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Periodico comunista di politica e cultura n. 1/2017 - anno XXVI
A Pietroburgo, a Mosca, nelle città e nei centri industriali, il comportamento delle donne proletarie durante la rivoluzione fu superbo. Senza di loro, molto probabilmente non avremmo vinto V.I.Lenin
Non si “umanizza” il capitalismo È proprio la più grande rivoluzione, la Rivoluzione d’Ottobre - quest’anno cade il 100 anniversario - a testimoniare che è possibile costruire un sistema senza padroni Nei primi giorni di gennaio è gunta la notizia che nel mondo 8 uomini, da soli, posseggono 426 miliardi di dollari, la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta, ossia 3,6 miliardi di persone. È dal 2015 che l’1% più ricco dell’umanità possiede più del restante 99% e l’Italia non fa ecccezione. Stando ai dati del 2016 l’1% della popolazione possiede il 25% della ricchezza nazionale netta. Di fronte a queste cifre non c’è bisogno di grandi analisi per capire che l’attuale sistema capitalista accumula le risorse nelle mani di una oligarchia finanziaria e industriale ai danni della popolazione - in maggioranza donne - ma non ci viene comunicato che questa ricchezza è prodotta dal plusvalore del lavoro salariato ed è la fonte della disuguaglianza. All’interno di questo sistema, quindi, non c’è spazio per i lavoratori e le masse popolari e la borghesia, per mantenere il suo status, non può fare altro che usare lo sfruttamento e l’oppressione. Non c’è modo di “umanizzare” il capitalismo né richiedere una “più equa” distribuzione delle risorse. Il capitalismo non si divide in buono o cattivo, è nemico della classe lavoratrice, è in una crisi senza via d’uscita e la logica conseguenza è il suo abbattimento. È l’unica via per uscire, dallo sfruttamento e dalla miseria. Eppure questa considerazione non è ancora assimilata dalla massa operaia che dovrebbe prendere in mano la propria liberazione, anzi sono ancora troppi coloro che pensano di non poter vivere senza padroni. Invece sono proprio i padroni che non possono vivere senza gli operai! È proprio la più grande rivoluzione, la Rivoluzione d’Ottobre - quest’anno cade il 100 anniversario - a testimoniare che è possibile costruire un sistema senza padroni. Malgrado la temporeanea vittoria della borghesia imperialista con la dissoluzione dell’Urss, la storia degli ultimi anni insegna che il capitalismo non riesce comunque a dare una prospettiva di vita all’umanità. Tutte le promesse della borghesia sul progresso e il benessere all’indomani della caduta del muro di Berlino si sono dimostrate solo illusioni. Anzi il massacro sociale delle masse popolari si è enormemente amplificato. Al posto della cosiddetta guerrra fredda si sono sviluppate vere e proprie guerre imperialistiche, di spartizione neocoloniale di intere aree con conseguenze catastrofiche per le popolazioni e per l’ambiente. L’opera della borghesia di attacco ideologico, politico e militare per distruggere il pericolo sovietico è iniziato subito e continua anche oggi per minare la sua capacità propulsiva nei confronti delle masse diseredate. Nel nostro paese, oltre al Vaticano e ai vari partiti reazionari come DC, PSI ecc. questo attacco è stato favorito proprio dal PCI, il partito più insospettabile in questo ruolo. Dopo aver tradito le ragioni della Resistenza lasciando la direzione della ricostruzione del dopo guerra ai capitalisti - molti dei quali compromessi con il fascismo -, l’amnistia, il concordato con la chiesa, l’affidamento a settori come quello poliziesco e giudiziario ai fascisti, è arrivato al compromesso storico accettando l’”ombrello protettivo” della NATO - che oggi ha in mano tutte le guerre - ha fatto il suo percorso di subordinazione al capitalismo, al neonato imperialismo europeo, all’alleanza militare atlantica, fino a farlo diventare l’attuale PD. Subordinazione cui non si sono sottratti gli altri partiti della cosiddetta sinistra nati negli ultimi anni, né i sindacati confederali che hanno diffuso solo politiche rinunciatarie condizionando il movimento operaio e portandolo alle attuali condizioni. Condizioni di disarmo e sconfitta, di accettazione delle peggiori condizioni di lavoro, con contratti continuamente al ribasso, e di vita in nome della crisi e del “siamo tutti nella stessa barca”. Non siamo tutti nella stessa barca, lo sono il proletariato e le masse popolari, che non hanno nulla da condividere con i padroni e i loro servi manager né con la cosiddetta casta. Chiediamoci come mai in tanti hanno l’aspirazione a fare politica, intendendo quella parlamentare governativa e negli enti locali, non certo per servire il paese come molti osano persino affermarlo. Ecco perché ci sono tante ruberie, corruzioni e traffici con i faccendieri di turno. Non per servizio verso la cittadinanza o il proprio elettorato ma al servizio, questo sì, degli interessi del capitalismo, per assicurare il proprio futuro di privilegi. Non si spiegano altrimenti le decisioni economiche e politiche che prendono e che ricadono tutte sulla popolazione. I governi, veri e propri comitati d’affari della borghesia, hanno permesso a migliaia di imprese di delocalizzare all’estero per pagare meno la manodopera e aumentare i profitti lasciando la qualificata classe operaia per strada alla ricerca di un’occupazione qualunque per sopravvivere. Condizione che diventa competizione con gli immigrati e sulla quale soffiano i gruppi fascisti e la destra governativa. La distruzione delle forze produttive per i proletari diventa maggiore povertà e disperazione mentre per i capitalisti si trasforma in aumento della ricchezza, della competitività nei confronti dei concorrenti, un aumento generale del profitto attraverso gli accordi internazionali, la penetrazione nelle operazioni di guerra per ingrandire gli affari, aiutati nell’accapparramento delle commesse dal proprio governo e dallo Stato. Business is business e quindi ben vengano i commerci con i paesi più reazionari. Due esempi per tutti: la Turchia - dove solo nei primi due giorni di febbraio sono stati arrestati 40 militanti del Partito Comunista (TKP) - e l’odiato regime di Erdogan continua la strage di Kurdi, un genocidio che fa comodo all’UE e alla Nato di cui fa parte, è un ottimo cliente e partner affidabile
per la vendita delle armi per chi come Mauro Moretti, attuale AD della Leonardo (Finmeccanica), è appena stato condannato (poco) per la strage di Viareggio. In Baharain dove, nel silenzio della solidarietà internazionale, la repressione degli oppositori passa dagli arresti arbitrari alla censura dei giornali, fino alle torture e la pena di morte. Qui il commercio è nelle mani dell’Eni che recentemente ha firmato l’accordo con le compagnie petrolifere baharinite, con la cooperazione di aziende italiane come Technip, fino ad offrire alla monarchia locale scambi e collaborazione culturale dell’Italia che tace sulla violenza della monarchia al potere. Mentre il grande capitale fa grandi profitti ai proletari restano i cosiddetti ammortizzatori sociali che, con il pretesto della crisi, ora vengono ridotti aggravando ulteriormente le condizioni di vita. La diminuzione dei sussidi anno dopo anno, l’eliminazione della mobilità sostituita dalla Naspi apre la porta al lavoro nero, al lavoro a qualunque condizione alimentando sempre di più la concorrenza in seno al mondo del lavoro. Un grande esercito di riserva di disoccupati pronti a tutto per sopravvivere. Una massa ignorata dai sindacati confederali (forse perché non sono più in grado di pagare la tessera?) e che, per il loro schieramento con gli interessi capitalistici del fare i sacrifici nel bene del paese e coerenti con la loro politica del dividere le varie vertenze in aziendali e settoriali, boicottando ogni tentativo di coordinamento e di unificazione delle lotte, evitano di organizzarli in un fronte di lotta con gli occupati. Il nostro lavoro di comunisti non è facile, ma deve proseguire nella lotta contro l’opportunismo e la nuova socialdemocrazia ingannatrice, per l’unità dei lavoratori e degli immigrati sfruttati ora anche dall’istituzione del lavoro gratuito chiamato (LSU) con la quale viene reinserita la schiavitù, se lavori gratis bene altrimenti torni nel tuo paese, che rischia di innestare nuove forme di razzismo. È anche così che la borghesia e i suoi governi creano conflitti all’interno della classe lavoratrice al fine di ridurre il valore della sua forza e continuare a ricattarla attenuando la lotta di classe. Forse ci vuole ancora molto tempo per arrivare alla presa di coscienza della classe operaia e della propria capacità rivoluzionaria, ma non c’è altra strada che indirizzare e organizzare il proletariato verso la distruzione del capitalismo, delle sue basi materiali e della sua sovrastruttura per avere giustizia sociale.
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DONALD TRUMP, IL NUOVO RAPPRESENTANTE DEL GENDARME MONDIALE pagina
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SENTENZA VIAREGGIO: LA LOTTA NON SI FERMA! INTERVISTA CON RICCARDO ANTONINI
8 MARZO. SCIOPERO DELLE DONNE O DELLA CLASSE? QUALI PIANI USA PER IL PACIFICO ORIENTALE?
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lavoro/repressione
La provocazione e la trappola ordita da Levoni e dalla questura di Modena contro il Sicobas e il suo coordinatore nazionale crolla sotto la mobilitazione dei lavoratori Aldo Milani ci parla dell’infamante accusa e molto altro
Michele Michelino Il 26 gennaio, durante una trattativa sindacale a Modena, viene arrestato in diretta per “estorsione” Aldo Milani, coordinatore nazionale del Sicobas. Come prova dell’infamante accusa di aver intascato bustarelle in cambio della pace sociale, la questura fa trasmettere su tutte le tv uno spezzone di pochi secondi, senza audio, in cui si vede uno scambio fra Levoni, grosso industriale delle carni, e un uomo in giacca e cravatta seduto a fianco di Milani (un certo Piccinini, consulente di Levoni) che prende una busta e dopo averla intascata fa il segno delle manette. La trappola scatta e Milani è arrestato. Subito le edizioni di tutti i massmedia alimentano la macchina del fango riportando con grande enfasi la notizia dell’arresto di due sindacalisti del Sicobas, facendo apparire il consulente del padrone come un iscritto al Sicobas. Appena si sparge la notizia dell’arresto di Aldo Milani, centinaia di “facchini” aderenti al Sicobas scendono in sciopero contro il tentativo di criminalizzazione del loro coordinatore nazionale e del sindacato, e nelle ore successive centinaia di lavoratori della logistica, insieme a altri proletari e compagni solidali con lui, assediano il carcere di Modena, dove è rinchiuso Milani. Arrivano attestati di solidarietà (pochi per la verità) a Milani e al Sicobas da parte di altre organizzazioni, mentre alcuni sindacati, compresi quelli di base, per opportunismo o paura si dissociano dal Sicobas prendendo per buone le accuse della questura e, altri dubbiosi delle dichiarazioni della questura, aspettano di vedere come finirà per prendere posizione. Il giorno dopo il suo arresto, il 27 gennaio, la montatura si sgonfia e Aldo Milani viene scarcerato. Ad attenderlo all’uscita del carcere centinaia di lavoratori e compagni. Per conoscere meglio i fatti riportiamo l’intervista rilasciata da Aldo a “nuova unità”. Aldo, dopo i fatti che ti hanno visto finire in galera e la montatura sul tuo arresto, molti si sono chiesti “ma come hanno fatto a farti cadere nella trappola? Come l’hanno preparata?” Rispondo agli sciocchi perché qualcuno ha detto “o è un coglione o è uno che ha accettato di essere corrotto”. Io non sono un corrotto e non sono un coglione. La vicenda si è svolta in questi termini: noi avevamo in corso una vertenza non con Levoni, ma con la Bellentani un’azienda sempre del settore delle carni, dove questo Piccinini (quello della bustarella) concorre con altri due fornitori per questa azienda. Precedentemente, al nostro coordinatore in luogo era stato presentato Piccinini come un “lavoratore buono”; io invece in un’assemblea generale dissi che Piccinini non era poi tanto buono perché era già stato condannato ad 1 anno e 8 mesi in seguito a denunce fatte da noi e il suo capo era stato condannato a 7 anni e 8 mesi. Quindi la mia posizione su questo signore era abbastanza chiara. Questo signore, essendo venuto a sapere dai delegati che mi ero espresso in questi termini, mi scrisse un’email dicendo che lui era cambiato dopo l’esperienza fatta 4 anni prima, e che aveva messo in piedi un’associazione di sostegno ai bambini siriani colpiti dalla guerra, che non era un eroe ma che, in piccolo, anche lui faceva
delle cose. In seguito si fece vivo perché c’era un problema che riguardava questo appalto (la Bellentani). Non vinse lui l’appalto, vinse l’altra cooperativa e facemmo l’accordo con l’altra cooperativa, il migliore accordo in assoluto. Migliore in termine qualitativo, perché per 40 anni tutti i lavoratori delle carni che erano presenti sul territorio non avevano mai avuto un accordo specifico degli alimentaristi. Fino a quel momento c’erano stati accordi che riguardavano le pulizie e altro, ma che non il lavoro specifico. In varie riunioni in Prefettura, cui ho parte-
nel pomeriggio. Io non sono mai intervenuto a Modena ma, vista l’assenza di rapporti sindacali col padrone che non voleva vedere gli altri operatori del Sicobas, decisi di andare, dopo aver frettolosamente discusso con i lavoratori una serie di passaggi. Il nostro errore, se così si può dire, è stato di non essere abbastanza informati delle soluzioni possibili dal punto di vista sindacale, al di là della questione fondamentale dei licenziati. Inoltre c’era in ballo una somma cospicua dal punto di vista economico per le vertenze legali che avevamo fatto, con una prima udienza fa-
senza che io ne sapessi niente, il signor Levoni nomina suo consulente Piccinini, e gli dà 10.000 euro in quanto tale, che lui registra nella contabilità della sua azienda. Tutto regolare… soldi dati al suo consulente. In più gli affida la gestione di una cooperativa a Udine per conto della Levoni. Ecco instaurato il rapporto tra Levoni e Piccinini.
cipato con altri nostri compagni, anche l’ispettore dell’Ispettorato del Lavoro ha sempre sostenuto che si trattava dell’accordo più giusto, quello degli alimentaristi. Però non l’hanno mai applicato. Ma l’accordo c’era, ottenuto grazie agli scioperi del 90% dei lavoratori dell’azienda che ogni giorno hanno scioperato. Avevamo raggiunto il risultato e questo, secondo noi, è stato l’elemento dirompente. Piccinini concorreva anche per l’appalto alla Levoni dove erano stati licenziati 55 operai della cooperativa precedente. Per questo i lavoratori, non io, gli chiesero se, nel caso l’avesse vinto, avesse assunto i licenziati. Piccinini disse di sì, ma chiese che anche i lavoratori facessero un po’ di pressioni con Levoni perché lui ricevesse l’appalto. Noi rispondemmo che Levoni non voleva parlare con noi, che si rifiutava di incontrare i lavoratori, che facesse lui pressione per ottenere almeno un incontro con i lavoratori. I Levoni sostennero che l’incontro l’avrebbero fatto informalmente solo con me, Aldo Milani, in quanto coordinatore nazionale del SiCobas, perché con gli altri operai che stavano scioperando il clima era troppo teso. Inoltre avevano visto dei video e mi consideravano una persona “seria”. Io andai a questo incontro il pomeriggio, quello in cui mi hanno arrestato anche se non dovevo andarci perché nello stesso orario avevo un incontro alla Fercam di Parma. Fu Piccinini ad insistere perché ci fossi in quanto (secondo lui) più autorevole nell’indicare alcuni passaggi, prima che si incontrassero i legali nei primi giorni di febbraio. Allora non sapevo che al mattino, quando gli operai avevano circondato la macchina dei Levoni, questo impaurito, aveva detto ai lavoratori che si sarebbe incontrato con me
vorevole ai lavoratori. C’era anche aperto il problema dei lavoratori licenziati per i quali la cooperativa non aveva pagato i contributi, per cui non avevano diritto alla NASPI (1). ln un primo incontro il 12 dicembre, avevo prospettato un accordo se si rispettavano certe questioni. Allora chiesi due cose. Dal momento che c’erano due vertenze contrattuali perché non unirle invece che andare davanti a un giudice una prima volta, e poi dopo un mese una seconda per due cause simili che potevano essere unificate. Quindi chiesi che i rispettivi avvocati si incontrassero per unificare le due cause. Il nostro obiettivo è arrivare a una soluzione, perché secondo quanto dicevano i lavoratori si continuava a lavorare, mentre i Levoni sostenevano il contrario. Levoni, nel frattempo, aveva spostato la scarnificazione della carne e il 20% lo faceva venire dalla Spagna, giustificando così i 55 licenziamenti avvenuti in due reparti. La carne trattata, però, risultava carne italiana. Ho fatto presente che questo è illegale, e che noi avremmo tutelato i lavoratori, facendo anche delle denunce. Tuttavia, se nel frattempo Levoni avesse aperto altri reparti, noi proponevamo di fare una graduatoria in modo da assumere per primi gli operai licenziati. Inoltre avevo chiesto un esodo, un incentivo di almeno 12 mensilità più la Naspi che per ottenerla, Levoni doveva versare ancora tre mensilità per ogni lavoratore, circa 100 mila euro, perché la cooperativa non aveva versato tre mesi di contributi. Altro problema di cui abbiamo discusso: dato che la cooperativa non aveva pagato i contributi e i licenziati non avevano diritto alla NASPI, abbiamo chiesto a Levoni che pagassero loro i 3 mesi necessari per usufruirne. Questo il primo incontro, dopo il quale,
ma non il sonoro. Eppure il giorno dopo quando il giudice, dopo aver ascoltato anche il sonoro ti ha scarcerato, solo in pochissimi hanno pubblicato un trafiletto per darne conto, gli altri hanno bellamente ignorato il fatto. I lavoratori del SiCobas e pochi compagni solidali (noi di “nuova unità” tra quelli) hanno denunciato subito che la trappola non era solo un attacco a te, ma anche un segnale e un attacco a tutto il movimento anticapitalista che si muove fuori dalle “compatibilità” del sistema. Sapevi che i tuoi compagni erano scesi subito in lotta per la tua scarcerazione? Come giudichi la loro risposta? Cosa pensi del fatto che tanti, troppi sindacati e organizzazioni varie – per opportunismo? Per convenienza? – si sono “bevuti” le veline della questura? Quali altri provvedimenti ha preso la magistratura contro di te?
Sull’accusa infamante di aver preso bustarelle subito tutti i media – giornali, TV ecc. – hanno dato grande risalto trasmettendo solo le immagini registrate dello scambio di buste tra Levoni e Piccinini
Sì, immaginavo che i miei compagni avessero capito la trappola che mi avevano teso e pensavo che avrebbero reagito all’attacco all’organizzazione. Adesso, dopo la scarcerazione per mancanza di indizi, ho fatto ricorso rispetto alla privazione della libertà di movimento - non posso muovermi da Milano - impostami dalla Procura. È una misura punitiva. Ad esempio, per andare dal mio avvocato a Bologna, mi hanno dato 4 ore tra andata e ritorno. Il mio avvocato, ritiene che - viste tutte le carte - ho il 90% di possibilità di essere completamente scagionato e quindi poi di essere libero di muovermi su tutto il territorio nazionale fino al processo, che comunque ci sarà. Io ritengo invece, al contrario, che al 90% non succederà così, nonostante che la provocazione abbia avuto caratteristiche molto maldestre e provinciali, per com’è stata fatta e poi gestita.
Non è tanto un problema di prove, ritengo che vogliano cercare di limitare l’attività del sindacato e, secondo me, andranno fino in fondo su questa linea. Il motivo è che noi siamo andati a rimestare sul serio nella merda. Nella regione i DS hanno i nervi scoperti, perché Modena rappresenta il centro di tutti i settori industriali: dalla carne (5.000 dipendenti), ai mattoni, alle porcellane, ai metalmeccanici ecc. All’interno di questi settori, nei mesi precedenti, ci sono stati almeno una ventina di scioperi - anche della CGIL nel settore delle carni -, e non hanno concesso né a noi né a
loro il contratto di categoria. Ma noi siamo riusciti a entrare all’interno della Levoni, con 200 iscritti su 200 lavoratori. È chiaro che per loro questo significava mettere in discussione una questione che non è soltanto il rapporto operai/padroni/ stato. Lì c’è tutta l’organizzazione capitalistica, che va dall’impiegato comunale al consigliere comunale, al consigliere regionale, al parlamentare o al poliziotto ecc. Tutto è strettamente legato all’organizzazione e gestione dell’ex PCI, ora PD, che oggi sta scricchiolando. Questi accordi stanno cominciando a mettere in discussione questo assetto e si tratta di risultati ottenuti con un solo modo: la lotta. Oltre al tuo arresto, ci sono stati altri provvedimenti repressivi contro altri lavoratori del SiCobas? Sì da tutte le parti. Stando arrivando denunce che cercano di colpirci non solo dal punto di vista legale, ma anche finanziario ed economico. Abbiamo una denuncia per cui dovremmo pagare 200.000 euro alla CALT per uno sciopero; 70 denunce a Piacenza per la CEVA e altre ancora. Oltre ai provvedimenti penali verso l’organizzazione, stanno colpendo personalmente ogni lavoratore che ha partecipato ad una lotta. Tre giorni dopo che sono uscito dal carcere all’Interporto di Bologna è stata fatta una riunione del cosiddetto “tavolo della legalità”, per combattere mafia e camorra. Ma l’Emilia Romagna è piena di mafiosi e camorristi proprio in questo settore. A questo “tavolo della legalità” è stato formulato un accordo tra padroni, questurini e sindacati confederali CGIL-CISL-UIL per arrivare ad una posizione comune di denuncia da parte dei confederali di quelle azioni che loro
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ritengono violente, illegali. I padroni sostengono inoltre che – dato che uno sciopero fatto alla DHL arreca danni a tutto l’interporto – le denunce vanno fatte non solo là dove concretamente si sciopera, ma anche da parte di tutti gli altri settori “danneggiati”. Denunce non solo contro l’organizzazione sindacale, ma anche segnalazioni alla DIGOS – come se ogni fornitore disponesse di una sua polizia “privata” – di tutti i lavoratori individuati come agitatori. Nel dispositivo della mia denuncia si sostiene che io manderei in giro degli agitatori a fare gli scioperi e poi chiederei eventualmente la parte economica. Questa è la loro tesi: dimostrare che lo sciopero è un’estorsione. Lottare per il salario e per i diritti, per i padroni è un’estorsione. In realtà è il diritto di sciopero che vogliono mettere in discussione. Il capitalismo acuisce la concorrenza fra lavoratori e scompone la classe operaia, mette operai disoccupati contro gli occupati, i precari contro gli stabili, i dipendenti pubblici contro i privati. Nelle lotte economiche e sindacali dei lavoratori della logistica, invece, si assiste a fenomeni di ricomposizione di classe, fra operai/e italiani e stranieri e, nonostante le difficoltà e la repressione padronale e dello Stato, quest’unità di classe ha prodotto dei risultati nella lotta contro lo sfruttamento capitalista e per ripristinare i diritti umani. In queste lotte i lavoratori hanno scioperato e manifestato in modo più o meno cosciente, riconoscendosi come appartenenti alla stessa classe. Tu come vedi il discorso della solidarietà di classe? Si può estendere dalle cooperative agli altri settori operai e proletari? Io credo che avvenga anche per linee sociali. Prendiamo l’esempio di Modena: nella media azienda il 40% è formato da immigrati, e così è anche nella metallurgia, nella chimica ecc. L’esperienza che si fa non viene solo attraverso il volantino o l’intervento dell’organizzazione sindacale o politica, ma attraverso la conoscenza di quel tipo di lotte e, quindi, si diffonde. Almeno per quanto riguarda l’area del Nord avviene così un processo di allargamento della lotta. Inoltre c’è un elemento che molte vediamo solo sul piano statistico e mai dal punto di vista dei processi che mette in moto realmente. La crisi ha messo in movimento situazioni particolari. Facciamo un esempio: la DM di Bologna, 40 lavoratori che lavoravano in cooperativa, in due anni sono stati messi fuori dal processo lavorativo. Lo stesso nel settore metalmeccanico, ci siamo trovati di fronte a lavoratori iscritti alla FIOM che ci contrastavano e non permettevano – alleati al loro padrone – che noi facessimo assemblee nella loro fabbrica. Un anno e mezzo dopo, gli stessi lavoratori della FIOM vengono a iscriversi al SiCobas perché buttati fuori dall’azienda: c’è la crisi e il loro sindacato non ha saputo dare la risposta adeguata per contrastare questo processo. Certamente la crisi fa sì che oggettivamente avvengono queste cose, si creano condizioni più favorevoli, ma ci vuole anche l’aspetto soggettivo,
Morti per esposizione all’amianto alla Franco Tosi di Legnano Tutti assolti anche in appello gli ex manager. Le parti civili costrette a pagare le spese processuali Michele Michelino Il 24 gennaio 2017 ancora una volta un’ingiustizia si è compiuta. Al danno si è aggiunta la beffa. La Quinta Sezione penale della Corte d’Appello del Tribunale di Milano ha assolto i manager della Franco Tosi di Legnano dall’accusa di omicidio colposo per la morte di 34 operai causata l’esposizione all’amianto, perché non hanno “Nessuna responsabilità per la morte degli ex operai”. I 33 ex lavoratori morti per mesotelioma pleurico e uno per carcinoma dei polmoni non avranno nessuna giustizia. Nell’aprile 2015 il giudice della quinta sezione penale del Tribunale di Milano Manuela Cannavale aveva scagionato gli otto imputati, con le formule “perché il fatto non sussiste” o “per non aver commesso il fatto”. Per il tribunale i lavoratori, che secondo l’accusa, si erano ammalati di mesotelioma pleurico per aver lavorato negli anni ‘70 e ‘80 alla Franco Tosi avrebbero si respirato polveri di amianto, ma per il giudice, come aveva scritto nelle motivazioni, questa “tragedia non può e non deve essere risolta sul piano penalistico”. Ora questa interpretazione è confermata dalla V sezione della Corte d’Appello del Tribunale di Milano che addirittura va oltre. Per e per la prima volta vengono ”punite” in modo esemplare le associazioni che hanno sostenuto l’accusa, rimaste nel processo, Medicina Democratica e l’Associazione Italiana Esposti Amianto condannati pure a pagare le spese processuali. Come scrivono le associazioni in un loro comunicato “Ormai la decisione politica del tribunale di Milano è un segnale chiaro: questi processi non si devono più fare. Le associazioni che insistono per ottenere giustizia per le morti operaie devono seguire altre strade (solo cause civili) o saranno punite al pagamento delle spese processuali”. Il Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio parte civile in vari processi al fianco di Medicina Democratica e AIEA e il Coordinamento Nazionale Amianto composto da una ventina di associazioni e comitati, “mentre esprime la sua solidarietà militante alle vittime e alle associazioni punite, ricorda che lotta per ottenere giustizia per le vittime dell’amianto continuerà e che le associazioni non si faranno intimorire da queste decisioni antioperaie”.
la capacità di interpretare - anche se con molte difficoltà - questi processi. Un’organizzazione come la nostra ha questa caratteristica e, potenzialmente, è già un’organizzazione “internazionalista” perché è formata anche da operai che provengono da vari paesi, ma è incapace di proiettarsi su un piano nazionale. Quindi non è che non ci sia ideologicamente la volontà di unificare, c’è però la formazione dei quadri che sono molto legati all’aspetto aziendalistico-territoriale. Ecco perché bisogna fare un salto di qualità. Noi vediamo in queste lotte, almeno dove siamo presenti, a Bologna e in altri luoghi, che abbiamo almeno 15/20 lavoratori immigrati che sono loro stessi gli operatori sindacali in queste situazioni, nel senso che cominciano a formarsi dei quadri con un’idea molto più ampia di quella della visione solo aziendale. Io stesso, in tutte le riunioni, ho sempre calcato non solo sugli aspetti aziendali o contrattuali, ma che le loro erano lotte contro il capitalismo nelle sue varie forme, semplicemente, non in maniera ideologica, ma per far vedere quello che realmente è. Oggi viviamo in un momento in cui la lotta di classe è latente. La mancanza di un’organizzazione di classe (politica e sindacale) fa sì che gli stessi operai non riescano più a riconoscersi come appartenenti alla stessa classe sociale. Ormai anche nel lessico comune non si parla più di padroni, ma di datori di lavoro; non più di operai e proletari, ma di risorse umane. Si parla sempre più di società civile, di battaglie per la parità di genere, di diritti dei “cittadini” in generale. Le lotte dei “facchini”, dei lavoratori della logistica, ripropongono con forza il protagonismo della classe operaia. Tuttavia, anche le lotte economiche vincenti (sempre più rare) riportano di attualità il problema del rapporto fra lotta economica e lotta politica. In parte hai già risposto, affermando che si sta formando con fatica un’avanguardia, ma questo fenomeno avviene in tutto il SiCobas? Questo sta da sempre nella mia concezione teorica, ma praticamente sta avvenendo anche nel SiCobas. Certo, io non voglio sentirmi Napoleone, ma credo di aver avuto un ruolo in questa direzione. In ogni caso l’oggettività spinge anche in questa direzione e ci sono settori di lavoratori che non si accontentano più di andare a dire “il facchino non ha paura” nello scontro con la polizia e il capitale, ma cominciano a porsi il problema di come mai un’azienda, dopo che si è raggiunto il miglior contratto possibile, viene chiusa. Cominciano a riconoscere che questo è il capitalismo, e quindi a porsi il problema di come battersi contro questa forza. Hanno magari meno legami col passato e più una tradizione di lotta, che va strutturata e organizzata meglio. Per me l’ultima manifestazione, quella del 4 febbraio, è stata meravigliosa come risultato finale ma ha dimostrato anche un caos organizzativo e la nostra incapacità a gestire quel tipo di processo. Si è avviato spontaneamente, anche come risultato di una serie di esperienze già fatte e quindi
un po’ più strutturate. Non dico che non serve un’organizzazione ma, fondamentalmente, non puoi pensare di dare solamente parole d’ordine ideologiche. Bisogna organizzarli, strutturarli. Mentre ero in carcere, l’avvocata mi ha detto che i compagni domandavano chi doveva gestire questa situazione da fuori. Io ho dato subito l’indicazione per un compagno, perché era quello più capace di muoversi, e lei quando è uscita, dopo il colloquio in carcere, ai compagni ha detto: “voi sapete cosa fare”. L’esperienza dimostra che chi lotta può vincere o perdere, ma può pagare anche di persona come nel tuo caso. Tuttavia, da quello che dici, la lotta sta facendo crescere in alcuni anche la consapevolezza che non si tratta solo di rivendicare diritti e salario, ma anche di battersi contro il sistema del lavoro salariato che continua a riprodurre gli operai come schiavi e i padroni come sfruttatori. Questo significa che la necessità dell’organizzazione politica cominciano a porsela anche alcuni lavoratori? Sì, io credo che il sindacato non debba più avere semplicemente le stesse caratteristiche del passato, anche per un fatto oggettivo. Secondo me, in Italia non si è prodotto un Partito Comunista in grado di poter interpretare le esperienze più genuine dei lavoratori ed è chiaro che chi si avvicina alla lotta - anche solo sul piano economico - deborda sul piano politico. Non dice più “questo è sindacale e questo è politico”, ma necessariamente sperimenta che è lo Stato che interviene direttamente, non sono solo le forze tradizionali in campo. Il problema è che l’articolazione di questa battaglia politica deve stare, per come la penso io, in un concetto leninista, nella visione di un partito e di un’organizzazione. Io penso - ne avevo parlato anche con te - che dovremmo riprendere questo tema, che avevamo lasciato per problemi che si erano posti dal punto di vista anche organizzativo, causati anche dal passaggio dallo SlaiCobas al SiCobas, a forme anche ibride (“non è proprio il partito e non è proprio il sindacato”). Ma penso anche che, se si comincia a discutere su cosa fare, tra comunisti e avanguardie operaie ci si può organizzare. Il problema dei lavoratori comunisti è all’ordine del giorno. Nota (1) La riforma degli ammortizzatori sociali introdotta con il Jobs act, ha previsto, per chi perde involontariamente il lavoro a partire dal 1° maggio dello scorso anno una nuova indennità di disoccupazione 2017: NASpI, Asdi, Dis-Coll e ricollocamento. La NASpI 2017 è il sussidio di disoccupazione universale che sostituisce dal 1° maggio scorso l’assegno unico di disoccupazione introdotto dalla Riforma Fornero. Tale indennità, prevede nuove modalità di calcolo che influiscono sia sulla misura del beneficio, che sulla sua durata. La NASpI è un assegno che spetta ai lavoratori in disoccupazione involontaria, quindi chiunque perde il lavoro a partire dal 1° maggio scorso, ha diritto ad un assegno di disoccupazione se ha lavorato almeno 3 mesi.
L’amianto continua a uccidere La compagna Daniela Cavallotti ci ha lasciato
Michele Michelino Il 2 gennaio Daniela Cavallotti, ex lavoratrice del Comune di Milano e storica delegata RSU e della RdB, è morta a 67 anni stroncata da un mesotelioma pleurico causato dall’esposizione professionale all’amianto. Daniela abitante nel municipio nove si è ammalata lavorando per 25 anni nel Palazzo Pirelli di via M. Gioia a Milano, chiuso da circa tre anni per amianto, e fino all’ultimo ha lottato contro la malattia e contro le istituzioni - Comune di Milano, ASL di p.le Accursio e Magistratura - per ottenere una giustizia che le è stata negata. Lei è l’ennesima vittima del profitto e dell’indifferenza di chi del profitto è servo. Per l’ATS (ex ASL) e l’INAIL, Daniela non si è ammalata per aver lavorato 25 anni in uffici comunali dove la stessa ASL ha riconosciuto la presenza di fibre d’amianto, ma perché ogni anno nel mese di agosto andava in ferie a Lerici, dove sembra che l’amianto abbondi. La beffa è continuata fino alla sua morte. Dopo la denuncia alle istituzioni e alla Procura della Repubblica di Milano inoltrata insieme al Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio, Medicina democratica e Associazione Italiana esposti amianto, anche il P.M. ha fatto propria la tesi dell’ASL chiedendo l’archiviazione cui i denuncianti si sono opposti e ora il GIP dovrà decidere se rinviare a processo o archiviare. Come sempre qualunque sia l’esito lei non c’è più. Daniela, impegnata fin da giovanissima nell’organizzazione dell’Unione dei Comunisti Italiani maxisti-leninisti, da sempre in prima fila nelle lotte per la difesa dei lavoratori e per la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro insieme a un piccolo gruppo di delegati RSU del comune di Milano, ha condotto tante battaglie, oltre a quelle sindacali, per la bonifica dei siti del comune contenente amianto a cominciare dalle scuole. Fra queste sue tante battaglie vogliamo ricordarne alcune, quelle fatte assieme a
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pochi delegati RSU, come la bonifica dall’amianto del Museo di Storia Naturale (metà di tantissime persone, in maggioranza bambini), della sede di Via Larga (sottotetto e altre stanze), di Palazzo Marino (spogliatoi dei vigili e dei commessi), del Museo Egizio e di tante altre sedi, compreso il palazzo in cui lavorava, dove i dirigenti
avevano sempre negato la presenza d’amianto. Dopo tante battaglie nel 2013 in un’informativa ai lavoratori e alle lavoratrici il Comune di Milano ammetteva i rischi derivanti dall’amianto nell’edificio dove hanno lavorato con Daniela circa 800 lavoratrici e lavoratori, anche se si è continuato a lavorare. Il sito è stato chiuso per amianto solo da poco. Come hanno ricordato i suoi compagni di lavoro all’annuncio della sua morte in un comunicato “Oggi siamo colmi di tristezza e di rabbia. Con Daniela se ne va una parte di tutti noi che abbiamo condiviso
vittorie, sconfitte, desideri e tante lotte”, e moltissimi sono stati gli attestati di solidarietà alla famiglia. La sua vita, fin da giovanissima, bella ragazza dai capelli rossi sempre impegnata, il suo esempio di combattente determinata e caparbia, di persona senza pregiudizi che ha fatto una scelta di campo senza compromessi, di partigiana perché sempre schierata dalla parte dei lavoratori, ne fa un esempio di cosa significa la parola tanto abusata “umanità”. L’umanità che l’ha portata a lottare fino all’ultimo, non certo per se stessa ma perché anche gli altri suoi colleghi di tanti anni fossero consapevoli di cosa rischiavano. Il 19 gennaio scorso, ventotto RSU (Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza) di tutte le sigle confederali e di base del Comune hanno scritto una lettera al Sindaco del Comune di Milano Dott. Sala Giuseppe, al Direttore Generale dott.ssa Caporello Arabella e a tutti i Direttori di Settore avente per oggetto: “Tutela sanitaria dei lavoratori che sono esposti o che sono stati esposti all’amianto”. Nella lettera scrivono: “I sottoscritti RLS del comune di Milano, conseguentemente al decesso per tumore di una lavoratrice del Comune di Milano, che operava presso lo stabile di via Pirelli 39 e nel quale si era rilevata la presenza di amianto, tanto da portare al trasferimento del personale in altre sedi e avviare una consistente opera di bonifica, chiedono l’avvio di un’iniziativa a carico del datore di lavoro da effettuare tramite il ‘medico competente’ aziendale coinvolgendo tutti i lavoratori che risultino avere una pregressa attività nell’edificio di via Pirelli 39, ivi compresi i lavoratori la cui attività lavorativa presso il Comune di Milano sia già cessata o dipendenti di aziende con appalti che abbiano operato presso lo stabile di via M Gioia”. La lotta di Daniela non è servita a salvarle la vita, ma la sua morte non è stata vana. Agli altri ha pensato fino alla fine. Per chi, come il sottoscritto l’ha conosciuta, aver lottato al suo fianco è stato un onore.
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attualità
Viareggio: la lotta non si ferma! Antonini: “Dobbiamo imparare a fare passi concreti in avanti e a socializzare questa esperienza. Questo è il nostro impegno per il prossimo futuro”
redazione di Firenze La sentenza sulla verità della strage di Viareggio: 32 vittime molte delle quali nella propria casa dove si pensa di poter essere al riparo, è arrivata il 31 gennaio a Lucca in un’affollatissima aula e una forte partecipazione esterna di solidarietà prima che su reati come incendio colposo e lesioni gravi piombasse la prescrizione. Erano presenti anche delegazioni di altre associazioni che in Italia si battono per avere giustizia, come il Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio di Sesto s. Giovanni che da anni si batte per le vittime dell’amianto, i parenti del disastro della Moby Dick dell’aprile 1991 (140 morti quando nel porto c’erano 5 navi Usa cariche di armi…) e delle morti dell’Eternit di Casale (258 morti, reato prescritto). Notevole la partecipazione dei ferrovieri che proseguono a mettere sul banco degli imputati la sicurezza, in particolare quella del trasporto merce. La richiesta di condanna del PM per Moretti, all’epoca AD di RFI e Trenitalia a 16 anni, è stata ridotta a 7, un po’ poco per 32 vittime. Per i familiari è comunque positivo perché il gruppo dirigente delle ferrovie dello Stato ha avuto pesanti condanne e non si fermano. Chiedono le dimissioni di Moretti da AD di Leonardo-Finmeccanica, incarico datogli da Renzi nel 2004. Uno striscione con la scritta “Moretti dimettiti” è stato lasciato sui cancelli della Leonardo di Campi Bisenzio, in seguito ad un presidio del 4 febbraio che ha denunciato la vendita di armi di questa impresa al regime oppressivo di Erdogan verso gli oppositori interni in Turchia, i combattenti e la popolazione kurdi. A proposito della sentenza abbiamo rivolto alcune domande a Riccardo Antonini, compagno e ferroviere che, da subito, si è schierato con i familiari e intrapreso la lotta perché fosse fatta giustizia ed è stato licenziato. Ora si tratta anche di insistere sul suo reintegro. Riccardo, qual è il tuo parere su questa sentenza? Si tratta di una sentenza di condan-
na, fino a 9 anni e mezzo per titolari e manager delle aziende estere, fino a 7 anni e mezzo per Ad di Rfi e Trenitalia, le società controllate da Ferrovie dello Stato italiane (Fsi), la holding. È una sentenza importante per il fatto che, per la prima volta, vengono condannati i vertici delle Fs, figure apicali delle società; è mite, per non dire inconsistente, rispetto alla gravità di quanto accaduto il 29 giugno 2009 (32 Vittime bruciate vive e feriti gravissimi) ed alle gravi responsabilità di questi manager di Stato. Quando gli imputati furono rinviati a giudizio per gravi reati colposi, un avvocato giustamente disse: “Gli è andata di lusso...”. In questo modo hanno evitato il dolo ed hanno ricevuto la ‘buonuscita’ della prescri-
zione. Infatti, reati come incendio colposo e lesioni gravi sono a rischio prescrizione già dai prossimi giorni. Moretti, oltre ad essere stato promosso a “LeonardoFinmeccanica” - come De Gennaro, coinvolto nella mattanza del luglio 2001 a Genova - come si è comportato nei confronti del processo? Il cavaliere del lavoro (sic!) Moretti, insignito dall’ex capo di Stato Napolitano, è stato condannato a 7 anni come ex Ad di Rfi. Da indagato rinominato Ad della holding Fs nel 2010 da Berlusconi; da imputato rinominato nel 2013 dal governo Letta; promosso nel 2014 dal governo Renzi a Finmeccanica e sostituito alla holding Fs da Elia, Ad di
Ciao Angi Dopo i troppi compagni Fabio, Adriana, Walter, che ci hanno lasciato lo scorso anno, il 3 gennaio se n’è andato Angelo Giavarini, conosciuto dai nostri lettori con la firma Angi. Un compagno operaio in fabbrica alla Poliplast a Zibello, militante nel PCd’I(m-l), attivo nel sindacato, impegnato nel movimento operaio e soprattutto nel campo internazionalista contro l’imperialismo e in solidarietà con i popoli in lotta. Sostenitore della rivoluzione cubana da anni presidente dell’Associazione di amicizia Italia-Cuba di Parma, è stato in prima fila nella campagna per la liberazione dei 5 cubani accusati ingiustamente e condannati per spionaggio negli Stati Uniti. Per “nuova unità” ha sempre trattato vari argomenti spaziando dalle foibe - è attraverso lui se molti anni fa abbiamo conosciuto Claudia Cernigoi -, all’antifascismo (era presente ad ogni nuovo comitato o coordinamento antifascista che sorgesse), dalla solidarietà con le lotte dei popoli oppressi alle recensioni. Angelo ha combattuto per alcuni mesi con tutte le sue forze contro la malattia - da combattente com’era - poi ricoverato in ospedale, ma che se lo è portato via a 67 anni. Lascia un vuoto che sentiamo, lo ricordiamo con il suo carattere carico di fiducia, entusiasmo, energia e per il suo impegno militante. I compagni della redazione
lavorato molto in questi 7 anni per creare questo movimento di sostegno con i parenti delle vittime. Riepiloghiamo per i nostri lettori come vi siete mossi. Sette anni e 7 mesi di attesa della sentenza di 1° grado, 7 anni e 7 mesi di mobilitazione. Iniziative di studio e di approfondimento, di lotta e di solidarietà, da parte dei familiari, dei ferrovieri, di numerosi lavoratori e cittadini. Il 29 di ogni mese (dal 29 luglio 2009) siamo sul luogo all’ora (23.52) della strage per ricordare le 32 Vittime; ogni estate, dal 2010, promuoviamo i “Giorni della Memoria e della Solidarietà”; l’anniversario del 29 giugno viene preparato nel mese di giugno e la sera del 29 sfilano per Viareggio migliaia e migliaia di persone; le centinaia di presenze a Lucca, il giorno dell’udienza, è stata preceduta da iniziative e da un lavoro di massa, a partire dalla fiaccolata del 29 dicembre scorso. La costruzione e lo sviluppo di un movimento reale, un movimento per “Sicurezza, Verità e Giustizia”, è dovuto al fatto che i familiari organizzati in Associazione
di vigilare sul processo d’Appello, di rivendicare la revoca da ogni incarico pubblico ai condannati a cominciare dal cav. Moretti, di strappare risultati anche sul tema della sicurezza. Quindi massima vigilanza, iniziative di lotta e di studio sulla prescrizione, sul processo, sulla sicurezza.
fossero i principali protagonisti di questa battaglia e che, proprio loro, avessero massima autonomia ed indipendenza. Ricordare tutta l’attività svolta non è possibile in poche righe, posso dire che si è trattato di una mobilitazione permanente e di massa.
mento dipende principalmente dall’azione di delegati Rsu/Rls, di attivisti sindacali e dai lavoratori impegnati sul fronte della sicurezza e della salute. Sicuramente questa sentenza è un incoraggiamento a pretendere norme ed azioni preventive e protettive che nel caso di Viareggio sono mancate. La strage di Viareggio era prevista e prevedibile perché annunciata, ma possiamo dire che oggi non é evitabile perché per questo necessitano rapporti di forza favorevoli a lavoratori e lavoratrici. È questa la vera sfida su sicurezza, salute e ambiente. Consapevoli di aver strappato un importante risultato processuale, forti di questa esperienza per la straordinaria mobilitazione e partecipazione popolare, dobbiamo imparare a fare passi concreti in avanti e a socializzare questo lavoro. Questo è il nostro impegno per il prossimo futuro.
Pensi che con questa sentenza possa cambiare qualcosa in materia di sicurezza nelle ferrovie? La sentenza è posteriore ad una verità già scritta nel corso di questi anni: se i ‘lorsignori’ avessero adottato norme, misure e dispositivi, di prevenzione e di protezione, la strage ferroviaria annunciata di Viareggio non sarebbe avvenuta. Una condanna ai massimi dirigenti delle società coinvolte, in primis di quelli delle Fs, che per aver omesso o rimosso l’azione doverosa per la sicurezza hanno, di fatto, provocato l’immane tragedia. Non impedire l’evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo. Un concreto ed efficace cambia-
Rfi e imputato nel processo. Moretti ha sempre avuto un atteggiamento arrogante e di sfida. Via Ponchielli, luogo del disastro, bruciava e lui dichiarava: “Non attiveremo le assicurazioni perché non abbiamo alcuna responsabilità...”, fino all’esternazione al Senato: Viareggio è stato uno “spiacevolissimo episodio...”. Mai è venuto in aula, nonostante avesse ripetutamente detto: “Ci vedremo in Tribunale”. Neppure il coraggio e la responsabilità di vedere i volti sorridenti delle Vittime che ad ogni udienza erano esposti in grandi foto in aula e fuori. Moretti resta in sella a “Leonardo-Finmeccanica” nonostante le molte richieste di dimissioni; lo stesso non è stato per te licenziato per esserti schierato dalla parte della sicurezza e dei familiari. A che punto è la situazione in rapporto al tuo licenziamento? In questi giorni, tante e da ogni parte sono state le richieste delle sue dimissioni come degli altri condannati che rivestono cariche pubbliche. Nei mesi successivi alla strage, a Viareggio sono state raccolte 10mila firme per le sue dimissioni, ma lo Stato, i governi, le istituzioni, hanno fatto orecchie da mercante. Lo Stato neppure si è costituito parte civile nel processo, ha riscosso i risarcimenti dalle assicurazioni. Lo stesso Moretti, non essendo il mio datore di lavoro, in quanto io dipendente di Rfi (Rete ferroviaria italiana), ha trattato, con l’addetto alle relazioni industriali della holding, una possibile conciliazione per la mia reintegrazione. Pretendeva, però, una sorta di abiura da parte del sottoscritto rispetto all’impegno a fianco dei familiari. Ho risposto che la mia coscienza e la mia dignità non stanno sul mercato, nessuno (e tanto meno Moretti) possono pensare di comprarle (!) Il 18 gennaio 2017 vi è stata l’udienza in Corte di Cassazione a Roma che si pronuncerà, su accogliere o respingere il mio ricorso, nei prossimi mesi. La sentenza è stata accolta da una numerosa presenza di solidarietà. A Viareggio avete
Quali sono i prossimi passi dell’Associazione “Il Mondo che vorrei” e di “Assemblea 29 giugno”? Negli ultimi due anni, abbiamo condotto una battaglia sul “NO alla prescrizione per Viareggio”. I familiari hanno incontrato il capo dello Stato Mattarella, il ministro di Giustizia Orlando, il presidente del Senato Grasso, ma risposte positive non vi sono state. La mobilitazione ha fatto sì che il processo di 1° grado si concludesse prima della prescrizione su incendio colposo e lesioni gravi. Pertanto, c’è la volontà di proseguire in tal senso,
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8 marzo
Sciopero delle donne o della classe? L’emancipazione della donna si può risolvere con la lotta di classe contro il nemico principale: il capitalismo e i governi che lo sostengono strumentalizzando le donne a proprio uso e consumo
Carla Francone Lo scorso 27 novembre le donne sono tornate in piazza spinte dalla motivazione dell’uccisione di molte donne da parte dei propri partner. Una giornata contro la violenza istituita dall’ONU nel 1999, mai al centro dell’attenzione come lo scorso anno. In Italia se ne sono fatte carico con la mobilitazione denominata “non una di meno” Donne in rete contro la violenza, Io decido e Unione donne in Italia (UDI). Pur vivendo nell’era della comunicazione veloce che sembra proiettarci nel futuro si ritorna al passato quando le separazioni o i tradimenti si lavavano col sangue (solo nel 1975 è stato abolito il delitto d’onore), questa società evidentemente non è pronta ad affrontare questi problemi e ha le sue colpe, anzi ne è l’origine. Le cause degli omicidi - 93 nel 2016 - sono da ricercare anche nel sistema di proprietà privata e nella difficile situazione lavorativa e sociale in cui si trovano le famiglie. Non che questo li giustifichi ma viene da sé che bisogna andare oltre l’accusa ai partner e considerare che i rapporti tra uomo e donna sono regolati in forme necessarie all’organizzazione complessiva del processo produttivo e, quindi, della società. Né va sottovalutata la cultura fascista che considera la donna proprietà e da sottomettere, cultura che dilaga con lo sviluppo sempre più preoccupante dei vari gruppi nazisti e razzisti. E sul fascismo - che da sempre considera la donna subordinata alla supremazia maschile, che non deve usare il cervello, utile per occuparsi della casa e fare figli - il neonato movimento non ne fa alcun cenno.
Violenza quotidiana È vero gli assassinii di donne sono sempre troppi e intollerabili, ma c’è una violenza su cui non si riflette abbastanza, non viene sbattuta sulle prime pagine dei mass-media, però colpisce la maggioranza delle donne. Donne sfruttate e molestate sui luoghi di lavoro, disoccupate - abbiamo il tasso più basso d’Europa dell’occupazione e il jobs act ha reso ancora più difficile per loro entrare e restare nel mercato del lavoro -, precarie che non possono progettare il loro futuro. Donne impossibilitate ad abortire per il numero altissimo di obiettori di coscienza permessi dalla legge 194, frutto di compromesso con la DC e il Vaticano, e che abbandonano o addirittura uccidono il figlio una volta nato; donne che muoiono di parto perché ancora oggi bisogna partorire con dolore per compiacere la chiesa cattolica e per la malasanità. Mentre il governo mercifica e privatizza la salute la ministra Lorenzin si inventa il “Fertility day” (22 settembre), con una costosa campagna propagandistica per scoprire il “Prestigio della maternità” e, sulle parole d’ordine “difendi la tua fertilità, prepara una culla nel tuo futuro”, cioè sollecitare la decisione di diventare madri per ovviare al basso tasso di fertilità dell’Italia. Però smantella i consultori e toglie i fondi ai centri antiviolenza. Una retorica di mussoliniana memoria che non considera la donna una
persona, ma un contenitore solo quando e come vuole lo Stato, lo stesso che la punisce con leggi reazionarie come quella sulla procreazione assistita. Ulteriori occasioni per dimostrare quanto sia ampio il distacco dei governanti - ministre comprese - dalle effettive condizioni e necessità delle proletarie e delle lavoratrici. Donne che, nonostante gli equilibrismi con i conti della spesa - la metà delle famiglie non arriva a fine mese - rinunciano a curarsi impossibilitate di pagare i ticket o una visita privata per ovviare alle lunghe liste d’attesa; che non sono in grado di affrontare le costose spese odontotecniche. Donne che, in seguito alla demolizione dei servizi pubblici, sono costrette a farsi carico dei propri familiari vecchi e malati di casa o ai bambini. Pensionate sole e... povere, anche quelle che per lo stesso lavoro hanno ricevuto una paga inferiore agli uomini perché considerata complementare. Braccianti in balia dei caporali che le minacciano e le fanno vivere in condizioni da Medioevo. Donne che patiscono l’inferno della guerra imperialista e affrontano l’emigrazione in situazioni drammatiche che arrivano in Italia dove sono discriminate come nei loro paesi. Donne schiavizzate dalla prostituzione. Queste sono violenze quotidiane per le quali non si cercano le vere cause che hanno origine nel sistema capitalista che si è ripreso, negli ultimi anni, anche le minime conquiste operaie e sociali e che, con le progressive privatizzazioni in corso, ricadranno sempre più sulle proletarie, prima fra tutte la disoccupazione, che solo nel mese di dicembre 2016 è aumentata del +3,2%. Da gennaio, introdotto dalla Legge Fornero e prorogato dall’INPS, è entrato in vigore il beneficio del 50% dei contributi alle aziende (l’aiuto va sempre a vantaggio dei capitalisti) per l’assunzione di donne prive di occupazione, però che siano state regolarmente retribuite da almeno 6 mesi. Quante mai saranno? Un bonus che suona ridicolo, discriminatorio e contradditorio anche perché non agevola l’autonomia economica della donna, anzi le considera una fascia da sempre debole e senza diritto all’uguaglianza. La manifestazione partecipata, a Roma, si è concentrata sulla violenza di “genere”, sull’autoderminazione sessuale e riproduttiva, sul proprio piacere. Insomma una deja vu “sui nostri corpi decidiamo noi” come soluzione individualista. Ma poi? Quale lavoro sistematico e quali obiettivi per attrarre e organizzare in modo permanente le donne e quali donne? C’è un progetto? La prossima proposta di “non una di meno” prende lo spunto dall’esperienza argentina proclamando per l’8 marzo uno sciopero, “una giornata in cui sperimentare/praticare forme di blocco della produzione e della riproduzione sociale,
reinventando lo sciopero come vera e propria pratica femminista a partire dalle forme specifiche di violenza, discriminazione e sfruttamento”. Ben venga la proclamazione di
coinvolto politicamente. Si può considerare sciopero liberarsi per un giorno di fare la spesa o le faccende casalinghe (qualcuna le fa tutti i giorni?), astenersi dal lavoro o dalla scuola? Lo sciopero è uno
Clara Zetkin uno sciopero in occasione dell’8 marzo che finalmente si affermi come giornata di lotta e non di festa, senza fiori, cioccolatini, auguri e ristoranti. In effetti c’è chi, come noi, in questi anni di oblio non ha mai smesso di denunciare la trasformazione di una giornata di lotta internazionale in una festa che rispondesse ai bisogni del consumismo condizionando tante giovani e non solo. Ma uno sciopero di donne? È sufficiente fare appello ai sindacati (divisi e deboli come sono) per la convocazione di uno sciopero per l’8 marzo che permetta l’adesione al più ampio numero di lavoratrici dipendenti? Ancora una volta si intravvede una soluzione separatista che non tiene conto dell’appartenenza di classe e che esclude il movimento complessivo dei lavoratori perché non viene
strumento che deve danneggiare il padronato, deve recare danno all’economia. Chi danneggia la forma di sciopero proposta da “nonunadimeno”? Ci possiamo accontentare della supplenza nello svolgimento delle attività quotidiane da parte degli uomini per un giorno? L’esempio, preso dal neo nato movimento, della Polonia - un paese dove è stato persino abolito l’aborto - non è certo il più felice. Per essere utile a riportare al centro la condizione delle donne lo sciopero deve essere generale di tutta la classe lavoratice, ma non ce lo possiamo certo aspettare dai sindacati confederali che continuano ad avere il maggior numero di iscritti e neanche da quei sindacati di base che si crogiolano nella frantumazione autoreferenziale né favorisce la partecipazio-
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ne dell’8 marzo lo sciopero del 17 marzo della scuola, dove la maggioranza sono donne.
Un po’ di storia L’8 Marzo che si è affermato in tutto il mondo nasce proprio dalla lotta e dagli scioperi della classe operaia. Ci sono due versioni sull’origine di questa data simbolo, sia in seguito all’incendio divampato nell’opificio Cotton di Chicago occupato nel 1908 nel corso di uno sciopero da 129 operaie tessili e lì rinchiuse dal padrone, sia a operaie morte nel rogo di una fabbrica di camicie a New York nel 1911. In entrambi i casi si tratta di sfruttamento, repressione e di morti sul lavoro. Impossibile accettare la metamorfosi borghese degli ultimi anni favorita dalla complicità del crescente revisionismo del PCI per cancellare un altro simbolo legato alla tradizione dei comunisti. Si deve, infatti, a Clara Zetkin - una rivoluzionaria, tra i fondatori del Partito Comunista tedesco - della quale non si parla mai evidentemente per il suo ruolo primario nella lotta contro la socialdemocrazia tedesca ed il suo sostegno della necessità di un movimento femminile di classe a fianco della classe operaia - la proposta, alla seconda Conferenza internazionale socialista a Copenhagen del 1910, della giornata internazionale della donna (dopo l’episodio di Chicago). In Italia l’8 Marzo fu celebrato per la prima volta grazie al Partito comunista d’Italia di Gramsci nel 1922, fu interrotto dalla dittatura fascista lo stesso anno e ripreso durante la Lotta di liberazione nazionale come giornata di mobilitazione delle donne contro la guerra, l’occupazione nazista e per le rivendicazioni dei propri diritti. Ed è nel 1946 che l’Udi - nata dai Gruppi di difesa della donna collegati al CLN - prepara il primo 8 Marzo nell’Italia liberata facendone una giornata per il riconoscimento dei diritti politici, sociali ed economici delle donne adottando la mimosa come simbolo. Nella storia le rivendicazioni di liberazione della donna sono state legate alla storia del movimento operaio. Ancora una volta ci riferiamo a Clara Zetkin che considerava la “questione femminile” all’interno della “questione sociale”. La sua visione di liberazione della donna era una delle fasi di conquista da parte del proletariato del potere politico. In piena sintonia con Lenin che, dopo la rivoluzione d’Ottobre - di cui ricorre il centenario quest’anno - nel 1920 affermava: “Nessuno Stato borghese, per quanto progressista, repubblicano, democratico, ha concesso la completa eguaglianza dei diritti. Al contrario, la Repubblica sovietica russa ha spazzato via di colpo, senza eccezioni, ogni traccia giuridica dell’inferiorità della donna e ha garantito immediatamente alla donna l’eguaglianza giuridica completa”. E ancora: “Far parte-
cipare la donna al lavoro sociale, produttivo, strapparla alla “schiavitù domestica”, liberarla dal peso degradante e umiliante, eterno ed esclusivo della cucina e della camera dei bambini: ecco qual è il compito principale. Sarà una lotta lunga perché esige la trasformazione radicale della tecnica e dei costumi. Ma si concluderà con la completa vittoria del comunismo”.
Il capitalismo nemico delle donne È quindi messo al centro il rapporto tra la questione femminile e il tema generale della lotta per una nuova organizzazione della società, il legame politico che esiste tra le rivendicazioni del partito e le sofferenze, i bisogni e le aspirazioni delle donne. L’emancipazione della donna - che non chiamiamo “genere” perché siamo contro la ghettizzazione in categorie - non si difende in modo interclassista, è una questione di classe. Si può risolvere con la lotta di classe contro il nemico principale: il capitalismo e i governi che lo sostengono (cos’hanno in comune le parlamentari con le lavoratrici o le casalinghe forzate?) e che strumentalizzano le donne a proprio uso e consumo. Nella società capitalista, nonostante le altisonanti frasi sulla democrazia e sulle pari opportunità della borghesia, la liberazione è apparente. Le donne sono ancora e sempre in una situazione di oppressione, molto spesso a loro insaputa perché influenzate da una miriade di teorie e obiettivi fuorvianti costruiti ad arte per allontanarle da quelli principali e continuare a mantenere la divisione. L’apporto delle donne proletarie, il loro protagonismo nella vita politica e sindacale è indispensabile per affermare i propri diritti e per cambiare la società. E sono i comunisti che devono conquistare le donne alla lotta rivoluzionaria del movimento operaio, svolgendo anche un lavoro educativo tra gli uomini. Va riportato all’ordine del giorno il concetto di emancipazione contro lo sfruttamento capitalista, contro il clericalismo oscurantista, contro l’imperialismo e la guerra. Non solo piazza, quindi, ma lotta di classe, a partire dai luoghi di lavoro e di studio, per rifiutare questa società capitalista, per trasformare l’economia e il suo processo di divisione sociale del lavoro che sottomettono le donne a forme più o meno dure di sfruttamento e di subordinazione politica, culturale e sociale all’uomo. Se la donna vuole ottenere la piena equiparazione sociale con l’uomo deve capire che la proprietà privata dei mezzi di produzione va sostituita con la proprietà sociale e che ha diritto ad una piena occupazione per rendersi autonoma economicamente senza dipendere dall’uomo, quindi libera anche di poter divorziare e crescere i figli. Ha senso, quindi parlare di movimento femminile e non di femminismo - teoria che individua la contraddizione principale tra la donna e l’uomo e non quella tra sfruttati e sfruttatori - e che, non intaccando il capitalismo, è impotente e insufficiente a garantire i pieni diritti e la libertà delle donne lavoratrici e no.
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imperialismo
Quali piani USA per il Pacifico orientale? Si assiste a un continuo accumularsi di tasselli che indicano come l’asse geopolitico e soprattutto militare mondiale si sposti progressivamente verso la regione estremorientale, con gli Stati Uniti all’affannosa rincorsa di posizioni
Fabrizio Poggi “Finché gli Stati Uniti e i loro seguaci continueranno con minacce nucleari, ricatti, esercitazioni militari alle nostre porte, allora noi continueremo a sviluppare il nostro potenziale di difesa per un attacco preventivo, anche nucleare”: questo il succo della risposta data a inizio anno dal rappresentante permanente nordcoreano all’ONU, Cha Son-nam, ai pretesti addotti dal Consiglio di Sicurezza per imporre le sanzioni contro gli esperimenti missilistici e nucleari di Pyongyang. Alla motivazione ONU, secondo cui tali esperimenti costituirebbero una “minaccia alla sicurezza mondiale”, Cha ha risposto che gli oltre duemila esperimenti nucleari USA non sono mai stati considerati una minaccia”. Secondo Cha, gli esperimenti e i lanci, anche di missili balistici intercontinentali, costituiscono un “diritto alla difesa” della RDPC. La denuclearizzazione, “come la intende la RDPC” scrive il Rodong Sinmun, “significa la denuclearizzazione dell’intera penisola coreana e questo include lo smantellamento delle armi nucleari in Corea del Sud e nei suoi dintorni”, con una verifica pubblica mondiale. Ormai da tempo, l’attenzione dei media cosiddetti main stream, allorché si parla di estremo oriente, sembra concentrarsi quasi esclusivamente sui nuovi missili di Pyongyang o sulle cosiddette mire espansionistiche di Pechino nei mari circostanti la Cina. Qual è la situazione in quella parte di emisfero? Un tentativo, necessariamente limitato, di delinearne i contorni, non può ovviamente prescindere dalle mosse cinesi o nordcoreane, ma tantomeno può ignorare il “convitato di pietra” universalmente presente alle crisi politico-militari mondiali: gli Stati Uniti. Se gli annunci preelettorali del neo presidente USA, Donald Trump, hanno fatto sorgere qualche timore negli “alleati” europei, preoccupati per un possibile sganciamento yankee, non sembra probabile che la presenza USA nel Pacifico e in particolare nelle basi giapponesi, prima fra tutte quella strategica di Okinawa, possa venir depotenziata dalla nuova amministrazione americana, che punta anzi a incrementare il “pivot to Asia”. Ne sono prova il redislocamento nell’isola di Guam di bombardieri strategici nucleari B-1BS e bombardieri transonici B-2A, a tecnologia stealth, il riposizionamento nel Pacifico anche della 3° Flotta, che si aggiunge ai circa 70 vascelli, 300 aerei e 50.000 tra marinai e aviatori della 7° Flotta. Ne è la prova più evidente il prossimo dispiegamento del sistema THAAD (Terminal High Altitude Area Defense) in Corea del Sud. A inizio gennaio, il vertice tripartito a Washington tra i vice Ministri della difesa USA, giapponese e sudcoreano, ha stabilito di “intensificare gli sforzi comuni per aumentare la pressione sulla Corea del Nord”; l’agenzia sudcoreana Yonhapnews scriveva che “crescono negli Stati Uniti le voci sulla possibilità di attacchi militari preventivi per eliminare le capacità nucleari e missilistiche della Corea del Nord” e si sarebbe addirittura stilato un elenco di poten-
ziali bersagli norcoreani, tra cui il complesso nucleare di Yongbyon, la miniera di uranio di Pyongsan e la struttura di ricerca e sviluppo nucleare Pyongsong. Ancora Yonhapnews scriveva della prossima formazione di una brigata mista yankee-sudcoreana, di mille-due-
crociano in permanenza nell’area. È un sofisma, afferma Pyongyang, che gli “Stati Uniti strombazzino la priorità della denuclearizzazione, quando insistentemente ricorrono al ricatto nucleare contro la Corea del Nord”. Durante le manovre congiunte Key Resolve e Foal Ea-
dionale, “Gli Stati Uniti cercano di accerchiare la Cina, con l’obiettivo di ridurre al minimo la sua forza e stabilire il controllo americano sulle arterie economiche”. Pechino, d’altronde, continua ad auspicare che Seoul non dispieghi sul proprio territorio il sistema
raggio ad una quota molto alta, extra-atmosferica. Rapportato ai missili nordcoreani, è come voler uccidere le zanzare a colpi di fucile”. Dunque, come chiedeva retoricamente un twitter di Xinhua, “Quale pensate sia il paese obiettivo finale del THAAD dislocato in
mila uomini, per l’eliminazione di Kim Jong Un e della leadership nordcoreana, in caso di operazioni militari nella penisola. Da parte sua, il primo ministro giapponese Shinzō Abe, se in campo economico si dice preoccupato per lo sganciamento USA dal TPP (TransPacific Partnership), in campo militare ha dichiarato che l’alleanza con gli USA “costituisce la base della politica estera giapponese”, che contempla basi yankee con 52mila uomini e 130 aerei sul suolo giapponese. Ma Tokyo guarda non tanto alla penisola coreana, quanto soprattutto all’area marittima, insistendo nelle proprie rivendicazioni sia sull’arcipelago disabitato delle Diàoyútái (Senkaku-shotō per i giapponesi) conteso alla Cina nel mar Cinese Orientale, sia sulle Kurili meridionali (Šikotan e Khabomai), dai giapponesi dette “territori settentrionali”: una controversia che oppone Tokyo a Mosca dal 1945. Più in generale, pare ormai un dato di fatto che gli attacchi di Washington alla Corea del Nord, con i voli provocatori di bombardieri strategici supersonici B-1BS Lancers sul confine Nord-Sud, mascherino il crescente impegno USA per il “contenimento dell’espansionismo cinese”, speculare a quello che in Europa è “il contenimento dell’aggressività russa”. Tanto che, a parte le risoluzioni ONU, dettate direttamente dalla Casa Bianca, contro gli esperimenti nucleari di Pyongyang, la questione coreana viene lasciata gestire anche a Seoul. Il che non vuol dire che Washington si disinteressi totalmente della Corea del Nord. A varie riprese la RDPC ha ricordato la presenza USA sul suolo sudcoreano (circa 30mila uomini) e in generale nella regione, con sommergibili atomici USA che in-
gle, svoltesi la primavera scorsa in Corea del Sud, gli Stati Uniti hanno impiegato la portaerei nucleare Stennis, bombardieri strategici nucleari B-52H e B-2, caccia stealth F-22A e altri mezzi d’attacco nucleare. La Stennis era presente anche alle manovre navali Malabar (USA, India e Giappone) nel mar Cinese Orientale, insieme a un incrociatore lanciamissili, tre cacciatorpediniere lanciamissili e un sommergibile atomico. Nei confronti della Cina, al 15° Asia Security Summit di Singapore, nel giugno scorso, i Ministri della difesa di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud avevano puntato l’indice quasi esclusivamente contro “l’espansionismo territoriale di Pechino nel mar Cinese Meridionale” e Tokyo, pur senza nominare direttamente Pechino, era tornata sull’appartenenza degli arcipelaghi Xīshā Qúndo (isole Paracel), Nánshā Qúndo (Isole Spratly) e l’atollo Huanyang (reef Scarborough), da anni contesi tra Cina, Viet Nam, Brunei, Malesia e Filippine, mentre Washington aveva ripetuto la pretesa yankee su “libertà di navigazione e di volo nel bacino nel mar Cinese Meridionale”. Ma, anche di recente, il portavoce del Ministero degli esteri cinese Hong Lei, ha ribadito la “sovranità indiscutibile” sulle isole del mar Cinese Meridionale: Dongsha, Xisha, Zhongsha e Nansha. Il mar Cinese Meridionale, scrive l’agenzia Xinhua, era una “regione pacifica, prima che gli Stati Uniti ci mettessero il naso”; le frizioni nella zona risalgono alla fine del 1960, allorché ricercatori americani vi scoprirono ricche riserve di gas e petrolio e, da allora, alcuni paesi rivieraschi hanno iniziato a occupare le isole. Il politologo russo Timofej Bordačëv, scrive che dietro le dichiarazioni sulla libertà di navigazione nel mar Cinese Meri-
THAAD e anche, riferendosi agli USA, che “I paesi al di fuori della regione dovrebbero onorare i loro impegni e non fare commenti irresponsabili su questioni che interessano la sovranità territoriale”. Un auspicio, quella cinese sul THAAD, destinato a rimanere tale, a meno di improbabili – viste le mire di Trump verso l’area estremorientale e la polemica USA-Cina sulla questione di Taiwan - ripensamenti della nuova amministrazione USA. Il sistema THAAD, sotto esclusivo comando dell’US Forces Korea, composto di 6 rampe mobili, 48 intercettori, sistema radar e di controllo del tiro, destinato a intercettare testate di missili balistici, dovrebbe entrare in funzione non oltre la fine del 2017, “nonostante l’opposizione dei paesi vicini, di Cina e di Russia”, come scrive Xinhua. E il Renmin Ribao ricorda come questo “sia uno dei più avanzati sistemi di difesa missilistica al mondo, progettato per l’intercettazione di missili a corto e medio
Corea del Sud?”. In caso di conflitto con il Sud, scrive il Renmin Ribao, “l’artiglieria nordcoreana è più che sufficiente, mentre sui 900 km dal punto più settentrionale a quello più meridionale della penisola, il THAAD è inutile”. Dunque, “le affermazioni secondo cui il sistema è diretto contro la minaccia nucleare nordcoreana e non contro paesi terzi, non sono che menzogne insostenibili. Il dispiegamento del THAAD in Corea del Sud non solo stimola lo sviluppo del programma nucleare della Corea del Nord, ma compromette anche l’equilibrio strategico, minaccia la pace e la stabilità nell’Asia nordorientale”, scrive l’organo del PCC. In questo senso, è interessante il quadro delineato qualche tempo fa dall’analista russo Grigorij Trofimčuk sulla edizione online del Renmin Ribao, a proposito delle contromisure che dovrebbero essere adottate da Cina e Russia. Il THAAD in Corea del Sud, scriveva Trofimčuk, ha non solo un obiet-
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tivo di contenimento della RDPC, che è il pretesto formale immediato per il suo dispiegamento, ma rappresenta anche una minaccia – nemmeno tanto nascosta – all’indirizzo della RPC ed è diretto al rafforzamento delle posizioni USA e dei loro alleati nella regione del Pacifico. Per tale passo, si è fatto tesoro dell’esperienza del dispiegamento dei sistemi antimissile nell’Europa orientale, nelle immediate vicinanze delle frontiere russe e già oggi vari osservatori parlano di accerchiamento strategico di Cina e Russia. Come dimostra l’esperienza europea, le preoccupazioni verbali, in questo caso da parte di Mosca e Pechino, servono a poco; sarebbe sbagliato, concludeva Trofimčuk, limitarsi a incolpare Pyongyang di aver provocato il dispiegamento del THAAD con i suoi esperimenti nucleari: Washington avrebbe in ogni caso trovato un altro pretesto per dislocare il proprio sistema missilistico. E in effetti, nei colloqui bilaterali a margine del G20 a Hangzhou, lo scorso settembre, il presidente Xi Jinping aveva detto a Obama che gli Stati Uniti devono rispettare la garanzia strategica della sicurezza cinese e, incontrando Vladimir Putin, Xi aveva esortato la Russia a unire gli sforzi a difesa della sovranità russo-cinese. Più “operativamente”, da fine 2013, Pechino conduce lavori idraulici e di costruzione su larga scala, nel mar Cinese Meridionale, per la realizzazione di isole artificiali in grado di garantire il controllo sulla regione adiacente allo strategico stretto di Malacca, attraverso cui passa circa il 60% del commercio cinese e l’80% delle sue importazioni di idrocarburi. E, di recente, il quotidiano di Hong Kong Pingo Ribao ha scritto del dislocamento – smentito però da Pechino - di una brigata di missili balistici intercontinentali “Dongfeng 41” nella provincia di Heilongjiang, all’estremità nordorientale della Cina, in grado di raggiungere qualsiasi punto degli Stati Uniti in 20-30 minuti. Non a caso, lo scorso novembre il nordcoreano Juche songun scriveva del tentativo USA di creare una versione asiatica della Nato, avente come base l’alleanza tripartita Washington-Tokyo-Seoul e il cui fulcro sarebbe costituito da una nuova brigata corazzata USA di 3.500 uomini nella Corea meridionale, sedici caccia F-35 nella base marines USA in Giappone e una squadra di nuovi cacciatorpediniere della classe Zumwalt a tecnologia stealth e grandi vascelli d’assalto anfibi classe Wasp, oltre al 31° corpo di spedizione della fanteria di marina. Si assiste insomma a un continuo e nemmeno tanto lento accumularsi di tasselli, che indicano come l’asse geopolitico e soprattutto militare mondiale si stia progressivamente spostando verso la regione estremorientale, con gli Stati Uniti all’affannosa rincorsa di posizioni e con storici vassalli yankee quali Filippine e Giappone che, ciascuno per ragioni proprie – il corso militarista di Abe, ad esempio – e nel tentativo di scalzare la preminenza cinese nella regione, si avvicinano alla Russia, senza con ciò sganciarsi militarmente da Washington. L’area del Pacifico non è affatto pacifica.
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Donald Trump, il nuovo rappresentante del gendarme mondiale
Ma ci chiediamo, come mai nessuno si è né scandalizzato né mosso nel 2015 quando l’amministrazione Obama elaborò la List of Concern che riguardava restrizioni verso gli stessi 7 paesi (Iran, Iraq, Siria, Sudan, Libia, Somalia e Yemen). Né qualcuno ha manifestato contro la deportazione, autorizzata da Obama, di 3 milioni di immigranti clandestini latinoamericani Daniela Trollio (*) L’avvento del “nuovo” presidente degli Stati Uniti è stato accompagnato e seguito da una notevole uniformità di giudizi, non solo della stampa ma anche di insospettabili personaggi di cosiddetta sinistra. Quello che si legge – tra le righe, perché verso i potenti va comunque usato sempre un po’ di savoir faire - è che nel migliore dei casi ci troviamo davanti ad un buffone pericoloso per il mondo, nel peggiore di fronte ad un pazzo “cane sciolto”, sempre e comunque pericoloso per il mondo. Prima di discuterne, facciamo un attimo i conti con il suo predecessore, da tutti rimpianto, il primo presidente afroamericano, il premio Nobel per la Pace Barak Obama, valentemente coadiuvato dall’antagonista – sconfitta - di Trump, Hillary Clinton, sua Segretaria di Stato.
La presidenza di Barak Obama Negli anni della sua amministrazione, Obama ha portato la guerra e bombardato gli Stati più poveri della Terra: Afganistan, Yemen, Somalia, Pakistan, Libia, Iraq, Siria. Secondo alcune ricerche, solo nel 2016 gli USA hanno sganciato su questi paesi 26.171 bombe, ossia 72 al giorno, generando – tra l’altro – il terribile problema dei profughi, che l’Unione Europea, da buon cane fedele, si è trovata ad affrontare da sola, perché le coste europee sono vicine alle zone di guerra, quelle nordamericane no. Non parliamo nemmeno delle decine di migliaia di nostri fratelli di classe che in questo viaggio per sfuggire alla guerra, alla povertà, alla fame, alle violenze di ogni genere –provocate, quale buon ultimo, dalle politiche del Nobel per la Pace - hanno trovato la morte in quella bara d’acqua in cui si è trasformato il Mediterraneo. In questi anni gli USA hanno esteso le operazioni delle “forze speciali” a 138 paesi, cioè si sono presi cura del 70% della popolazione mondiale. Proseguendo l’onorata tradizione di Colin Powell e Tony Blair, Obama nel 2011 assicurava che Gheddafi stava commettendo un genocidio contro il suo popolo, genocidio davanti al quale “se aspettassimo un altro giorno… Bengasi potrebbe patire un massacro che si rifletterebbe in tutta la regione e macchierebbe la coscienza del mondo”. Per evitare di macchiare questa immacolata coscienza, il braccio armato dell’imperialismo, la NATO, lanciò 9.700 “incursioni punitive” sulla Libia, un terzo delle quali contro obiettivi civili, usando anche testate all’uranio. L’amministrazione Obama ha attivamente e “fattivamente” sostenuto il colpo di stato fascista in Ucraina, ed ha installato il più alto numero di basi militari nell’Europa dell’Est, accerchiando la Russia, oltre ad aver attivato la “leva Asia”, lo spostamento di quasi due terzi della flotta USA nel
Pacifico per “affrontare la Cina”. E poiché si tratta di un Nobel per la Pace, dopo aver promesso in un emozionato discorso a Praga di “adoperarsi per liberare il mondo dalle armi nucleari”, ha aumentato a livello più alto di ogni altra amministrazione dalla Guerra fredda le spese per le teste nucleari. Dulcis in fundo, sotto l’amministrazione del primo presidente Afroamericano si è verificato, nella più totale impunità, il più alto numero di assassinii di… afroamericani per mano della polizia (170 solo nel 2016). È solo un brevissimo riassunto.
Donald Trump C’è un altro precedente storico cui possiamo far riferimento: sostituite al parrucchino arancione un paio di baffetti e un ciuffo sulla fronte ed avrete un altro pazzo della storia, Adolf Hitler. Lo scrittore e giornalista spagnolo Ramòn Pedregal Casanova ci ricorda alcuni fatti, a questo proposito. Il “grande” statista Winston Churchill nel 1917, durante le rivolte indiane contro la Gran Bretagna, diceva: “Non capisco queste lagne contro l’uso dei gas. Sono completamente a favore dell’uso di gas velenosi contro tribù non civilizzate” (C’è tanta differenza rispetto alle sparate di Trump contro i messicani, tutti narcos, serial killer e violentatori?). E, prima che Hitler, in quanto rappresentante del grande capitale tedesco, facesse guerra all’Europa, Winnie proseguiva nel 1937: “Chi ha incontrato faccia a faccia in riunioni pubbliche il signor Hitler, ha potuto verificare che si tratta di un politico altamente competente, ponderato, ben informato, di maniere gradevoli e con un sorriso che seduce”. Ma allora per bocca di Hitler parlava il grande capitale tedesco e il nemico era l’Unione Sovietica, e tutto faceva buon brodo. Torniamo ad oggi. L’elezione di Trump ha spezzato il collaudato meccanismo dell’alternanza di potere tra Democratici e Repubblicani, strumento politico grazie al quale l’imperialismo americano ha dominato il mondo fino ad ora. Oggi l’impero è in declino, minacciato economicamente dalla
Cina e dalla Russia, e anche in casa sua non sta affatto bene. Solo un esempio: le esportazioni di tecnologia USA sono passate- tra il 1999 e il 2014 – dal 18 al 7%; quelle della Cina sono aumentate, nello stesso periodo, dal 3 al 26%. La rottura dell’alternanza politicoprogrammatica della borghesia imperiale riflette quindi l’incapacità di scegliere la strategia più appropriata per salvaguardare il pericolante primato del capitale USA. E le politiche neoliberiste hanno provocato il disastro sociale non solo nel resto del mondo ma nel cuore stesso dell’impero: povertà estrema, una società militarizzata, carceri barbare e… 14 bilioni di dollari di denaro pubblico regalati al capitale finanziario. Così Trump ha avuto buon gioco a denunciare – attenzione – non il sistema, non le multinazionali e la grande finanza, ma i “politici”, annunciando che sotto la sua presidenza il potere tornerà “al popolo”. Peccato che nel suo gabinetto ci siano presidenti di multinazionali (Rex Tillerson, Exxon Mobile; Andrew Puzder, CKE-Carl’s; Linda McMahon, WWE, multinazionale statunitense di sport-spettacolo; Betsy DeVos, Amway), rappresentanti del settore finanziario (Gary Cohon, Goldman Sachs Group; Wilbur Ross, il “re della bancarotta”proprietario del fondo di private equità W.L. Ross & Co.; Steve Mnuchin, dirigente di Goldman Sachs e gestore di uno dei fondi di George Soros) ed ex militari come i generali James Mattis (“Cane Rabbioso”, ex capo del Comando Centrale incaricato delle operazioni in Medio Oriente in sostituzione di David Petraeus), Mike Flinn (che è stato direttore dell’Agenzia per la Difesa Nazionale , la DIA, il principale organismo di spionaggio militare USA all’estero sotto l’amministrazione Obama) e John Kelly (che ha diretto il Comando Sud fino a febbraio 2016, responsabile delle operazioni nei Caraibi, nell’America Centrale e in America del Sud). L’elenco di cui sopra ha un solo significato: il potere è intatto, a Wall Street come a Washington. E con questo veniamo alla NATO. Secondo Trump è obsoleta, ma in che senso? Lo spiega, numeri alla
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mano soprattutto per quello che riguarda il nostro paese, il giornalista ed esperto di politiche militari Manlio Dinucci in un articolo sul manifesto del 31 gennaio scorso: “Secondo i dati ufficiali del 2016, solo cinque paesi Nato hanno un livello di spesa per la «difesa» pari o superiore al 2% del Pil: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia. L’Italia spende per la «difesa», secondo la Nato, l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: nel 2016 ha aumentato la spesa di oltre il 10% rispetto al 2015. Secondo i dati ufficiali della Nato relativi al 2015, la spesa italiana per la «difesa» ammonta a 55 milioni di euro al giorno. La spesa militare effettiva è in realtà molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende il costo delle missioni militari all’estero, né quello di importanti armamenti, tipo le navi da guerra finanziate con miliardi di euro dalla Legge di stabilità e dal Ministero dello sviluppo economico. L’Italia si è comunque impegnata a portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil, ossia a circa 100 milioni di euro al giorno. Di questo non si occupa la sinistra istituzionale, mentre aspetta che Trump, in un
momento libero, telefoni anche a Gentiloni”. Telefonata che è puntualmente arrivata. In altre parole, gli alleati europei facciano il loro dovere e paghino un po’ di più, non è la NATo ad essere obsoleta, ma i loro contributi.
È davvero rinato un movimento? Grazie alle dichiarazioni di Trump, a fine gennaio ci sono state una serie di grandi manifestazioni negli USA e in Europa, come la Marcia delle donne a Washington, su cui i pennivendoli nostrani hanno versato fiumi di inchiostro. Che ci sia un movimento è certo una cosa positiva, ma pone alcune domande piuttosto serie. “No Ban, No Wall” era il tema delle manifestazioni (No al divieto di immigrazione per gli abitanti di 7 paesi musulmani, già rifiutato peraltro dalla Corte Suprema USA – e No al muro di confine con il Messico, peraltro già iniziato da Clinton). C’è da chiedersi, dicevamo, come mai nessuno si è né scandalizzato né mosso nel 2015 quando l’amministrazione Obama elaborò la List of Concern che riguardava
restrizioni verso gli stessi 7 paesi (Iran, Iraq, Siria, Sudan, Libia, Somalia e Yemen). Né qualcuno ha manifestato contro la deportazione, autorizzata da Obama, di 3 milioni di immigranti clandestini latinoamericani. Del resto, che ci si scandalizzi per il muro ai confini del Messico proprio qui in Europa, dove di muri ne sono stati costruiti a bizzeffe, e dove si paga la Turchia per fermare i profughi prima che arrivino sulle nostre coste, se non fosse una immane tragedia, è una farsa di cui ridere. Le immagini dei profughi, in Grecia, Macedonia e Ungheria, in fila sotto la neve, con una coperta – quando c’è, a me ricordano una cosa sola: Auschwitz. Il filo spinato c’è, le guardie anche, mancano solo le divise a strisce. Dietro tutto questo c’è quella che si chiama “politica di genere”. Ovvero far sì che spariscano le divisioni di classe, che sono pericolosissime per il capitale, e annacquare la lotta di classe in lotta di “genere”, quell’operazione che ha permesso di far passare la sconfitta della guerrafondaia e rappresentante politica per eccellenza del capitale finanziario statunitense Hillary Clinton come la sconfitta delle “donne” in generale. Da noi si chiama, da troppi anni, “società civile”. Sono i “cittadini” che si arrabbiano per gli scioperi dei trasporti, gli “utenti” incazzati per quelli della sanità o i “genitori” per quello della scuola; sono i “clienti” dei supermercati che si scandalizzano quando le merci non arrivano perché c’è lo sciopero della logistica. O che fa dire a molti, troppi, che se il lavoro manca è perché “ce lo rubano” gli stranieri, non i padroni nostrani sempre in cerca del massimo profitto. È lo strumento prediletto, di questi tempi, per disarmare qualsiasi lotta. (Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)
nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) anno XXVI n. 1/2017 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Michele Michelino, Emiliano, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 001031575507 intestato a: nuova unità - Firenze Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine Chiuso in redazione: 28/01/17
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