17 nu novembre

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comma 20/B art. 2 Legge 662/96 filiale di Firenze

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Proletari di tutti i paesi unitevi!

nuova unità fondata nel 1964

Periodico comunista di politica e cultura n. 6/2017 - anno XXVI

Uno schiavo che non ha coscienza di essere schiavo e che non fa nulla per liberarsi, è veramente uno schiavo. Ma uno schiavo che ha coscienza di essere schiavo e che lotta per liberarsi già non è più schiavo, ma uomo libero. V.I.Lenin

Il socialismo è possibile Riappropriarsi delle analisi di Marx, Lenin, Gramsci per liberarsi dallo sfruttamento

Il mese di novembre si è caratterizzato per l’an-

niversario dei 100 anni della Rivoluzione russa, la prima che ha capovolto i rapporti di forza e dimostrato che il capitalismo si può abbattere e che il proletariato può prendere e gestire il potere senza sfruttamento. Una rivoluzione che ha contribuito a fare grandi passi avanti al movimento operaio in tutti i paesi del mondo, anche in quelli che del perché non staremo qui ad analizzare, non hanno fatto la rivoluzione. Oggi, a distanza di 100 anni, il movimento operaio e la classe lavoratrice sono ritornati ad una moderna forma di schiavitù. Ricatti e repressione hanno instaurato sui luoghi di lavoro il terrore di perdere l’occupazione, l’enorme esercito dei disoccupati offre la propria manodopera al maggiore ribasso. L’esempio più eclatante è quello di Almaviva. Un anno fa 1600 lavoratori che non accettavano un’ulteriore riduzione del salario sono stati licenziati, il più grande licenziamento collettivo, insieme alla comunicazione della chiusura della sede di Roma. Falso. La sede di Roma non solo non è stata chiusa, ma ha sempre funzionato con lavoratori pagati con contratti Co.co.co. Di fronte alla recente decisione del Tribunale del lavoro del reintegro di 150 lavoratori la risposta è stata: fra 5 giorni assunti a Catania! E poi ci sono le delocalizzazioni. Gli industriali prendono contributi dal governo - sempre solerto a sostenere questa categoria - e poi se ne vanno all’estero; le imprese straniere - tanto apprezzate dai nostri governi per gli “investimenti” in Italia - per poi finire come la Bonetti di Garbagnate acquistata dagli indiani che la chiudono, nonostante sia un polo di eccellenza per la produzione di qualità ed economicamente in attivo - comprano e spostano o chiudono, lasciando i lavoratori italiani sulla strada, altro che “prima gli italiani” famoso slogan di Lega e dei fascisti, rivolto contro gli immigrati ma mai contro le svendite delle industrie alle multinazionali! È notizia di questi giorni l’ennesima delocalizzazione, quella della Honeywell da Lanciano (Abruzzo) alla Slovacchia (dove gli incentivi pubblici sono ancora più alti e dove maggiore è la possibilità di sfruttamento): altri 420 operai più 100 dell’indotto a casa. I vari governi non si sono mai occupati di questo sistema di trasferimento persino di quelle imprese che avevano ricevuto sovvenzioni statali, ma è più grave il fatto che l’argomento non sia mai stato oggetto di lotta da parte dei sindacati. I confederali, ovviamente per la loro politica di sostegno ai governi e di non disturbo ai padroni, ma non c’è stata neppure opposizione da parte dei sindacati di base né un lavoro per il rafforzamento di una rete a livello internazionale che garantisse i lavoratori sottopagati di quei paesi a loro volta sfruttati e messi in condizione di concorrenza con gli italiani. Ma i lavoratori chiusi nella difesa del proprio piccolo spazio, presi dalle difficoltà economiche della quotidianità, delusi e amareggiati non riescono ad aprire il loro orizzonte politico, ad avere la consapevolezza - tantomeno la coscienza - che si può lavorare e vivere senza padroni e che il loro sfruttamento mira solo ad aumentare i loro profitti. È la conseguenza di anni e anni di una politica opportunista e revisionista, e quindi devastante sotto tutti gli aspetti, portata avanti dalla cosiddetta sinistra. Borghesia, revisionisti, opportunisti di ogni specie sono terrorizzati dall’opportunità che si ritorni agli anni in cui lo slogan dei lavoratori era “facciamo come in Russia”. E insistono nelle provocazioni e nelle campagne per diffamare il socialismo ed

equiparare il comunismo alle bestialità del fascismo e del nazismo, peraltro distrutti proprio dalle forze comuniste. A questo riguardo si distingue l’Unione europea che da anni, dal memorandum anticomunista del 2005 insiste con risoluzioni del Parlamento europeo - tra le quali quella denominata “Coscienza europea e totalitarismo” - sulle quali si sono mossi paesi come Ungheria, Lettonia, Polonia, Lituania, Estonia, Ucraina per imporre misure anticomuniste con persecuzioni, bandi sulle attività dei partiti comunisti, divieto dell’uso dei simboli, azioni penali e condanne. In quest’area la Nato ha creato 8 eserciti e si rafforza in seguito alle pericolose decisioni del

27° Vertice di Varsavia dello scorso anno, richiedendo un ulteriore incremento della spesa, fino al 2% del Pil, a tutti gli Stati membri. Anche l’UE rafforza la sua militarizzazione, stabilisce l’Esercito Europeo, il Quartier Generale Europeo, Forze d’Emergenza, l’Unione della Difesa Europea e il Fondo Europeo per la difesa. È la società fatta a misura per i capitalisti, gestita dai loro governi e leader attraverso misure antipopolari che hanno l’unico obiettivo quello di aumentare sempre più i propri profitti e per farlo calpestano qualsiasi diritto dei lavoratori, a partire da quello di sciopero, e non disdegnano di scatenare guerre imperialiste - i cui costi in continuo aumento (come il debito pubblico)

sono scaricati sui lavoratori - per il controllo dei mercati, la rapina delle fonti energetiche e persino dell’acqua, delle rotte commerciali, di distruzione e impoverimento, imponenendo la dittatura della minoranza sulla maggioranza della popolazione. Un sistema economico-sociale che non è vincente. Il movimento operaio deve collegare la sua lotta per la difesa del salario, dell’occupazione, della difesa dei diritti, con la lotta contro il capitalismo, l’imperialismo e i suoi piani di guerra. Sono lontani i tempi in cui gli operai studiavano i testi classici di Marx, Lenin, Gramsci, eppure è doveroso riappropriarsene perché oggi, sebbene a distanza di 150 anni dalla pubblicazione del “Capitale”, l’analisi di Marx che ha scritto per rafforzare la lotta politica della classe operaia e per il socialismo è pienamente attuale. È un’arma per conoscere la teoria del valore, del lavoro salariato, del plusvalore - e quindi dello sfruttamento -, l’organizzazione, il partito comunista e per potersi proiettare nella lotta di classe fino al rovesciamento del capitalismo. Non si cambiano le condizioni aspettando l’arrivo di nuovi investitori, né facendosi attirare dalle promesse elettoraliste di partiti vecchi o “nuovi”, e neppure credendo che nuove leggi elettorali garantiscano la “stabilità” per lo svisviluppo. Nessun rinnovamento programmatico è in grado di eliminare le sofferenze della classe lavoratrice e delle masse popolari nell’ambito del capitalismo. Rimangono sempre la barbarie e la distruzione.

ELEZIONI

Borghesi in gara per accaparrarsi i seggi ma uniti nella battaglia contro il proletariato. Il non voto è un segnale di mancanza di fiducia nelle promesse e nelle istituzioni, ma può diventare una marea capace di sommergere il sistema facendo annegare capitalisti, faccendieri, fascisti e mafiosi;

DEMOCRAZIA BORGHESE E ILLUSIONI ELETTORALI

L’astensionismo ha il merito di evidenziare il distacco di una grossa fetta dalla popolazione dai partiti borghesi, ma non si identifica ancora in posizione di classe pagina 2

SICILIA: LA LOTTA È L’UNICA POSSIBILITÀ DI CAMBIAMENTO!

Se le forze progressiste non impostano un programma finalizzato alla tutela degli interessi della maggioranza della popolazione e dei territori resta in piedi la risposta delle forze populiste e reazionarie come unica alternativa. Che è fittizia perché parte integrante del sistema di oppressione così come i personaggi che hanno caratterizzato le liste del vincitore;

DALL’ASSEMBLEA “100 ANNI FA IL NOSTRO FUTURO” Un appuntamento per molti compagni per riflettere sulla Rivoluzione russa

USA/VIOLENZA CRIMINALE. IL MALE INTERNO

Gli omicidi di massa nell’informazione della sinistra americana. Anatomia di una psicosi nazionale

RAZZISMO: UNA NUOVA PIAGA PER L’ITALIETTA

Scende sempre più in basso il livello del dibattito sul tema migratorio. Oltre al becco Salvini ci si mette anche il governo

LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE E GLI ODIERNI RIMPIANTI PER L’IMPERO ZARISTA VENEZUELA

Sorpresa: Simòn Bolìvar è ancora qui Ogni battaglia persa dall’imperialismo è una vittoria dei popoli del mondo, noi compresi

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attualità

Borghesi in gara per accaparrarsi i seggi

ma uniti nella battaglia contro il proletariato Il non voto è un segnale di mancanza di fiducia nelle promesse e nelle istituzioni, ma può diventare una marea capace di sommergere il sistema facendo annegare capitalisti, faccendieri, fascisti e mafiosi

Emiliano I risultati delle recenti elezioni in Sicilia e a Ostia sono significativi per i numeri che esprimono, al di là delle mille parole e storielle che raccontano i vari commentatori e politici sulle varie percentuali. In Sicilia gli aventi diritto al voto erano 4.661.111 e hanno votato 2.179.185 (46,76%) quindi 2.481.926 (53,25%, la maggioranza) non hanno votato. A Ostia (10° circoscrizione del comune di Roma) gli aventi diritto al voto erano 185.665 e hanno votato 67.125 (36,28%) quindi 117.875 (63,72%, la maggioranza) non hanno votato e ancora di più al ballottaggio. Questa è la democrazia borghese che vede i vari partiti rappresentanti dei suoi vari strati in gara per accaparrarsi i seggi e sedere sulle poltrone del comando divisi ma uniti nella comune battaglia contro il proletariato e gli strati più poveri della popolazione. La Sicilia è al secondo posto in Italia per numero di disoccupati. La situazione è peggiore per i giovani. Nella fascia tra i 15 e i 24 anni, il tasso ufficiale raggiunge il 57 per cento. Una cifra superata solo in Calabria dove la disoccupazione giovanile segna il 58 per cento. La mancanza di lavoro per il 55,4% dei residenti, un tasso tra i più alti in Italia, è la conseguenza della povertà. A chi vuole vedere la realtà salta agl’occhi la vicinanza della percentuale di povertà con quella dell’astensione. A Ostia invece è stato il decantato “successo” dei fascisti di Casapound, seguito dalla testata in faccia ad un giornalista della Rai da parte di un picchiatore fascista, appartenente ad una delle famiglie mafiose (gli Spada) che operano indisturbati nella zona

- tanto da gestire l’assegnazione delle case popolari, mentre l’amministrazione usa la forza brutale della polizia per sgomberare le occupazioni - a fare accendere i riflettori dei media e dei “democratici” che si sono svegliati dal sogno (Renziano), cioè che in questa Italia tutto marcia a gonfie vele e per nascondere la realtà del risultato elettorale. La “scoperta” del pericolo fascista è uscito naturalmente dal risultato alle elezioni di CasaPound con i 4.862 voti di lista e i 5.944 voti al candidato Marsella, pari al 3,2% degli aventi diritto. Il cretinismo elettorale è sempre stato un virus pericoloso che si diffonde nella società capitalista. Sono anni che il movimento antifascista denuncia CasaPound per le aggressioni a centinaia di compagni, di studenti e di immigrati come è successo a Firenze quando Casseri (militante di CasaPound) uccise 2 giovani senegalesi e reso paralizzato un terzo, ormai dimenticati da tutti quelli che ora si scandalizzano di Ostia. I “democratici benpensanti” da anni hanno fatto finta di non vedere che i fascisti rialzavano la testa, che si organizzavano nei quartieri - collusi con spacciatori e mafiosi -, aprivano sedi, raccoglievano cibo per gli italiani poveri (meglio se in cambio di un voto), che soffiavano sul fuoco della guerra tra poveri contro immigrati in nome della lotta al degrado. Sono gli stessi che hanno sempre condannato l’antifascismo militante, che plaudono di fronte alle denunce dei compagni quando contrastano - nei fatti e non a parole i fascisti -. Sono quelli che, quando gli antifascisti si battono contro l’apertura delle loro sedi e per la loro chiusura, invocano la non violenza e la necessità di ignorarli, di non accettare provocazioni, di non fargli pubblicità. E ora si spaventano, piangono e si lamentano, ma che fanno? Li invitano su tutte le reti

televisive come fenomeni e consentono al loro portavoce Di Stefano di fare la propria sporca propaganda fascista e xenofoba. Giornalisti imbarazzati per aver partecipato da anni alle iniziative organizzate da CasaPound cui sono stati invitati, continuano a fargli da sponda e si fanno complici dei seguaci di “tanti nemici tanto onore” di mussoliniana memoria. I “benpensanti” oggi continuano a sottovalutare il problema politico e culturale del fascismo e scoprono le presenze mafiose inserendole in un generico problema di disattatamento, di delinquenza comune, di ordine pubblico, come accade anche quando tra le curve dei tifosi o dei giocatori appaiono striscioni, cori, adesivi e tatuaggi, inneggiamenti alla Repubblica di Salò, al razzismo e al fascismo. E allora invocano lo Stato, la legalità, l’intervento delle forze dell’ordine e dell’esercito per contrastare il degrado e l’abbandono dei quartieri. E a questo ci pensa lo sceriffo Minniti. È come curare la cirrosi epatica con la grappa. I vari governi di centro, di destra e di sinistra che si sono alternati in questi anni, sempre in difesa dei grandi capitalisti, degli speculatori immobiliari, delle banche hanno prima fatto nascere e sviluppare una grande speculazione edilizia nelle città, poi hanno bloccato qualsiasi iniziativa di edilizia popolare e, attraverso un processo di privatizzazione selvaggia, lasciano interi quartieri e zone popolari abbandonati a se stessi privi di servizi pubblici e servizi sociali, pieni di disoccupati che non riescono a pagare neanche le bollette. Questa è la società capitalista che basa il suo sviluppo sullo sfruttamento intensivo alla ricerca del massimo profitto e che tutti i suoi strumenti come i partiti borghesi imbevuti di parlamentarismo, i sindacati concertativi, le forze di polizia e dell’esercito, i

mezzi di informazione e i fascisti vogliono presentare come la migliore società possibile. Allora il non voto per ora è un segnale di mancanza di fiducia nelle promesse e

nelle istituzioni ai vari livelli, ma può diventare una marea capace di sommergere il sistema facendo annegare capitalisti, faccendieri, fascisti e mafiosi.

Democrazia borghese e illusioni elettorali L’astensionismo ha il merito di evidenziare il distacco di una grossa fetta dalla popolazione dai partiti borghesi, ma non si identifica ancora in posizione di classe

Michele Michelino Le recenti elezioni regionali in Sicilia e quelle comunali di Ostia dimostrano che il primo partito resta, ancora una volta, quello dell’astensione: in Sicilia (dove ha vinto il centrodestra) è andato alle urne solo il 46,76% dei votanti aventi diritto contro il 47,41% delle regionali 2012, mentre il 53,24% ha disertato le urne. Il centrosinistra tra il 2012 e il 2017 ha perso 6 punti percentuali passando dal 37% del 2012 al 31% di oggi. A Ostia, al primo turno un elettore su tre non ha votato e nel ballottaggio vinto dai 5 stelle ha votato solo il 33,6 degli aventi diritto, cioè hanno disertato le urne il 66,4% degli aventi diritto, 4 mila meno del primo turno, mentre i fascisti di CasaPound entrano per la prima volta nel X Municipio Roma con un consigliere. Al di là della chiacchiera e della dichiarazione di vittoria fra centrodestra e 5 stelle, in Sicilia e a Ostia ha vinto il partito dell’astensione, mentre per il PD renziano c’è stato un vero tracollo. Questi risultati si prestano ad alcune considerazioni. La società capitalista difende gli interessi comuni della classe borghese al potere e, attraverso organi e istituzioni apparentemente neutrali e al di sopra delle parti e delle classi - a cominciare dallo Stato, governo, parlamento, regioni, comuni ecc. e nasconde il fatto che queste istituzioni

servono solo una parte. Invece che servitori degli interessi ”della società, di tutti i “cittadini”, sono in realtà al servizio d’interessi particolari, quelli dei padroni, delle multinazionali, delle banche, della grande finanza. Oggi in Italia, nella democratica Repubblica nata dalla Resistenza, i politici di qualsiasi partito, i rappresentanti delle istituzioni, a cominciare dal parlamento, formano una casta completamente separata dal proletariato e dalle masse popolari, costretti ogni giorno a lottare per mettere insieme il pranzo con la cena. I due grandi schieramenti politici di centrodestra e centrosinistra, finanziati nelle campagne elettorali dai vari settori dell’imperialismo in lotta fra loro e rappresentanti d’interessi particolari che si sono scambiati a vicenda il potere politico negli ultimi decenni, sono composti da persone cui non interessa per niente governare nell’interesse generale. Per essi la politica è un affare, dichiarano di essere al servizio del paese, ma in realtà lo dominano e lo saccheggiano. Oggi, la comparsa sulla scena politica di un terzo soggetto ispirato e guidato da Beppe Grillo e Casaleggio associati, il M5stelle, si contrappone al vecchio “personale politico”, candidandosi alla guida del paese con parole d’ordine come “onestà”... a favore del “popolo” e della stabilità del sistema capitalista. Tuttavia, anche il tentativo di intercettare il voto degli astensionisti da parte del M5stelle

per controllare e contenere la rabbia proletaria e popolare nell’alveo istituzionale è miseramente fallito. La scarsa partecipazione alle elezioni e il grande numero degli astenuti che non si riconoscono in alcun partito dimostrano che il popolo, cioè settori delle diverse classi in cui esso si divide - in particolare grosse fette di proletariato - non si sentono rappresentati da nessun partito. In Italia, la mancanza di un partito che rappresenti la classe operaia, il proletariato e le classi sottomesse, ha fatto aumentare l’astensionismo anche fra i proletari. La campagna di tutte le frazioni delle classi sfruttatrici contro chi non vota alle elezioni politiche dimostra che una parte importante degli elettori proletari - delusa dalla politica borghese - non s’illude più sulla possibilità di cambiamento della loro condizione di vita e di lavoro, in particolare da questi partiti, e cominciano così a strappare la loro maschera ipocrita. Tuttavia, se l’astensionismo (presente anche nell’insoddisfazione di altre classi sociali e non solo proletarie) ha il merito di evidenziare il distacco di una grossa fetta dalla popolazione da questi partiti, non è ancora riuscito a identificarsi in posizione di classe né a trasformarsi in lotta di classe organizzata. In Italia la classe operaia non ha un proprio partito di riferimento. Non esiste una seria organizzazione di classe, un partito operaio e proletario.

Oggi si contano alcune decine di partiti, organizzazioni e movimenti che si dichiarano comunisti, ma che non fanno alcun lavoro rivoluzionario serio fra la classe, per unificare le avanguardie proletarie e i movimenti di resistenza al capitale. Al momento nella conta ci siamo fermati a 23, ma sono probabilmente di più. Molti di questi partiti e organizzazioni che si definiscono “avanguardie della classe operaia” sono solo delle macchiette. Spesso, presentandosi alle elezioni borghesi locali o nazionali senza un chiaro programma socialista, senza dire che sono per la dittatura del proletariato, per il potere operaio che vuole distruggere dalle fondamenta il capitalismo e l’imperialismo, si dimostrano pseudo rivoluzionari a caccia di qualche poltrona, non credibili agli occhi degli sfruttati e, raggranellando percentuali da prefisso telefonico, non fanno altro che mettere in ridicolo il movimento comunista. Altri si riempiono la bocca con roboanti dichiarazioni sulla “necessità dell’unità dei comunisti”, della costruzione del partito operaio, del partito comunista, rimanendo però ognuno a coltivare il proprio orticello senza alcun confronto serio su come loro, i sedicenti comunisti e rivoluzionari, devono intervenire nei conflitti di classe e sociali. Altri ancora, pur affermando di lavorare per la prospettiva rivoluzionaria per il socialismo, aspettano la nascita del partito

come i cattolici aspettano il messia senza fare nulla per realizzarlo. I rivoluzionari non vanno mai in pensione, ma per tutti giunge di cedere il testimone alle nuove generazioni. Purtroppo anche errori di settarismo, economicismo, idealismo non hanno saputo costruire una nuova generazione di operai rivoluzionari comunisti. Divide et impera, il motto dell’impero romano, continua a essere praticato dalla borghesia imperialista internazionale che detiene il potere, nei confronti dei popoli e delle classi oppresse. La ricomposizione della classe operaia e proletaria a livello nazionale e internazionale può avvenire in un’organizzazione di classe internazionale con sezioni (partiti comunisti con un chiaro programma antimperialista e socialista) in ogni paese impegnate nella lotta contro l’imperialismo e il capitalismo, per instaurare un nuovo sistema sociale dove lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sia considerato un crimine contro l’umanità. Un sistema che sappia contrapporre alla visione del mondo capitalista basata sulla democrazia borghese che nasconde la dittatura della borghesia, un sistema che chiamiamo socialismo in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione sia abolita sotto la dittatura del proletariato, il potere operaio, nel quale si produca per il bene della maggioranza della popolazione e non per il profitto di pochi.

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attualità

Sicilia: la lotta è l’unica possibilità di cambiamento!

Se le forze progressiste non impostano un programma finalizzato alla tutela degli interessi della maggioranza della popolazione e dei territori resta in piedi la risposta delle forze populiste e reazionarie come unica alternativa. Che è fittizia perché parte integrante del sistema di oppressione così come i personaggi che hanno caratterizzato le liste del vincitore Concetto Solano Le elezioni regionali siciliane dello scorso mese di novembre hanno fornito indicazioni significative sullo scenario politico isolano e, allo stesso tempo, sui possibili sviluppi che possono riguardare il panorama politico nazionale. Innanzitutto aumenta l’astensionismo, andando ben oltre il 50% dell’elettorato e superando persino i dati delle precedenti consultazioni elettorali. Si tratta di una risposta assai significativa, che segna il rifiuto della proposta politica che giunge dagli schieramenti tradizionali o fintoalternativi (5 stelle). Duecentomila famiglie che vivono in povertà assoluta, 400mila disoccupati, 900mila giovani che sono talmente demotivati da non cercare neppure un lavoro sono la punta dell’iceberg del malessere sociale diffuso che fa da sfondo all’astensionismo di massa. I vari governi regionali succedutisi negli ultimi anni (da Cuffaro a Lombardo a Crocetta) si sono distinti per avere privatizzato i servizi pubblici essenziali, depredato ed inquinato il territorio siciliano riducendolo ad una pattumiera a disposizione delle ecomafie, imponendo d’autorità discariche e inceneritori che avvelenano i territori e provocano malattie tra la popolazione (da Motta S. Anastasia a Priolo, da Licata ad Augusta, ad altri territori ancora) e che consentono ad affaristi senza scrupoli di fare affari sulla pelle dei cittadini. Dulcis in fundo, si è dato il via libera alla costruzione dell’impianto Muos a Niscemi, con pesanti ricadute sulla salute della popolazione, obbedendo ai diktat degli imperialisti USA. A questo si aggiunga la riduzione dei servizi sanitari, la privatizzazione dell’acqua, lo smantellamento dei trasporti pubblici regionali, l’emergenza abitativa, il dis-

sesto idrogeologico che si accompagna a giri d’affari enormi, come quelli legati all’acquisto dei costosi Canadair. In un quadro di devastazione e rapina consolidati, ben si comprende perché la maggioranza degli elettori siciliani ha scelto di non essere complice del sistema di spartizione che ha accomunato centrodestra e centrosinistra e di esprimere il proprio dissenso radicale, anche se frammentato e politicamente disorganizzato. Ma, pur con questi limiti, il non voto di massa rappresenta una scissione netta tra gli interessi clientelari degli schieramenti politici borghesi e larghe masse di popolazione, alle prese con problemi gravissimi e insolubili nell’attuale assetto politico-sociale. La sinistra borghese ha scelto il bersaniano Fava quale punto di riferimento di una campagna elettorale all’insegna del legalitarismo, oscurando le ragioni (e i problemi reali) della stragrande maggioranza della popolazione, sempre più immiserita e priva di speranze. Lo stesso riferimento del motto della lista (Cento passi) a Peppino Impastato è stato duramente contestato dal fratello del militante di Democrazia Proletaria ucciso dalla mafia che, in un’intervista a “la Repubblica”, ha denunciato la strumentalizzazione della memoria del fratello per fini elettorali. La lista di Fava ha conseguito un risultato assai modesto in termini di consensi elettorali superando di poco il quorum e pagando la totale assenza di legami con le lotte sociali e per la difesa dei territori oltre che, più in generale, la scarsa presa di una sinistra riformista incapace di proporre qualsiasi seria mobilitazione. Il centrosinistra ha proposto, come presidente della Regione, Micari, rettore dell’Università di Palermo, pupillo di Leoluca Orlando, duramente contestato dagli studenti universitari. Si è trattato della

vittima sacrificale individuata dal centrosinistra per ratificare una sconfitta che, sin dall’inizio, era data per sicura. In realtà, si è trattato di una vera e propria disfatta. Lo schieramento Pd-Alfano è stato penalizzato delle politiche antipopolari che hanno visto l’intensificazione dello smantellamento dei diritti sociali e la precarizzazione del futuro dei giovani costretti ad emigrare in cerca di lavoro. Ma non solo. Micari ha pagato anche per la politica di Crocetta – che lo ha sostenuto nelle ultime elezioni – che si è caratterizzata per i continui intrecci con ambienti affaristici che spaziano dagli sprechi di soldi pubblici per i lavori di emergenza (vero business legalizzato) allo scandalo di corruzione e clientelismo legato alla vicenda Serit–Riscossione Sicilia, al taglio delle risorse per gli incendi, con gravi conseguenze per l’incolumità delle persone e per l’ambiente che ha visto distrutti migliaia di ettari di boschi, alla svendita e inquinamento delle coste con il supersfruttamento delle trivelle, al taglio dei treni per il continente. Il M5s ha avuto una buona affermazione ma ha fallito rispetto all’obiettivo fondamentale: conquistare Palazzo d’Orleans. La polemica moralistica nei confronti dei candidati “impresentabili” ospitati nelle liste del centrodestra non è bastata ad assicurare la vittoria agli uomini di Grillo, i quali hanno sostenuto una politica anti immigrati, fatta di tagli alle spese sociali e di condivisione delle politiche antipopolari volute dal sistema capitalistico. Nei comuni dove sono stati al potere (Ragusa, Bagheria, Porto Empedocle) i pentastellati si sono contraddistinti proprio per queste politiche e a Bagheria il loro sindaco - già sottoposto ad obbligo di firma ed indagato per peculato e turbativa d’asta - ha mobilitato la popolazione contro un centro di accoglienza per minori. La vittoria elettorale è andata allo schie-

ramento conservatore e razzista di Nello Musumeci. In questa sede non ci soffermiamo sui numerosi inquisiti che hanno popolato le sue liste né sui successivi provvedimenti della Magistratura contro personaggi di spicco delle sue liste immediatamente dopo il voto. Quel che ci preme rilevare è che quando le forze progressiste non riescono ad impostare un programma finalizzato al cambiamento sociale, alla tutela degli interessi della maggioranza della popolazione e dei territori resta in piedi la risposta delle forze populiste e reazionarie come unica alternativa. Un’alternativa che è fittizia perché parte integrante del sistema di oppressione così come i personaggi che hanno caratterizzato le liste del vincitore. L’indicazione che è uscita da parte di tanti compagni e da parte delle organizzazioni antagoniste, compresa Red Militant, è

stata chiara: astensione come presupposto per esprimere la propria opposizione radicale ai giochetti dei partiti del sistema borghese, che in Sicilia assume caratteri mafiosi e clientelari molto netti. Partire dalle grandi mobilitazioni di massa contro la buona scuola, per la difesa dei posti di lavoro, contro il Muos e il G7, a favore dei migranti significa trovare, nella lotta concreta alle aberrazioni del sistema, la possibilità di costruire fronti di lotta coesi di tutti gli sfruttati. Le elezioni regionali siciliane non potevano costituire la soluzione, ma erano problema. Averne consapevolezza, fare un lavoro di denuncia costante del carattere illusorio delle scorciatoie proposte dalla sinistra opportunista è il primo passo. Il primo di cento passi, ma da compiere non verso le poltrone dell’Assemblea regionale siciliana ma verso la costruzione dell’alternativa socialista al sistema capitalista.

Dall’Assemblea “100 anni fa il nostro futuro” Un appuntamento per molti compagni per riflettere sulla Rivoluzione russa

redazione di Firenze Nel “teatro nuovo” dello storico circolo Lippi di Firenze - costruito nel 1954 in un quartiere industriale legato alle strutture ricreative dell’associazionismo operaio - si è svolta l’Assemblea nazionale promossa da compagni organizzati in coordinamenti, collettivi, riviste che si richiamano al marxismo-leninismo e che, provenienti da esperienze politiche diverse si pongono il problema di un percorso di costruzione di unità dei

comunisti che non sia la riproposizione di sterili autoproclamazioni partitiche né la riproposizione dell’unità dei vari partiti o gruppi che si autodefiniscono “comunisti” (pratica già tentata numerose volte, ma fallita ogni volta miseramente), ma che si basi sulla volontà e la necessità di lavorare per l’unità dei lavoratori comunisti, di quelle avanguardie di lotta che si battono tutti i giorni nei posti di lavoro, di studio e nei territori, riuscendo a superare localismi con visioni ristrette e parziali, che si

mettano insieme su alcuni punti generali condivisi. L’Assemblea ha concluso la campagna di celebrazione dei 100 anni della Rivoluzione d’Ottobre iniziata in una delle serate di discussione durante la consueta festa di “Partigiani sempre”, a Viareggio e portata avanti per due mesi con iniziative e riunioni in diverse zone della Toscana e di altre parti d’Italia. La relazione d’apertura dei lavori - che ha seguito la traccia del documento unitario utilizzato come

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strumento di propaganda della campagna - ha ribadito come, a distanza di 100 anni, capitalisti, borghesi, riformisti e reazionari di ogni specie non mandino giù quella sconfitta storica della borghesia, il momento più alto della storia della lotta della classe operaia contro lo sfruttamento capitalista e l’oppressione, l’atto della presa del potere degli sfruttati e dell’instaurazione della dittatura del proletariato. E siano ancora impegnati a dimostrare che “l’orrore comunista” è stato un errore della storia che non si potrà ripetere, soprattutto dopo il crollo dell’Urss, mentre ripropongono come unico modello di vita quello basato sullo sfruttamento di classe, sull’oppressione dei popoli, sulla supremazia della proprietà privata e del massimo profitto. È stato ricordato come, anche questo anniversario, sia occasione per attaccare l’ideale comunista attraverso varie trasmissioni televisive, giornali e riviste. Un attacco che parte da lontano con l’obiettivo della messa fuori legge dei comunisti in molti Paesi dell’Unione Europea in perfetta sintonia con la campagna borghese che imperversa in tutto il mondo capitalista con livore anticomunista tesa a dimostrare che

i comunisti hanno fatto più morti dei nazisti con la guerra e con l’olocausto. L’intenzione degli organizzatori dell’assemblea del 5 novembre oltre alla celebrazione di questo importante anniversario è stata quella di trarre dalla Rivoluzione sovietica - che ha aperto la nuova epoca delle rivoluzioni proletarie in tutto il mondo e che ha indicato ai proletari la via da seguire per liberarsi dallo sfruttamento e dall’oppressione - quegli insegnamenti che ancora oggi sono validi strumenti per orientare le analisi sullo Stato borghese, sul potere politico, sul partito comunista e per lottare in modo concreto ed efficace contro lo sfruttamento nel nostro paese, come parte integrante della catena imperialista. Un momento anche per riflettere sulla storia dei comunisti, su errori, limiti, inadeguatezze e ritardi che hanno fatto arretrare il movimento comunista, soprattutto nel nostro paese, e per proseguire verso l’unità e l’organizzazione della classe operaia e dei comunisti, anche se con risorse ed energie ridotte, ma con la visione strategica che la rivoluzione proletaria non solo è possibile, ma è l’unica via di liberazione ed emancipazione

dallo sfruttamento capitalista. In questo senso è stato significativo il contributo del compagno del Partito comunista d’Albania che nel suo intervento ha spiegato la caduta del socialismo nel suo paese, attraverso lo sviluppo delle posizioni revisioniste all’interno del Partito del Lavoro, e richiamato all’importanza della vigilanza contro le deviazioni dal marxismoleninismo, sempre in agguato. Ha fatto notare che con le aggressioni armate imperialisti e fascisti non hanno mai vinto il comunismo, esso è stato invece minato al suo interno dall’attività liquidatoria della borghesia, battuta ma non eliminata, infiltrata negli stessi Partiti Comunisti. Numerosi sono stati gli interventi con proposte e idee per portare avanti la battaglia politica nel nostro paese, in conclusione dell’assemblea i compagni si sono presi come impegno quello di valutarli e sintetizzarli in proposte operative per prossime iniziative che facciano del coordinamento dei comunisti uno strumento per valorizzare e scambiare le varie esperienze di lotta del proletariato e un avanzamento nella battaglia per la ricostruzione di quel Partito Comunista di cui si parla e di cui si ha impellente bisogno.

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USA/violenza criminale

Il male interno

Gli omicidi di massa nell’informazione della sinistra americana. Anatomia di una psicosi nazionale Luciano Orio Cinque giorni dopo l’assalto di Sayfullo Saipov, il lupo solitario terrorista che ad Halloween attaccò pedoni e ciclisti a New York, uccidendo 8 persone e ferendone 12, un altro lupo solitario ha attaccato in modo terroristico una piccola comunità texana, Sutherland Springs (362 abitanti). Il terrorista, Devin Kelley, ha ucciso 26 persone e ne ha ferito altre 20 nella locale First Baptist Church. Un mese prima, il 3 ottobre, a Las Vegas, Stephen Paddock, 64enne pensionato speculatore immobiliare e giocatore d’azzardo, sparò con i suoi fucili d’assalto da una stanza al 32° piano di un hotel adiacente sulla folla che assisteva ad un concerto musicale, uccidendo 59 persone e ferendone oltre 500. Cosa succede? Anche la più superficiale delle analisi non può non registrare la profonda crisi interna in cui sprofondano gli USA. Certo, la maggior disponibilità di armi si lega con l’aumento della violenza criminale. Ma quello che non si vede è il contesto globale: 2/3 dei decessi causati da armi da fuoco sono dovuti a suicidio, il cui tasso medio è cresciuto dal ’99 al 2014 del 24%. Nessun’altra nazione conosce un tasso così elevato di violenza. Gli americani possiedono 265 milioni di armi da fuoco, più di una per adulto. Si sono verificate 1516 mass-shootings (sparatoria di massa: viene definita così quando, nel corso dell’evento, quattro o più persone sono colpite) in 1735 giorni, cioè in media una ogni dieci giorni. È interessante sapere che lo stock nazionale di armi da fuoco è cresciuto tra il ’94 e il 2015 di oltre 70 milioni e metà dell’intero stock appartiene al 3% della popolazione. Se i sintomi non sono quelli di un esaurimento nervoso, generalizzato all’intera popolazione, poco ci manca. Pur avvezzi all’alta frequenti di questi o simili eventi, gli States si trovano di fronte l’entità di massacri da lasciare sbigottiti. La risposta ufficiale, affidata al presidente Trump, è quanto di più demenziale ci si potesse attendere: “un atto di puro e inqualificabile male”. Affermazione che a suo modo fa il paio con quanto dichiara il nostro, di presidente, quando, chiamato a commentare le stragi che quotidianamente si verificano sul lavoro, tuona il consueto “è inconcepibile”. Entrambi, invece di entrare nel merito, preferiscono tenere un profilo vago sulle cause di queste tragedie. Abbiamo cercato così un’opinione diversa da quelle ufficiali (e inutili) cercando in autori e giornalisti della stampa di sinistra valutazioni e commenti che altrove non si possono trovare. Quello che segue è il resoconto che ne abbiamo tratto; un film-horror sull’America d’oggi, sullo stato della sua popolazione e non ultimo sulla guerra di classe. Scrive Edward Curtin nel suo articolo Il massacro di Las Vegas: la narrazione dei media è un imbroglio (Global Research 7.10.17): “Non c’è niente di nuovo. Questo è il loro modus operandi. Sommergere la gente con una sovrabbondanza di informazioni e tutto diventa chiaro. Ma è una falsa chiarezza, indotta per confondere. Racconta la storia in grande e ad alta voce, raccontala da diverse angolazioni, e diventerà arduo pensare correttamente, specialmente quando vi si aggiungono tutte le tristi storie di vittime innocenti, di morti e feriti. La corrente ufficiale e più importante dei media (mainstream) ci racconta in dettaglio la vita da giocatore d’azzardo di Stephen Paddock, le sue case e i suoi affari in beni immobili, quanto ha pagato per questi, la sua collezione di armi da fuoco arrivata a 47, comprese tutte quelle (23) nella sua stanza d’albergo, il numero esatto dei colpi che aveva nella sua auto (1600), come ha sparato dalle finestre della stanza del suo albergo ecc. Ci raccontano ciò che suo fratello e la sua donna dicono di lui: sono scioccati, era proprio una persona normale; non riescono a spiegarselo. Ci dicono che ha avuto la stanza gratuitamente, quanto tempo vi si è fermato e che aveva progettato di scappare. Saputo quante persone sono morte (59) e quante ferite (527), ci ricordiamo vagamente questi numeri, specie l’ultimo. Una persona normale si sente proprio sopraffatta da tutte le informazioni, i numeri; intristita e depressa per tutte le vittime, e più impaurita. Un mistero viene creato, un mistero che può essere ponderato e pseudo-dibattuto all’infinito: perché mai una persona apparentemente normale, anche se leggermente eccentrica, compie una cosa così orribile? C’era qualcosa di sbagliato nella sua testa? Ma se è andato fuori di testa improvvisamente, perché ha acquistato così tante armi in un tempo così lungo? Un progetto a lungo termine può essere compatibile con un’improvvisa follia? Era mentalmente malato? Il “dibattito” nazionale, come lo chiamano, girerà tra

armi e malattie mentali e i media manterranno la storia per un tempo infinito con le opinioni degli esperti. E tutta questa infinita conversazione distrarrà l’attenzione della pubblica opinione dall’essenza di questo caso e da altri argomenti che non siamo in grado di focalizzare al momento. Quello che i media non dicono è che secondo testimoni oculari e riprese video c’erano almeno due altri tiratori, forse di più, uno sul piano inferiore e un altro al Bellagio hotel che era chiuso. Ciò significa che era in corso un complotto. Non lo dicono, così qualcuno come me può dirlo ed essere etichettato come “complottista”, il termine già coniato dalla CIA per insozzare chiunque si interroghi sulla versione ufficiale dell’assassinio di John Kennedy. Io spero che siano i lettori stessi a ricercare questi argomenti, e se scoprono che c’è un’evidenza che prova che ci fosse più di un tiratore, allora, proprio come nel caso dell’assurdità del magico proiettile del caso Kennedy, concluderanno, ipso facto, che i media ufficiali sono coinvolti nella copertura di un complotto, che è esso stesso un complotto – un complotto di fatto, non un complotto in teoria. E se è così, si chiederanno perché, e chi viene protetto. Cui bono? A chi serve? Perché i media più importanti spingono questo racconto del solitario sparatore impazzito?” Complottismo o teorie cospirative di vario genere sono elementi comuni nell’analisi politica degli States, abbondantemente usati nel lessico dell’americano medio. Questo “costume” culturale è il riflesso della storia stessa del paese in cui tanti e grandi misteri venivano archiviati e mai risolti. Negli anni recenti sotto la voce complottismo stanno ad esempio l’assassinio del presidente Kennedy nel 1963 e l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Sulla stessa linea è Paul Craig Roberts, sempre su Global Research del 5.10.17 (La sparatoria di Las Vegas. Spiegazioni ufficiali e domande senza risposta): “Ecco alcuni dei fatti riportati da considerare. Le vittime tra morti e feriti sono 573. Questo numero rappresenta la dimensione di un battaglione militare. È molto difficile trasformare un intero battaglione in morti e feriti con piccole armi da fuoco, perfino nella situazione di una feroce battaglia. Non so se sia mai successo. Può una persona senza addestramento militare sparare dal 32° piano, ciò che richiede una speciale capacità di mira, a una distanza di 390 yards – la lunghezza di 4 campi da calcio – e colpire 573 persone in pochi minuti di fuoco? Ci sono testimonianze di molteplici sparatori. Ci sono resoconti di spari dal 4° piano. Stephen Paddock non ha il profilo di uno psicopatico. Dicono fosse un multimilionario con aerei e pilota personale. Amava la vita. Il fratello è ammutolito, dice che non ha alcun senso che Stephen abbia fatto quel massacro. Il Mandala Bay Hotel è un casinò. Allora dovrebbero esserci telecamere ovunque. Perché non ci sono filmati che documentano il trasporto di 23 armi da fuoco e munizioni da parte di Paddock? Come ha potuto il servizio di pulizia dell’hotel non vedere per tre giorni 23 armi da fuoco e relativo munizionamento? Non c’è senso. Stiamo aspettando di sentire dalle autorità come una persona a una tale distanza possa essere in grado di colpire così tanta gente in così poco tempo e con quale fucile automatico e di quale calibro. A questo punto della storia è particolarmente difficile credere che avremo qualche spiegazione. La lobby che ha il controllo sulle armi da fuoco ha un massiccio interesse nella storia ufficiale. Puoi scommettere la tua vita che la lobby delle armi ignorerà ogni e

qualsiasi problema connesso con la storia ufficiale. La storia è ciò che essi vogliono che sia per progredire nel loro intento. Ricordate sempre la domanda Romana: “a chi giova?” Ecco dove troverete la risposta. Ho parlato con molte persone esperte inclusi tiratori della Marina USA. Non credono a una parola della storia ufficiale. Dovremo, ancora una volta, sbarazzarci degli esperti etichettandoli come “complottisti” come fu fatto con i 3000 architetti e ingegneri che contestarono la versione ufficiale dell’11 settembre?” Ne “Il male interno, “The Resident Evil”, di Jeffrey St.Clair, su Counterpunch del 6.10.17, gli argomenti si fanno più politici, meno sensazionali ma più meditati e mirati. “Alla fine abbiamo scoperto che per far retrocedere per qualche ora il RussiaGate da notizia principale ci sono voluti tre devastanti uragani e una sparatoria di massa con quasi 600 vittime. Trump, il teologo in capo, ha informato la sgomenta platea nazionale che questo bagno di sangue a Las Vegas è stato un atto di “puro” e “inqualificabile male” – inqualificabile, si può presumere, perché appellarsi al male gli richiederebbe di affrontare il male specifico, al lavoro, in termini concreti, definire le condizioni in cui è stato covato e punire le istituzioni che traggono profitto dalla sua esistenza. Politicamente meglio tenere un profilo vago ed escatologico del “male” di Vegas. Quelle poche persone che sembra abbiano conosciuto bene Paddock dicono che si comportava abbastanza normalmente con loro, nella media come il vostro ragazzo bianco di mezza età, un po’ burbero e non particolarmente allegro, ma senza segni esterni di rabbia violenta. Se aveva una passione, sembra fosse per il gioco d’azzardo. Ma quanti giocatori passano ore ed ore scommettendo sulle slot machines o a video poker? Forse Stephen Paddock è nei fatti un tipo di persona normale nell’America tardo capitalista. Come molti altri assassini di massa, il sistema nervoso di Paddock ronzava di antidepressivi serotonin, incluso diazepam, il crack bianco, venduto al mercato a milioni di depressi suburbani come valium. Cosa motivava l’inquietudine di Paddock? Era crollata la sua fortuna? Forse alla fine i casinò avevano preteso il saldo del loro terribile lavoro, come fanno sempre? A biglietto scaduto, ha voluto avanzare un reclamo come supremo assassino di massa americano? Se così fosse, i media sarebbero ben felici di riconoscerglielo, anche se egli non può condividere quel terribile onore. Il titolo di maggior assassino di massa – sul fronte domestico – spetta al Col. James Forsythe, e agli uomini del Settimo Cavalleggeri, che massacrarono non meno di 300 uomini disarmati, donne e bambini a Wounded Knee nel freddo mattino del 29 dicembre 1890. Naturalmente, gli omicidi di massa commessi dallo stato non contano nel libro dei crimini record. Non sono nemmeno considerati massacri. Dopo Wounded Knee, altri 20 di quegli assassini furono premiati con la medaglia d’onore del congresso per il loro “coraggio”. Sempre dai media ufficiali apprendiamo che a Vegas sono state ammazzate più persone di quante sono uccise ogni giorno nelle guerre in Iraq e Afghanistan. Americani, ovviamente. Ma così si capovolge il problema. Il killer di Vegas era un americano e tali sono gli assassini al lavoro in Afghanistan ed Iraq, dove 60 combattenti, contadini o bambini vengono mediamente uccisi ogni giorno dal bottone di comando a distanza di un drone. Ma i nostri media dicono che “Nessun paese risponde alle tragedie come l’America.” Certo, ma nessun paese provoca tragedie come l’America. Ad ogni modo, ci sono già state 338 sparatorie di

massa negli USA quest’anno – cioè più di una al giorno. Ma siamo arrivati al punto in cui se vuoi guadagnarti i titoli di testa e apparizioni in tv devi ammazzare a modo tuo in doppia cifra. Mi diverte osservare le contorsioni che media ed élite politiche compiono per evitare di menzionare la più comune delle lezioni da trarre dal pericoloso andamento delle sparatorie di massa: la violenza finanziata dallo Stato diffonde violenza dentro lo stato. Ad oggi siamo stati in guerra per 16 anni consecutivi, una guerra che si è espansa dall’Afghanistan all’Iraq, al Pakistan, Somalia, Libia, Yemen, Siria, Niger. Un così sostenuto livello di omicidi comporta un pesante dazio fisico e psichico da pagare per la nazione. Per me non è una coincidenza che il massacro di Vegas sia successo a poche miglia di distanza dalla base aerea di Creech, dove i piloti di drone americani svolgono il loro sporco lavoro a distanza. Ci dicono che non possiamo far niente per arginare questo spargimento di sangue, tranne armarci di più e prepararci all’assalto. Semplicemente le sparatorie di massa sono il prezzo della libertà. Libertà per cosa? Libertà per fare che? Le fantasie liberali per minimizzare il conto dei morti attraverso la restrizione nella vendita di armi o il divieto dei fucili d’assalto sono balle per creduloni. È triste che in un paese con un sistema sanitario fallimentare, le armi da fuoco vengano usate sempre più come ultima risorsa per porre fine alla sofferenza fisica e psichica. Di 33.638 decessi causati dall’impiego di armi da fuoco nel 2013, 21.175 sono suicidi. Il tasso più elevato è tra i veterani militari (67%). Le armi da fuoco stanno diventando la morfina delle masse bianche. In termini di peso politico, il 2° Emendamento* dovrebbe classificarsi al primo posto, tutti gli altri sono secondari con piena consapevolezza di Washington. E nessuna noiosa disquisizione sulle intenzioni dei fondatori è stata falsata dalla NRA*. Se la Costituzione è un documento vivo, è anche un documento omicida, consacrato nel sangue, che ha sempre sostenuto la supremazia della proprietà sul popolo, con la forza quando è necessario. Ogni volta che un omicidio di massa prende la copertura dei media, gli indici di vendita di armi guizzano e i prezzi dei fabbricanti salgono, come se le sparatorie stesse fossero dimostrazioni in pubblico. Non mi sarei meravigliato se Trump avesse twittato salutari notizie economiche dopo il massacro di Vegas. Stephen Paddock conosceva il punteggio. Aveva lavorato per anni come contabile alla Lokheed-Martin, registrando i profitti fatti dai mercanti di morte. Questo è un altro modo per dire che il governo è complice nel massacro di Vegas. Non ha tirato il grilletto, ma ha innescato la mente che lo ha compiuto e reso accessibile lo strumento di morte. Così ogni ricerca di risposte deve iniziare non da quel garage a Mesquite, ma nelle sale del Pentagono, del Congresso e del Dipartimento di Giustizia. Dato che confiscare armi ai cittadini è impossibile e perfino non desiderabile, dovremmo iniziare il nostro movimento per il controllo delle armi con il disarmo della polizia, che niente ha fatto per interrompere questi omicidi di massa, ma che ha ucciso 911 altri cittadini americani dall’inizio dell’anno. Non c’è diritto costituzionale che preveda l’armamento dei poliziotti in servizio. È tempo di confrontarci con il male interno”. Un’altra sparatoria, un altro giorno in America. Perché dunque questa routine omicida pervade gli Stati Uniti? Nel suo articolo “We have met the enemy and he is us” (Abbiamo conosciuto il nemico ed è noi), prova a rispondere John Wight, su Counterpunch 11.10.2017”. Non è la legge sulle armi l’argomento centrale quando ci si occupa delle sparatorie di massa che con banale regolarità si verificano nella terra della libertà, è invece la cultura che sottostà a questa legge – una cultura sintomatica della malattia morale di cui il paese soffre, e per la quale nel 2017 sembra non esservi cura. Nella scia dell’ultimissimo massacro interno, ad un festival musicale all’aperto a Las Vegas (573 vittime di cui 59 morti), lo stesso dibattito sulla legge sull’uso delle armi da fuoco ha portato alla venerazione del diritto dei cittadini a portare armi. I sostenitori del Secondo Emendamento della Costituzione USA, adottato e ratificato nel 1791 in un tempo in cui armi automatiche e semi automatiche erano lontane dall’essere inventate, argomentano che la libertà in America significa la libertà di poter camminare fino ad una armeria in un qualsiasi giorno e procurarsi una potenza di fuoco in grado di uccidere un branco di elefanti. Ma la questione, come dicevamo, non riguarda il giu-

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razzismo

Una nuova piaga per l’italietta

Scende sempre più in basso il livello del dibattito sul tema migratorio. Oltre al becco Salvini ci si mette anche il governo Pacifico Il livello del dibattito pubblico sui fenomeni migratori, lo sappiamo, è quello che è: sconsolante. A stupire ogni volta è l’assoluta mancanza di dati di fatto in grado di giustificare, almeno parzialmente, le paure sociali generate dalla costante e asfissiante polemica politica sui migranti. Basta vedere un solo telegiornale Me(r)diaset per farsi venire il fegato amaro. Sparano a ripetizione servizi contro il degrado portato dagli stranieri, la solita intervista al rincoglionito (italianissimo ça va sans dire) di turno che facendo strage della sua stessa lingua, fa commenti truci e privi di senso su arabi e africani. A rincarare la dose poi ci sono stati i casi della morte di malaria di una bambina a Brescia, e il caso Chikungunya che si è scatenato nella regione Lazio. In entrambi i casi il nesso eziologico con i fenomeni migratori è stato smentito, ma il pregiudizio, si sa rimane. Anche perché le smentite a certe stupidaggini, non vengono mica strombazzate. Sbatti il mostro in prima pagina è l’imperativo. Per non parlare poi dei casi di stupro. Se fatto da uno straniero fa notizia, se fatto da carabinieri si tace, altrimenti è la donna che se l’é cercata (http://www. lastampa.it/2016/09/11/italia/cronache/se-l-andataa-cercare-il-paese-volta-le-spalle-alla-ragazzina-violentata-zzOxJ18IlHQP1vHsG4HDOO/pagina.html). Desolazione totale! Nel 2010 ci fu uno studio dei medici di Medicina Generale di Monza, ove si smentiva categoricamente che gli immigrati portassero malattie pericolose per gli autoctoni, gli studi dimostrano che le malattie ginecologiche, dell’apparato genitourinario, cardiovascolari, metaboliche ed endocrine incidono egualmente nella popolazione immigrata irregolare e in quella italiana. Invece le malattie respiratorie, gastroenteriche e psichiche e le malattie gravi sono meno presenti negli immigrati irregolari rispetto agli italiani; solo i dolori articolari e ossei e le malattie della pelle, queste ultime meno rilevanti in termini di salute, sono maggiori tra i cittadini stranieri irregolari. Quella dei migranti è una popolazione sostanzialmente giovane e sana su cui vanno a incidere fattori di rischio comuni in situazioni di povertà. Le precarie condizioni di vita, di lavoro, la mancanza d’informazioni e lo scarso accesso alle strutture sanitarie gravano pesantemente sul benessere dei migranti, e, ahi noi, degli italiani, come abbiamo avuto modo di documentare in precedenti numeri di questo giornale. Dimentichiamo un attimo le fantastiche elucubrazioni “mentali” dell’italiano medio (sotto la media rispetto agli altri bipedi del globo), per concentrarci su qualche numero, che, come sapete, hanno la testa dura. Secondo alcuni di questi dati, scopriamo che l’Italia è l’ottavo paese al mondo per numero di emigranti (250.000 nel 2016). Il problema dei tanti italiani che abbandonano l’Italia è stato segnalato qualche giorno fa anche dall’Ocse. Nell’ultimo report sui migranti l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici ha fatto presente che l’Italia è tornata a essere ai primi posti mondiali come Paese d’origine degli immigrati. Secondo l’Ocse, la Penisola è ottava nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza di nuovi immigrati. Al primo posto c’è la Cina, davanti a Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è subito dopo il Messico e davanti a Vietnam e Afghanistan, con un aumento degli emigrati dalla media di 87mila nel decennio 2005-14 a 154mila nel 2014 e a

sto o sbagliato del Secondo Emendamento, la questione è la cultura della violenza sposata alla quasi totale mancanza di coesione sociale che pervade un paese che soffoca dal peso della propria nauseante ipocrisia. Queste sono le cause che sottostanno a sparatorie e massacri così onnipresenti da diventare parte del tessuto culturale come il Superbowl e le tette di Kim Kardashian. I commenti della destra che ha descritto quest’ultima atrocità come un “prezzo della libertà” sono l’evidenza di una psicosi di massa che passa come una normalità in vaste superfici d’America. Penetrando nei miti fondativi sui quali gli Stati Uniti si autosostengono – rozzo individualismo, auto fiducia, l’apoteosi della proprietà privata e della ricchezza personale, conditi con le virtù del lavoro, l’auto disciplina e l’esaltazione della violenza “giustificata” – ci troviamo di fronte un’orribile realtà nella forma di una società a diffusa atomizzazione, a supremazia bianca, assieme a una pervasiva ed irrazionale paura del governo centrale, alimentata da teorie cospirative. Aggiungi a questo cocktail letale il senso di eccezionalismo che ispira la cultura politica del paese e un’industria dell’intrattenimento e di cultura della celebrità che distorce la misura vera del valore umano.

171mila nel 2015, pari al 2,5% degli afflussi nell’Ocse. In 10 anni l’Italia è “salita” di 5 posti nel ranking di quanti lasciano il proprio Paese per cercare migliori fortune altrove. (Fonte: www.ilsole24ore.com/art/ notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-094053. shtml?uuid=AEuX6nsB&refresh_ce=1). In Italia c’è in effetti un problema migratorio, ma nel senso opposto rispetto alla vulgata comune: dall’Italia si emigra troppo. Gli italiani, insomma, raccontati come accoglienti verso gli stranieri in fuga, sono piuttosto un popolo accolto dagli altri paesi. Basterebbe solo questo dato per destituire di fondamento qualsiasi polemica politica sul fenomeno migrante in Italia. Ma ce n’è un altro altrettanto decisivo per smontare le narrazioni razziste che egemonizzano il confronto politico: a fronte dei 250.000 italiani emigrati, nel 2016 sono entrati in Italia complessivamente 181.000 migranti. Il saldo è negativo per 69.000 persone! L’Italia, insomma, è un paese che si sta lentamente svuotando, complice anche il fatto che il saldo delle nascite è inferiore rispetto a quello dei decessi. Oltretutto, bisogna aggiungere che dei 181.000 arrivati una quota importante transita per l’Italia verso altri paesi. Facciamo pure finta che rimangano tutti qua da noi: in Italia ogni anno escono più persone di quante ne entrino. Di quale “invasione” parlano? Per capire i termini della questione: nel 2015 in Italia sono sbarcate 153.000 persone. Nello stesso periodo in Grecia (in Grecia, un paese di 10 milioni di abitanti e grande un terzo dell’Italia) sono sbarcate 856.000 persone. La conclusione cui si giunge è che siamo un paese povero, che genera emigrazione, e che non si sobbarca neanche il costo della fisiologica immigrazione originata esclusivamente dalle avventure militari e dai processi di impoverimento che i paesi come l’Italia fomentano nel mondo. Anche questo deve essere colpa della disinformazione migrante. Come regalo di primavera, ecco arrivare il decreto Minniti, il ministro più popolare del governo Gentiloni (almeno stando ai sondaggi di regime). I punti principali del decreto sono quattro: l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che hanno fatto ricorso contro un diniego, l’abolizione dell’udienza, l’estensione della rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari e l’introduzione del lavoro

volontario per i migranti. Nel primo grado di giudizio l’attuale “rito sommario di cognizione” sarà sostituito con un rito camerale senza udienza, nel quale il giudice prenderà visione della videoregistrazione del colloquio del richiedente asilo davanti alla commissione territoriale. Senza contraddittorio e senza che il giudice possa rivolgere domande al richiedente asilo che ha presentato il ricorso. Molti giuristi hanno sostenuto che il decreto Minniti-Orando non è in linea con la Costituzione italiana e con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. In particolare violerebbe l’articolo 111 della Costituzione (il diritto a un giusto processo), l’articolo 24 (il diritto di difesa), e l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto al contraddittorio). I punti più contestati sono l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo e la cancellazione dell’udienza. Anche i residuali, e mai applicati, diritti riconosciuti dal diritto borghese, vengono meno. Addirittura, con la scusa del risparmio (sempre sulla pelle dei poveri che si fa economia), si nega al richiedente di poter presentare al giudice tutti gli elementi di fatto e di diritto, utili per la sua richiesta (per approfondimenti, guardare l’articolo al sito internet www.internazionale.it/notizie/annalisacamilli/2017/04/12/decreto-minniti-orlando-legge). A questo si aggiunge l’impegno governativo sul fronte dei rimpatri. Il grido all’unisono è “Rimpatriamoli! Rimandiamoli a casa loro!”. Se almeno evitassimo di bombardarle… Nel Decreto Minniti-Orlando compare difatti anche il rifinanziamento per 19 milioni di euro del fondo spese destinato ai viaggi di rimpatrio forzato. Anche in questo caso qualche numero ci fa riflettere circa la demagogia che viene vomitata dalla politica. Tali rimpatri forzati non costano mai meno di cinquemila euro cadauno, ma, quando si tratta di raggiungere paesi lontani, tale somma può facilmente raddoppiare. Il calcolo è presto fatto: cinque biglietti aerei (tre di andata e due di ritorno, giacché ciascun “espulso” deve essere accompagnato da due agenti di pubblica sicurezza); più l’albergo e il vitto per i funzionari in trasferta; più l’indennità di missione. Uno sforzo replicato fino a oggi cinquemila volte all’incirca ogni anno. L’obiettivo dichiarato dal ministro Minniti è di raddoppiare questa cifra. Grazie ai nuovi fondi stanziati si potranno raggiungere le diecimila espulsioni all’anno. Il plauso è generalizzato, come sempre quando un politico promette che i non aventi diritto – semplici migranti economici – verran-

Ci meravigliamo che la malattia mentale sia così onnipresente in una società in cui la rapace competitività e il religioso attaccamento all’acquisto ha ridotto l’esperienza vissuta della maggioranza dei suoi cittadini ad una pressione insostenibile non solo per riuscire ma per molti di più semplicemente per sopravvivere? Dall’altra parte di questa lugubre equazione sta un sistema sanitario e assistenziale che testimonia dell’assenza radicata di umanità che nessuna vanteria sulla bontà innata dell’America o promessa possono elidere, fornendo gli ingredienti che servono a produrre assassini di massa come Stephen Paddock. La cultura delle armi in America è poi centrale per l’imposizione della legge. Il numero smodato di gente ammazzata da poliziotti in tutto il paese, su base regolare, ha molto a che fare con una peculiare tradizione di controllo sociale, nato dalla deumanizzazione del povero e/o delle minoranze, che del resto compongono la vasta maggioranza di vittime della violenza poliziesca in tutto il paese. Davvero, a questo proposito, le cose sembrano arrivate al punto in cui l’imposizione della legge negli Stati Uniti sembra significhi l’esecuzione capitale di giovani maschi neri, indifferentemente che siano armati o disarmati e che sia diventata più accettabile che “proteggere e servi-

re”. L’esaltazione della violenza è allo stesso modo riflessa in un’aggressiva politica estera che è responsabile per la morte di più persone al mondo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Così, quando il leader per i diritti civili, dott. Martin Luther King, anche lui assassinato da un pazzo pistolero solitario, descriveva il governo USA come “il più grande fornitore di violenza al mondo”, mai disse parola più vera. Sono parole confermate dal lancio di due bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki in Giappone, dalla distruzione di Corea del Nord, Vietnam, Afghanistan, Iraq e Libia, non dimenticando le innumerevoli guerre per procura fomentate in Centro e Sud America e Medio Oriente. Così, stiamo trattando di una cultura nella quale la capacità di diffondere violenza letale su scala di massa viene lodata nei film o in televisione, in cui la venerazione per il rude poliziotto e la glorificazione del militare sono conformi alla de-umanizzazione del povero e delle minoranze e nel quale il Secondo Emendamento è trattato in modo che la sola allusione alla sua riforma sia considerata sacrilegio. Ecco perché nel 2017 la minaccia più grave al cittadino medio americano non sono Nord Corea, Russia o Iran – se non perfino il terrorismo – ma è invece

Decreto Minniti

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no smascherati e rispediti a casa loro. Peccato che i non aventi diritto – secondo le normative vigenti – siano ben più numerosi. L’aumento da cinquemila a diecimila rimpatri forzati annui va considerato alla stregua di un’esibizione muscolare che non modifica i termini del problema. In altre parole, trattasi di demagogia: compiacere il popolo con una falsa soluzione, in perfetta cattiva fede. In questo clima che si è manifestato lo sgombero di piazza Indipendenza a Roma lo scorso agosto. Lì si sono potuti vedere gli effetti della macelleria sociale di cui siamo, TUTTI, vittime soprattutto negli ultimi 10 anni. Macelleria sociale fatta di precarietà, accettazione delle istituzioni del lavoro sottopagato e in nero (anzi legalizzato con i voucher), aumento a dismisura dell’età pensionabile, mancata assegnazione delle case popolari, e mancata costruzione di nuove (però si trova sempre spazio e denaro per fare stadi nuovi e cattedrali nel deserto in vista di discutibili eventi come mondiali e mondialini vari ed EXPO), sgombero di disperati e disoccupati che occupano palazzi vuoti, ma guanto di velluto verso chi costruisce abusivamente creando disastri nell’ambiente specie quando vi sono fenomeni come temporali e nevicate, respingimento di migranti poveri, ma decurtazione fiscale per quelli ricchi che vengono ad “investire” qui, così come si permette al miliardario di non pagare tasse sulla prima casa. Risultati: sono quasi cinque milioni gli italiani in povertà assoluta, circa otto quelli in povertà relativa, più di dodici quelli che rinunciano alle cure mediche perché non possono permettersele. Gli stessi che hanno votato e scritto le leggi che hanno moltiplicato i poveri, sguinzagliano in strada i poliziotti per farli sparire. Il razzismo è odioso, riluttante, ma soprattutto è lo strumento che il potere borghese utilizza per auto conservarsi. Necessario, per coinvolgere i settori popolari vittime del populismo, del fascismo, eredi del Decreto-Legge 1728 del 17 novembre 1938 sui Provvedimenti per la difesa della razza voluto da Mussolini e controfirmato da Vittorio Emanuele III. Legge sostenuta da Almirante (che fu anche segretario della rivista “La Difesa della Razza”), che nel 1942 sosteneva: “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore”... “Altrimenti finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani di noi, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”. Ciononostante Almirante entrò nel Parlamento dell’Italia post Resistenza. Impostare il discorso in termini antifascisti e antimperialisti, e non in quelli, di cui spesso la sinistra da salotto si riempie la bocca, di buonismo acritico.

l’organizzazione che esiste per proteggere il diritto a portare armi, un’organizzazione il cui denaro e la cui influenza politica sono riuscite a bloccare ogni possibile cambiamento alla legge nazionale sulle armi. Questa organizzazione è la National Rifle Association (NRA). È un’organizzazione che letteralmente gronda del sangue delle 59 vittime del massacro di Las Vegas, e di quello delle innumerevoli decine di migliaia di vittime di violenza armata in tutta America. Stephen Paddock non è un’aberrazione né morale né culturale dei difensori del dettato del Secondo Emendamento. Infatti, la storia del paese è riempita con innumerevoli migliaia di Stephen Paddock, irresponsabili macellai senza guinzaglio contro i nativi Americani, i neri ed i poveri, a rendere evidente che la vera storia d’America è una storia di psicopatica violenza rinvigorita dal balsamo della bibbia nel cui nome i crimini che hanno e che continuano ad essere commessi si fanno legione. Abbiamo incontrato il nemico ed è noi”. * NRA (National Rifle Association): organizzazione che agisce in favore dei detentori di armi da fuoco degli USA. Fondata nel 1871, viene definita la più antica organizzazione per i diritti civili degli Stati Uniti, dove il possesso o il porto di un’arma costituisce un diritto civile protetto dalla Costituzione statunitense (il 2° emendamento)

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Russia

La Rivoluzione d’Ottobre e gli odierni rimpianti per l’impero zarista Si inaugurano sempre nuove targhe e busti agli “eroi” zaristi e ai “paladini” dei 14 Stati stranieri che intervennero nella guerra civile del maggio 1918 con la rivolta in Siberia dei cecoslovacchi bianchi pagati dalla Francia

Fabrizio Poggi Lo scorso 10 novembre, Jurij Gorodnenko (emigrato politico ucraino in Russia) scriveva su Svobodnaja Pressa che quasi tutte le pubblicazioni e trasmissioni dedicate al centenario dell’Ottobre hanno lasciato in ombra il suo significato per lo Stato russo. Eppure, notava, nel 1991 la Russia si è dichiarata legale continuatrice dell’URSS e ne ha occupato il seggio all’ONU; ne discende, che la Russia attuale è in continuità con la RSFSR che, proclamata nel gennaio 1918, già nel dicembre 1917 trattava però sia con l’impero germanico che con la Finlandia, evincendosi dunque che l’effettiva data di fondazione fosse il 7 novembre 1917, giorno della Rivoluzione e che la Russia attuale, in continuità con la RSFSR, non abbia alcun legame con l’impero zarista. Nonostante ciò, concludeva Gorodnenko, nessun media ufficiale russo ha parlato del 7 novembre 1917 quale data di inizio dello Stato russo. La trama che ha accompagnato la maggior parte delle rievocazioni mediatiche è stata però quella – quasi crociana, verrebbe da dire – della congiura straniera e di una “parentesi infernale” nella storia russa, durata 70 anni e fortunatamente chiusa, con il ritorno al posto che loro spetta di tutti i maggiori “eroi” zaristi: da Stolypin, a Witte, fino al “ingiustamente vituperato” Rasputin, vittima di un complotto dell’ambasciata britannica. Intervistato da Radio Komsomolskaja Pravda, lo storico Aleksandr Kolpakidi ricorda come il generale golpista Lavr Kornilov fosse al soldo degli inglesi. Le “riabilitazioni” non lo hanno ancora toccato; ma c’è ancora tempo: i media ufficiali sproloquiano da anni della “cospirazione” bolscevica e straniera per la disfatta in guerra della Russia. In una serie di documentari che pretendono di tracciare la “Storia autentica della rivoluzione russa”, si dice che “giornali e opuscoli clandestini, stampati in Germania e Svezia e rivenduti poi a caro prezzo agli operai russi, costituirono un’enorme fonte di entrata per i bolscevichi”, accreditando così la tesi dei “finanziamenti stranieri a Lenin”. Peccato che la Pravda fosse di per sé redditizia, non per l’alto prezzo di vendita, ma perché andava a ruba tra gli operai. Stessa cosa per il famoso “oro tedesco”, caro alla propaganda occidentale e veicolato ora dai media russi: “nessun documento russo o tedesco, nonostante la teutoni-

ca pedanteria a registrare tutto” afferma Kolpakidi, “ha mai testimoniato di quel fantomatico oro”. Ma tant’è: il ritornello è quello del “colpo di Stato bolscevico”, fomentato da un’ideologia estranea ai sentimenti nazionali, che avrebbe “diviso la società” ed è quindi tempo di riunificarla; è quello di un “impero russo prospero, ai primi posti nel mondo per sviluppo industriale, ricacciato indietro dal golpe comunista”! Un impero che si stava sviluppando economicamente – è stato raccontato in decine di documentari - al pari e forse più dei maggiori Stati europei e che è stato liquidato da pochi terroristi, estranei alla concordia nazionale. Uno sviluppo, si evita però di dire, in cui gli investimenti russi costituivano appena il 28%, contro il 72% di capitali inglesi, francesi, americani, belgi, tedeschi, svedesi. Il sociologo Igor Čubajs, ancora su Radio KP, si è detto convinto che se non ci fosse stata la rivoluzione, oggi “l’America ci invidierebbe”. Tra le altre farneticazioni, egli rimpiange 5,5 milioni di kmq che, a suo dire, la Russia avrebbe perduto in 70 anni di potere sovietico; rimpiange Costantinopoli e parte della Turchia, che l’impero zarista avrebbe potuto ottenere con la prima guerra mondiale; rimpiange la perdita di Polonia, Finlandia, Ucraina ed è convinto che, in base ai calcoli di Mendeleev, in Russia vivrebbero oggi almeno 600 milioni di persone, governate saggiamente da un discendente di Nikolaj II. Anche secondo la chiesa ortodossa, l’ideologia comunista fu introdotta in Russia dall’esterno e dunque non si devono definire “rivoluzione russa” gli avvenimenti del 1917, altrimenti tutte le colpe ricadono sulla società russa e questa, “vittima di quegli avvenimenti, viene trasformata in colpevole”. È così che Vladimir Putin parla di “controversi risultati” della Rivoluzione d’Ottobre, dell’intreccio tra “conseguenze negative e positive” e si chiede se “non sarebbe stato possibile uno sviluppo su una strada evolutiva e graduale”. E, alla vigilia della festa dell’Unità nazionale (che dal 2005 si celebra il 4 novembre, a ricordo dell’insurrezione contro il dominio polacco nel 1612, mentre il 7 novembre è giorno lavorativo) ha detto di sperare che tale festa venga “percepita dalla nostra società come linea di confine con i drammatici eventi che avevano diviso il paese e il popolo, che

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essa diverrà il simbolo del superamento di quella divisione e del reciproco perdono”. È quindi per il “reciproco perdono”, che si inaugurano sempre nuove targhe e busti agli “eroi” zaristi (l’ammiraglio Kolčak, i baroni Mannerheim e Vrangel) e ai “paladini” dei 14 Stati stranieri che intervennero nella guerra civile scatenata nel maggio del 1918 con la rivolta in Siberia dei cecoslovacchi bianchi pagati dalla Francia. L’ultimo, in odine di tempo, il bronzo di quattro metri allo zar Alessandro III - quello che fece impiccare, tra gli altri, anche il fratello di Lenin, Aleksandr; quello delle controriforme assolutistiche scoperto il 18 novembre a Jalta e che V. Putin ha dedicato a “un insigne uomo di Stato, a un patriota” che ebbe sempre “un grande senso di responsabilità personale” per il destino della Russia. E se il 4 novembre 1612 rappresenta effettivamente una tappa fondamentale nella storia russa, con la liberazione di Mosca dal giogo polacco-lituano, è però l’ordinanza con cui nel dicembre 2004 Vladimir Putin istituì la festa a mettere la parola fine alla “ferita aperta dai bolscevichi nella società russa”, allorché recita che “i combattenti delle milizie popolari condotti da Kozma Minin e Dmitrij Požarskij” liberarono Mosca “mostrando un esempio di eroismo e compattezza di tutto il popolo, indipendentemente da origini, credenze religiose e posizione sociale”. Con il che la storia russa può rimettersi in moto all’insegna della concordia nazionale tra quel 70% che campa con redditi al minimo di sopravvivenza e quel centinaio di miliardari i cui patrimoni surclassano il bilancio federale. È così che nei talk show, quando non si può fare proprio a meno di trattare l’Ottobre, quantomeno come spartiacque storico, non se ne parla più come della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre,

ma appena come un proseguimento della rivoluzione borghese di febbraio. Ed è su questa linea che si è colta l’occasione per trasmettere sul Primo canale televisivo il serial “Trotskij”, con l’obiettivo di rendere i protagonisti della Rivoluzione d’Ottobre “personaggetti” da operetta, “demoni”, cospiratori finanziati da Stati stranieri, infatuati delle proprie personali brame di dominio, aristocratici villeggianti in lussuosi caffè, esclusivi palchi a teatro, appartamenti nobiliari di Francia, Svizzera, Austria, Inghilterra, i quali, in combutta con inviati degli imperi austriaci e tedeschi, preparano un “tragico destino” all’operoso popolo russo. Le pose e i gesti di Lenin resi in forma a dir poco comica, l’accentuazione smodata del suo rotacismo fonetico, nel film sono studiate apposta per ispirare antipatia, dipingendo un personaggio nevrastenico e sopraffattore, specialmente nei rapporti personali. Così che il capo bolscevico pare una comparsa di secondo piano, accomunato al protagonista principale, Trotskij, da una sfrenata mania di superiorità, ma inferiore a lui per autorevolezza individuale e politica. In una vicenda ridotta a disputa psico-familiare tra snobistici circoli di emigrati, si è pressoché totalmente trascurato l’attore primo della storia, il proletariato russo, e il ruolo del Partito bolscevico è completamente surclassato dalle manie soggettive di singoli psicopatici. Se i reparti di marinai che respingono il golpe korniloviano somigliano molto a moderni gruppi di black bloc sfasciavetrine, le pose vanagloriose di Trotskij servono a contrapporre la sua “enorme” figura a quella di un ostentatamente “insignificante” Stalin, perfetto picciotto corleonese della più becera commedia italiana, che agisce nell’ombra, alle spalle di un ingenuo Lev Davidovič, la cui tentata avven-

tura golpista del 1927 (ricordate il “Tecnica del colpo di Stato” di Malaparte?) viene naturalmente ignorata. D’altronde, aveva già iniziato Margarita Simonjan, direttrice della “corazzata propagandistica” russa – quella RT accolta come bibbia anche da molta italica sinistra – con il dire come “nel mio organismo si sia formata una resistente allergia a giustificare Stalin”. Evgenij Konjušenko su Svobodnaja Pressa, ha definito il serial “Trotskij” una panzana glamour, il cui scopo era non tanto di ingigantire Trotskij, quanto di degradare il più possibile Lenin e Stalin ed etichettare tutti i rivoluzionari come vampiri sanguinari. In una sequenza di invenzioni, si assicura che leader e genio dell’Ottobre non sarebbe stato Lenin, bensì Trotskij, ma che il secondo lasciò poi generosamente la leadership al primo: una rivisitazione del libro del trotskista americano Max Eastman “Since Lenin died”, peraltro smentita dallo stesso Trotskij già nel 1925. Anche nella morte Trotskij ha la parte di primo piano, provocando Jackson-Mercader a ucciderlo. “Trotsky in tutto e dappertutto; la frase che racchiude l’intero film è: La rivoluzione sono io!” nota Konjušenko; “evidentemente, quando Konstantin Ernst (uno dei produttori del film) ricevette da Eltsin la poltrona al Primo canale, accettò la condizione di descrivere la storia sovietica come un’unica sanguinosa tragedia”. Tirando le somme, Aleksandr Batov, segretario moscovita di Rot Front, rammenta con quante speranze, negli anni ‘90, i comunisti celebrassero il 1917: credevano e speravano di festeggiare il centenario di nuovo nel socialismo e che il capitalismo russo non sarebbe arrivato al 2017. I sovietici erano convinti che il XXI secolo sarebbe stato quello della società comunista universale. Oggi, si stanno aprendo molte “capsule del tempo”, con messaggi di speranze e auguri per i sessantenni di oggi: in tutti, c’è la certezza che nel 2017 saremmo vissuti nel comunismo mondiale, senza guerre, fame, miseria. Leggendo quegli auguri, dice Batov, si prova vergogna per il paese e per il popolo: “Non abbiamo custodito il socialismo e siamo precipitati di nuovo nel medioevo e nello zarismo: sono tornati governatori, bojari, gendarmi, popy: e noi siamo lacchè”. Vladimir Putin si è forse assunto il compito di esaudire i rimpianti del sociologo Čubajs su Costantinopoli e l’invidia dell’America.

I giovani, i lavoratori, gli sfruttati che oggi si avvicinano, tra mille difficoltà e ostracismi, all’idea di comunismo, sa­pranno fare tesoro dei tanti insegnamenti che l’assalto al cielo degli sfruttati del secolo passato ci ha lasciato, a partire dalla formidabile, anche se incompiuta, opera di costruzione del socialismo iniziata da Lenin, da Stalin e dal partito bolscevico, e si potranno così porre le premesse per il rilancio del movi­mento comunista e per una radicale trasformazione della realtà.

“Imparare dalle sconfitte: l’Unione Sovietica dal socialismo alla barbarie” di Concetto Solano edizione “La Città del Sole”, euro 8, si può richiedere tramite email: concetto.solano@gmail.com

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Venezuela

Sorpresa: Simòn Bolìvar è ancora qui Ogni battaglia persa dall’imperialismo è una vittoria dei popoli del mondo, noi compresi Daniela Trollio (*) Ricorderete che questa estate non passava giorno che i giornali non ci informassero della devastante situazione in Venezuela – crisi economica, proteste violente, atti terroristici, centinaia di morti - sicura anticamera del rovesciamento del governo bolivariano di Nicolàs Maduro, il peggior “dittatore” al mondo (Eduardo Galeano, il grande scrittore uruguaiano, ricordava la stranezza di questa “dittatura”: elezioni ogni anno, questa è la 22°, e riconoscimento delle sconfitte quando sono avvenute). Sono stati 120 giorni (da aprile a giugno) di brutale offensiva, una guerra fatta di terroristi perfettamente addestrati ed equipaggiati – stile truppe speciali statunitensi - paramilitari, uso di tecnologie di ultima generazione ed impiego di propaganda che ha visto la stampa globalizzata trasformata anch’essa in un esercito mediatico che combatteva la guerra psicologica. Questa è andata ad aggiungersi alla guerra economico-finanziaria – fatta di accaparramento e scarsità di generi alimentari e medicine organizzata da 20 multinazionali dei settori. Bene, domenica 15 ottobre il popolo venezuelano ha per l’ennesima volta assestato un sonoro ceffone agli uccellacci del malaugurio, come sempre male informati. Con una partecipazione elettorale superiore al 61%, il chavismo si è assicurato 18 dei 23 Stati, raccogliendo il 54 per cento dei voti. Convinta anch’essa di vincere, l’ultradestra raggruppata nella MUD (Tavola di Unità Democratica), aveva nei giorni precedenti “legalizzato” nella sede di Washington dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) un Tribunale Supremo di Giustizia e fatto capire che accarezzava l’idea di formare un Potere Esecutivo parallelo. Ora è a pezzi, si scambia accuse di collaborazionismo e vede andarsene sbattendo la porta l’ex candidato alla presidenza Enrique Capriles. Prima di cercare di analizzare perché il progetto bolivariano ha vinto un’altra volta, e in quali condizioni, una piccola nota di casa nostra: il 26 ottobre scorso, con perfetta scelta di tempo, l’Unione Europea ha assegnato il Premio Sakharov di quest’anno proprio all’opposizione di destra e a sette “prigionieri politici” venezuelani, tra i quali Lorent Saleh, estradato dalla Colombia, dove si era rifugiato dopo aver tentato di organizzare piani cospirativi contro il governo tra cui, come disse in un video, trasmesso dalla televisione venezuelana, “ammazzare 20 pupazzi in 48 ore”, alludendo ad assassinii selettivi di figure importanti del chavismo. Il premio consiste in 50.000 euro, e dal 1988 è stato curiosamente assegnato tre volte a cubani anti-castristi (José Payà, le Damas de Blanco e Guillermo Farinas). Il premio dovrà essere ritirato il prossimo 13 dicembre da Julio Borges, presidente

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dell’ex Assemblea nazionale e capo del partito associato alla MUD Primero Justicia. Peccato che il partito di Borges sia stato sonoramente sconfitto nelle elezioni, abbia perso lo Stato di Miranda e si sia affermato nel solo Stato di Zulia. La presidentessa dell’Assemblea Nazionale Costituente, Delcy Rodrìguez, ha commentato che l’Unione Europea “sorride al fascismo”. Difficile non essere d’accordo con lei.

Il Piano Coniglio Il popolo venezuelano ha votato sotto gli effetti di una implacabile guerra economica che dura da tre anni, e il governo si è imposto anche negli Stati più colpiti da questa guerra asimmetrica. Perché il governo bolivariano continua a vincere, pur nelle condizioni di un feroce attacco economico, militare, mediatico? Per cercare di capirlo non ripeteremo quali sono stati gli avanzamenti del popolo venezuelano in questi ultimi 15 anni, che i nostri lettori conoscono bene, ma useremo un piccolo esempio: il Piano Coniglio. Qualche tempo fa il presidente Maduro, per combattere la crisi alimentare che dall’avvento del presidente Chàvez colpisce il paese - crisi dovuta al fatto che la rete di distribuzione è tuttora in mano alle multinazionali che allargano e stringono le maglie, oltre ad organizzare il contrabbando di alimentari e materie prime nella vicina Colombia - annunciò l’incremento dell’allevamento dei conigli. Omeriche risate, dentro e fuori il Venezuela. Ma il “piano Coniglio” è solo uno dei progetti dei Comitati Locali di Approvvigionamento e Produzione, i CLAPS, che sono formati non da funzionari o incaricati governativi ma da lavoratori e sono responsabili della distribuzione casa per casa di “borse” di alimenti a basso prezzo. Non sono le sole organizzazioni di “democrazia partecipativa”. Insieme alle “Misiones” istituite da Hugo Chàvez, rappresentano decine di migliaia di persone organizzate e mobilitate che, contemporaneamente al loro ruolo sociale, sono impegnate nella denuncia costante dei nemici della rivoluzione e nell’organizzazione di quel “sottosuolo della patria” rappresentato dai più sfruttati. I CLAPS sono legati ad altri pro-

grammi, come Una Mujer, le Unidades de Batalla Hugo Chàvez, il Fronte Francisco Miranda, le Milizie popolari, gli Attivatori produttivi, i “pubblici ministeri popolari” che hanno il compito di denunciare gli speculatori. Un grande ventaglio di organizzazioni popolari, quotidianamente a stretto contatto con la parte più sfruttata e oppressa del popolo venezuelano, che considera “suo” il progetto storico bolivariano ed è cosciente di cosa significherebbe tornare al passato. Le spietate campagne sviluppate all’interno e all’esterno del paese in questi anni naufragano davanti alla realtà reale, quotidiana.

I nemici esterni La presidenza Trump inaugura una nuova stagione per il Venezuela: altre, pesantissime, sanzioni e minacce molto più concrete, come le esercitazioni militari congiunte dell’inizio di novembre che hanno visto gli eserciti USA e del Brasile, più effettivi di Colombia e Perù, nella selva amazzonica. È da molto tempo che l’imperialismo USA – e i suoi soci, tra cui l’Unione Europea - sta intervenendo in Venezuela, ma ora deve affrontare una situazione che lo vede “perdente” in varie aree del mondo. È impantanato in Afganistan, in Medio Oriente non gli va meglio: la Siria è lì a dimostrarlo. In Asia si è nuovamente riacutizzato lo scontro con la Corea del Nord, e dietro la

Corea stanno Cina e Russia. La Repubblica Bolivariana ha però, come ce l’ha Cuba, una strategia militare basata sull’unione dell’Esercito con le milizie popolari (200 mila soldati e 700 mila miliziani): in caso di invasione militare la Forza Armata Bolivariana si disperderebbe – “ci faremmo terra, aria e acqua” – per condurre la resistenza armata. Il “fallimento perfetto” di Playa Giròn a Cuba ha ancora qualcosa da insegnare. La guerra continuerà quindi con altri mezzi, prima di tutto quelli economici e finanziari per strangolare il paese, quei mezzi con cui hanno dovuto fare i conti praticamente tutti i paesi che, vinta militarmente la lotta anticolonialista, hanno dovuto affrontare la ri-colonizzazione economica e finanziaria che, nella stragrande maggioranza dei casi, li ha riportati alla loro condizione di schiavi. Nelle elezioni, l’opposizione ha vinto negli stati di Tàchira, Zulia e Mèrida, zone strategiche di frontiera con la Colombia (e i cui precedenti governatori hanno giocato un ruolo importante nel sostegno e nell’organizzazione del terrorismo di piazza dell’estate), quella Colombia che è il paese chiave nella strategia del Comando Sur USA, che conta su 8 basi militari. Il direttore della CIA, Mike Pompeo, ha già dichiarato che la Colombia è disposta a collaborare “al recupero della democrazia in Venezuela”. Anche perché la Colombia

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da sempre ha messo gli occhi sul Golfo del Venezuela, zona ricchissima di petrolio (543.000 milioni di barili) e riserve di gas superiori a 192 milioni di metri cubi. Quindi l’opzione del separatismo è un’altra arma nelle mani dell’imperialismo USA.

… e quelli interni La situazione economica, come dicevamo, è molto grave e questo può danneggiare i programmi sociali della Rivoluzione. La caduta dei prezzi del petrolio, che rappresenta il 90% delle esportazioni del paese, si ripercuote a tutti i livelli. L’altro nemico interno è la corruzione. Il 18 agosto l’ex procuratrice generale Maria Luisa Ortega e una serie di altri funzionari sono fuggiti in Colombia per evitare l’arresto. Ora si sono trasformati nella ‘faccia’ critica del chavismo all’estero e da lì tuonano contro il governo, accusandolo addirittura di sostenere il narcotraffico (non vi fa venire in mente tutta una serie di fuoriusciti da Cuba?). A questo va aggiunta l’esistenza di “una burocrazia inefficiente, inefficace e corrotta”, come la definì nell’ottobre 2013 il Comandante Hugo Chàvez. Non compete a noi, che viviamo in un paese capitalista immerso nella barbarie di una crisi senza fondo che sta inghiottendo persino il futuro delle giovani generazioni e dove le ribellioni sono sporadiche e disorganizzate, suggerire il “che fare” a chi, giorno per giorno, si batte perché il progetto socialista venezuelano resista e avanzi. Quello che possiamo sicuramente fare è ricordare che oggi il Venezuela è la punta avanzata della lotta contro l’imperialismo, quello europeo compreso; che ogni battaglia persa dall’imperialismo è una vittoria dei popoli del mondo, noi compresi. E non dimentichiamo che - se la solidarietà antimperialista è la nostra forza - il vero antimperialismo, l’aiuto concreto che possiamo dare ai popoli che portano avanti il loro progetto socialista è lottare contro i nostri governi, contro questa marcia società capitalista: in altre parole è fare la rivoluzione nel nostro paese. (CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)

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rassegna stampa

Notizie in breve dal mondo novembre 2017 New York, USA 1° novembre

Con 191 voti a favore, 2 contrari e nessun astenuto, è stata votata all’ONU la Risoluzione A-72-L2 contro il blocco commerciale e finanziario imposto dagli USA a Cuba. I due voti contrari sono stati quelli degli USA e di Israele.

Langley, Virginia (USA) 2 novembre

La CIA pubblica oggi l’ultimo gruppo di documenti “trovati” nel maggio 2011 nel nascondiglio di Osama Bin Laden, nelle vicinanze di Abbottabad. Si tratta di 470.000 reperti, tra cui registrazioni vocali, immagini, video e il diario personale che, secondo l’Agenzia, proverebbe la relazione tra Al-Qaeda e l’Iran. In base a tale presunto accordo Al-Qaeda avrebbe attaccato gli interessi degli USA in Arabia Saudita e nel Golfo, in cambio di denaro, armi e addestramento per i suoi membri nei campi di Hezbollah in Libano.

Ginevra, Svizzera 5 novembre

Secondo il rapporto della Croce Rossa Internazionale - uscito oggi e diffuso dalla BBC - più di 5 milioni di dollari della somma stanziata per combattere l’Ebola in Africa Occidentalesono stati “persi” in una ragnatela di truffe e corruzione, che comprendevano il sovrapprezzo ai medicinali necessari, il pagamento di salari a lavoratori “fantasma” e fatture false. Più di 10.000 persone sono morte nell’epidemia del 2014-2016, che ha avuto il suo epicentro in Liberia, Sierra Leone e Guinea. La Croce Rossa ha affermato di aver adottato protocolli molto più severi e che denuncerà chiunque sia coinvolto nella truffa

Colombia 5 novembre

Continuano i blocchi della via Panamericana nel Cauca da parte dei popoli originari del paese, organizzati e rappresentati dalla “Minga Nacional Indìgena”, con barricate, occupazioni e scontri che durano da 6 giorni per ottenere il rispetto degli accordi e contro “la violazione e lo sterminio dei popoli in tempo di pace”. Secondo alcune organizzazioni umanitarie, nelle zone più calde come Cauca, Caldas, Narino e Risaralda, si segnala la presenza di carri armati dell’esercito che, secondo le parole del rappresentante ONU nella zona, “non dovrebbero esserci. Bisogna trattare la protesta sociale come tale. Non siamo in area di conflitto armato. Stiamo parlando di gente che non ha armi, di civili”.

Washington, USA 7 novembre

Secondo The Washington Post, alti ufficiali della Marina USA – circa 60 ammiragli e un centinaio di ufficiali della VII Flotta, alcuni in pensione e altri in servizio – hanno violato la legge militare e le regole etiche federali nei rapporti con Leonard Glenn Francis, magnate residente a Singapore, accettando favori che comprendevano festini con prostitute e rivelando segreti militari che hanno causato un danno di circa 35 milioni alla Marina. Francis ha costruito la sua fortuna fornendo equipaggiamento alle navi della Marina USA dal Pacifico alla Russia. Si tratta, secondo il quotidiano, del peggiore scandalo dalla 2° guerra mondiale.

Brasilia, Brasile 7 novembre

Il presidente “de facto” Michel Temer annuncia che invierà al Congresso una proposta per la privatizzazione di Eletrobras, la società statale che produce e distribuisce l’energia elettrica del paese. La proposta dovrà essere votata in regime di urgenza. Secondo il ministro dell’Energia, il Brasile si aspetta di ricevere circa 3.750 milioni di dollari con la privatizzazione.

Roma. Italia 9 novembre

La FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione, ha informato oggi che i costi di importazione degli alimenti cresceranno quest’anno del 6% circa. L’aumento contrasta con il fatto che tutti i prezzi dei prodotti alimentari sono rimasti stabili nei mesi precedenti, che la produzione è stata abbondante e che vi sono sufficienti giacenze. Secondo la FAO l’aumento dei prezzi colpirà in maniera preoccupante i paesi più arretrati e poveri e quelli che già soffrono di deficit alimentare. Prospettive Alimentari, la pubblicazione della FAO, segnala ad esempio che il grano statunitense Hard Red Spring è aumentato del 40% rispetto all’anno scorso nonostante i prezzi del mercato internazionale siano stabili e che la carne ha raggiunto il 22% di aumento rispetto all’anno scorso.

Bolivia 11 novembre

Continuano le manifestazioni di massa per la ri-presentazione di Evo Morales alle elezioni del 2019, questa volta a Sucre, tre giorni dopo quella di La Paz, dove

hanno partecipato più di 100 mila persone provenienti dai vari municipi del dipartimento. Alla manifestazione di Sucre hanno partecipato anche le 15 capitanie dell’Assemblea del Popolo Guaranì. In una dichiarazione alla stampa, il ministro della Presidenza ha sottolineato l’appoggio di indigeni, contadini ed operai all’operato del governo di Morales, dicendo: “Questo significa che continueremo a difendere il nostro processo, non solo nell’amministrazione pubblica ma anche nelle strade”.

Corea del Sud 11 novembre

Un comunicato del Comitato dei Capi dello Stato maggiore sud-coreano informa che sono iniziate le manovre congiunte con gli USA nelle acque della penisola coreana. Ad esse partecipano le paortaerei nucleari USS Nimitz, USS Ronald Reagan e USS Theodore Roosevelt con i rispettivi gruppi di appoggio: 11 navi statunitensi equipaggiate con sistemi di difesa antimissili. L’organismo militare afferma che il proposito delle manovre su grande scala è “la dimostrazione della forza di contenimento” alla Corea del Nord. Le esercitazioni navali, che termineranno il 14 novembre, realizzaranno prove di difesa aerea, di vigilanza marittima e di rifornimento dal mare e comprenderanno prove di combattimento aereo. Il governo della Corea del Nord afferma che la permanenza di portaerei statunitensi in acque coreane ha aumentato “la gravità della situazione” e che la visita di Trump a seul “ha l’obiettivo di accendere la miccia di una guerra nucleare”.

Stato di Miranda, Venezuela 11 nov.

Sono terminate oggi le esercitazioni del corpo di miliziane della Forza Armata Nazionale Bolivariana (FANB) “Manuela Sàenz”, composto da 26.000 donne. La milizia bolivariana fa parte integrante, dal 2009, della FANB. Secondo la ministra per la Donna e l’Uguaglianza di genere, “non si tratta di un dovere, è il diritto che abbiamo tutti e tutte – e principalmente le donne – di difendere la pace”.

Bonn, Germania 11 novembre

Rappresentanti di 50 città nordamericane, riunite nella coalizione America’s Pledge, hanno comunicato oggi da Bonn, dove si svolge il Vertice ONU sul cambiamento climatico, la loro decisione di applicare gli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico, nonostante l’annuncio di Donald Trump del ritiro USA dal trattato. L’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, ha detto “È importante che il mondo sappia che, se il governo è uscito dal trattato, il popolo statunitense è impegnato sui suoi obiettivi, e non c’è niente che Washignton possa fare per fermarci”. Trump aveva dato in giugno l’annuncio del ritiro “il prima possibile” dal trattato sottoscritto da 195 nazioni, ma l’effettivo ritiro si potrà effettuare solo nel 2020, data che coinciderà con le prossime elezioni presidenziali nord americane.

Bonn, Germania 11 novembre

Durante il Vertice ONU sul cambiamento climatico, i dirigenti di 11 paesi composti dalle isole del Pacifico hanno espresso la loro preoccupazione per le conseguenti che tali cambiamenti avranno sui loro paesi. Questi comprendono la mancanza di risorse, la malnutrizione e gli effetti del cambio climatico, tra cui disastri “naturali” e l’innalzamento del livello dei mari. La presidentessa delle Isole Marshall ha sottolineato come la mancanza di pioggia si sta ripercuotendo sulla disponibilità di acqua potabile, che nelle isole si ottiene dalle precipitazioni. Il primo ministro di Vanuatu ha sottolineato la necessità di produrre più alimenti visto che queste isole importano più dell’80% di quanto consumano. Questo II Vertice è presieduto dai rappresentanti delle Isole Fiji, che hanno messo nell’agenda delle discussioni la vulnerabilità estrema al riscaldamento globale di questi territori. San Paolo, Brasile 11 novembre Durante una manifestazione di protesta contro la riforma del lavoro e quella delle pensioni, i dirigenti della Centrale Unica dei Lavoratori (CUT) hanno pro-

posto lo sciopero generale. Davanti a migliaia di lavoratori, Douglas Izzo, segretario della CUT, ha detto “questa riforma del lavoro è un affronto alla Costituzione e al popolo brasiliano; non permetteremo che vada avanti e avvertiamo sin d’ora che, se tale riforma va avanti, fermeremo il Brasile”. La manifestazione segue quelle avvenute in maggio – quando il presidente Temer utilizzò l’esercito a Brasilia per “ristabilire la legge e l’ordine” e quella di giugno. Analoghe manifestazioni si sono tenute a Rio de Janeiro, Brasilia, Belo Horizonte e in altre città. La CUT rappresenta 24 milioni di lavoratori brasiliani, il 35% dei salariati. La riforma del lavoro prevede il lavoro intermittente: il datore di lavoro decide per quanti giorni assumere un dipendente, che sarà multato se manca, e figurerà nelle statistiche come lavoratore fisso. Si stabilisce anche il principio che quanto stabilito nei “contratti” varrà al di sopra della legge.

Teheran, Iran 12 novembre

Le autorità iraniane, per bocca del vice-cancelliere per gli Affari Arabi e Africani, chiedono di creare una coalizione regionale o mondiale contro il terrorismo, soprattutto ora che sono falliti i piani per destabilizzare la Siria e l’Iraq ma che questi continuano contro il Libano. La stampa iraniana riporta le dichiarazioni del vice cancelliere per gli Affari Arabi e Africani, Hussein Yaberi Ansari, che afferma che dopo il fiasco in questi paesi, nel mirino c’è il paese dei cedri, dove è scoppiata una crisi in seguito alla strana rinuncia del primo ministro Saad Hariri. Secondo il diplomatico una delle ragioni del crescente terrorismo risiede nella politica deliberata e nell’errore strategico di potenze regionali e internazionali di utilizzarlo per raggiungere i loro obiettivi. Egli afferma che l’uso di gruppi estremisti e terroristi come strumenti genererà danni incalcolabili nel medio e lungo termine.

Caracas, Venezuela 13 novembre

Il governo venezuelano rifiuta le “illegali, assurde ed inefficaci” sanzioni annunciate dall’Unione Europea contro il paese, sanzioni che comprendono l’embargo delle armi di qualsiasi tipo di materiale che possa utilizzarsi per la repressione dell’opposizione. I ministri degli Esteri della UE hanno approvato il blocco all’unanimità. La cancelleria venezuelana scrive in un comunicato che tali sanzioni “violano apertamente il

diritto internazionale ed i ‘sacri’ principi di rispetto della sovranità dell’autodeterminazione dei popoli e della non ingerenza negli affari interni di uno Stato”

Montevideo, Uruguay 16 novembre

Migliaia di sindacalisti, attivisti e leaders sociali di 23 paesi dell’America Latina partecipanti all’Incontro Continentale per la democrazia e contro il neoliberismo che si tiene nella città, hanno manifestato davanti all’Università, salutati dal segretario della centrale sindacale uruguayana, Marcelo Abdala, che ha detto “E’ un onore ricevere più di 2.000 compagni di 23 paesi; la classe operaia uruguayana, con il cuore in mano, gli porge il benvenuto in questa patria di Arttigas, che è parte della nostra America”.

Ankara, Turchia 17 novembre

Il presidente turco Recep Erdogan, durante una riunione del suo partito, ha accusato gli Stati Uniti di finanziare i membri dello Stato islamico (Daesh). Ha anche affermato che Washington non ha mantenuto la promessa fatta ad Ankara di ritirare le forze di autodifesa dei kurdi siriani dalle regioni liberate dai terroristi. “Gli Stati Uniti ci hanno molto deluso, hanno detto di lottare contro il Daesh ma in realtà gli hanno dato un sacco di soldi (...), hanno violato gli accordi di Manbiy e di Raqqa... l’amministrazione USA è cambiata ma tutto è rimasto uguale”, sono state le sue parole .

Washington, USA 17 novembre

Oggi il Dipartimento del Tesoro ha deciso di bloccare la raccolta di fondi on line per aiutare i cittadini iraniani colpiti dal terremoto di 7,3° Richter che ha colpito l’Iran e l’Iraq il 14 novembre scorso, lasciando più di 432 morti e 9 mila feriti. Organizzata da un medico iraniano, Tohid Nayafi, la raccolta ha raggiunto la cifra di circa 200.000 dollari, ma l’amministrazione USA sostiene che le sanzioni non permettono il trasferimento dei soldi raccolti.

Buenos Aires, Argentina 18 nov.

E’ morta oggi Marta Vàsquez, presidentessa delle Madri di Plaza de Mayo – Linea Fundadora, all’età di 90 anni. Da quarant’anni cercava sua figlia, Maria Marta Vàsquez, giovane psicopedagoga di 23 anni che insegnava nei quartieri poveri, sequestrata insieme ad alcuni catechisti ed educatori il 14 maggio 1976. Marta seppe nel 1995 dalle dichiarazione di un ex ufficiale della Marina – Adolfo Scilingo – che sua figlia aveva partorito un bambino mentre era detenuta nella Escuela de Mécanica de la Armada, la famigerata ESMA in cui furono torturate, incarcerate e fatte sparire più di 5.000 persone, tra cui sua figlia, durante la dittatura.

nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) anno XXVI n. 6/2017 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Emiliano, Michele Michelino, Luciano Orio, Pacifico, Fabrizio Poggi, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 001031575507 intestato a: nuova unità - Firenze Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine Chiuso in redazione: 10/11/2017

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