per evitare la galera o la fucilazione, Carlo è costretto ad andare in montagna a combattere i nazifascisti, ed entra nelle brigate partigiane. Nel marzo del ‘44 arriva in Val Grande e si unisce al Battaglione “Valdossola” guidato dal comandante Superti. Entra a far parte della Compagnia numero 14, formata solo da comunisti e, come racconta lui stesso, “appena arrivato, come a tutti ci hanno dato un soprannome; il mio era “Rovo”, da Rovelli. In montagna ho sofferto la fame, c’erano giorni in cui non mangiavamo e facevamo il “pasto dell’atleta”, cioè lo saltavamo. Io, con altri miei compagni, ero addetto all’organizzazione di sabotaggi e retate contro
gli avamposti nemici, Facevamo le imboscate. I fucili erano fondamentali, senza le armi non avremmo potuto difenderci o attaccare. Saremmo stati in balìa del nemico. Io sono ancora qui anche perché ho avuto fortuna”. Così Carlo ricordava anche un episodio che gli era accaduto in Val Grande. “Una volta insieme con due miei compagni stavamo facendo una perlustrazione vicino a una baita, quando sono arrivati due giovani soldati delle SS della mia stessa età o forse anche più giovani. Appena ci hanno visto, hanno iniziare a sparare uccidendo uno dei miei amici. Io mi sono nascosto all’interno della casa, in un angolo, sotto un pentolone per fare il formaggio e sono rimasto lì sotto per tutto il tempo senza fiatare. Vedevo gli stivali neri di uno dei due nazisti a pochi centimetri e in quel momento pensavo che fosse giunta la mia ora, ma ho avuto fortuna. Se avessero guardato meglio, ora sarei morto e non sarei qui a raccontarla”. Ciao Carlo, grazie a te, a tutti i compagni comunisti e antifascisti, per le battaglie che avete combattuto contro il nazifascismo e per un mondo diverso.
nuova unità 3/2017 2
lavoro
Per i capitalisti aumenta il potere e la ricchezza Come cambiano le classi sociali, occupati e disoccupati nel rapporto Istat 2017
Michele Michelino Nel mese di maggio l’Istat ha diffuso i dati su occupati e disoccupati nel rapporto periodico sul lavoro. I dati erano particolarmente attesi, dopo due anni del Jobs act, approvato dall’ex, e rieletto, segretario, del Partito democratico Matteo Renzi. Dai dati risulta che a marzo 2017 la stima degli occupati è sostanzialmente stabile rispetto a febbraio. L’occupazione scende nell’ultimo mese solo tra gli ultracinquantenni (-55 mila), ma aumenta, nelle restanti classi di età, in particolare quelle più giovani (+44 mila tra i 15-34enni). Cresce, poi, il numero di lavoratori dipendenti (+63 mila), sia a tempo indeterminato “a tutele crescenti” (+41 mila), sia a termine (+22 mila), mentre calano i lavoratori autonomi (-70 mila). Il tasso di occupazione è, quindi, nel complesso stabile al 57,6%. Un dato tuttavia ben lontano dai paesi più competitivi. La stima degli inattivi (ossia di chi non lavora e non cerca lavoro), tra i 15 e di 64 anni nell’ultimo mese è in diminuzione (-0,2%, pari a -34 mila). Il calo si concentra tra gli uomini, mentre è in lieve crescita tra le donne e coinvolge tutte le classi di età ad eccezione degli over 50. Il tasso d’inattività è pari al 34,7%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali su febbraio. Su base annua, a marzo si conferma la tendenza all’aumento del numero di occupati (+0,9%, pari a +213 mila). La crescita riguarda i lavoratori dipendenti (+310 mila, di cui +167 mila a termine e +143 mila permanenti), mentre calano, come già rilevato prima, i lavoratori autonomi (-97 mila). La crescita è accentuata tra gli over 50 (+267 mila) e in misura più contenuta tra i 15 e i 34enni (+62 mila), mentre cala, tra i 35 e i 49enni (-116 mila). Tuttavia l’emergenza lavoro in Italia è molto più grave di quanto dicono i dati Istat poiché questi dati sono basati su inadeguati calcoli statistici. Infatti, è sufficiente aver lavorato un’ora in una settimana per essere registrati tra gli occupati ai fini del calcolo del tasso di disoccupazione. Non si tiene inoltre conto di quanti hanno smesso di cercare un lavoro perché demoralizzati dall’assenza di domanda e del gran numero di lavoratori in nero, di “sottoccupati” che, non per scelta, lavora part-time. La leggera crescita drogata dell’occupazione e l’aumento dei contratti di lavoro a tempo pieno sono ottenuti per effetto della decisione del governo che sta fornendo ai padroni manodopera sottocosto per tre anni. Come già nel 2016, anche per il 2017 tutti i padroni (oggi chiamati datori di lavoro) del settore privato che assumeranno giovani iscritti al programma Garanzia Giovani e di età compresa tra i 15 e i 29 anni avranno diritto allo sgravio contributivo per un massimo di 8.060 euro per lavoratore assunto con contratto di lavoro a tempo indeterminato o apprendistato, e la riduzione del 50% nel caso di contratto di lavoro a tempo determinato. L’aumento dei contratti di lavoro a tempo pieno dovuto agli sgravi previdenziali finirà nel 2018 con prevedibili gravi conseguenze
sull’occupazione. Infatti, già oggi nonostante gli incentivi degli sgravi contributivi, per lo stesso periodo sono aumentati sensibilmente, i disoccupati (+2,9%, pari a +86 mila) e con la fine degli incentivi nel 2018 i lavori full time cadranno vertiginosamente e di conseguenza ci sarà un altro aumento dei disoccupati. L’Istat nella 25esima edizione del suo rapporto ci dice anche un’altra cosa: cresce la disuguaglianza, cresce il disagio economico (11,9%) e la denatalità, spariscono le distinzioni tradizionali, si formano nuove aggregazioni e sette “millennials” (i giovani chiamati “mammoni”) su dieci sono bloccati a casa con i genitori, circa 8,6 milioni. Per fotografare la realtà attuale, l’Istat prende in considerazione il reddito, l’istruzione, la partecipazione sociale, la posizione nel mercato del lavoro, l’ampiezza della famiglia, la cittadinanza e il luogo di residenza. L’indagine individua nove gruppi sociali: 1) i giovani «blue collar» (giovani operai colletti blu), 2) le famiglie degli operai in pensione con reddito medio, 3) le famiglie a reddito basso con stranieri, 4) quelle a reddito basso di soli italiani, 5) le famiglie tradizionali della provincia, 6) il gruppo formato da anziane sole e giovani disoccupati; 7) le famiglie benestanti di impiegati, 8) le famiglie con «pensioni d’argento» e infine 9) la classe dirigente. La spesa media per consumo va da un minimo di 1.697 euro per le famiglie a basso reddito a un massimo di 3.810 euro per la classe dirigente (la media delle famiglie è 2.499 euro). Per l’Istat il soggetto è la “famiglia” che continua a gestire e ridistribuire gran parte delle risorse, assorbendo peraltro al suo interno il conflitto intergenerazionale. Per l’Istat il cambiamento è tale che le “tute blu”, cioè la classe operaia ha ormai perso l’identità collettiva e si divide in più gruppi situati però dentro il perimetro delle «famiglie a reddito medio». Le giovani tute blu formano un gruppo di poco più di 3 milioni di famiglie e 6,2 milioni di persone, hanno un contratto a tempo
indeterminato e lavorano nell’industria. Il gruppo delle famiglie degli operai in pensione è composto di 5,8 milioni di nuclei e 10,5 milioni di persone, è presente per lo più nei piccoli centri, ha quasi sempre la casa di proprietà, non ha più i figli conviventi e però dal punto di vista sanitario presenta criticità per eccesso di peso, sedentarietà e consumo di alcol.
A basso reddito I gruppi considerati a basso reddito per l’Istat sono quattro: a) famiglie con stranieri; b) famiglie povere di soli italiani; c) famiglie della provincia; d) anziane sole e giovani disoccupati. In totale fanno più di 8 milioni di nuclei e 22 milioni di individui.
I “benestanti” Le famiglie che l’Istat definisce «benestanti» sono formate da tre gruppi: gli impiegati, i pensionati d’argento e la classe dirigente. Il gruppo degli impiegati è consistente (4,6 milioni di famiglie e 12,2 di individui), è localizzato in prevalenza nel Centro-nord, possiede la casa dove abita e si caratterizza per una partecipazione attiva alla vita politica del Paese.
Le pensioni d’argento riguardano 2,4 milioni di famiglie di ex imprenditori ed ex dirigenti non laureati che hanno buoni consumi culturali e un forte impegno sociale.
La classe dirigente La classe dirigente: ha un reddito del 70% superiore alla media e detiene il 12,2% del reddito totale. Parliamo di 1,8 milioni di famiglie capeggiate per lo più da imprenditori, dirigenti e quadri con titolo universitario che si caratterizzano per una maggiore partecipazione politica/sociale e per un «comportamento culturale pervasivo». L’Italia detiene un altro record, è prima in Europa per invecchiamento della popolazione: al primo gennaio 2017 le persone over 65 erano il 22% del totale, cioè 13,5 milioni, il valore più alto dell’Ue. Nel 2016 si è registrato un nuovo record negativo con un minimo delle nascite (474 mila). Il numero medio di figli per donna si attesta a 1,34 (1,95 per le donne straniere e 1,27 per le italiane). Il saldo naturale (cioè la differenza tra nati e morti) segna nel 2016 il secondo maggior calo di sempre (-134 mila), dopo quello del 2015, ma è soprattutto la dinamica de-
mografica dei cittadini italiani a essere negativa, il saldo naturale è -189 mila, quello migratorio con l’estero -80 mila. Fin qui i dati che, come sempre, vengono interpretati e manipolati secondo i vari interessi di classe. In una società divisa in classi dove il potere economico, politico e militare, editoriale ecc, cioè lo Stato è nelle mani dell’imperialismo e del capitalismo è “normale” che i dati siano letti nell’interesse della classe dominante. Non è un caso che per i giornali borghesi i nuovi dati Istat sono letti come dimostrazione che operai e borghesi vanno scomparendo e con essi il conflitto di classe, quando in realtà questi dati dimostrano il contrario. Al riguardo sono significativi gli articoli e i titoli del Corriere della Sera e Repubblica che interpretano il 25esimo rapporto Istat come “un addio, alla borghesia, al proletariato e alla lotta di classe”, affermando che “operai e borghesi escono di scena”. In ogni caso gli ultimi dati sull’occupazione in Italia dicono che su 22,8 milioni di occupati, di cui 16 milioni dipendenti, 8 milioni sono inquadrati contrattualmente come operai. In realtà la classe operaia non scompare, anzi si rafforza. Anche se in modo confuso e annacqua-
Amianto morti di “progresso” Segnaliamo l’uscita del libro Amianto morti di “progresso” che racconta le lotte del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio e di altre associazioni in lotta contro l’amianto, i cancerogeni e le stragi causate dal profitto attraverso le testimonianze degli operai, i documenti processuali e lettere inedite fra Comitato e Inail. Il libro si compone dei seguenti capitali: Cap. 1 – Non solo nelle piazze: i processi penali Sconfitte e vittorie: i casi Eternit, Marlane, Enel, Franco Tosi, ThyssenKrupp, Fibronit, Cantieri navali, Montedison Cap. 2 – Morti per amianto alla Pirelli: la condanna dei manager Cap. 3 – Breda: omertà, lotta, solidarietà operaia, repressione Cap. 4 – La lotta contro l’amianto in Italia e nel mondo Cap. 5 – Solidarietà operaia internazionale e nazionale Cap. 6 – La lotta contro il governo, l’INAIL e l’INPS Cap. 7 – Lavoro e/o salute? Cap. 8 – Conflitto sociale, solidarietà operaia e popolare,
nuova unità 3/2017
organizzazione. La lotta delle vittime organizzate in Comitati e Associazioni: le stragi dell’Aquila, di Viareggio e della Tricom di Tezze sul Brenta Il libro di 275 pagine e in vendita nelle librerie a 19,50 euro (costo stabilito dalla casa editrice) per gli associati e gli amici del Comitato, per copie limitate il prezzo è 15 euro richiedendolo per telefono ai n. 02 26224099 o 3357850799 CENTRO DI INIZIATIVA PROLETARIA “G. TAGARELLI” in via Magenta, 88 Sesto San Giovanni (Mi)
to il 25° Rapporto annuale 2017 dell’Istat, afferma che all’interno delle stesse classi sociali ciò che sembra essersi profondamente modificato è il senso di appartenenza a una data classe sociale e ciò è particolarmente vero per la piccola borghesia, classe media e la classe operaia. Quindi come si vede anche per l’Istituto nazionale di statistica la classe operaia, continua a esistere anche se cambia la sua composizione. Caso mai, ancora una volta, si evidenzia come il concetto di classe in sé, storicamente determinato sulla base dei rapporti sociali di produzione, e quello di classe per sé, ossia di classe cosciente del proprio ruolo e della propria funzione storica non vada di pari passo. Se gli operai, i proletari non hanno coscienza dell’appartenenza di classe, è molto più difficile la loro organizzazione come classe indipendente sui propri interessi e su un proprio programma di lotta contro il sistema capitalista, per distruggere la causa che continua a creare sfruttamento, miseria, guerre, diseguaglianza, morti sul lavoro e di lavoro. La classe sociale è un insieme di figure che hanno lo stesso posto nella produzione sociale e in conseguenza lo stesso rapporto con i mezzi della produzione. Nell’analisi delle classi di Marx (tuttora attuale) le classi si formano e si distinguono nel rapporto con i mezzi di produzione, dai quali emergono due classi conflittuali, i proprietari del capitale e i proprietari della forza lavoro: cioè gli operai e i lavoratori sfruttati sul posto di lavoro costretti a produrre merci sotto una gerarchia da caserma e i padroni, i borghesi che si appropriano del plusvalore e del profitto. “Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe dei moderni operai, che vivono solo fin quando trovano lavoro e trovano lavoro solo fin quando il loro lavoro accresce il capitale. Questi operai, che si vedono costretti a vendersi al minuto, sono una merce al pari di qualunque altro articolo commerciale e per questo sono altrettanto esposti a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato”. (K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista) Al di là dalle analisi dell’ISTAT, il sistema di sfruttamento capitalista dell’uomo sull’uomo, continuando ad appropriarsi del profitto, aumenta il potere e la ricchezza dei capitalisti e dei borghesi riproducendo e perpetuando gli operai come schiavi salariati.
Se hai perso un numero precedente puoi sfogliarlo su www.issuu.com profilo
nuova unità 3
fascistizzazione
Come si governa l’insicurezza
Decreto Minniti: è chiaro che il governo vuol fare dei profughi un problema di polizia, per evocare la paura, controllare, colpire le lotte e dominare in piena libertà Luciano Orio “Ladri in casa: adesso si spara!” titolano oggi i giornali nelle loro prime pagine. L’occasione è fornita dall’approvazione alla Camera dell’ennesimo urgente decreto in materia di sicurezza, quello sulla legittima difesa. Il ricorso alla decretazione d’urgenza è pratica ricorrente, alla faccia della “urgenza irreparabile”, richiesta dall’art.77 della Costituzione, che dovrebbe limitare l’uso della decretazione straordinaria; ormai è chiaro che la Costituzione, nonostante il recente referendum di ottobre 2016, serve per essere stracciata. Già il decreto precedente, quello targato Minniti-Orlando, aveva nei suoi presupposti la necessità e l’urgenza straordinaria, come pure il decreto legge n.25 del 17 marzo che ha rimosso la scadenza referendaria (piuttosto pericolosa per il governo) su voucher e responsabilità del committente negli appalti. tanti decreti, tutti urgenti: nessuna o troppe novità? La borghesia imperialista ha scelto di accelerare, fa della crisi il punto di appoggio per intraprendere un processo di continua ridefinizione del proprio dominio su classi e paesi oppressi. Nella crisi le disuguaglianze crescono, i sacrifici richiesti si moltiplicano, la disoccupazione dilaga, ma lievitano pure i profitti. Così a noi tocca pagare la loro crisi, mentre loro continuano a intascare profitti. È ovvio che, date le circostanze, la decretazione d’urgenza sia strumento tra i più performanti. Andando ad esaminare il decreto “Minniti-Orlando” risulta chiaro, anzitutto, come l’abbondanza di misure legislative in materia di sicurezza descriva il quadro allarmante di uno Stato che sceglie l’approccio securitario per rispondere ai problemi sociali della povertà, della marginalità e dell’immigrazione. Il decreto consta di due parti: sicurezza urbana e contrasto all’immigrazione irregolare. Ha avuto un periodo di incubazione piuttosto lungo ed è stato redatto dopo ripetuti incontri tra Governo ed enti locali, introducendo patti e accordi tra Stato e regioni, prefetti e in particolare i sindaci. Proprio il presidente dell’Associazione nazionale comuni d’Italia (Anci), Piero Fassino, già nel marzo 2015 si attivò con l’ex Ministro dell’Interno Alfano per “fare delle nostre città, città più sicure” e garantire ai cittadini la “percezione della sicurezza” di fronte a fenomeni come writers, parcheggiatori abusivi, contraffazione e abusivismo commerciale, il racket dell’accattonaggio. La vecchia idea è quella del controllo territoriale, su basi “differenziate”. I quartieri “bene” saranno ripuliti da writers, parcheggiatori, piccoli spacciatori e da chi in genere non rispetta il decoro urbano, al fine di mantenere una vivibilità elevata di quei luoghi e il corrispettivo valore al metroquadro. Nei territori in cui risiedono soggetti e classi sociali più “pericolose”, si interverrà invece con mano pesante. Lo strumento è una specie di daspo (la norma per il controllo del tifo calcistico) urbano, un provvedimento di espulsione a disposizione dei sindaci; una ridefinizione del foglio di via, misura di polizia obsoleta, per ottenere l’allontanamento, da una determinata area, di chi viene sanzionato, ora a disposizione dei sindaci, anche per porzioni di quartiere o caseggiato. Con questa trovata, se chi disturba agisce nel proprio territorio di residenza, si troverà impedito nella propria attività dalle forze dell’ordine, mentre sarà espulso se si trova in territori da ripulire e gli sarà impedito in ogni caso di potervi ritornare o semplicemente di transitarvi. Ciò che viene chiamato mantenimento del decoro urbano. Lo scopo è quello di rendere operative forme di collaborazione tra prefetti e sindaci al fine di aumentare il controllo dei territori, rafforzando il potere di polizia dei sindaci. Per attuarlo viene istituito un
comitato metropolitano, composto da prefetto, sindaci e invitati vari (soggetti pubblici e privati), dei quali non si capiscono provenienza e requisiti, che dovrebbe sanzionare le condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione delle infrastrutture in violazione dei diritti di stazionamento. Cosa significa? Semplicemente una gragnuola di multe per coloro che effettuas-
comminata dai vigili urbani, per volantinaggio in zona sensibile, cioè davanti agli istituti scolastici. L’urgente necessità di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori, porta all’autoritarismo, alla sottrazione continua di democrazia sostanziale, cosa del resto ben evidenziata dalle modifiche costituzionali tentate da
ne dei diritti dell’uomo e del cittadino nel 1789, là dove ne aveva colto l’importanza quale garanzia di protezione del cittadino dall’arbitrio, anzitutto dall’arbitrio dello Stato. Da trent’anni a questa parte si va imponendo, invece, una tendenza securitaria, tutta di competenza dello Stato, che accelera con l’approfondirsi della crisi e che riconosce
sero dei blocchi in occasione di scioperi, manifestazioni, con relativo ordine di allontanamento entro 48 ore e, in caso di reiterazione, con divieto di accesso per un periodo da 6 mesi a 2 anni. Altra novità è la possibilità di arresto in flagranza differita per i reati commessi durante manifestazioni pubbliche e rilevati con riprese di telecamere o foto. Viene rafforzata anche la repressione contro l’occupazione di immobili. Si tratta di strumenti autoritari, che sicuramente rafforzano la repressione antioperaia; tuttavia vi è il dubbio che il decreto contenga anche una serie di norme inutili o inattuabili. Semplicemente, per certi aspetti, copre la necessità (unicamente repressiva) di colpire le lotte di lavoratori e masse popolari impoverite. Non è una novità. Chi scrive, ha di recente dovuto sostenere una sanzione amministrativa,
Renzi nel recente referendum, ma anche dalle normative locali (regolamenti, patti civici ecc.), dai poteri di polizia decentrati ai sindaci, che, imperniati sul concetto di sicurezza, nascondono, mascherano l’evidenza che il potere concentrato nelle mani dei (pochi) padroni, a svantaggio di gran parte dei cittadini, non può che produrre insicurezza, tantopiù in tempo di crisi. Si capisce allora che la percezione di sicurezza è condizione soggettiva (di classe) e in queste condizioni storiche ha a che fare con la libertà borghese di concorrenza, di competizione accanita e di sfruttamento senza regole, che produce a sua volta la necessità di rafforzare l’apparato della sicurezza e a disporne le regole di impiego. Loro colpiscono i poveri, non la povertà. A definire la sicurezza urbana come un diritto aveva già pensato la Dichiarazio-
come unica razionalità l’estensione e l’imposizione del sistema di sfruttamento capitalista ad ogni forma di relazione sociale. E qui la distanza dei due concetti si fa incolmabile. Il “prussiano” Minniti (viene da una famiglia di gloriose tradizioni militari) non lascia niente al caso e, due piccioni con una fava, decreta anche in tema di immigrazione. Anche qui, con rito d’urgenza e piuttosto sommario, “semplifica” le controversie relative all’immigrazione, riducendo i margini precedentemente concessi per l’opposizione alle decisioni negative, al fine di ottenere con una certa rapidità dei provvedimenti di espulsione. La logica securitaria, già visibile nel sistema di detenzione dei migranti, un fallimento ormai riconosciuto ad ogni livello, qui si esplica nel contrasto all’immigrazione irregolare, contro la quale
Per il rilascio di tutti i prigionieri politici dalle prigioni di Israele Dichiarazione del Consiglio Mondiale della Pace Il Consiglio Mondiale della Pace esprime la sua profonda preoccupazione sull’accelerazione dell’offensiva del regime di occupazione israeliana in Palestina, con la continuazione degli insediamenti in Cisgiordania, gli arresti e le persecuzioni dei Palestinesi, anche dei bambini e la retorica e gli sforzi per la giudaizzazione di Israele, insieme con l’arrivo ad un punto morto degli accordi per la soluzione del problema Palestinese per colpa della parte israeliana, la quale sta ricevendo pieno sostegno dagli USA e dall’UE. In aggiunta a quanto sopra, lo Stato di Israele sta detenendo più di 6500 prigionieri Palestinesi, tra i quali bambini, donne, parlamentari, attivisti, giornalisti, difensori dei diritti umani, figure politiche, militanti, osservatori e familiari dei prigionieri. La scorsa settimana ha avuto inizio uno sciopero della fame di diverse centinaia di questi prigionieri, sciopero che è ancora in corso. Il Consiglio Mondiale della Pace domanda il rilascio di tutti i prigionieri politici dalle prigioni israeliane ed esprime la propria solidarietà alla loro giusta causa. La lotta del popolo Palestinese per i propri inalienabili diritti ad uno Stato indipendente e riconosciuto con i confini di prima
del 4 giugno 1967 e con Gerusalemme Est come sua capitale insieme con il rilascio dei prigionieri politici e il diritto al ritorno per tutti i rifugiati Palestinesi (in ossequio alla Risoluzione 194 dell’ONU), richiede e merita il nostro pieno sostegno e solidarietà. Esprimiamo nello stesso tempo la nostra solidarietà conseguente con le forze amiche della pace in Israele, le quali lottano contro l’occupazione da parte del regime reazionario e contro l’apartheid come la discriminazione dei cittadini di origine araba. Come Consiglio Mondiale della Pace denunciamo la doppia morale e le ambigue politiche della UE e della maggioranza dei suoi governi che non riconoscono la Palestina come stato indipendente ed emettono risoluzioni o raccomandazioni mentre sono complici dei crimini contro il popolo Palestinese. La segreteria del Consiglio Mondiale della Pace (WPC), 7 maggio 2017 8/5/2017 Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
il governo si è inventato una sorta di diritto speciale, cancellando il ricorso al giudice d’appello. Proprio i Centri di identificazione ed espulsione, Cie, vengono potenziati, allargati e distribuiti sul territorio nazionale, e rinominati Centri di permanenza per il rimpatrio, Cpr. Anche qui il decreto è costellato di norme inutili o inattuabili, che ingarbugliano e burocratizzano i percorsi e le procedure di richiesta asilo o di conferimento dello stato di rifugiato, visto che ogni canale legale di accesso al territorio nazionale (ed europeo) è comunque chiuso e la sola possibilità di scelta è tra presentarsi come richiedente asilo o rifugiato. Gli altri sono solo immigrati economici e, come tali, soggetti ad espulsione. A chi emigra per migliorare le condizioni della propria esistenza viene risposto con la privazione dei diritti della persona e l’immediata consegna al circuito dell’accoglienza. Per ben che vada, al singolo immigrato indifeso toccherà l’intervento del volontariato, altrimenti sarà soggetto all’accoglienza delle organizzazioni criminali, come ben dimostra la vicenda del Cie di Isola Capo Rizzuto. Starà poi alle istituzioni decidere della loro presenza e tollerabilità sul territorio, cioè del loro possibile impiego, affidandoli ai comuni per farne forza-lavoro ultra precaria e a buon mercato. Non solo lavori socialmente (ed economicamente) utili, quindi, ma anche la produzione di un bacino di forza-lavoro precaria, ricattabile sempre, incerta tra l’attesa del permesso di soggiorno e la clandestinità, alla ricerca di un lavoro sottopagato e quasi sempre in nero. La tolleranza nel territorio di questa forza-lavoro sarà regolata dai comuni attraverso la difesa del decoro urbano, un concetto indefinibile, dietro il quale tutto è possibile come il ricorso a provvedimenti quali il Daspo urbano, la risposta securitaria di centrosinistra alle politiche razziste della Lega. Come ben si sa, le istituzioni locali altro non rappresentano che il contraltare delle politiche nazionali ed europee neo liberiste, che hanno bisogno di governare l’insicurezza che esse stesse producono, aumentando la concorrenza tra lavoratori, attraverso graduatorie che discriminino legalmente l’accesso alle istituzioni o alle prestazioni di welfare, sottoponendo alla brutale e permanente minaccia di ulteriore impoverimento una massa di lavoratori informali già impoveriti. A che pro dunque tutto questo? Secondo il presidente Mattarella a far fronte alla necessità di introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori. Quella sicurezza e vivibilità per la quale di recente, a Milano, si è compiuto un vero e proprio rastrellamento in zona stazione centrale, che non ha avuto bisogno del decreto del nostro Minniti. A prendere l’iniziativa, infatti, non ci ha pensato la giunta meneghina, bensì lo stato, attraverso prefetto e questore. Trecento poliziotti, trenta blindati, un elicottero, cani e cavalli come non si vedevano da tempo, si sono portati via centocinquanta migranti, individuati con ogni probabilità dal colore della pelle, che sono stati identificati, trattenuti senza spiegazioni e rilasciati. Minacce, ricatti e soprusi. Tutto fa brodo, nella logica corrente di individuare nel profugo l’elemento di disturbo, la causa del disordine per poter poi procedere con forzature amministrative o di legge, siano esse dello stato o del comune. È chiaro che il governo vuol fare dei profughi un problema di polizia, per evocare la paura e controllare e dominare in piena libertà. Sta ai proletari in tutte le loro componenti respingere l’attacco. L’insicurezza è prodotta dai padroni e dal loro sistema ed è una condizione di vita comune per tutti i lavoratori sfruttati contro la quale dobbiamo agire con le nostre armi di sempre, l’unità e la lotta.
nuova unità 3/2017 4
storia
Lenin e Stalin sulle guerre nell’epoca dell’imperialismo e sulla tattica del bolscevismo A. Ugarov - “Bol’ševik”, 1934 (...) Negli insegnamenti di Lenin e Stalin sull’imperialismo e la rivoluzione proletaria, le questioni della guerra e della tattica del partito proletario nelle guerre dell’epoca imperialista occupano un posto enorme e sono parte inseparabile della teoria del crollo del capitalismo e della transizione rivoluzionaria al comunismo. “I marxisti non hanno mai dimenticato che la violenza accompagnerà inevitabilmente il crollo del capitalismo in tutta la sua portata e la nascita della società socialista. E questa violenza abbraccerà un intero periodo storico, un’intera epoca di una vasta gamma di guerre - imperialiste, guerre civili all’interno dei paesi, intreccio tra queste e quelle, guerre nazionali, di liberazione delle nazionalità oppresse dagli imperialisti, combinazioni diverse di potenze imperialiste...” (Lenin, VII Congresso del PCR(b)). E ancora: “I Socialisti hanno sempre condannato le guerre tra i popoli come un fatto barbaro e bestiale. Ma il nostro atteggiamento verso la guerra è diverso, in linea di principio, da quello dei pacifisti borghesi (sostenitori e predicatori della pace) e degli anarchici. Dai primi ci distinguiamo per il fatto che comprendiamo il legame inevitabile tra guerra e lotta di classe all’interno del paese, capiamo l’impossibilità di eliminare la guerra senza l’abolizione delle classi e l’instaurazione del socialismo, e anche per il fatto che riconosciamo pienamente la legittimità, il ruolo progressivo e necessario delle guerre civili, cioè delle guerre della classe oppressa contro gli oppressori, degli schiavi contro i proprietari di schiavi, dei servi della gleba contro i proprietari terrieri, degli operai salariati contro la borghesia. E dai pacifisti e dagli anarchici, noi, marxisti, ci distinguiamo per il fatto che riconosciamo la necessità dell’analisi storica (dal punto di vista del materialismo dialettico di Marx) di ogni singola guerra”(Lenin, “Il socialismo e la guerra”). Ogni guerra è la continuazione della politica di queste o quelle classi con mezzi violenti. Questo concetto di Clausewitz serve ai comunisti per determinare il carattere di classe di ogni guerra... e per stabilire “quale classe sia al centro di questa o quell’epoca, determinando il suo contenuto principale, la direzione principale del suo sviluppo, le principali particolarità della situazione storica della data epoca ecc.”(Lenin, “Sotto la bandiera altrui”) Le guerre in Europa nel periodo 1789-1871 “erano per la maggior parte legate ai principali “interessi popolari” e precisamente: a potenti movimenti di liberazione nazionale borghesi-progressivi, coinvolgenti milioni di persone, alla distruzione del feudalesimo, dell’assolutismo e dell’oppressione straniera... Su questa base e solo su essa nacque il concetto di “difesa della patria”, difesa della libera nazione borghese contro il Medioevo” (Lenin, “L’opportunismo e il crollo della II Internazionale”). Nel periodo 1871-1914 la borghesia diventa reazionaria, manifesta segni di declino, degrado. È questa l’epoca del “dominio completo e del declino della borghesia, l’epoca del passaggio dalla borghesia al capitale finanziario più reazionario. È l’epoca della preparazione e lenta accumulazione di forze da parte della nuova classe della democrazia moderna” (Lenin, vol. XVIII, p.108). L’epoca iniziata con la guerra del 1914-1918 esprime in maniera completa i caratteri dell’imperialismo. Si acuisce bruscamente il carattere diseguale e conflittuale dello sviluppo capitalistico. La quarta epoca è stata aperta dalla Rivoluzione d’Ottobre: “nel mondo non c’è già più un capitalismo unificato e inclusivo” e “il mondo si è diviso in due campi: il campo del capitalismo, guidato dal capitale anglo-americano e il campo socialista, guidato dall’Unione Sovietica”(Stalin, “Per le conclusioni della XIV conferenza”).
Sulla tattica del bolscevismo nelle guerre imperialiste La tattica dei bolscevichi nelle guerre imperialiste ha ricevuto l’espressione più ampia durante la guerra del 1914-1918. Ma già durante l’intervento imperialista in Cina nel 1900, la guerra russo-giapponese del 1904-1905, Lenin ha fornito un’analisi profonda del carattere imperialista di quelle guerre. “La causa della libertà russa e della lotta del proletariato russo (e mondiale) per il socialismo dipende molto dalle sconfitte militari dell’autocrazia” (Lenin, “La caduta di Port Arthur”). Lo slogan bolscevico della sconfitta del governo
zarista è scaturito dalla valutazione della guerra imperialista per la lotta rivoluzionaria del proletariato e dai compiti dei lavoratori russi nella lotta contro l’autocrazia. Per non tradire la propria causa, il partito proletario rivoluzionario non può rinunciare a continuare la lotta di classe nelle condizioni della guerra e a usare la crisi generata dalla guerra per adempiere il proprio compito storico. “Il proletariato impara l’arte
smo tra la classe operaia nella preparazione di nuove guerre e interventi”. Preparando la guerra, l’imperialismo, stravolgendo ovunque la “legalità”, ricorre al più feroce terrore contro la classe operaia e la sua avanguardia, i partiti comunisti. “... Per preparare nuove guerre, non è sufficiente il solo pacifismo, nemmeno se questo pacifismo è sostenuto da una forza quale la social-
della guerra civile, avendo già iniziato la rivoluzione. La rivoluzione è guerra. È l’unica legittima, giusta e veramente grande tra tutte le guerre che la storia conosca” (Lenin). Dopo l’insurrezione della corazzata Potëmkin, i bolscevichi pongono come compito immediato quello di padroneggiare l’arte e la tecnica della scienza militare, l’arte di organizzare le forze militari della rivoluzione. Lenin e i bolscevichi hanno dimostrato che la fonte delle guerre imperialiste risiede nella natura del capitalismo; che è impossibile condurre una seria lotta contro le guerre imperialiste, senza collegarla alla lotta generale del proletariato per la rivoluzione socialista; che le guerre imperialiste danno luogo a una crisi economica e politica che il partito proletario deve sfruttare per i propri obiettivi rivoluzionari; che il partito che si pone seriamente il fine della lotta contro la guerra imperialista, deve imparare l’arte della guerra civile e deve saper lavorare nell’esercito e nella marina. “I comunisti non separano la lotta contro la guerra dalla lotta di classe, guardando a essa come parte della più generale lotta di classe del proletariato, diretta all’abbattimento della borghesia” (VI Congresso del Komintern). I principali tipi di guerre dell’era moderna sono le guerre controrivoluzionarie dell’imperialismo contro lo Stato socialista e le guerre tra Stati imperialisti per la spartizione del mondo... La linea più importante per smascherare il meccanismo di preparazione alla guerra consiste nella lotta multilaterale, profonda e sistematica contro tutti i tipi di pacifismo. L’Internazionale Comunista distingue vari tipi di pacifismo: a) quello dei governi capitalisti, che preparano una nuova guerra dietro la maschera delle conferenze “sul disarmo”; b) quello piccolo-borghese della II Internazionale, a complemento del pacifismo imperialista con la frase socialista, per assopire la vigilanza del proletariato; c) il pacifismo di alcuni “sinistri”, che cerca di “colpire” la guerra imperialista con frasi rivoluzionarie; c) quello semi-religioso del movimento ecclesiale. Il compagno Stalin ha individuato esaurientemente il ruolo del pacifismo quale arma nella preparazione delle guerre imperialiste: “... Il modo più diffuso di cullare la classe operaia e distrarla dalla sua lotta contro il pericolo di guerra è dato dall’attuale pacifismo con la sua Società delle Nazioni, le prediche sulla “pace”, sulla “proibizione” della guerra, le chiacchiere sul “disarmo” e così via. Molti pensano che il pacifismo imperialista sia uno strumento di pace. È radicalmente sbagliato. Il pacifismo imperialista è uno strumento di preparazione alla guerra e di copertura di tale preparazione con frasi farisee sulla pace. Senza questo pacifismo e il suo strumento, la Società delle Nazioni, la preparazione alla guerra nelle condizioni attuali è impossibile. E la socialdemocrazia è il veicolo principale del pacifismo imperialista tra la classe operaia: di conseguenza, è il principale supporto del capitali-
democrazia. Sono necessari ancora alcuni mezzi per schiacciare le masse nei centri dell’imperialismo. L’imperialismo non può combattere senza rafforzare le retrovie dell’imperialismo. Per fare questo, non v’è che il fascismo” (Stalin,”Questioni del leninismo”). All’inizio della guerra imperialista... il tema centrale dei partiti comunisti nei paesi capitalisti, è lo slogan della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile – la posizione “disfattista” della classe operaia nei confronti del proprio governo. I comunisti non partono però dal punto di vista insensato, che ci imputano i nostri avversari, secondo cui la rivoluzione potrebbe essere scatenata in qualsiasi momento. I comunisti partono dal fatto, di quanto, nella data epoca storica, siano maturi i presupposti per il passaggio dal capitalismo al comunismo e anche dal fatto che la guerra imperialista crea inevitabilmente una crisi economica e politica, da cui scaturisce una situazione rivoluzionaria... Ma i comunisti non si rappresentano in alcun modo la questione in maniera tale per cui una situazione rivoluzionaria sarebbe possibile solo e unicamente con la guerra imperialista e che, “perciò”, ci si debba adoperare per avvicinare la guerra allo scopo di accelerare la rivoluzione proletaria.
nuova unità 3/2017
Guerre nazional-rivoluzionarie dell’epoca dell’imperialismo Una delle caratteristiche principali dell’imperialismo è che esso “accelera lo sviluppo capitalistico nei paesi più arretrati e, con ciò stesso, estende e inasprisce la lotta contro l’oppressione nazionale” (Lenin, “Il programma militare della rivoluzione proletaria”). Naturalmente, da ciò, le colonie non cessano di essere colonie. Lo sviluppo capitalistico delle colonie e semi-colonie significa il loro più estremo sfruttamento, la predatoria spremitura di super-profitti; ma il rovescio della medaglia è “L’apparizione della classe dei proletari, l’emergere della intellighenzia locale, il risveglio della coscienza nazionale, il rafforzamento del movimento di liberazione... Questo è importante per il proletariato nel senso che mina radicalmente le posizioni del capitalismo, trasformando le colonie e i paesi dipendenti da riserve dell’imperialismo in riserve della rivoluzione proletaria”(Stalin). I comunisti difendono il diritto delle nazioni oppresse alla autodeterminazione fino alla secessione. Durante la guerra del 1914-1918 Lenin formulò esaurientemente l’atteggiamento dei bolscevichi verso l’autodeterminazione delle nazioni. La II Internazionale risolveva tutte queste questioni a favore dell’imperialismo. Ma su tali questioni c’era non poca confusione anche tra gli elementi di sinistra del socialismo internazionale (Rosa Luxemburg, Karl Radek) tendenti al bolscevismo e anche tra gruppi di bolscevichi (Bukharin, Piatakov, e altri). Luxemburg negava la stessa possibilità di guerre nazionali nell’epoca dell’imperialismo, il che portò alla negazione dello slogan della difesa della patria non solo nella guerra
imperialista, ma anche nella lotta delle nazioni oppresse contro l’imperialismo. (...) I comunisti di quei paesi imperialisti che fanno guerra alle colonie, devono organizzare la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, garantendo la sconfitta del proprio governo... La rivolta del Rif contro l’oppressione imperialista nel Marocco spagnolo (1921-1926) ha dimostrato quale forza possente racchiuda nell’epoca moderna l’insurrezione nazionale contro l’imperialismo, anche in un piccolo paese. La guerra tra Afghanistan e Gran Bretagna nel 1919 ha dimostrato che è impossibile combattere con successo per l’indipendenza politica senza l’organizzazione di una guerra rivoluzionaria contro l’imperialismo. “La rivoluzione kemalista è possibile solo in paesi come Turchia, Persia, Afghanistan, dove non esiste o c’è poco proletariato industriale e dove non c’è una potente rivoluzione agrario-contadina...”(Stalin, “Su l’opposizione”). Nel 1927, il compagno Stalin, valutando le prospettive della rivoluzione cinese, scriveva: “O la borghesia nazionale sconfigge il proletariato, entra in accordo con l’imperialismo e con esso marcia contro la rivoluzione, per stabilire il dominio del capitalismo. Oppure il proletariato spinge da parte la borghesia nazionale, consolida la propria egemonia e conduce dietro di sé milioni di lavoratori di città e campagna per superare la resistenza della borghesia nazionale, ottenere la vittoria completa della rivoluzione democratico-borghese e trasformarla poi nella rivoluzione socialista”.
Sulle guerre dello Stato proletario Già nel 1915 Vladimir Ilič scriveva “Lo sviluppo economico e politico diseguale è una legge assoluta del capitalismo. Ne consegue che la vittoria del socialismo è possibile dapprima in alcuni o anche in un solo paese capitalistico. Il proletariato vittorioso di questo paese, dopo aver espropriato i capitalisti e organizzato la produzione socialista, si solleverebbe contro il resto del mondo capitalista, attirando alla propria causa le classi oppresse degli altri paesi, sollevandole all’insurrezione contro i capitalisti e, in caso di necessità, ricorrendo anche alla forza militare contro le classi sfruttatrici e i loro Stati”(“Sulla parola d’ordine degli Stati uniti d’Europa”). L’instaurazione della dittatura del proletariato è inevitabilmente accompagnata dalla resistenza decuplicata della borghesia rovesciata, che organizza rivolte, attentati terroristici contro il socialismo vittorioso. E per il fatto che la rivoluzione proletaria infrange il fronte del sistema mondiale di dominio del capitale, la vittoria del proletariato in un solo paese provoca inevitabilmente “il tentativo diretto della borghesia degli altri paesi di schiacciare lo Stato proletario socialista vittorioso”(Lenin, “Il Programma militare della rivoluzione proletaria”). Le guerre del proletariato sono nella loro essenza rivoluzionarie. Per non tradire se stesso, i suoi compiti di classe, il proletariato può condurre solo guerre rivoluzionarie di liberazione. Una volta conquistato il potere, la classe operaia acquisisce la propria patria socialista, che è allo stesso tempo la patria dei lavoratori di tutto il mondo. Da quel momento la classe operaia e la sua direzione – il Partito Comunista – diventano “difensisti”, i campioni più ardenti della difesa della patria per respingere gli attacchi dell’imperialismo mondiale. In determinate condizioni storiche, il proletariato non rinuncia a guerre rivoluzionarie offensive... Sarebbe tuttavia sbagliato considerare la guerra rivoluzionaria contro l’imperialismo, l’unico principio della tattica del proletariato vittorioso in un singolo paese. Ciò equivarrebbe alla negazione trotskista della teoria leninista sulla possibilità della vittoria del socialismo in un solo paese; sarebbe sbagliato e dannoso pensare che la rivoluzione proletaria vittoriosa debba por fine immediatamente al dominio della borghesia in tutto il mondo con una guerra rivoluzionaria, oppure essere destinata alla sconfitta. Vladimir Ilič insistette per la firma della pace di Brest, partendo dalla necessità di preservare il potere sovietico a ogni costo, dato che “non potrebbe esserci sventura più grande, ora, per la causa del socialismo, della rovina del potere sovietico in Russia”.
Riproposto da “La via operaia” (https://work-way. com) - traduzione e sintesi di Fabrizio Poggi
5
attualità
Venti di guerra
È necessaria una battaglia senza quartiere per “liberare l’umanità dagli orrori, dalle calamità, dalla crudeltà, dalla barbarie che oggi regnano” (Lenin 1915) Daniela Trollio (*) Soffiano, come non mai, venti di guerra sul nostro pianeta. Ma sono venti di intensità diversa… Sullo scorso numero di “nuova unità” una lettrice denunciava il fatto che mai si parla della guerra – ignorata, più che dimenticata - in corso da anni nello Yemen. Ci sono anche la Somalia, il Corno d’Africa, il Mali, il Sahel, senza parlare del Medio Oriente e delle tensioni nell’est dell’Europa (già, perché la guerra non è poi così lontana da noi). Possiamo dividere, grossolanamente, le guerre – minacciate, dichiarate, non dichiarate, militari convenzionali, combattute direttamente dall’imperialismo o delegate ai servi “locali”, economiche, striscianti – in due tipi, che sono comunque intimamente legati tra loro: guerre per la rapina delle materie prime e dei mercati e guerre indispensabili dal punto geostrategico per mantenere la posizione dominante dell’impero su interi continenti. Non a caso i territori con la maggiore concentrazione, in quantità e qualità, di risorse naturali, sono i punti dove si dispiega la più grande violenza, sotto tutte le forme prima ricordate. L’Africa è un esempio chiarissimo, un continente in perenne caos, sbranato dai grandi capitali: il suo territorio concentra circa l’81% delle riserve globali di cromo; il 50% dei giacimenti di cobalto, il 52% delle riserve di manganese e il 13% di quelle di titanio. Materiali tutti di vitale importanza per la produzione di macchinari in generale, di leghe metalliche indispensabili alle industrie delle telecomunicazioni, aerospaziali, militari. Non parliamo poi del petrolio, del gas, dell’acqua (la Libia sta seduta sulla più grande riserva di acqua dolce del continente). Vi sono poi questioni di “bassa” lega: se l’industria che più “tira” è quella della produzione e vendita degli armamenti, vanno stimolate – per unire l’utile al dilettevole – tutte quelle situazioni che permetteranno non solo di svecchiare gli arsenali, ma di continuare a fare profitti astronomici producendole e vendendole. Se non ci fossero guerre, le più grandi potenze del mondo, dagli USA alla Russia, alla Cina, all’Europa, cadrebbero in una crisi senza precedenti (solo come esempio: nel bilancio del “piccolo” Belgio del 2015 la vendita di armi all’Arabia Saudita valeva circa 600 milioni di euro). Occorrerebbero quindi molte pagine per riassumerle tutte, queste guerre che insanguinano il nostro pianeta. Visto che tante pagine non abbiamo, vorremmo concentrarci su quelle “guerre” che ogni giorno appaiono, non a caso, sulle prime pagine dei giornali. In ordine di tempo: la Siria, la Corea del Nord e il Venezuela.
La Siria deve essere fatta a pezzi Dopo l’ottimo - per l’imperialismo USA e per quello europeo - risultato raggiunto sulla pelle del popolo jugoslavo con quella che oggi chiamiamo “balcanizzazione”, strategia che ha portato all’annientamento di popoli come quello iracheno e libico, restava la Siria, paese laico che – come i precedenti – viveva una condizione di relativa armonia tra varie religioni, aveva un alto tasso di alfabetizzazione e educazione, uno stato sociale di buon livello. L’ultimo “cattivo” esempio della regione. Dopo la Siria, nei piani dell’amministrazione Bush, doveva venire l’Iran: fatti a pezzi e ridotti in piccoli protettorati questi paesi, si sarebbe così assicurata la supremazia di Israele – gendarme degli USA in Medio Oriente -su tutta la regione. E il territorio siriano e i dintorni hanno una particolare ubicazione geostrategica, da cui passa necessariamente il petrolio e il gas che si producono nella regione. Nel 2009 Assad annuncia l’accelerazione della
“strategia dei quattro mari”, il cui obiettivo è trasformare il paese in un nodo del trasporto di gas e petrolio tra Golfo Persico, mar Nero, Mediterraneo e Caspio. La Siria è già attraversata dal Gasdotto Panarabico che connette l’Egitto con la Libia. Peccato mortale: Arabia Saudita e Qatar sono pronti a rimpiazzarla e a sostituire la Russia nella fornitura di energia all’Europa. Inoltre la Siria è ormai l’ultimo paese della regione fuori dall’influenza della NATO: distruggerla permetterebbe agli USA di assicurarsi il controllo militare di tutto il Le-
sione per recuperare lo status di potenza mondiale; - impedire che il gasdotto siriano cada in mano ad Arabia Saudita e Qatar significa mantenere un’arma di ricatto nei confronti dell’Europa che la sta accerchiando con le basi militari installate nei suoi ex paesi satelliti; - la base militare di Tartus concessa alla Russia è per essa essenziale. Molti dimenticano chi è Vladimir Putin: una figura rappresentativa dell’alleanza tra borghesia e oligarchi che si sono spartiti la Russia e che controllano i mezzi di
dare il via alla distruzione del nostro pianeta. E la stampa egemonica di tutto il mondo, italiana compresa, si è data abbondantemente da fare in questo senso. Curioso il fatto che nessuno si sia ricordato di aver scritto poco tempo fa – senza aver usato una sola parola di riprovazione - della bomba (nucleare) MOAB, la “madre di tutte le bombe” recentissimamente usata in Afganistan dagli USA, democratico paese unico al mondo, finora, ad aver già utilizzato
vante. Per assicurarsi il raggiungimento dell’obiettivo, oltre alla guerra guerreggiata, vengono così ad arte costruiti gruppi di ogni genere come il Daesh, si fa risorgere al-Qaeda, si rispolvera l’organizzazione dei mujhaidin; in una parola quel “terrorismo islamico”, che arriva anche in Europa e che permette a tutti i paesi europei di infrangere le regole di Bruxelles in nome della “guerra al terrore”, portando le nostre società ad un livello di militarizzazione difficilmente già visto e facendo schizzare alle stelle le spese militari in generale, assicurando lauti profitti a produttori di armi, agenzie di sicurezza, ecc. e dando un ottimo, ulteriore, pretesto ai governi del capitale per tagliare quanto resta dei nostri diritti… e del nostro futuro. Ovviamente questi sono solo alcuni tratti schematici del perché il popolo siriano patisce da circa 6 anni. Ed è in questo quadro che si inseriscono anche le, ahimé solite, menzogne già usate con più o meno successo nei confronti di Saddam Hussein e di Muhammar Gheddafi: armi di distruzione di massa mai trovate, attacchi chimici contro il proprio popolo, atrocità contro i bambini (i bambini uccisi dai “dittatori” commuovono sempre; molto meno lo fanno quelli ammazzati dalle nostre bombe umanitarie, dalla fame, dalla miseria, annegati nel Mediterraneo o lasciati a languire e morire lentamente nei campi di concentramento costruiti lungo le rotte di chi fugge dalla guerra).
produzione privatizzati e quelli rimasti pubblici; ex primo ministro di Boris Yeltsin, uomo “d’ordine” gradito agli occidentali perché serviva a “contenere” i comunisti rimasti; nel 2001 chiese l’ingresso della Russia nella NATO e ha permesso – tra il 2012 e il 2015 – l’uso della base aerea di Uliànovsk (città natale di Lenin) agli USA per trasportare carichi durante l’aggressione all’Afganistan. Va ricordato inoltre che la Russia è il secondo produttore mondiale di armi. È anche tutto da dimostrare che in un mondo multipolare i rischi di guerra siano minori: durante l’esistenza dell’URSS quanti invasioni, guerre, colpi di stato ci furono? Il mondo non era precisamente un’oasi di pace. Una cosa è ritenere che le “contraddizioni interimperialiste” possano alleggerire la pressione dell’imperialismo su paesi che lottano per liberarsi, altra è pensare che “il nemico del mio nemico è mio amico”, antico proverbio – pare - cinese ma non certo desunto dalla teoria marxista, alle cui categorie sarebbe meglio rifarsi.
in varie occasioni proprio l’arma nucleare (da Hiroshima a Nagasaky, alla “taglia margherite” in Afganistan fino alla MOAB, per quello che sappiamo). La RDPC, invece, non ha mai aggredito né minacciato alcun paese, dopo aver ottenuto a prezzo di sangue la sua indipendenza con la sconfitta del Giappone nella 2° Guerra Mondiale. A 64 anni dalla fine della Guerra di Corea, nata su una menzogna che sopravvive ancor oggi, l’impero non ha perdonato ai coreani del nord di averli battuti e, per ricordarglielo, da decenni ogni anno avvengono poderose manovre militari congiunte tra USA, Giappone e Corea del Sud davanti alle loro coste (altro fatto che la stampa venduta si guarda bene dal ricordare). E non solo: sono stati usati tutti i mezzi “pacifici” come provocare carestie, imporre sanzioni economiche durissime, impedire e sanzionare gli investimenti stranieri e l’accesso ai mercati stranieri, fino all’installazione permanente di basi militari e missilistiche sul 38° parallelo. Nei piani per un Nuovo Ordine Mondiale diretto dalle multinazionali USA e dai loro governi, democratici o repubblicani che siano, l’accerchiamento della Cina, pericoloso rivale che commercialmente ha già superato gli USA, passa per la Corea. Ma il popolo coreano, evidentemente, non ha dimenticato il prezzo di sangue pagato meno di una generazione fa: 635 mila tonnellate di bombe lanciate sul suo territorio (in tutto il Pacifico, Giappone compreso, gli USA durante la 2° Guerra Mondiale ne usarono 503 mila tonnellate) e 32 mila tonnellate di napalm, causando la morte del 20 per cento della popolazione.
Fischi per fiaschi La guerra alla Siria mette in luce anche uno strano atteggiamento di parte della sinistra rivoluzionaria. Scambiando quelle che una volta si chiamavano “contraddizioni interimperialiste”, alcuni trasformano la Russia, nella persona di Vladimir Putin, in un campione di anti imperialismo. È vero che la Russia sostiene al-Assad, ma: - in un Medio Oriente quasi interamente nelle mani dell’imperialismo americano e dei suoi soci, la Siria è un’ottima occa-
Atomiche e vecchi merletti: la Corea del Nord Un altro esempio di guerra, annunciata, strombazzata, ma per il momento non dichiarata, è quello della Corea del Nord. In altra parte di questa pagina potete leggere articolo di Sergio Rodríguez Gelfenstein, ex ambasciatore del Venezuela, sui precedenti storici e sulle annose trattative tra Corea del Nord e Stati Uniti sulla questione delle atomiche. Qui sottolineeremo solo alcuni aspetti. È vero che la Repubblica Democratica Popolare di Corea ha una capacità di reazione atomica, cosa che paesi come Iraq, Libia, Afganistan, Siria non avevano e, come il noto linguista e filosofo Noam Chomsky ricorda spesso, gli Stati Uniti attaccano solo paesi indifesi e mai quelli che hanno una capacità di risposta militare. Allora conviene presentare come pericolosi pagliacci i governanti di Pyongyang, psicopatici in possesso dell’arma che potrebbe
Venezuela: un esempio da cancellare Dal 1999, il Venezuela bolivariano è l’obiettivo di una serie di azioni di guerra strisciante che, con l’esplosione di violenza di quest’ultimo periodo, ricordano altre esperienze latinoamericane (e non
solo) come quella ormai cinquantennale di Cuba, il Cile di Allende, il Nicaragua sandinista. Da quell’anno si sono registrati, nell’ordine, un golpe civico-militare (2002); due scioperi economici totali (2002 e 2003); quattro ribellioni violente (dette “guarimbas”: 2004, 2013, 2014 e 2017). Fin dall’arrivo al potere di Hugo Chàvez, la guerra al popolo venezuelano si è sviluppata su vari fronti. Quello economico, diretto dal grande capitale internazionale e locale, per produrre una spirale inflazionistica che facesse salire sempre più i costi della capacità di acquisto dello Stato dei beni di prima necessità – principalmente generi alimentari e medicinali. Una carenza cronica programmata, cui si affiancano le azioni di piazza, i saccheggi, gli attacchi ai centri di stoccaggio di viveri e medicinali, i blocchi delle vie di distribuzione delle merci, gli attacchi agli ospedali e alle Missioni sanitarie (in cui sono stati assassinati 4 medici cubani), l’accaparramento e lo sviamento delle merci verso la vicina Colombia con la complicità aperta delle bande paramilitari colombiane, oltre alle manovre finanziarie per causare la svalutazione della moneta venezuelana e l’embargo applicato agli investimenti stranieri. Il tutto in una situazione di depressione – programmata anch’essa con l’aiuto dell’Arabia Saudita – del prezzo del petrolio, quel petrolio che costituisce una delle più grandi, se non la maggiore, riserva al mondo e che la rivoluzione bolivariana usa per migliorare le condizioni di vita e di lavoro del suo popolo. Sul piano politico, i venezuelani sono andati alle urne quasi ogni anno riconfermando la loro fiducia al governo rivoluzionario bolivariano, con la destra che mai ha riconosciuto i risultati elettorali, costruendo così l’immagine di una “dittatura”. Sul piano mediatico con una selvaggia demonizzazione ripresa da tutti i media del mondo, di tale “dittatura”. E siamo così arrivati, in questi mesi, al piano militare. Bande armate e perfettamente organizzate - ed equipaggiate come si può vedere persino nelle immagini che vengono trasmesse per sostenere tale demonizzazione. In una parola, come prevedono i manuali della CIA già applicati in altre “rivoluzioni arancioni”, la creazione del caos sociale, una guerra civile, la dissoluzione nazionale di uno stato e, quindi, l’intervento più o meno “umanitario” delle grandi potenze, in questo caso i vicinissimi USA. Quello che assesterebbe una controrivoluzione trionfante nella Patria di Bolivar sarebbe un duro colpo ai processi di cambiamento in Bolivia, Ecuador, Nicaragua, El Salvador, all’ALBA nel suo insieme e, naturalmente, a Cuba. Come abbiamo visto molto schematicamente, ci sono tante forme di guerra. Ma c’è una regola ferrea: il capitalismo non può esistere senza la guerra, che è la prosecuzione delle politiche imperialiste. La massimizzazione del profitto la rende inevitabile. Ed è la situazione concreta cui ci troviamo di fronte anche noi, ogni giorno. La lotta che tutti noi conduciamo ogni giorno sui luoghi di lavoro, nei quartieri, nei territori, contro lo sfruttamento, contro l’oppressione, contro la distruzione del futuro dei proletari e del pianeta, è quindi, necessariamente, anche una lotta contro chi semina i venti di guerra che stanno travolgendo il nostro mondo, una battaglia senza quartiere per “liberare l’umanità dagli orrori, dalle calamità, dalla crudeltà, dalla barbarie che oggi regnano”, come scriveva Lenin nel lontano 1915.
CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni
nuova unità 3/2017 6
attualità
Da dove viene il pericolo? La RPDC ha o no il diritto di proteggersi?
Sergio Rodríguez Gelfenstein (*) Durante il VII Vertice dell’OEA+Cuba celebrato a Panama nel 2015, dopo lo straordinario intervento del presidente Rafael Correa, il suo collega statunitense Barak Obama affermò che non era utile ricordare la storia. La Colombia era già arrivata al principio del governante della maggiore potenza mondiale, e fin dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso la cattedra di storia era sparita quale materia obbligatoria dai programmi di studio dell’insegnamento medio di questo paese. I nuovi libri per l’insegnamento della materia riflettono “poca profondità e articolazione tra i temi” secondo un articolo pubblicato nell’agosto 2015 dal giornale El Espectador di Bogotà. In materia di educazione forse non c’è niente di meglio per le classi dominanti che cancellare la storia per fare delle nuove generazioni enti intellettualmente amorfi che non sappiano capire l’origine dei problemi che colpiscono i loro paesi e il mondo. Obama, un accademico della prestigiosa università di Harvard, sapeva perfettamente di cosa parlava a Panama: in fondo non stava facendo altro che sollecitare noi latinoamericani e caraibici a dimenticare il rosario di soprusi e barbarie commessi dal suo paese negli ultimi duecento anni. Questa riflessione mi è tornata in mente osservando i già consueti fatti che accadono nella penisola coreana, fatti che continuano a ripetersi con maggiore o minore intensità da molti anni. Come sempre si fabbricano modelli di opinione che fanno dimenticare l’origine dei problemi, ponendo il centro degli stessi in luoghi e fatti reali o no, a seconda dell’interesse delle potenze. Sembra che ci si dimentichi che l’inizio del “problema coreano” non sta nel possesso di armamento nucleare da parte della Repubblica Popolare Democratica di Corea (RPDC), che è un fatto relativamente recente, ma nella presenza ingiustificata nel sud di uno dei maggiori contingenti militari al mondo degli Stati Uniti. Nel decennio dei ’50 del secolo scorso, gli Stati Uniti riuscirono a “vendere” la loro versione sul fatto che la guerra di Corea aveva avuto inizio a partire dall’aggressione al Sud da parte dell’esercito del Nord, quale espressione della politica di espansione dell’Unione Sovietica. È la prima assurdità, un paese non aggredisce se stesso, e bisogna ricordare che la linea di frontiera fu imposta dalle potenze ai coreani del nord e del sud dopo le conferenze del Cairo (1943), di Yalta (1945) e di Potsdam (1945), quando già era finita la guerra in Europa e solo pochi giorni prima che gli Stati Uniti lanciassero la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Ai coreani nessuno chiese nulla. Come risultato di queste decisioni nel nord si stabilì un governo popolare, mentre l’Unione Sovietica aveva una presenza discreta nel paese, mentre al sud il generale statunitense John R. Hodge rifiutò la decisione dei comitati di resistenza di Seul che propugnavano l’indipendenza di tutta la penisola. Hodge creò un Consiglio di Consulenza
- formato da giapponesi e collaborazionisti, nessuno dei quali parlava coreano - che costituì un “Consiglio Democratico Rappresentativo” scelto da lui, che impose un governo fascista diretto da Syngman Rhee, che aveva vissuto 37 anni del totale dei suoi 60 negli Stati Uniti. Nel 1946 l’ONU, diretta dagli Stati Uniti, organizzò elezioni nel sud: le bande terroristiche distrussero gli oppositori a Rhee e commisero circa 600 assassinii politici, il che portò ad un trionfo della destra, con l’avallo dell’ONU. Nel 1948 scoppiarono due ribellioni nel sud, a Yosu e Cheju Do. Nelle nuove elezioni del 1950 era evidente che Rhee sarebbe stato sconfitto. Gli Stati Uniti capirono che l’unico modo di impedirlo era tramite un intervento militare. In questa situazione nacque l’offensiva
nord e l’esercito reazionario di Syngman Rhee, l’avanzata delle truppe sotto il comando di Kim Il Sung ebbe un successo travolgente arrivando quasi ad ottenere la vittoria finale, fino a che le forze armate degli Stati Uniti appartenenti alla VII Flotta acquartierate in Giappone intervennero direttamente, senza l’autorizzazione dell’ONU che dovette accettare il fatto compiuto per salvare le apparenze, creando un contingente militare con truppe di 15 paesi, con la Colombia unico paese latinoamericano che vi partecipò fornendo 5.100 soldati dei 140 mila del contingente internazionale, che si unirono ai 480.000 degli Stati Uniti. Le forze armate statunitensi fermarono l’attacco coreano ed iniziarono l’offensiva per sconfiggere e far sparire il governo di Kim Il Sung; ma l’opportuna presenza
repressivo. Ma le forze militari statunitensi non abbandonarono la penisola e fino ad oggi restano come forze di occupazione al sud e come minaccia alla stabilità politica del paese e della regione. Se teniamo conto che gli Stati Uniti mantengono 28 mila soldati in 85 basi militari in Corea e 50 mila soldati in 109 basi militari in Giappone, comprese navi con armamento nucleare, è comprensibile che qualsiasi paese – in questo caso la RPDC – prenda misure per salvaguardare la sua difesa, soprattutto se si considera l’aggressività della politica estera degli Stati Uniti e l’innegabile fatto storico di essere stati l’unico paese ad aver lanciato bombe atomiche su città inermi, quando il Giappone era virtualmente sconfitto nel 1945. Naturalmente nessun paese dovrebbe
del Nord sul Sud, per unificare la nazione in un solo paese: tutte le informazioni successive dimostrano che la guerra di Corea non beneficiò l’Unione Sovietica, soprattutto perché impedì che all’appena creata Repubblica Popolare Cinese fosse assegnato il posto che, per giustizia, le competeva all’ONU e soprattutto nel Consiglio di Sicurezza. Oltretutto questo conflitto significò per i sovietici lo spostamento di importanti risorse necessarie alla propria difesa, dopo la creazione della NATO nel 1949. Nello svolgimento del conflitto militare, mentre questo si sviluppava tra forze del
di una grande forza militare cinese impedì lo sfruttamento del successo iniziale da parte USA. Il gigante asiatico era preoccupato della possibilità dell’estensione del conflitto sul suo territorio, con l’ossessiva minaccia del generale MacArthur di prolungarlo, anche con l’uso dell’atomica, cosa che obbligò il presidente Truman a destituirlo nell’aprile del 1951, il tutto nel bel mezzo dell’isteria anticomunista fatta scoppiare negli Stati Uniti dal senatore Joseph McCarthy. Rhee fu destituito nel 1960, dopo grandi manifestazioni popolari e studentesche che misero fine al suo brutale governo
avere armi nucleari e men che meno usarle, ma questo fa parte dell’ipocrisia internazionale, che rimane muta davanti ai programmi nucleari di Israele, Pakistan e India ma mette in piedi uno scandalo per la stessa situazione in Corea o in Iran. Se si deve applicare la legge internazionale, che lo si faccia allo stesso modo con tutti. Perché la RPDC non può sviluppare il suo programma nucleare difensivo mentre la comunità internazionale tace quando Israele fa lo stesso? Nel 1994 la RPDC firmò un accordo con l’Amministrazione Clinton col quale accettava la chiusura dei reattori di Yon-
Attenzione è cambiato il numero del cc postale Il nuovo numero è: nuova unità, Firenze, 1031575507
nuova unità 3/2017
gbyon e l’abbandono della costruzione di due centrali nucleari. Accettò anche un accordo con l’Organismo Internazionale dell’Energia Atomica perché questo effettuasse le sue ispezioni. Da parte loro gli Stati Uniti si impegnarono a normalizzare le relazioni diplomatiche ed economiche con Pyongyang, a togliere le sanzioni e a fornire due reattori ad acqua leggera che non potessero essere usati a scopi militari. Questo accordo provocò la reazione dei settori guerrafondai degli Stati Uniti che portarono all’annullamento dell’accordo. Nel 1999 la pazienza di Pyongyang si esaurì e il paese riprese l’attività nucleare. Nel giugno del 2000 venne celebrato a Panama lo storico Vertice tra le due Coree. I due presidenti firmarono un accordo per lavorare congiuntamente alla riunificazione del paese. Nel 2003 venne effettuato il primo giro di negoziati, con la partecipazione di Cina, Russia, Stati Uniti, Giappone e le due Corre e, nel febbraio 2004, durante il secondo giro, Pyongyang accettò di mettere fine al suo programma di proliferazione nucleare, sempre che le venisse assicurato che gli Stati Uniti non facessero rappresaglie. Gli Stati Uniti non si presero neanche il disturbo di dare una risposta. Nel 2007, dopo 4 anni di negoziati, la RPDC accettò di chiudere l’ultimo reattore nucleare che era operativo a Yongbyon in cambio di aiuti internazionali. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU celebrò tale decisione, mentre tutti gli anni gli USA e la Corea del Sud continuavano a realizzare gigantesche manovre militari e navali con la partecipazione di armamenti nucleari puntati verso la RPDC. Ventotto anni dopo la fine della Guerra fredda, le armi degli Stati Uniti continuano ad esser dirette contro la RPDC, ma questo modo di incentivare il conflitto è diretto anche contro Cina e Russia, che hanno rifiutato il dispiegamento del sistema antimissile THAAD in territorio sudcoreano, che minaccia direttamente la forza balistica nucleare di dissuasione delle due potenze. Viste così le cose, potremmo domandarci: da dove viene il pericolo? Chi sta minacciando chi? La RPDC non ha dato sufficienti prove di voler risolvere il conflitto attraverso negoziati? La RPDC ha o no il diritto di proteggersi? Giudica tu, rispettato lettore da: rebelion.org; 25.4.2017 (*) Analista internazionale, ex Direttore delle Relazioni Internazionali della Presidenza della Repubblica Bolivariana del Venezuela (traduzione di Daniela Trollio CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)
7
rassegna stampa
Notizie in breve, maggio 2017 1° Maggio
per ringraziare questi paesi per la solidarietà nella lotta per la sua liberazione.
Francia: a Parigi scontri durante la manifestazione, cui hanno partecipato circa 800.000 persone, con 4 poliziotti feriti. Cortei sono stati organizzati in 311 città francesi con la partecipazione, secondo il Ministero dell’Interno, di 142 mila persone. Germania: nella città di Apolda, nell’est del paese, durante la manifestazione non autorizzata, sono state arrestate 100 persone. Turchia: scontri con la polizia in Piazza Taksim, a Istambul; durante la manifestazione che era stata proibita; la polizia ha effettuato circa 200 arresti.
Atene, Grecia 19 maggio
Nuovi, violenti, scontri di fronte al parlamento che sta votando le nuove misure di austerità. Migliaia di persone, dopo i lanci di gas lacrimogeni da parte della polizia per disperdere la manifestazione, vi hanno partecipato
Montevideo, Uruguay 21 maggio
Atene, Grecia 2 maggio
Partono una serie di nuove misure secondo l’accordo firmato dal governo Tsipras con la troika. Il taglio delle pensioni sarà del 18% e colpirà 900.000 pensionati. Le pensioni medie, che ora sfiorano i 700 euro, cadranno così a 560. Al via anche una nuova serie di privatizzazioni, con la vendita prevista di miniere di carbone, che producono circa il 40 per cento della capacità elettrica, che ora passerà in mani private. Il governo venderà anche il 66 per cento della società di distribuzione del gas DESFA.
Vanderberg, USA 3 maggio
L’aviazione statunitense ha annunciato oggi il lancio del missile Minuteman III dalla base di Vanderberg, stato della California. Il missile porta con sè un’ogiva nucleare ed è stato lanciato sull’atollo di Kwajalein, nelle isole Marshall, a più di 6000 km. di distanza dalle coste nordamericane. Si tratta della seconda prova missilistica, la prima è avvenuta una settimana fa. base. Minuteman III ha una capacità nucleare e una portata di 12.000 km. Secondo la società costruttrice Boeing, gli Usa ne possiedono circa 450.
Londra, Inghilterra 4 maggio
Il Comitato degli Affari Esteri della Camera dei Lords pubblica un rapporto in cui critica la politica estera del governo di Theresa May. Il documento analizza le relazioni con l’Iran, raccomanda che il Regno Unito si assicuri che il programma iraniano di disarmo nucleare continui e sottolinea la necessità di trovare canali di finanziamento per l’Iran, al di là delle politiche degli USA. Il Comitato chiede inoltre maggiore controllo e trasparenza sull’uso che l’Arabia Saudita sta facendo dell’armamento britannico nello Yemen. Il documento termina quindi sottolineando la necessità di trovare una soluzione pacifica alla guerra in Siria che coinvolga il presidente Bashar al-Assad, oltre a criticare il ruolo avuto dal paese durante la “Primavera Araba” e l’atteggiamento nordamericano sul conflitto Israele-palestinesi.
Israele 5 maggio
Mazen al Mograbi è la prima vittima dello Sciopero della Dignità e della Libertà: nonostante fosse stato scarcerato per le sue pessime condizioni di salute, egli ha voluto partecipare allo sciopero della fame in corso tra i prigionieri palestinesi (vi partecipano già 1.500 tra uomini e donne). Il governo israeliano intanto si prepara anch’esso all’anniversario della Nakba: è stata notificata alle agenzie di viaggio la proibizione dell’ingresso dei turisti in tutta la Cisgiordania.
Guantànamo, Cuba 7 maggio
Durante il 5° Seminario della Pace e per l’abolizione delle Basi Militari Straniere che si tiene nella città cubana, il presidente del Centro Brasiliano di Solidaretà con il Popoli Antonio Barreto ha affermato che gli USA hanno più di 800 basi militari presenti in tutti i continenti, basi “che rappresentano una minaccia per l’umanità ed hanno come protagonista l’imperialismo statunitense”. Egli ha inoltre proposto che il 28 febbraio diventi la Giornata Mondiale per la Chiusura delle Basi Militari Straniere.
Tel Aviv, Israele 8 maggio
Il comitato ministeriale legislativo della Knesset ha approvato un progetto di legge che definisce Israele “focolare nazionale del popolo ebraico”, in cui solo tale popolo ha il diritto all’autodeterminazione. Il quotidiano Haaretz definisce in un editoriale questo progetto come “la pietra angolare dell’apartheid”
Buenos Aires, Argentina 10 maggio
In risposta alla recente decisione della Corte Suprema di dimezzare le pene di “lesa umanità” ai genocidi della dittatura, cinquecentomila persone hanno “invaso” oggi Plaza de Mayo e le strade parallele, fino alla sede del Congresso, tutte con al collo il fazzoletto bianco simbolo delle Madres, fazzoletti donati dagli operai di una fabbrica tessile. Faceva da sfondo alla piazza un enorme striscioni con la scritta “Nessun genocida libero. Signori giudici: nunca màs” (mai più).
Sanaa, Yemen 13 maggio
Come risposta al previsto viaggio di Donald Trum in Arabia Saudita, migliaia di yemeniti sono scesi oggi in piazza per protestare contro l’ingerenza e l’appoggio di USA e Israele all’Arabia Saudita che sta conducendo una guerra genocida nello Yemen. Dal marzo del 2015 il conflitto ha ucciso più di settemila persone e ne ha ferite 37 mila. Secondo l’Onu 21 milioni di persone hanno bisogno di cure e 2 milioni soffrono di malnutrizione. Nel novembre 2016 l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva inoltre dichiarato che nel paese rischiava di scoppiare un’epidemia di colera, cosa puntualmente verificatasi data la distruzione delle infrastrutture del poverissimo Yemen da parte dei sauditi.
Londra, Inghilterra 13 maggio
Inviato speciale di The Guardian a Caracas, oggi il giornalista Mark Weisbrot intitola così il suo articolo: “La verità sul Venezuela: una rivolta dei ricchi, non una campagna di terrore”. L’articolo prosegue: “I mezzi di comunicazione principali hanno già informato del fatto che i poveri del Venezuela non si sono uniti alle proteste dell’opposizione di destra, ma questo è un eufemismo: non si tratta solo dei poveri che non partecipano, ma a Caracas sono quasi tutti, ad eccezione di poche zone ricche come Altamira, dove piccoli gruppi di manifestanti partecipano a battaglie notturne contro le forze di sicurezza, tirando pietre e bombe incendiarie”.
Portorico 17 maggio
Dopo 36 anni di prigione negli USA, condannato per cospirazione per i legami con le Forze Armate di Liberazione Nazionale di Porto Rico (FALN) - organizzazione che lottava per l’indipendenza dell’isola, territorio trasformato in colonia USA dal 1898 – oggi Oscar Lòpez Rivera. che ha 74 anni ed è il più ‘antico’ prigioniero politico dell’America Latina, è “libero e indomabile”. Per ben 12 anni è rimasto in detenzione solitaria, senza contatti con l’esterno e senza mai incontrare i suoi familiari. Tra le prime cose che farà, ha detto, sarà organizzare un viaggio a Cuba, Nicaragua e Venezuela
memoria
Sétif, Algeria 8 maggio 1945
Nelle stesse ore in cui si festeggia la sconfitta della barbarie nazista, - in un lontano villaggio algerino il generale Raymond Duval, per ordine del generale Charles De Gaulle, insieme all’esercito coloniale composto fondamentalmente da senegalesi e con l’appoggio dei mercenari della Legione Straniera , inizia una campagna repressiva che durerà solo 5 settimane e servirà a mettere la Francia, solo per questo fatto, nella stessa lista di stati genocidi in cui, con tanta ragione, si metteva la Germania nazista. Nel villaggio di Sétif, nella regione di Costantina, al centro dell’Algeria, gli abitanti stanno manifestando non solo per festeggiare la vittoria su Hitler – poichè l’Algeria, come molte altre colonie francesi, ha contibuito con circa 150 mila uomini a questa vittoria – ma anche per chiedere la fine dello stato coloniale che la Francia aveva imposto loro dal 1830. Quel giorno migliaia di algerini, sfidando l’autorità del sottoprefetto Butterline, si mobilitano con bandiere algerine, cartelli con parole d’ordine come “Algeria Libera”, o chiedendo la libertà del leader indipendentista Messali Hadj e cantando l’inno nazionalista Min Djibalina (Dalle nostre montagne). Butterlin da l’ordine di disperdere i manifestanti, che resistono; cominciano i primi scontri che, secondo le autorità, faranno 100 morti francesi, anche se si parla dei primi 1.500 morti algerini. La rivolta si estende alle località vicine di Guelma, Biskra, Hueso, Kherata y Constantino. A Guelma avvengono le prime detenzioni extragiudiziali, seguite da esecuzioni sommarie degli algerini. Con un coraggio mai dimostrato contro i nazisti, De Gaulle ordina di reprimere le popolazioni civili di Sétif, Guelman e Kherrata, in nome di “Un’Algeria francese”. Duval non si perde in dettagli e per tutte le 5 settimane spiana villaggi, fucila e tortura, fa violentare donne, massacrare bambini e ogni volta che incontra civili rifugiati in caverne, le fa tappare perchè non possano più uscire e muouiano soffocati o gli da fuoco. Navi dell’armata bombardano le coste di Kherata e le località costiere di Achas, Le Scogliere e Mansouria. La popolazione è obbligata a rifugiarsi sulle montagne, dove una squadriglia di 18 aerei si incarica di sterminarla. La “eroica” campagna di Duval lascia circa 50 mila vittime civili. L’operazione di “caccia all’arabo” – come la chiamano i coloni francesi – da parte dell’esercito francese contro un popolo inerme che non chiedeva altro che la sua indipendenza e che aveva aiutato a liberare dal nazismo la stessa Francia – dà fuoco alla miccia di quella che, pochi anni dopo, si sarebbe cominciata a chiamare Guerra d’Algeria.
In una fredda serata, in silenzio come fanno da 22 anni, migliaia di uruguayani hanno sfilato per le strade della capitale – e in altre città - ripetendo il nome dei 192 desaparecidos di cui non si ha alcuna notizia, nonostante la dittatura sia caduta nel 1985. Oscar Urtasun, dell’organizzazione dei Familiari dei detenuti desaparecidos, ha sottolineato che ci sono solo 30 carcerati di una dittatura che per 12 anni assassinò, fece sparire e torturare migliaia di persone. Egli ha affermato che “non può esistere una giustizia per i ricchi e una per i poveri, un criterio per giudicare i crimini dei militari ed uno per gli altri”.
Canale di Sicilia, Italia 24 maggio
La ong Migrant Offshore Aid Station (Moas) informa che oggi almeno 31 migranti – in maggior parte bambini - sono morti nel naufragio di una lancia nel canale di Sicilia. Secondo la Guardia Costiera italiana sulla lancia viaggiavano circa 500 persone. I dispersi sono centinaia.
Brasilia, Brasile 24 maggio
Altra tappa di lotta dopo lo sciopero generale del 28 aprile, il più grande nella storia del paese. Secondo vari mezzi di comunicazione, cominciano ad arrivare nella capitale moltissimi lavoratori per prendere parte ad una manifestazione che chiederà la rinuncia del presidente, non eletto, Michel Temer e le elezioni dirette di un nuovo presidente, dopo che è stata resa pubblica una rete di corruzione e bustarelle in cui Temer è implicato. I lavoratori rifiutano inoltre le proposte di tagli al sistema pensionistico ed ai diritti del lavoro. Si ritiene che saranno circa 70.000 i lavoratori che arriveranno nella capitale, con 500 autobus da tutte le regioni. Intanto la Segreteria di Sicurezza Pubblica del Distretto Federale sta dando il via al piano di sicurezza per la giornata, che contempla il divieto di portare bottiglie, bastoni di bandiere, oggetti taglienti e mezzi di protezione dai gas lacrimogeni.
Bruxelles, Belgio 24 maggio
Città blindata, strade evacuate sul percorso, 3.000 poliziotti, un centinaio di agenti lussemburghesi e 400 membri del servizio di sicurezza: così inizia la visita di Donald Trump a Bruxelles. 10.000 persone, secondo le stime dello polizia, si sono invece riversate nelle strade della città per dire a Trump che “non è benvenuto in Europa”.
Brasilia, Brasile 25 maggio
Pattuglie della Truppa Speciale della polizia hanno attaccato la manifestazione pacifica di decine di migliaia di persone contro Temer. La polizia ha utilizzato anche armi da fuoco, i feriti fino ad ora sono 49. Sono state impegate anche camionette camuffate, lanciate a tutta velocità contro i manifestanti. Dopo le cariche, sono state dispiegate anche pattuglie delle Forze Armate, circa 1.500 uomini dell’Esercito e della Marina, in base ad un decreto del presidente, definito persino dal capo del partito di Temer stesso “una cosa insensata”.
nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) anno XXVI n. 3/2017 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Emiliano, Michele Michelino, Luciano Orio, Fabrizio Poggi, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 001031575507 intestato a: nuova unità - Firenze Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine Chiuso in redazione: 20/05/17
nuova unità 3/2017 8