comma 20/B art. 2 Legge 662/96 filiale di Firenze
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Proletari di tutti i paesi unitevi!
nuova unità fondata nel 1964
Periodico comunista di politica e cultura n. 3/2018 - anno XXVII
È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso. Marx-Engels/Manifesto Partito Comunista
Di male in peggio
Finché esisterà il capitalismo non ci saranno governi che daranno risposte ai problemi che attanagliano il paese
È brutto cominciare un ragionamento con l’affer- zia”, “neutrale” (chi può essere neutrale quando al Senato per rappresentare le donne ricordiamo zione eterologa e per esprimere la sua posizione mazione “lo avevamo già detto”, ma in questo deve prendere delle decisioni?). O il governo o che la signora - formata in diritto canonico alla durante il dibattito sul disegno di legge ha afmomento di grandi manovre per la formazione le elezioni ha riaperto i giochi e sono ricomincia- Pontificia Università Lateranense - ha firmato una fermato che «l’Italia è piena di figli dell’eterolodi un “nuovo” governo pensiamo sia appropria- ti i balletti degli ambiziosi Salvini e Di Maio per proposta di legge per abolire la 194, ha definito ga perché frutto del rapporto di una donna col to. Abbiamo tenuto in sospeso la chiusura del trovare il modo di prendere il potere dopo mesi “gravissimo errore che strizza l’occhio alla cultura lattaio di turno». Non si trovano notizie sul suo giornale, in attesa di conoscere la formazione del di insulti e il risoluto “mai con il M5S”, “mai con della morte” l’introduzione della pillola Ru486, è passato nel MSI o nella sua organizzazione gionuovo governo. Tutti sostengono di aver vinto Berlusconi” ed evitare nuove elezioni anche per contraria alla regolamentazione delle unioni civili vanile, ma è significativo che il suo primo passo (ma le elezioni non sono una lotteria) - tranne gli in occasione del 1° Maggio sia stato quello di accasciati del PD che non perdono occasione per andare tra le truppe (lavoratori dei massacri) miribadire la loro sconfitta come un vanto -, e tutti litari nel Kosovo. che non avevano fatto i calcoli di una legge truffa Ciò che si prospetta al momento in cui scriviae pasticciata confezionata a misura per far govermo è la formazione di un governo Lega-M5S con la benedizione dello stesso Berlusconi pronto nare PD e Forza Italia -, si accorgono che senza ora a fare il “passo di lato” con nuove formule il premio di maggioranza non raggiungono il nucome “astensione benevola” pur di mantenere mero necessario per governare. E allora è stato l’alleanza con Salvini (che potrebbe in realtà diinventato un nuovo metodo, quello del cosiddetto “contratto di governo” che si può fare con chi struggere attraverso i suoi mezzi di informazione) ci sta e si candida a gestire e amministrare la crisi e non uscire di scena e soprattutto per garantirdel capitalismo italiano e il montante malcontensi le agevolazioni per le sue aziende, mettere le mani sulla Rai, senza capitolare. Far “provare” la to e rancore dei settori popolari più colpiti che gestione a Lega e M5S per poi ritrovarsi a fianco si manifesta apertamente tramite l’astensione, del PD in una futura alternanza come salvatore ma anche nell’appoggio ai cosiddetti populisti della patria. cui è stato aperto un certo credito nelle ultime Una prova di governo molto pericolosa per il elezioni. Vogliono il potere, ma devono trovare il proletariato che accellera la trasformazione dello modo migliore per nascondere le loro intenzioni Stato in senso ancora più reazionario, la sua fascie come ingannare il loro stesso elettorato e le masse del nostro paese di fronte alle decisioni stizzazione, apertamente contrapposto ai valori economiche, l’approvazione del bilancio dello della Lotta di Liberazione, di cultura, di solidaStato con il conseguente aumento dell’Iva e la rietà, garante degli Usa, di Israele, della Nato e ricaduta oggettivamente antipopolare, il futuro persino della UE. dei lavoratori Ilva ecc., le esigenze dei padroni Un governo che porterà ulteriori attacchi alla che vogliono più soldi, una crescente povertà classe lavoratrice e, in continuità con i precenestesa sempre più anche ai lavoratori occupati e denti, lo smantellamento di tutte le sue conquil’aumento della disoccupazione. ste e una politica che impedisca la sua organizzaLa formazione non è ancora arrivata e la cosa non zione indipendente. ci scompone anche perché, come abbiamo già Noi possiamo solo operare per rafforzare l’unità scritto nello scorso numero, chiunque prenda in del movimento operaio e per allargare la lotta mano il governo lo potrà fare solo se garantirà di classe che smascheri questa prova di governo gli interessi del grande capitale. La differenza e faccia saltare la politica populista, razzista, di per noi è solo di sapere se si torna alle urne e garantire il posto ai neoeletti che, dopo il primo tra persone dello stesso sesso. L’unica donna austerità, repressione e sfruttamento sempre più dobbiamo subire una campagna di promesse compenso, non mollerebbero la presa! per la quale ha fatto l’interesse è la nomina di profondi. improbabili e di illusioni, per rilanciare la nostra In particolare il M5S, che si è sempre vantato di sua figlia Ludovica a capo della sua segreteria al Perché finché esisterà il capitalismo non ci saranposizione di astensionismo. Un astensionismo at- non essere né di destra né di sinistra sembra in- dicastero quando era sottosegretario alla salute! no governi che daranno risposte ai problemi che tivo per rimancare il divario che esiste tra i biso- vece molto in sintonia proprio con Salvini, quel Alberti Casellati è contraria anche alla feconda- attanagliano il paese. gni della classe lavoratrice, del proletariato, delle Salvini che è stato contestato in tutte le piazze masse popolari sempre più in difficoltà e lo Stato per le sue posizioni razziste, xenofobe e fasciborghese con tutto il suo apparato e i suoi stru- ste. Votato anche da settori di “sinistra” che volevano il cambiamento e che probabilmente menti di oppressione e repressione. Intanto il paese ha proseguito due mesi con un lo avranno in peggio con un prossimo governo Di truffa in truffa governo, Gentiloni, in carica per l’”ordinaria am- pericolosamente reazionario. Un’assonanza poministrazione”. Quella della gestione capitalisti- litica che ha permesso la spartizione dei presiL’ennesimo accordo tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria sui contratti ca, di pressione sulle masse popolari, persino la denti delle Camere con Roberto Fico del M5S e concessione della cittadinanza ad un bambino al Senato con Maria Elisabetta Alberti Casellati programma la riduzione dei salari e l’aumento degli orari, tentando (extracomunitario, ma inglese) morente. Ha pro- di Forza Italia. di imporre la triplice come sindacato unico pagina 2 seguito per coprire le montature - organizzate Fico ha fatto un bel salto: dagli “Amici di Grillo”, dai servizi segreti occidentali che non accettano edizione vaffa, è passato per le elezioni del 2013 che la Siria resista agli attacchi dell’imperialismo candidato a presidente della Regione (1,35%), a Guerre imperialiste, classe operaia e internazionalismo pagina 3 -; per l’appoggio al terrorista Stato di Israele. sindaco di Napoli (1,38%) fino alla scelta sul web E di una frenetica corsa al riarmo - garantisce il di 228 voti (è la democrazia di base del M5S) per supporto logistico (è il quinto avamposto sta- la candidatura del 2018. tunitense nel mondo): lo spazio aereo e navale Poche parole in più per l’avvocata già vice caImperialismo o “ultra-imperialismo”? per trasferire armi, munizioni, veicoli militari dalle pogruppo a Palazzo Madama dal 2001 al 2008 “La guerra fredda non è mai terminata”, come dimostra Basi Usa e Nato che invadono il nostro territorio, perché in quanto prima donna alla presidenza che trasformano l’Italia in una portaerei per ag- del Senato c’è stato un grande sbandieramento. “l’allargamento a est della NATO dopo la fine dell’URSS e lo gredire e rapinare popolazioni, distruggere paesi Entrata in Forza Italia nel 1994, dove ha ricoperto sviluppo della crisi in Ucraina” pagina 4 e inquinare l’ambiente -. Il tutto per mantenere in vari incarichi, pur piacendo al M5S è stata una vita un sistema in crisi, che cerca di salvarsi solo fervente sostenitrice di Berlusconi anche in occaintensificando lo sfruttamento capitalistico fino a sione delle sue “bravate”. Ha sostenuto le “leggi portarci ad una guerra imperialista sempre più ad personam” e marciato, infatti, sul tribunale di Brasile: Lula sì, Lula no… pagina 5 vicina ai nostri confini. Milano con 150 parlamentari del Popolo della LiIl Presidente Mattarella, che non ha voluto pren- bertà contro il processo Ruby. Per lei Berlusconi dere la decisione dell’assegnazione dell’incarico, sottoposto ad un “plotone di esecuzione” era Giro d’Italia: lo sport per riaffermare le menzogne e l’oppressione ha escogitato nuove formule proponendo un innocente anche dopo la sentenza in Cassaziodella Palestina, con la complicità dell’Italia pagine 6/71 governo “servizio”, “transitorio”, di “garan- ne. Per chi si illude ancora che basti una donna nuova di unità 3/2018
lavoro
Di truffa in truffa L’ennesimo accordo tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria sui contratti programma la riduzione dei salari e l’aumento degli orari, tentando di imporre la triplice come sindacato unico Eraldo Mattarocci Il 28 febbraio 2018 la Confindustria, sindacato maggioritario di parte padronale, e Cgil–Cisl-Uil, solo apparentemente difensori degli interessi dei lavoratori ma comunque sindacati maggioritari tra gli stessi, hanno sottoscritto un accordo che definisce “Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione” per gli anni a venire: né più né meno che un programma di ulteriori sacrifici per i lavoratori. Come primo passo, in questo ennesimo accordo antioperaio viene chiesto di trasformare in Legge l’accordo del 10 gennaio 2014 sulla Rappresentanza, cioè l’accordo che ha sancito la fine della fase di concertazione tra il padronato e la triplice sindacale per passare alla complicità e alla cogestione tra i soggetti firmatari. Di accordo in accordo, a partire da quello del Luglio 1993 che garantiva, con logica mafiosa, un terzo dei delegati delle RSU ai soliti noti Cgil–Cisl–Uil, passando per l’accordo del 10 gennaio 2014 che lega le mani ai delegati più combattivi e limita fortemente il diritto di sciopero, il tentativo è quello di impedire, in via formale e “legale”, ogni forma di rappresentanza dei lavoratori autonoma dal padronato e dai suoi servi. A fare da apripista per questa intesa con zero aumenti salariali e via libera per flessibilità, fondi sanitari e pensionistici è stato l’ultimo Contratto Collettivo Nazionale dei Metalmeccanici firmato da Fim-Fiom-Uilm. Stiamo parlando, per intenderci, del peggior contratto mai sottoscritto dalla categoria, quello che
ha portato i metalmeccanici ad essere sbeffeggiati con un aumento di ben euro 1,7 mensili lordi nel 2017 e di euro 1,9 mensili lordi nel 2018. Proprio muovendosi sulla falsariga tracciata, tra gli altri, da Landini, beniamino di tutti i radical chic del paese, l’accordo del 28 febbraio svuota completamente la contrattazione nazionale a favore di quella di secondo livello che rimane legata unicamente alla produttività, cioè agli interessi dell’impresa. Inoltre formalizza i meccanismi già presenti nel CCNL dei Metalmeccanici, in particolar modo quelli legati
al welfare aziendale in sostituzione di quello universale (ciao, ciao sanità pubblica!) con una parte di salario che invece di finire nelle tasche dei lavoratori finirà nelle fauci voraci di padroni e sindacalisti che amministrano congiuntamente Assicurazioni Sanitarie e Fondi Pensione (per i metalmeccanici Metasalute e Cometa). Nel dettaglio, il contratto nazionale “individuerà” il TEM (Trattamento Economico Minimo) che non è altro che il vecchio tabellare che potrà essere rivalutato solo dall’IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato), cioè dall’inflazione
calcolata dall’ISTAT con esclusione dei costi dei beni energetici, ed il TEC (Trattamento Economico Complessivo) che, oltre a contenere in sé il TEM, conterrà gli altri istituti contrattuali legati alla produttività, alle maggiorazioni orarie, a welfare aziendale etc. anche se contrattati a secondo livello. La contrattazione di secondo livello, sia essa territoriale o aziendale, “dovrà essere strettamente legata a reali e concordati obiettivi di crescita della produttività aziendale, di qualità, di efficienza, di redditività, di innovazione”, cioè agli interessi esclusivi dell’azien-
recensione
Pensiero critico e trasformazione sociale ”L’uomo copernicano” di Antonio Banfi Antonio Banfi, ne L’uomo copernicano sviluppa il carattere critico della filosofia e fa un lavoro preziosissimo per quanti si propongono di costruire un rapporto critico con la realtà storica, non per contemplarla, né per accettarla passivamente, ma per trasformarla. In questa direzione si muove tutto il lavoro filosofico di Banfi che, partendo dal razionalismo critico, elabora gli schemi teoretici validi per condurre una lotta culturale contro l’irrazionalismo e contro il dogmatismo metafisico. Il razionalismo critico, nasce nell’età moderna con l’avvento del sapere scientifico che introduce nel mondo del sapere una dimensione critica, che viene sviluppata in modo determinante da Marx, il vero fondatore della filosofia critica. La nuova dimensione teoretica del sapere è stata introdotta sia dalla rivoluzione scientifica moderna sia dal materialismo storico che, per Banfi, si determina storicamente come un «sapere per l’azione e nell’azione, che dall’azione nasce, in
essa si feconda e si universalizza, da essa si solleva per spronarla e dirigerla e di nuovo garantirsi nella sua ricchezza». Questa concezione del sapere costituisce la più penetrante espressione dell’XI Tesi su Feuerbach, formulata da Marx. «I filosofi [i filosofi dogmaticometafisici] si sono limitati ad interpretare il mondo si tratta di trasformarlo»: e questo è il compito della filosofia critica. La natura critica di tale sapere, è data dalla coscienza del carattere dialettico della «natura del razionale» come reciproca funzionalità di essere e pensiero. Il razionalismo critico in Marx e in Banfi si rivela come «coscienza storica che, penetrando nella struttura dialettica della storia, attraverso l’esperienza dei suoi conflitti, indichi in essa la concreta direzione di lotta e di creazione di una reale universalità umana» cioè, sempre per usare le parole di Banfi, «l’uso critico della ragione, corrisponde alla libertà e alla fecondità di un umanesimo storico eticamente costrut-
tivo». Per la filosofia critica conoscere il mondo significa conoscere il mondo umano dell’esperienza per trasformarlo ininterrottamente in situazioni particolari, poste nel tempo e nello spazio, nella società e nella storia. Banfi ne L’uomo copernicano muove una critica teoreticamente argomentata alla metafisica. Il mondo storico, nella sua autonomia, ha immanente un principio d’intellegibilità e non ha bisogno di ricorrere ad un principio d’intellegibilità extrastorico o metafisico. Banfi supera il modo metafisico di impostazione dei problemi teorici attraverso quella metodologia critica del razionale che è lo strumento fondamentale per uscire definitivamente dalle secche di ogni metafisica e per interpretare l’esperienza storica secondo un umanesimo marxista. Il marxismo per Banfi è sapere storico che nasce dalla storia, spiega il processo storico con le leggi immanenti ad esso mostrando così la propria efficacia scientifica; ma proprio
perché il suo sistema di concetti nasce da un rapporto storico, l’obbiettività della lotta di classe, esso non cristallizza la realtà secondo uno schema statico, ma piuttosto diviene strumento positivo di analisi e quindi di conoscenza storica e di analisi politica. Ed in questo rapporto consiste la sua vita concreta, la sua fecondità rivoluzionaria. C.S.
da. Mentre la contrattazione nazionale non sarà che un mero atto notarile con il quale si rivaluterà il salario tabellare al di sotto della inflazione ISTAT, la contrattazione di secondo livello, nelle poche aziende dove si riuscirà a fare, avrà natura variabile. Il welfare aziendale, per il quale le imprese usufruiscono di sgravi fiscali, visto la “difficile tenuta del sistema del welfare universale” dovrà essere esteso secondo i firmatari, a tutti i settori contrattuali attraverso gli enti bilaterali gestiti congiuntamente da organizzazioni padronali e sindacati di regime. Senza sottovalutare la pericolosità di questo accordo, il cui contenuto va fatto conoscere al maggior numero possibile di lavoratori, è evidente che sia Confindustria sia Cgil–Cisl–Uil, insieme con tutte le altre sigle che lo sottoscriveranno per avvicinarsi alla greppia, se pensano di poter fermare la conflittualità, si illudono una volta di più. Hanno sottoscritto l’accordo del luglio 1993 e la lotta non si è fermata; hanno sottoscritto l’accordo del gennaio 2014 e la lotta non si è fermata; ora ci riprovano con l’accordo del febbraio 2018 ma otterranno lo stesso risultato. La lotta di classe e, con essa, la necessità dei lavoratori di organizzarsi non cesserà certo per un pezzo di carta in più o in meno. Come dimostrano non solo le lotte della logistica e non solo nel nostro paese, ogniqualvolta i bisogni reali (bisogno di un salario, di una casa, dell’accesso alle cure e all’istruzione) si incontrano con un gruppo di lavoratori che hanno la dignità ed il coraggio di organizzarsi per rivendicare i propri diritti lo scontro sociale diviene più forte e più ampio.
I giovani, i lavoratori, gli sfruttati che oggi si avvicinano, tra mille difficoltà e ostracismi, all’idea di comunismo, sapranno fare tesoro dei tanti insegnamenti che l’assalto al cielo degli sfruttati del secolo passato ci ha lasciato, a partire dalla formidabile, anche se incompiuta, opera di costruzione del socialismo iniziata da Lenin, da Stalin e dal partito bolscevico, e si potranno così porre le premesse per il rilancio del movi mento comunista e per una radicale trasformazione della realtà.
“Imparare dalle sconfitte: l’Unione Sovietica dal socialismo alla barbarie” di Concetto Solano edizione “La Città del Sole”, euro 8, si può richiedere tramite email: concetto.solano@gmail.com
nuova unità 3/2018 2
attualità
Guerre imperialiste, classe operaia e internazionalismo Il riconoscersi come appartenenti alla stessa classe sociale, al di là delle barriere nazionali, con gli stessi interessi immediati e storici, è alla base dell’internazionalismo proletario Michele Michelino L’ultima aggressione imperialista contro la Siria con missili USA, francesi e britannici su presunti impianti chimici riporta all’ordine del giorno il dibattito sulla guerra imperialista e sul ruolo della classe operaia e proletaria nei riguardi delle guerre imperialiste. Gli operai comunisti e i rivoluzionari sono persone di pace che lottano contro lo sfruttamento capitalista, contro le guerre di rapina dei padroni. Il profitto di pochi si fonda sulla miseria di molti e noi lottiamo contro la proprietà privata dei mezzi di produzione, per un sistema economico, politico, sociale che si chiama Socialismo nel quale le guerre per il profitto e di rapina, al pari dello sfruttamento degli esseri umani, siano considerati e condannati come un crimine contro l’umanità. La classe operaia, cosciente dei suoi interessi immediati e storici, ha sempre ritenuto che l’unica guerra giusta è quella contro i padroni e i loro governi, cioè quella delle classi e dei popoli oppressi. Noi operai comunisti non siamo per la pace e combattiamo per l’unica guerra giusta: quella contro lo sfruttamento. Noi viviamo in un paese imperialista, membro della NATO, che partecipa insieme con altri predoni alla spartizione del bottino di rapina in Africa, in Asia o in America. La presenza sul suolo italiano di molte basi militari USA e NATO, concesse dal dopoguerra a oggi da tutti i governi - democristiani, di centrodestra, di centrosinistra - con la presenza di atomiche “tattiche” fanno dell’Italia la portaerei NATO del Mediterraneo. La propaganda di regime che entra nelle case di tutti noi attraverso televisioni, giornali e social porta alcuni lavoratori, e anche alcuni “compagni”, a non schierarsi davanti alle aggressioni imperialiste su paesi indipendenti e sovrani. La concorrenza fra blocchi imperialisti, la penetrazione economica imperialista che distrugge l’economia locale, la corruzione delle classi politiche, sono le armi usate per appropriarsi delle risorse dei paesi del cosiddetto terzo e quarto mondo. L’acuirsi delle contraddizioni interimperialiste, la trasformazione delle guerre commerciali in guerre militari con il risorgere di nazionalismi e patriottismi, mettono gli operai e gli sfruttati di varie nazionalità gli uni contro altri e sono alimentate da chi ha interesse a sfruttarli.
Il vecchio motto romano “Divide et impera” è sempre attuale IIl riconoscersi come appartenenti alla stessa classe sociale, al di là delle barriere nazionali e dei limiti angusti dei confini, con gli stessi interessi immediati e storici, è alla base dell’internazionalismo
proletario. Una classe che ha coscienza dei propri interessi ha la necessità di favorire la formazione di organismi internazionali per raggiungere fini comuni: la liberazione dell’uomo sull’uomo dallo sfruttamento capitalista, la solidarietà e la cooperazione tra i popoli. L’internazionalismo proletario necessita quindi di un’unità politica, economica e sociale sopranazionale. Karl Marx e Friedrich Engels nel Manifesto del partito comunista del 1848 affermano che l’epoca della borghesia è segnata dallo sviluppo dei mercati e dalla concorrenza. “Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti ‒ scrivevano Marx ed Engels ‒ sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre”. Lo sfruttamento dei mercati mondiali aveva pertanto dato “un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi”. E non solo i “prodotti materiali”, ma anche quelli “intellettuali” stavano diventando “globali”. Nel futuro dominio da parte della classe lavoratrice, secondo gli autori del Manifesto, gli antagonismi nazionali residui sarebbero scomparsi del tutto, perché lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra sarebbe stato abolito insieme con quello sugli individui.
Internazionalismo proletario, sicurezza internazionale, globalizzazione La necessità di unire le lotte per le battaglie comuni dei lavoratori nei diversi paesi contribuì nel 1864 alla fondazione a Londra dell’Associazione internazionale dei lavoratori, nota poi come Prima Internazionale. In questa Internazionale, nella quale confluirono comunisti e anarchici, Karl Marx e l’anarchico russo Michail Bakunin si scontrano e prevalsero le posizioni marxiste. Tuttavia alcuni anni dopo, nel 1876, la lotta fra le varie tendenze politiche, il riemergere dei sentimenti nazionalistici, ne causò la fine. La necessità di un’organizzazione internazionale degli operai, dei lavoratori, tuttavia non venne meno. In ogni paese gli operai si organizzarono in partiti socialisti e socialdemocratici, fondando nel 1889 a Parigi la Seconda Internazionale, questa volta basata sui partiti. Ma l’acuirsi delle contraddizioni interimperialiste sfociate nella guerra imperialista portò alla dissoluzione anche di questo secondo tentativo. Con la vittoria della Rivoluzione d’ottobre nel 1917 e il governo dei Soviet degli operai, dei contadini e dei soldati, si aprì nuovamente la possibilità di creare un’unità mondiale dei lavoratori e a Mosca, nel 1919, fu fondata la Terza Internazionale o Internazionale comunista (Comintern), organo di coordinamento del progetto rivoluzionario mondiale basato sul modello vittorioso del bolscevismo.
Il Comintern venne sciolto nel 1943 e sostituito nel 1947 fino al 1956, dall’Ufficio di informazione (Cominform) dei partiti comunisti dell’Europa orientale e di quelli italiano e francese. Da allora questa organizzazione internazionale dei lavoratori e dei comunisti manca, e con l’organizzazione manca anche l’opposizione alle politiche guerrafondaie dell’imperialismo. Anche la borghesia è una classe internazionale, ha un suo internazionalismo e si è data un’organizzazione internazionale. Dopo la 1° Guerra mondiale, il presidente statunitense Woodrow Wilson organizzò e attuò, attraverso la cooperazione per la pace e la sicurezza internazionale, un “internazionalismo” borghese che portò nel 1919 all’istituzione della Società delle Nazioni. Nel 1945 dopo la 2° Guerra mondiale la Società delle Nazioni si allargò, divenendo l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). La cosiddetta globalizzazione, con la crescente interdipendenza economica e sociale mondiale, di cui molto si parla oggi, non è altro che una nuova forma di internazionalismo borghese imperialista, che ha le sue istituzioni economiche, politiche, finanziarie, di pensiero ecc. ed il suo braccio armato internazionale principalmente nella NATO.
Operai e padroni di tutto il mondo hanno interessi antagonistici e non hanno niente
nuova unità 3/2018
da spartire con i loro padroni Sempre nel Manifesto Marx afferma che gli operai non hanno patria. La ragione è evidente. Nel sistema capitalista gli operai sono solo merce forza-lavoro, schiavi salariati del potere che si trova nelle mani della borghesia, che lo esercita attraverso lo Stato che non è altro che un mezzo di oppressione e di asservimento della classe operaia. La classe operaia ha il compito di distruggere lo Stato della borghesia e non di difenderlo o abbellirlo. Il proletariato potrà avere una patria soltanto quando avrà conquistato il potere dello Stato socialista. Soltanto allora il proletariato, com’è successo in Unione Sovietica e in altri paesi socialisti, dovrà difendere il suo potere, la sua patria. Solo in un sistema socialista esso difenderà veramente il proprio potere e la propria causa e non il potere dei suoi nemici e la causa dei suoi oppressori. Naturalmente la dialettica impone anche delle eccezioni, come vedremo in seguito. In ogni caso è bene ricordare che l’ultima pagina de Il Manifesto del Partito Comunista, termina con la frase: Proletari di tutti i paesi, unitevi! L’internazionalismo proletario, l’unità e la solidarietà operaia sono sempre stati un’arma in mano agli sfruttati, un deterrente contro le guerre tra nazioni. I proletari sono stati sempre
usati come carne da macello, mandati a combattere al fronte per gli interessi dei loro padroni, quindi non è nell’interesse dei proletari delle varie nazioni imbracciare le armi e spararsi tra loro, ma rivolgerle contro i loro padroni, la borghesia che sfrutta e opprime i lavoratori e i popoli delle nazioni proprie e di quelle sottomesse all’imperialismo. Solo con la solidarietà di classe internazionale fra i proletari di tutte le nazioni, con il potere operaio, si potrà mettere fine ai conflitti fra le nazioni, e incamminarsi sulla strada per arrivare alla scomparsa delle stesse come Stati nazionali. Il nazionalismo - negando la divisione del mondo in classi - è diventato un ostacolo allo sviluppo della civiltà umana. La lotta per il dominio dei mercati crea continui conflitti tra le potenze capitaliste e i blocchi imperialisti, perché lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra crea e alimenta odi nazionali. Lo sciovinismo nazionalista è uno strumento ideologico fondamentale per mantenere il dominio borghese sul proletariato. In uno scritto sull’autodeterminazione nazionale dell’Irlanda, Marx affermava alcuni concetti fondamentali: solo la liberazione nazionale della nazione oppressa permette di superare gli odi nazionali e d’unire gli operai delle due nazioni contro il nemico comune, il capitalismo; l’oppressione di un’altra nazione contribuisce all’egemonia ideologica della borghesia sui proletari della nazione “dominante”: un popolo che ne opprime un altro non sarà mai libero; l’emancipazione della nazione oppressa indebolisce economicamente e politicamente le classi dominanti della nazione che opprime e quindi aiuta l’emancipazione della classe operaia di questa nazione. L’esperienza storica dimostra che nello scontro di classe mon-
diale il proletariato non può essere mai neutrale; anche se vittorioso il proletariato, all’inizio della presa del potere, deve continuare l’opera di abolizione dei contrasti nazionali iniziata dalla borghesia, dato che quest’ultima - essendo essa stessa una classe internazionale con propri interessi di classe radicati però in un determinato territorio nazionale - non solo non tende ad abolire gli antagonismi nazionali, ma tende anzi ad aggravarli. La celebre frase di Karl Von Clausewitz “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” (e precisamente con mezzi violenti) esprime bene il carattere dell’imperialismo, la depredazione e l’oppressione di altre nazioni e del movimento operaio negli stessi paesi imperialisti. Anche l’Italia è impegnata nella spartizione del bottino a fianco degli alleati con 24 missioni militari: l’ultima “missione umanitaria”, in Niger, è stata approvata dal Parlamento il 17 gennaio 2018 a larga maggioranza. Tutti i governi imperialisti, di qualunque colore e schieramento politico, hanno giustificato e giustificano il loro intervento militare in paesi indipendenti e sovrani buttando fumo negli occhi alla propria opinione pubblica, chiamando queste guerre con il termine di “interventi umanitari”, difesa della “democrazia” o dei “diritti umani” o lotta contro il “terrorismo” per nascondere agli occhi della popolazione gli interessi delle classi dominanti. La politica imperialista, in pace quanto in tempo di guerra, consiste nell’asservimento delle nazioni e non nella loro liberazione. Noi operai coscienti - oltre che al fianco di tutti i proletari del mondo - siamo al fianco di tutti quei popoli che resistono contro la penetrazione imperialista, siamo al fianco di chi lotta per liberarsi dall’oppressione delle “grandi” potenze reazionarie.
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guerra
Imperialismo o “ultra-imperialismo” “La guerra fredda non è mai terminata”, come dimostra “l’allargamento a est della NATO dopo la fine dell’URSS e lo sviluppo della crisi in Ucraina” Fabrizio Poggi Come riporta la rivista russa Rassegna Militare, meno di 24 ore dopo l’attacco USA alla Siria del 14 aprile scorso, partiva da Cape Canaveral il missile statunitense Atlas V, che portava in orbita geostazionaria un satellite per comunicazioni militari CBA-SATCOM: era spinto da un motore russo RD-180. L’attacco in sé è stato per lo più presentato – e pare esserlo stato davvero – come una sorta di “rappresentazione” con ruoli convenuti tra le parti; una specie di show missilisticoantimissile americano-russo. Le due notizie, appaiate, hanno rinviato involontariamente il pensiero alla “teoria” kautskyana del cosiddetto “ultra-imperialismo”, messa alla berlina da Lenin come illusione di una “unione degli imperialismi di tutto il mondo e non del loro conflitto; la fine delle guerre sotto il capitalismo”. Risoltosi dunque il raid yankee-anglo-francese, da un lato, in una “parvenza di guerra”, d’altro canto, per i buonisti a corrente alternata pare non doversi proprio parlare di attacco, bensì di “dovuta” gendarmeria internazionale, una sanzione al cattivo di turno. L’ennesimo “Stato canaglia” sarebbe stato “punito” per un presunto utilizzo di gas contro civili, peraltro mai dimostrato e ormai indimostrabile: l’attacco ha preceduto di poche ore il previsto inizio delle ispezioni della missione dell’OPCW! La mancanza poi di una risoluzione ONU, pare un dettaglio trascurabile. Un attacco simbolico, insomma; oltretutto, senza il coinvolgimento diretto della NATO, come se l’uso di basi e installazioni yankee in territorio italiano esonerasse il governo socialdemocristiano dal sentirsi coinvolto; il PD, ça va sans dire, ha immediatamente condiviso le “ragioni” del bombardamento, per degna “scelta di campo”. Bombardamento “legittimo”, dunque e non atto di guerra, a lor dire; oltretutto, “telefonato”: su incarico USA, pare che i dettagli del raid siano stati trasmessi a russi e siriani dalla Turchia. Sull’edizione bielorussa di Sputnik, il politologo Gevorg Mirzajan scrive di uno “show missilistico” contro obiettivi di pochissima importanza, “concordati con la parte russa, che ha poi riferito le informazioni a Damasco”. Nessuna vittima (tre feriti), nessun obiettivo di rilievo o base militare siriana e russa messa veramente in pericolo. E allora? Una pura operazione mediatica? Non proprio. A Washington giurano che nessun loro missile sia stato intercettato; Mosca assicura che le vecchie batterie antimissilistiche siriane (di fabbricazione sovietica) ne avrebbero buttati giù 71 sui 103 lanciati e tutto si sarebbe risolto in una fiera di armi: missili da una parte e batterie antimissile dall’altra. Successo delle armi russe. Ma anche Trump ha potuto esclamare “Missione compiuta”, riferendosi non ai 70 Tomahawk abbattuti, bensì ai 19 nuovi AGM-158 JASMM lanciati da due bombardieri B-1B (con base in Qatar), arrivati a destinazione su Damasco ed evidentemente rimasti invisibili ai sistemi radioelettronici russi. Questo, secondo Washington, sarebbe stato il vero scopo del raid: il test del JASSM (Joint Air-to-Surface Standoff Missile) mai usato finora in combattimento. Ma, dietro questa pantomima per la spartizione di zone d’influenza tra grandi potenze mondiali - e fameliche belve regionali con stella di David e scimitarre incrociate - c’è la reale minaccia di guerra globale che si profila a un orizzonte pericolosamente vicino. Con buona pace di Kautsky, le rivalità interimperialiste, per la spartizione di fonti energetiche e sfere d’influenza, mostrano un coyote mezzo azzoppato, guardato da vicino da lupi che digrignano i denti e che, per ora, si limitano a tenerlo a bada, consapevoli che quello, nella disperazione del declino, possa azzardare il peggio. E se pure di quei lupi, uno agisce in perfetta tradizione orientale, quasi in sordina, erodendo però a più non posso il terreno sotto i piedi al coyote – tanto che quest’ultimo corre ai ripari con sempre più estesi dazi protettivi – è però l’altro a dover sostenere il peso maggiore di una campagna mediatica demonizzatri-
ce e, soprattutto, di uno spiegamento militare di dimensioni e aggressività inaudite, a ogni angolo dei propri confini. Ancora Mirzajan, scrive che, nello “show” siriano, gli statunitensi hanno vantato una gran quantità di obiettivi colpiti: più iraniani che siriani. In USA si considera infatti la guerra siriana come un “conflitto in periferia” tra Washington e Teheran. Ma, con l’intervento russo, è divenuto chiaro che ogni attacco yankee alla Siria sarebbe stato un test del nuovo approccio USA agli affari internazionali, con l’accento posto sulla propria superiorità militare. L’unica superiorità, in effetti, che ancora possano vantare gli Stati Uniti, avendo perso da tempo quelle “politica e morale” e vedendo precipitosamente calare anche quella economica, a partire dalla forte caduta della loro quota nel PIL mondiale. Il Cremlino, conclude Mirzajan, sbarrando in Siria la strada agli americani, ha difeso “l’ordine internazionale” e i propri interessi: si è insomma ridato vita al multipolarismo, dopo decenni di dominio unipolare americano. Ma, può bastare questo ad assicurare dal rischio di una “guerra calda” globale? Il Congresso chiede a Trump una chiara strategia sulla Siria e, soprattutto, sul “contenimento dell’Iran”, scegliendo tra turchi e curdi, oppure spostando il fronte contro l’Iran, in Libano o forse in Yemen. Ma, la domanda, sembra piuttosto dover essere: cosa faranno gli USA, d’ora in avanti, sul
teatro globale, per tentare di riconquistare le superiorità perdute. È evidente che, se non ci fosse la Russia, Assad avrebbe fatto da tempo la fine di Gheddafi e la Siria quella della Somalia. È altrettanto evidente che la presenza russa in Siria risponde a interessi quasi esclusivamente geopolitici opposti a quelli occidentali; ma ciò non impedisce ai capitali russi di detenere una discreta fetta del debito pubblico USA e alle società russe di mantenere stretti rapporti d’affari oltre Oceano. Importante, è tener presenti ambedue i lati della questione. In una dichiarazione del VKPB (Partito Comunista dei Bolscevichi di tutta l’Unione) diffusa il giorno dell’attacco alla Siria del 14 aprile, è detto che negli ultimi due anni l’esercito siriano, con il supporto delle forze aeree russe, ha sconfitto l’Isis, sponsorizzato “dagli Stati imperialisti, il cui scopo è quello di rovesciare il regime di Bashar Assad secondo lo scenario libico”. La Siria sta conducendo “una lotta conseguente contro imperialismo e sionismo. Vera causa dell’aggressione è la perdita di posizioni strategiche USA in Medio Oriente, tanto che essa è stata compiuta dopo che i terroristi non avevano raggiunto gli obiettivi loro fissati dai paesi coinvolti nella guerra contro la Siria”. Sempre il VKPB, il 9 aprile, aveva riprodotto un’intervista allo storico serbo-americano Srdža Trifkovič, pubblicata dal Forum economico moscovita e sostanzialmente in linea con la tesi oggi diffusa, anche in alcuni settori della sinistra occi-
dentale, ma soprattutto tra le cosiddette “forze patriottiche” in Russia (il PCFR di Gennadij Zjuganov, ma non solo) e che vede nella “minaccia russa” e non nel Socialismo e nell’esperienza sovietica, l’unico filo conduttore della secolare fobia occidentale per la Russia. Trifkovič afferma che “la guerra fredda non è mai terminata”, come in effetti dimostra “l’allargamento a est della NATO nel corso dei 15 anni dopo la fine dell’URSS e lo sviluppo della crisi in Ucraina negli anni 20042014. Le sfide poste oggi di fronte alla Russia non sono affatto legate alla sua attuale politica”, sostiene, e sarebbero “invece l’espressione di un odio profondo, che le élite politiche e mediatiche occidentali nutrono nei confronti della Russia in quanto tale. Tale ostilità esiste e si manifesta dai tempi della guerra di Crimea”. La russofobia anglo-americana, dice, si basa da un lato sulla “tendenza comune agli imperi marittimi (un tempo la Gran Bretagna; oggi gli USA), a contenere, accerchiare e comprimere l’”heartland” eurasiatico, il cui cuore è la Russia. Dall’altro, su un’istintiva e profonda antipatia culturale: la percezione della Russia come l’eterno “altro” rispetto alle élite occidentali e il desiderio di un cambio irreversibile di regime a Mosca”. In questo quadro, conclude Trifkovič, lo scenario mondiale più probabile è un “prolungato equilibrio instabile, con tendenze al multipolarismo, cui si opporrà l’egemonia unipolare che va indebolendosi. La leadership russa deve capire che quelli che essa chiama “partner occidentali” vogliono sul serio distruggere la Russia” e li dovrà quindi costringere a “riconoscere il proprio status paritario di grande potenza” non con “manifestazioni di buona volontà e richiami alla ragione”, ma con assoluta fermezza. Per parte nostra, vorremmo dire che è storicamente innegabile il contrasto secolare tra Occidente e Russia; ma è al contempo indubbio, che la “guerra fredda mai terminata” sia stata scatenata dall’Occidente, per contenere l’influenza acquisita dall’URSS tra i popoli del mondo con la vittoria sul nazifascismo. Una guerra fredda che non escludeva affatto la trasformazione in “guerra calda” (vedi Corea) e l’ipotesi di distruzione atomica delle città sovietiche. Era una guerra contro il “pericolo bolscevico”, iniziata nel 1917 e passata poi, nel circo mediatico, a indicare un conflitto “eterno” con la Russia tout court. Detto questo, perché fingere di ignorare i mutamenti di prospettiva succedutisi in quell’eterno confronto? Perché, ad esempio, non specificare che la “guerra calda” che, tra il 1918 e il 1921, portò potenze occidentali e Giappone ad aggredire la giovane repubblica sovietica, sosteneva i generali bianchi, per soffocare il primo Stato socialista, più che attentare alla Russia in quanto tale? Perché sorvolare sulla guerra per procura anglo-americano-nazista che ha accompagnato l’intero periodo sovietico o, al massimo, come fa il PCFR, inglobarla sic et simpliciter nel “odio occidentale contro la Russia”? Si mette così il segno di uguaglianza tra l’intervento straniero di 100 anni fa, votato a impedire “il contagio bolscevico” e l’odierno accerchiamento della NATO ai confini russi (“nuova unità” aveva affrontato il tema sul n.2/2017) che risponde prioritariamente al tentativo di una parte del mondo capitalista di sottrarsi alla propria crisi, aggredendo quelle nuove potenze capitaliste che oggi minacciano il predominio economico anglosassone. “L’imperialismo è fonte di guerre. Gli imperialisti combattono per le fonti di materie prime, sfere di investimenti di capitale, controllo delle risorse energetiche e dei territori strategici”, ricordano giustamente i comunisti del VKPB. Se in Siria si è assistito a uno “show”, l’insegnamento tuttora attuale del leninismo è che nessun “inter-(o ultra-)imperialismo è capace di garantire la pace permanente sotto il capitalismo”, se i popoli non prendono il loro destino nelle proprie mani.
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brasile
Lula sì, Lula no Anche lui si è accorto, riconoscendolo recentemente che il suo più grande errore è l’essere stato “condiscendente” verso il potere effettivo Daniela Trollio (*) Mentre il nuovo attacco di USA, Inghilterra e Francia al popolo siriano tiene con il fiato sospeso il mondo, dall’altra parte del pianeta è avvenuto un fatto altrettanto grave, anche se con armi “pacifiche”. Stiamo parlando dell’arresto e dell’incarcerazione dell’ex presidente brasiliano Ignacio Lula da Silva, condannato senza prove (come era già successo con la destituzione della presidente Dilma Rousseff) per corruzione (aver ricevuto un appartamento di tre vani) e arrestato prima che fossero esperiti tutti i gradi di giudizio previsti dalla legge. Prima di cercare di spiegare tutte le implicazioni di questo fatto, vogliamo ricordare qualche dato. Il Brasile è l’ottava potenza economica per il suo PIL secondo il Fondo Monetario Internazionale, e viene prima di nazioni come Gran Bretagna e Francia. Ha la diversità biologica più vasta del pianeta e incalcolabili riserve naturali. Il suo territorio è enorme ed ha risorse naturali straordinarie, tra le quali il polmone verde del pianeta, l’Amazzonia, e 7.500 chilometri di costa lungo la quale si trovano grandi giacimenti di petrolio. Questo ne ha fatto, nella storia, un obiettivo strategico per l’imperialismo: la IV Flotta statunitense da parecchi anni pattuglia la zona. Nonostante la sua ricchezza, in Brasile – dove più della metà della popolazione discende dagli indios originari e dagli schiavi africani portati a lavorare nelle miniere e nelle piantagioni - la disuguaglianza e la povertà sono sempre stati un flagello. Nel 2002 il 31,8% dei brasiliani vivevano in povertà. Ma, secondo le statistiche della Banca Mondiale, durante la presidenza di Lula Ignacio da Silva (e di Dilma Rousseff), tra il 2004 e il 2014, la povertà si è ridotta di più del 73%; la povertà cronica è passata da quasi il 10% all’1%. Tutti i settori sociali hanno aumentato le loro entrate, i ricchi del 23%, i poveri dell’84%. Il Brasile è uscito dall’umiliante mappa della fame tracciata dalla FAO, e l’immenso proletariato del paese ha raggiunto livelli di benessere prima inimmaginabili. È stato ridotto del 53% il deficit di accesso ad una casa di-
gnitosa, sono stati costruiti 1.700 mila alloggi popolari, si è esteso a quasi tutto il paese l’accesso all’energia elettrica, all’acqua potabile, si sono costruite più università e scuole tecniche che in tutta la storia del paese fino al 2002. Come? Gran parte delle risorse dello Stato sono state impiegate per realizzare questi obiettivi, mettendo al centro del bilancio i poveri, la popolazione rurale, quella indigena e nera. Nota: caso vuole, il processo e l’arresto di Lula avviene poco tempo prima delle prossime elezioni presidenziali, quando l’ex sindacalista capo del Partito dei Lavoratori veniva dato per vincente con il 70% delle “intenzioni di voto” favorevoli. Sgombriamo il campo, a questo punto, dagli equivoci: nonostante le importanti riforme a favore dei più poveri, come dicevamo sopra, il governo di Lula è sempre stato un governo capitalista, rappresentante di alcuni settori della borghesia nazionale in contrasto con le multinazionali. Questo non perché lo diciamo noi, ma perchè lo disse, appena eletto, Lula stesso affermando di non voler toccare la struttura del paese, cioè le grandi banche, il capitale finanziario globalizzato che attraverso di esse opera nel paese, la rete monopolistica Globo, la Mittal Aceros, la società di costruzioni MRV, la Electrobras, tra le altre. Tanto per fare un esempio le banche brasiliane, asse dell’attuale modello capitalista, durante il governo di Lula hanno visto crescere i loro profitti del 14% annuale. Anche se va riconosciuto che essere riformisti in un paese come il Brasile è ben diverso dall’esserlo in altre lati-
tudini, come dimostra il recentissimo assassinio di Marielle Franco, la consigliera comunale uccisa con il suo autista dopo aver denunciato pubblicamente la militarizzazione delle favelas di Rio de Janeiro e l’impunità della polizia – nel momento in cui la borghesia brasiliana ha ritenuto che le aspirazioni popolari che Lula rappresentava erano ormai intollerabili, l’ha prontamente castigato, con strumenti “democratici” quali i tribunali. E se n’è accorto anche lui, riconoscendo recentemente che il suo più grande errore è l’essere stato “condiscendente” verso il potere effettivo. Troppo tardi? Staremo a vedere, anche perché chi certo non si rassegnerà a tornare alla povertà, all’esclusione so-
ciale, sono le classi sociali più colpite, la classe operaia, il proletariato e i settori più poveri del popolo brasiliano.
Democrazia, democrazia… Molti di noi si sono certamente chiesti in questi anni la ragione dell’“affetto” che – soprattutto in America Latina – i settori proletari in lotta sembrano dimostrare per quella che noi, figli di un’altra storia, chiamiamo “democrazia borghese”, in sostanza i processi elettorali in cui veniamo chiamati non più a “scegliere” chi ci sfrutterà negli anni a venire, ma ormai solo a ratificare le decisioni dei poteri forti. I brasiliani hanno un’altra storia, un’altra esperienza. La storia del Brasile, fin dalla sua nascita, è storia di dittature sanguinarie, di colpi di stato, di sistematico disprezzo dei diritti della maggior parte dei suoi abitanti, trasformati in stranieri all’interno della loro propria terra, invisibili nella loro stessa società. Una storia fatta anche di menzogne, come quando il regime militare che rovesciò il presidente democratico Joao Gulart nel 1964 promise di “ristabilire” l’ordine costituzionale in pochi giorni, che divennero 21 anni. E quando l’ordine costituzionale democratico tornò, lo fece sostenendosi su una legge che garantiva l’impunità dei crimini militari durante la dittatura. E i militari, mai toccati grazie a tale legge, sono intervenuti pesantemente – com’è sempre successo in ogni tappa della storia di questo paese – anche nel corso del processo a Lula. Il fascismo avanza anche in America Latina. Insomma, la “democrazia”, la faccia “pacifica” della dittatura borghese dietro cui il capitale nasconde ed esercita il suo potere, è stata un’ecce-
zione nella storia brasiliana, e non solo. In altri paesi del continente la lotta per la “democrazia” si accompagna invece alla coscienza che solo l’organizzazione cosciente del proletariato e degli strati popolari la può difendere perché le conquiste non vengano cancellate, più o meno violentemente: succederà anche in Brasile? Quindi, denunciare quanto accade a Lula da Silva non significa affatto difendere la sua ideologia e la sua politica. Significa invece denunciare i piani dell’imperialismo, mondiale e locale che, dopo un decennio in cui ha dovuto sopportare il protagonismo del proletariato e delle classi sottomesse, oggi è deciso a cancellarne ogni e qualsiasi conquista e diritto che possano rallentare l’accumulazione sfrenata. Significa denunciare la barbarie di un sistema predatorio che distrugge popoli e paesi interi e che sta portando il pianeta stesso in un abisso senza ritorno. Per finire, ecco cosa scrive, in un comunicato, il Partito Comunista Brasiliano, feroce critico da sempre delle politiche di Lula: “I comunisti brasiliani non esiteranno a rafforzare la resistenza unitaria e popolare contro questo attacco alle libertà democratiche. Oltre al calendario elettorale instabile, dobbiamo rafforzare, con tutte le forze democratiche, progressiste e rivoluzionarie, la resistenza organizzata a questi attacchi. Inoltre, i nostri militanti, del Partito e dei nostri collettivi, si uniranno alle azioni congiunte in tutti gli Stati, partecipando contemporaneamente alla mobilitazione e alla loro organizzazione, cercando in questi spazi di denunciare la persecuzione politica contro il presidente Lula e partecipare attivamente al fianco di organizzazioni e movimenti popolari al confronto con l’escalation fascista, l’ascesa del conservatorismo e gli attacchi alla classe operaia. La lotta organizzata è da sempre l’arma migliore della classe operaia. Resisteremo agli attacchi e costruiremo, nella resistenza organizzata, gli elementi della controffensiva socialista.” (traduzione di: resistenze.org; n. 668). (CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)
Ancora una volta ingannati Il VKPB sui risultati delle elezioni presidenziali del 18 marzo Il 14 gennaio scorso, il Plenum del CC del VKPB (Partito Comunista dei Bolscevichi di tutta l’Unione) aveva constatato: “I tecnopolitici del Cremlino si sono impegnati seriamente per predeterminare i risultati delle elezioni presidenziali. Non tanto su CHI diventerà presidente, quanto con CHE risultato”. I risultati del 18 marzo hanno confermato le previsioni del VKPB. Putin ha ottenuto il 76,69%, il risultato più alto di tutte le presidenziali dopo la distruzione dell’URSS. Il candidato del PCFR, Pavel Grudinin 11,77%, Vladimir Žirinovsky 5,65%, Ksenija Sobčak 1,68%, Grigorij Javlinskij 1,05%, Boris Titov 0,76%, Maksim Surajkin, dei Comunisti di Russia, 0,68%, Sergej Baburin 0,65%. Con una potente campagna mediatica, l’affluenza è arrivata al 67,49%. Alla luce della politica estera russa, Putin ha un elevato consenso tra la popolazione; tutto il resto si è svolto secondo uno scenario ben stabilito. (...) Le elezioni hanno ancora una volta legittimato, legalizzato, il dominio dell’oligarchia finanziaria. Dei 109 milioni di aventi diritto, hanno votato per il presidente 56,4 milioni, cioè il 50% degli elettori; 35,4 milioni, ossia 1/3 di elettori, ha ignorato le elezioni. Putin “ha vinto”, perché dietro di lui c’è il grande capitale, l’oligarchia finanziaria... Il candidato del PCFR ha ottenuto il risultato peggiore di tutte le precedenti campagne presidenziali: 11,77%, ovvero 8,66 milioni di voti. Nel 2000, G. Zjuganov aveva ottenuto il 29,21% (21,9 milioni); nel 2004 N. Kharitonov il 13,69% (9,5 milioni); nel 2008 G. Zjuganov il 17,7% (13,2 milioni) e nel 2012 il 17,2% (12,3 milioni). Il consenso elettorale del PCFR è in costante calo e ciò si spiega con la sua politica di conciliazione e integrazione con il regime borghese.
Si sono confermate le previsioni del VKPB, che la candidatura di Grudinin avrebbe portato a una caduta di consenso dell’intera opposizione comunista e a un aumento di quello di Putin. Gli elettori pro-sovietici sono stati ingannati ancora una volta con l’appello alla facile vittoria: “Avete una rara opportunità storica di correggere la situazione pacificamente e democraticamente con la scheda”. Surajkin, che ha ottenuto lo 0,68%, non ha affatto agito da seguace di Stalin, ma da spoiler del PCFR, per sottrarre voti al suo candidato. Tutti coloro che danno una valutazione positiva di Stalin, hanno preferito dare il voto al presidente e al PCFR, oppure boicottare in vari modi le elezioni. L’intera opposizione comunista e di sinistra ha sostenuto il boicottaggio; il VKPB ha invitato ad annullare la scheda; così ha fatto anche “Trudovaja Rossija”, un tempo guidata dal defunto Viktor Anpilov e anche il RKRP di Viktor Tjulkin si è avvicinato alla tattica del VKPB. Le conseguenze negative, per il movimento comunista, della partecipazione del PCFR al voto, hanno confermato la correttezza di tale tattica. Le elezioni sono passate, ma le più acute contraddizioni del capitalismo rimangono. Continua la politica liberale, come testimoniano le dichiarazioni di Putin: “Il ruolo dello Stato nell’economia deve ridursi”. … I risultati delle elezioni dimostrano che la situazione della classe dominante non è affatto sicura. Il PCFR rimarrà all’opposizione fino a un certo punto e poi stabilirà un accordo con il potere. Zjuganov, per l’ennesima volta agita lo spauracchio della rivoluzione socialista e offre i propri servigi al potere per la salvezza del sistema capitalista: “In futuro, sarà impossibile conservare il potere con metodi politici, senza dialogo, senza il nostro apporto”. Accoglierà Putin
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le proposte del PCFR? Poco verosimile. Al momento, l’oligarchia finanziaria si sente stabile e non ha bisogno di una copertura socialdemocratica per la propria dittatura. È possibile distruggere il potere del capitale e ristabilire il socialismo e l’URSS solo per via rivoluzionaria, con la dittatura del proletariato. “Irridendo l’insegnamento di Marx, i signori opportunisti, kautskiani compresi, “insegnano” al popolo che il proletariato deve prima conquistare la maggioranza col suffragio universale, quindi ottenere, sulla base di questo voto della maggioranza, il potere statale e solo poi, su questa base di democrazia “conseguente” (alcuni dicono “pura”), organizzare il socialismo. Ma noi, sulla base dell’insegnamento di Marx e dell’esperienza della rivoluzione russa, diciamo: il proletariato deve prima rovesciare la borghesia e conquistare per sé il potere statale, e poi usare questo potere statale, cioè la dittatura del proletariato, come strumento della propria classe per conquistare la simpatia della maggioranza dei lavoratori. (…) il proletariato raggiunge questo esito mettendo in moto non il vecchio apparato statale, bensì facendolo a pezzi, senza lasciarne pietra su pietra (nonostante le urla dei filistei spaventati e dei sabotatori) e creando un nuovo apparato statale”. (Lenin, Le elezioni all’Assemblea costituente e la dittatura del proletariato; op. vol. 40, pagg. 11-12). CC del VKPB (Partito Comunista dei Bolscevichi di tutta l’Unione) 26 marzo 2018
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Non facciamoci prendere in... Giro! Fermiamo le ruote dell’occupazione e lasciamo a Israele la maglia nera «Come parte di una rivoluzione nel marketing del nostro paese, che vede Israele quale destinazione turistica e per il tempo libero, stiamo portando il Giro d’Italia nel nostro paese – una gara spettacolare che mostrerà i paesaggi incredibili di Israele a milioni di spettatori in quasi 200 paesi nel mondo. [...] Abbiamo lavorato negli ultimi anni con il Giro pubblicizzando Israele, quest’anno intensificheremo questa cooperazione e sono sicuro che ne vedremo il risultato. Insieme, promuoveremo Israele come destinazione turistica. Le immagini del paesaggio spettacolare di Israele daranno ulteriore impulso alle nostre campagne in tutto il mondo e sono sicuro che questo contribuirà a far crescere ulteriormente il turismo in Israele». Questo il commento del ministro del turismo israeliano alla presentazione ufficiale del Giro d’Italia 2018 a Gerusalemme, avvenuta provocatoriamente nello stesso giorno della ricorrenza del 35° anniversario del massacro di Sabra e Shatila. Una scelta faziosa e strumentale, quella della RCS Mediagroup S.P.A., di far partire l’edizione 2018 del Giro d’Italia da Israele, dove si svolgeranno le prime tre tappe: Gerusalemme, a seguire Haifa e Tel Aviv e per finire una tappa che attraverserà il deserto del Negev. Così come nel 2008 la Fiera del Libro di Torino fu “sequestrata” per celebrare il 60° della fondazione dello Stato d’Israele, dieci anni dopo assistiamo al “sequestro e alla deportazione” del Giro d’Italia nella Palestina Occupata, per celebrare con malcelata ipocrisia il 70° della fondazione dello Stato d’Israele. La ragione ufficiale di tale scelta riguarda la volontà di dedicare questa edizione del Giro alla memoria di Gino Bartali, il cui nome è stato impresso sul muro dei “Giusti tra le Nazioni” per aver salvato diverse centinaia di ebrei italiani dalle persecuzioni nazifasciste. Ancora una volta dietro il paravento della terribile tragedia che
è stata l’olocausto si tenta di far permeare l’associazione tra “semitismo” e “sionismo”, confondendo volutamente due termini che hanno accezioni molto diverse, per poter tacciare di antisemitismo quanti si mobilitano contro l’occupazione della Palestina. Mentre con “semita” si indica infatti l’appartenenza ad un gruppo linguistico del Vicino Oriente (che comprende tanto l’arabo quanto l’ebraico), il “sionismo” è l’ideologia politica fondante dello Stato colonialista d’Israele basata su una dottrina razzista: i suoi teorici professano la colonizzazione della Palestina per costruirvi lo “stato ebraico” negando l’esistenza di una popolazione autoctona, l’intera legislazione israeliana è discriminatoria sia nei confronti dei palestinesi sia nei confronti degli ebrei stessi gerarchizzati in una piramide che segue come parametro la purezza della “razza”. Altro che la favola raccontata dello sport che riavvicina i popoli e promuove la pace, per il 101° Giro d’Italia, con un chiaro significato politico, è stato scelto di valorizzare Israele come teatro delle tappe iniziali, inneggiando alla politica dell’Occupazione e dell’Apartheid. Aspetto, questo, che emerge con evidenza da almeno 3 elementi:
La scelta della data
Il 15 maggio 2018 cade il 70° anniversario dalla nascita dell’entità sionista, quindi l’ufficializzazione dell’occupazione della Palestina. Promuovere la partenza di quest’evento ciclistico proprio in quei giorni significa di fatto dimenticare volutamente la Nakba del popolo palestinese, la sua diaspora e la colonizzazione della sua terra.
La scelta del tragitto
Per evitare “incidenti” le tre tappe previste toccano unicamente i Territori del ‘48 evitando di proposito zone come la Cisgiordania dove i chek point, il Muro dell’Apartheid e la
stessa presenza dei palestinesi avrebbero potuto smascherare il vero volto del colonizzatore vanificando l’impegno di Israele di autocelebrazione e soprattutto di riabilitazione dopo le barbarie (mostrate anche dai media mean stream) di cui si è macchiata durante gli attacchi contro Gaza.
La partenza da Gerusalemme Anche questa decisione non fa che alimentare la falsa diceria che sia questa, anziché Tel Aviv, la capitale di Israele, sebbene persino l’Onu consideri la proclamazione di Gerusalemme capitale da parte del parlamento israeliano «nulla e priva di validità, una violazione del diritto internazionale e un serio ostacolo alla pace in Medio Oriente». Inoltre la rivendicazione di Gerusalemme (Al Quds) come capitale della Palestina libera dall’occupazione è uno dei pilastri su cui le forze della Resistenza Palestinese hanno sempre trovato unità, insieme al diritto al ritorno dei profughi, alla liberazione dei prigionieri palestinesi, alla rivendicazione della Palestina storica. Questo tipo di eventi - e lo dimostrano anche i 4 milioni di euro stanziati da Israele per gli organizzatori del Giro rientrano in una precisa strategia che ha lo scopo di presentare uno stato colonialista come una democrazia ricca di cultura e modernità per ripulirne l’immagine a livello internazionale. Immagine macchiata dagli orrori compiuti in 70 anni di occupazione che hanno visto violenti operazioni militari, rastrellamenti, uccisioni, arresti di uomini, donne, anziani e persino minori, abusi, il furto delle terre e dell’acqua, la costruzione del muro dell’Apartheid. Violenze che i colonizzatori chiamano “diritto a difendersi” mentre nella pratica si traducono nel “diritto ad occupare”. Violenze che, è facile prevedere, il Giro d’Italia non solo non mostrerà ma si propone di celare.
Tale scelta si inserisce nell’ampio quadro di legami che unisce a doppio filo lo stato italiano e quello sionista e che si concretizza sotto vari profili, dagli accordi economici alle collaborazioni militari, dai gemellaggi accademici ai comuni obiettivi politici nelle strategie di guerra del polo imperialista cui entrambi appartengono. Va da sé che con questi legami il nostro Paese non solo manifesta il totale appoggio all’ideologia sionista e al suo progetto di pulizia etnica della Palestina, ma importa tutta la sua “industria della violenza” prodotta in 70 anni di occupazione e sperimentata sul popolo palestinese: ricordiamo ad esempio il Disegno di Legge 2043 che mira a rendere reato la pratica del boicottaggio per colpire il movimento BDS e la solidarietà al popolo palestinese. Ora più che mai la contrapposizione al dilagante modello sionista e la resistenza del popolo palestinese all’occupazione rappresentano un faro nello scenario mondiale del dilagare della guerra contro i popoli: crediamo sia doveroso quindi che tutti i movimenti, le associazioni, i singoli che so-
lidarizzano con il popolo palestinese e con quanti resistono alle aggressioni imperialiste e coloro che credono e difendono i valori dello sport e si oppongono ai tentativi di strumentalizzazione dello stesso a mobilitarsi. Invitiamo quindi a creare momenti di informazione e di denuncia, ad organizzare iniziative e contestazioni per chiedere che il Giro d’Italia non parta da Israele e non diventi uno strumento di legittimazione dell’occupazione della Palestina e di celebrazione del legame tra lo stato sionista e gli imperialisti italiani, in preparazione di una grande manifestazione nazionale che nella ricorrenza della Nakba mostri il vero volto di Israele a sostegno della resistenza palestinese. Contro l’occupazione sionista della Palestina! No allo sport-washing della barbarie contro il popolo palestinese! No alla partenza del Giro d’Italia 2018 in Israele! Fronte Palestina
Fermiamo le ruote dell’occupazione sionista Israele maglia nera! Il Giro d’Italia del 2018 inizierà con le prime tre tappe da Israele: partenza da Gerusalemme il 4 maggio, seconda tappa Haifa /Tel Aviv, la terza tappa attraverserà il Naqab (Negev)
Come spiegare la partenza del Giro d’Italia da Gerusalemme? La ragione ufficiale riguarda la volontà di dedicare questa edizione del Giro alla memoria di Gino Bartali, il cui nome è stato impresso sul muro dei “Giusti tra le Nazioni” per aver salvato diverse centinaia di ebrei italiani dalle persecuzioni nazifasciste. Vista, però, la mancanza di tappe che in qualche modo potessero ricondursi alla vita del ciclista e l’assenza di questo argomento nella pubblicistica del Giro, appare da subito evidente che questa motivazione è un pretesto. Il vero motivo è un altro: la volontà da parte del governo italiano di omaggiare le politiche di Israele e indirettamente quelle degli USA, al fine di cementare l’intesa tra questi paesi imperialisti nello scacchiere della guerra mediorientale. Trump, infatti, due mesi fa ha riconosciuto Gerusalemme quale capitale di Israele, prevedendo lo spostamento dell’ambasciata americana proprio il prossimo mese di maggio: con questa decisione si calpesta la Risoluzione ONU n. 181
che dichiara la città di Gerusalemme “corpus separatum” sotto amministrazione delle Nazioni Unite. La scelta vergognosa di far partire il Giro d’Italia da Gerusalemme legittima di fatto il progetto israeliano di colonizzazione/insediamento della Palestina e occulta i crimini che Israele quotidianamente commette contro la popolazione Palestinese. Nel silenzio dell’informazione internazionale, Israele attua politiche di ampliamento di colonie, espropria acqua e terra, impedisce la produzione di beni, il libero movimento delle persone e delle cose con blocchi e muri, arresta e trattiene in carcere, senza motivo, bambini e adulti, demolisce case e assassina chi si vuole opporre alle violenze dell’occupazione. Più di due milioni di palestinesi della striscia di Gaza vivono da 11 anni sotto assedio senza acqua, elettricità, servizi sanitari, sotto attacchi armati israeliani che hanno fatto migliaia di vittime tra donne uomini e bambini: crimini contro i diritti universali che si affermano nel silenzio totale della comunità internazionale. Crimini che i colonizzatori chiamano “diritto a difendersi” mentre nella pratica si traducono nel “diritto ad occupare” e nel “diritto di sterminio”. Violenze che, è facile prevedere, il Giro d’Italia non solo non mostrerà, ma si propone di celare per ricostruire una facciata democratica a Israele.
Da diversi anni è consolidata la pratica di far partire grandi tappe sportive dall’estero per ragioni principalmente economiche: uno Stato o una città pagano gli organizzatori del Giro per ospitare l’evento. L’aspetto che contraddistingue la decisione di quest’anno, però, è che la scelta è soprattutto dettata da una volontà politica e solo successivamente economica. Quest’operazione di pulizia d’immagine, che ha già coinvolto altre manifestazioni culturali e sportive, fa parte di una strategia, Brand Israel, per la quale il governo israeliano ha stanziato sostanziose risorse finanziarie. Israele infatti ha pagato, o meglio investito, 4 milioni alla Rizzoli-Corriere della Sera (gli organizzatori della corsa) per ospitare la partenza del Giro d’Italia. Non un impegno economico per una manifestazione sportiva, qual è il Giro d’Italia, ma un’occasione per sostenere e occultare le politiche criminali che lo Stato sionista sta attuando. Al Giro d’Italia parteciperà una squadra israeliana invitata dagli organizzatori della gara; ciclisti pagati profumatamente, basti pensare ai 2,4 milioni di dollari investiti da Israele per accaparrarsi il campione del Tour de France Chris Froome. La stessa immagine di Bartali viene strumentalizzata e piegata ai fini propagandistici israeliani, perché ancora una volta si strumentalizza il crimine della
Shoah per legittimare l’occupazione della Palestina e si affibbia l’infamante etichetta di antisemiti ai solidali con la Resistenza Palestinese. Un lavaggio dei cervelli che parte dalle parole stesse, visto che “semita” indica infatti l’appartenenza ad un gruppo linguistico del Medio Oriente (che comprende tanto l’arabo quanto l’ebraico), mentre il “sionismo” è l’ideologia politica fondante dello Stato colonialista d’Israele, basata su una dottrina razzista, di separazione e supremazia degli ebrei. Noi rigettiamo questa strumentalizzazione! Gli organizzatori e la politica italiana hanno trasformato una manifestazione sportiva, che dovrebbe essere simbolo di pace e fratellanza, in una vetrina di propaganda per lo Stato sionista che ha preteso anche la ristampa sia della pubblicistica che della planimetria ufficiale, visto che veniva riportata “Gerusalemme Ovest” come località di partenza del Giro, contrariamente a quanto propagandato su Gerusalemme capitale dello “Stato ebraico”. Israele ha preteso il cambiamento a seguito di una spiegazione assolutamente politica da parte dei ministri dello Sport, del Turismo e delle Questioni Strategiche: “Gerusalemme è la capitale di Israele: non vi sono Est e Ovest […] nella misura in cui nel sito del Giro non sarà cambiata la definizione che qualifica come punto di partenza ‘West
Jerusalem’, il governo israeliano non parteciperà all’iniziativa”. Prontamente gli organizzatori si sono scusati ribadendo che non era nelle loro volontà contrariare il partner sionista ed hanno rimosso questa dicitura da ogni materiale legato al Giro d’Italia. Complimenti! Ancora una volta l’Italia si conforma alla propaganda sionista: persino i libri di testo scolastici riportano la falsa informazione secondo cui Gerusalemme è la capitale di Israele. La data stabilita per l’inizio della corsa ciclistica, inoltre, non sembra proprio casuale: essa cade a 70 anni dalla Nakba (“catastrofe” per il popolo Palestinese), cioè l’inizio dell’occupazione della Palestina; un’occasione per Israele e i suoi alleati di festeggiare la nascita dello stato sionista e la conseguente espulsione dei palestinesi dalla loro terra. Costruire la solidarietà con il popolo palestinese passa necessariamente in Italia con la denuncia e la contestazione dei legami tra l’Italia e Israele: fatti di interessi economici, scambi culturali, gemellaggi accademici e collaborazioni militari. Israele è l’avamposto colonialista delle potenze della Nato in Medio Oriente ed è parte del sistema capitalista e imperialista mondiale che immiserisce e sfrutta i popoli. Con la sua sperimentata e sistematica oppressione verso il Popolo Palestinese, è un
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Yemen: un’agonia reale Perché si tace su questi numeri? 17 milioni di Yemeniti, più del 60% della popolazione, hanno urgente bisogno di cibo. Di questi, 7 milioni stanno affrontando la fame. La distruzione delle infrastrutture ha lasciato 15 milioni di persone senza alcun accesso alle cure sanitarie e ha generato lo scoppio senza precedenti del colera, con 900.000 casi e migliaia di morti. 50.000 bambini sono morti nel 2017 di malattie e fame Sono passati quasi tre anni da quando l’Arabia Saudita annunciò che stava intervenendo militarmente, con i propri alleati, per rimuovere gli Houti (ufficialmente chiamati Ansar Allah) dal potere, dopo che questi avevano preso la capitale. Analisti occidentali la interpretarono come una mossa sfacciata del neo nominato principe della corona Mohammad bin Salman; i fabbricanti di armi e i loro rappresentanti ne furono deliziati. Ma ciò che era previsto come una rapida operazione militare si è capovolta in un umiliante stallo. Incapace di imporsi con la forza, l’Arabia Saudita ed il suo arrogante principe hanno fatto ricorso a crimini di guerra e punizioni collettive, imponendo una catastrofe umanitaria sul popolo Yemenita. Ricardo Vaz LLa mancanza di interesse nei media fa sembrare che la crisi si svolga in lento movimento. Questo solo perché violenza e compassione sono destinate ad essere armi, quando possono essere utili per giustificare gli interventi imperialisti. Per il popolo Yemenita l’agonia è reale e non c’è scampo ad essa. In ciò che era già il più povero paese della regione, i bombardamenti Sauditi delle infrastrutture e il blocco imposto nei porti Yemeniti hanno lasciato milioni di persone ai margini. Secondo le stime delle Nazioni Unite, 17 milioni di Yemeniti, più del 60% della popolazione, hanno urgente bisogno di cibo. Di questi, 7 milioni stanno affrontando la fame. La distruzione delle infrastrutture ha lasciato inoltre 15 milioni di persone senza alcun accesso alle cure sanitarie e ha generato lo scoppio senza precedenti del colera, con 900.000 casi e già migliaia di morti; 50.000 bambini sono morti nel 2017 di malattie e fame. Non c’è bisogno di esagerare, questo è un disastro umanitario che va oltre le parole. Solo che non è una catastrofe naturale. Anche più di qualcosa che si è lasciato accadere, esso rappresenta ciò che viene volutamente imposto al popolo Yemenita.
Violenza occidentale e responsabilità
Non appena l’esercito siriano si è mosso per riprendere Aleppo est, una grandiosa campagna di informazioni mostrava gente di cui nessuno si mai era interessato, uscire dai propri nascondigli e proclamare che l’umanità aveva perso i propri principi. Un giorno magari la gente si chiederà quanta parte enorme di opinione pubblica occidentale è stata manipolata dal lavoro di propaganda costruito per difendere una città tenuta da al-Qaida (1). Mesi prima eravamo bombardati dai media per il sito di Madaya, dove 40.000 persone stavano morendo di fame (2). Eppure ora, con un intero paese sull’orlo della fame, il silenzio dei media sta parlando. I bombardamenti Sauditi e il blocco dei porti hanno creato un incubo umanitario in Yemen, con milioni di persone minacciate dalla fame. Chiunque può esprimere il proprio orrore in un ospedale bombardato in Siria. Il problema qui non è tanto di comparare le tragedie e chiedere livelli proporzionali di violenza. Il problema è che l’Occidente è direttamente responsabile della tragedia in Yemen. Le società occidentali forniscono gli armamenti, i consiglieri militari occidentali sono coinvolti nel lavoro di intelligence e nella scelta degli obiettivi, gli aerei USA riforniscono i jet Sauditi (e della coalizione) per portare a termine i brutali bombardamenti. La violenza presunta non riguarda in alcun modo i diritti umani, è semplicemente un imbroglio della propaganda in politica estera. E la principale priorità per gli occidentali dovrebbe essere quella di fermare i crimini che
modello repressivo e reazionario per le classi dominanti di tutto il mondo: anche qui in Italia, dove le conquiste dei lavoratori vengono cancellate, le masse popolari sono sempre più immiserite e si fomenta la guerra razziale e religiosa tra poveri per farci credere che i nemici siano gli immigrati e non gli sfruttatori e i capitalisti. Un modello anche per la politica estera, visto le oltre trenta missioni militari all’estero, dal Niger all’Afghanistan, che rivelano come la
vengono commessi, o di cui sono complici i loro rispettivi governi. Non c’è motivo di invocare questa o quella convenzione, perché i governi occidentali e i fabbricanti di armi non dichiareranno mai di vendere armi che sono usate per commettere violazioni dei diritti umani. Ma c’è l’agghiacciante evidenza che i crimini umani vengono compiuti in tutti i sensi: dall’attacco aereo a doppio colpo al bombardamento di ospedali, scuole, o perfino funerali, e nessuno ha suggerito di porre freno a questo treno di soldi e vendite di armi. L’evidenza dei crimini di guerra verrà ignorata o, come suggeriva il segretario agli esteri inglese Boris Johnson, lasciata all’esame degli stessi Sauditi! La copertura dei media di Mohammad bin Salman non è per niente inferiore a quella di giornali come il Guardian e le istituzioni saudite danno sempre voce alle proprie posizioni e ai propri dinieghi attraverso la stampa occidentale. Un ricorrente esempio vede un funzionario saudita negare che sia stato compiuto un bombardamento da parte dei Sauditi e i media occidentali sono felici di pubblicare questa notizia senza ricordare ai loro lettori che nessun altro sta volando sopra lo Yemen. È come se bombe capricciose si mettessero a vagare per lo Yemen. Anche le Nazioni Unite hanno scansato le loro responsabilità. Il loro ruolo si è ridotto a richiamare l’Arabia Saudita affinché smetta di bloccare i porti di un paese straniero. L’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’ONU, burattino degli occidentali per eccellenza, nel suo ultimissimo rapporto fa menzione delle orribili sofferenze dello Yemen. Mentre i soliti sospettati (Corea del Nord, Venezuela, Iran ecc.) sono raggiunti da ogni genere di reclamo - reale, esagerato o fabbricato – amplificato nel rapporto, l’Arabia Saudita non viene nemmeno nominata quale responsabile di questa situazione, solo gli “attacchi aerei della coalizione” sono citati.
Guerra: a che serve?
Gli articoli non si chiedono più cosa riguarda questa guerra e perché continui. L’impunità a livello globale procede come al solito mano nella mano con l’indifferenza dei media. Per la sola ragione che, oltre il lucroso commercio delle armi, è meglio lasciar fare ai Sauditi ciò che vogliono. Con i miliardi di dollari che si profilano all’orizzonte nel prossimo futuro con l’aumento dei progetti di privatizzazione, Saudi Aramco compresa, lasciare che milioni di povere vittime crepino in Yemen è un piccolo prezzo da pagare. Il principe della corona saudita può, in un accesso d’ira, imbarcarsi in una guerra mortale e assassinare milioni di persone e farla franca perché siede su una gigantesca pila di denaro. Che “l’Iran sia dietro” alla faccenda non convince nessuno che guardi una mappa. Dato che i sauditi e gli alleati locali controllano il Golfo di Aden, le navi iraniane caricate di armi non possono in alcun modo recarsi nello Yemen del Nord e a Sanaa. Questo capita anche per lo spazio aereo, che è completamente controllato dai sauditi. Così se l’Iran può aver cercato di inviare qualche aiuto e qualche consigliere, è ridicolo sostenere che gli Houti sono sotto il controllo o addirittura diretti dagli iraniani. Ma succede spesso che gli spauracchi tendano ad avere fantastiche proprietà. All’inizio della guerra abbiamo sentito spesso dire che la guerra serviva a ristabilire il legittimo e democraticamente eletto governo dello Yemen. Dozzine di giornalisti scrissero che l’arretrato regno di Arabia Saudita stava per imbarcarsi in una guerra per ristabilire la democrazia senza avvertire che qualcosa non quadrava. Gli articoli di solito citavano il fatto che lo Yemen stava per emergere da decenni di dittatura sotto Alì Abdullah Saleh. Saleh aveva governato lo Yemen con il bastone di ferro ed era stato un utile alleato sia per l’Arabia Saudita che per gli USA, che bombardavano con i droni qualunque cosa ci fosse nelle vicinanze di un telefono cellulare che fosse un tempo appartenuto ad un presunto terrorista (3).
Yemen: genocidio con sponsor occidentale
Quando le proteste di massa iniziate nel 2011 costrinsero alla resa Saleh, Stati Uniti e Sauditi tentarono di recuperare la situazione. Alla fine manovrarono affinché tutti i partiti, inclusi gli Houti, concordassero su una transizione politica. Questa includeva un’elezione alla quale Abdrabbuh Mansour Hadi partecipò quale candidato unico. Così egli rappresentò il legittimo presidente da reintegrare, ma i
vocazione colonialista sia all’ordine del giorno per lo stato italiano, nella corsa mondiale alla predazione e spartizione delle risorse e dei mercati. Noi non ci stiamo, non vogliamo chiudere gli occhi e lasciare che una manifestazione sportiva/culturale diventi occasione per Israele di presentarsi come paese democratico e ripulisca la sua immagine di paese criminale. Le violenze sioniste israeliane non si giustificano con “diritto a difendersi”;
Israele occupa una terra che è di diritto dei Palestinesi. Per questo invitiamo tutte le associazioni, i movimenti, i singoli e le realtà territoriali a costruire insieme una mobilitazione che porti, in occasione delle tappe del Giro d’Italia previste in Veneto e in Friuli Venezia Giulia, i contenuti della solidarietà con il Popolo Palestinese e la contrarietà alle logiche di guerra che uniscono il governo italiano a quello israelia-
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media mai hanno specificato che egli fu vice-dittatore per 20 anni. Un’elezione senza altri candidati e voilà, puoi avere tutti i timbri di cui hai bisogno dalla stampa occidentale. Ciò che gli articoli dimenticano anche di dire è che il mandato di Hadi doveva terminare alla fine del 2014, e soltanto dopo che egli rifiutò di ritirare le misure economiche e politiche gli Houti presero il potere. Ora, dopo quasi tre anni di guerra saudita che ha imposto miseria e morte sulla popolazione yemenita per suo conto, chi può dire che Hadi è riconosciuto sul piano internazionale? Che valore può mai avere un tale riconoscimento? E per aggiungere la beffa al danno, sembra che Hadi sia ora agli arresti domiciliari. L’ultimissimo gioco d’azzardo saudita ha coinvolto il loro precedente amico Saleh per metterlo contro gli Houti (4). Questa alleanza è sempre stata fragile, data la lunga storia di oppressione per mano di Saleh e il fatto che c’erano state precedenti rivolte armate. Saleh ritenne che ci fosse un’apertura, e una copertura saudita, per fargli prendere una decisione e restaurare la normale subordinazione al vicino settentrionale. Ma la mossa è fallita, Saleh ha finito per essere ammazzato e, secondo i resoconti, gli Houti hanno ripreso il pieno controllo della capitale. Altrimenti la riabilitazione da parte dei media di Saleh come l’uomo che ha restaurato la democrazia sarebbe ora al culmine. In conclusione, il membro titolato di una famiglia reale con un’indole fragile ed un vasto arsenale si è immerso in una guerra senza fine perché l’Arabia Saudita, con la sua fragile legittimità, non può tollerare un vicino insubordinato. Ci vogliono ben più che le armi, e i sauditi ne hanno in quantità, per soggiogare un popolo. Solo quelli che hanno memoria troppo breve o sono troppo impazienti nello spingere la versione del coinvolgimento iraniano non possono vedere che non solo gli Houti sono un movimento yemenita con un ampio e concreto sostegno, ma hanno anche dimostrato di costituire un potente avversario sul terreno di casa. La guerra si è avvitata in un conflitto che i sauditi non possono vincere, ma del quale ancora non se ne vede la fine. I sauditi sono disposti a lasciar morire milioni di persone perché possono farlo impunemente. E i loro sponsor occidentali sono altrettanto contenti da lasciare che questo genocidio continui. Perché sebbene possa causare alcuni problemi di pubbliche relazioni, esso è - nel breve e lungo periodo - grande per gli affari e alla fine questo è ciò di cui la politica estera occidentale si è sempre occupata.
Note
In tutte le dichiarazioni l’Occidente è impegnato a combattere il terrorismo, con l’Arabia Saudita quale principale alleato (lo si creda o no), ma la realtà sul terreno racconta un’altra storia. Le truppe saudite sono state felici di prendere accordi e perfino di combattere assieme ad Al-Qaida sul campo di battaglia. Il terrorismo può essere una minaccia o, più facilmente, una risorsa per portare avanti gli interessi occidentali. Questo sarebbe argomento per un altro articolo, ma Eva Bartlett ha realmente visitato questi posti, dopo che erano stati ri-presi dall’esercito Siriano e ha scoperto che i locali raccontano una storia che differisce significativamente dalla narrazione sui civili deliberatamente lasciati morire di fame dal brutale regime mentre i coraggiosi ribelli moderati stavano resistendo. Le agenzie di intelligence USA seguono le tracce dei loro obiettivi dai segnali emessi dai loro cellulari. È da ritenere che con altre persone nelle vicinanze, o con la semplice possibilità che il telefono cellulare sia stato dato a qualcun altro, un alto numero di civili sia esposto a morte e ferite. E questo senza contare che le agenzie USA decidono segretamente chi deve vivere o morire a migliaia di chilometri di distanza. Vale la pena di fare presente che sia Saleh che gli Houti vengono dal ramo Zaydi (Shia) dell’Islam. Questo per contrastare l’asserzione orientalista secondo cui queste ben radicate ingiustizie economiche e politiche hanno al cuore una disputa sulla successione del profeta Maometto. Fonte: Investig’Action (traduzione L. Orio di Assemblea Antifascista Bassanese)
no. Inoltre la tappa del 18 maggio in Veneto sarà dedicata anche alla Prima Guerra Mondiale, una guerra che, come avvenuto negli ultimi anni, non sarà ricordata dalle istituzioni per quello che è stata, il sanguinoso massacro dei popoli per gli interessi delle potenze imperialiste, ma sarà occasione di glorificazione del passato bellico per valorizzare l’interventismo di oggi sui vari fronti di guerra aperti nel mondo.
No allo sport-washing delle barbarie sioniste contro il Popolo Palestinese! No alla partenza del Giro d’Italia 2018 in Israele! Comitato del Nord-Est Freniamo le ruote dell’occupazione!
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rassegna stampa
Notizie in breve dal mondo - aprile sono mirate ad ottenere, oltre ad un aumento del 20% dei salari, fondi per 1.000 milioni di dollari per l’educazione pubblica. Il movimento è cominciato nella Virginia Occidentale, dove è stato ottenuto un aumento salariale del 5%, e si esteso a tutto il paese.
Shanghai, Cina 2 aprile
Annunciata oggi l’imposizione di dazi commerciali ad un insieme di prodotti statunitensi, in risposta alle misure prese da Washington sulle importazioni di acciaio (25%) e alluminio (10%). L’ha confermato oggi un comunicato del Ministero del Commercio cinese: dazi del 15% su un gruppo di 120 prodotti (tra cui la frutta) e del 25% su prodotti contenenti carne di maiale che provengono dagli USA. Nel comunicato si insiste anche sul fatto che le misure del governo statunitense sono “un grave attacco” ai principi che reggono l’Organizzazione Mondiale del Commercio che “sono la base del commercio multilaterale”, cui la Cina farà ricorso.
Buenos Aires, Argentina 11 aprile
Durante le proteste contro licenziamenti e tagli avvenuti nell’ospedale Posadas, all’Istituto Nazionale di tecnologia Industriale e nella miniera di Rio Turbio, la polizia ha attaccato il corteo pacifico dei lavoratori con gas lacrimogeni. I minatori di Rio Turbo – dove ci sono stati 500 licenziamenti - hanno denunciato l’arresto di un loro compagno di lavoro.
India, 3 aprile
Santiago, Cile 13 aprile
Migliaia di “dalits”, come sono definiti legalmente i membri delle caste più basse e gli “intoccabili”, continuano le proteste in varie città indiane contro una decisione del Tribunale Supremo del paese che abbassa ancor più la loro già precaria protezione legale. Durante le proteste sono morte almeno 8 persone.
Tel Aviv, Israele 3 aprile
Più di 20.000 persone hanno protestato, secondo diversi circoli di sinistra organizzatori della manifestazione, contro il piano del governo che prevede la carcerazione o l’abbandono “volontario” delle migliaia di migranti africani entrati clandestinamente nel paese prima che venisse costruito il muro che delimita la frontiera con il Sinai egiziano, zona dove passavano i migranti provenienti soprattutto da Eritrea e Sudan. Tale misura colpirebbe ben 38.000 persone, esclusi solo i bambini e gli adulti con minori (circa 6.000 persone in tutto).
Memphis, Tennessee 4 aprile
In questo giorno dell’anno 1968 – 50 anni fa - veniva assassinato con un colpo di fucile Martin Luther King. La sua morte provocò manifestazioni e gravi scontri in più di 100 città statunitensi. Diventerà un martire della lotta per i diritti civili e per l’uguaglianza razziale. Il suo discorso più famoso, pronunciato nel 1963 davanti a 200.000 persone a Washington, iniziava così: “I have a dream” (ho un sogno). Il sogno non si è realizzato: secondo il Centro di Informazione sulla Pena di morte di Washington, dal 1976 ad oggi sono stati giustiziati solo 12 uomini bianchi, a fronte di 180 neri; 1 ogni 10 neri dai 25 ai 29 anni è in carcere (il 9,7% rispetto all’1,1% dei bianchi della stessa età); il 22,7% dei neri vive sotto la soglia di povertà rispetto all’11,7% dei bianchi.
L’Avana, Cuba 6 aprile
È morto oggi lo scrittore Daniel Chavarrìa. Nato in Uruguay nel 1933, viveva dal 1969 nell’isola dov’era arrivato dopo aver sequestrato un piccolo aereo a seguito di un’azione guerrigliera effettuato con un gruppo colombiano. Chavarrìa aveva già militato in altri gruppi guerriglieri in Perù e Colombia. Fervido difensore della Rivoluzione cubana, è stato professore di greco, latino e letteratura classica all’Università dell’Avana. Vincitore di vari premi letterari, tra cui il premio Hammet, il premio Casa de Las Américas ed il Premio Nazionale di Letteratura a Cuba, tra i suoi libri ricordiamo “Allà ellos”, “Adiòs muchachos” e “Yo soy el Rufo y no me rindo” (biografía romanzata di Raùl Sendic, leader storico del MLN Tupamaros).
Washington, USA 7 aprile
Un portavoce del Dipartimento di Stato ha detto oggi che circa 1.900 militari provenienti da 20 paesi africani parteciperanno ad un’esercitazione militare “antiterrorismo”che avverrà in questo mese in Africa. “Flintlock” (il nome dell’esercitazione) è la più im-
MEMORIA 17-19 aprile 1961: gli Stati Uniti soffrono la “prima sconfitta dell’imperialismo in America Latina”, come dicono orgogliosamente i cubani. Sulle spiaggie di Playa Giròn e Playa Larga sbarcano 1.200 mercenari - molti di essi cubani, pagati 225 dollari al mese - inquadrati nella Brigata 2506, con carri armati e artiglieria pesante, appoggiati da 30 aerei statunitensi. La CIA ha investito nel piano 4,4 milioni di dollari, poi più che raddoppiati, e allestito campi di addestramento per i mercenari non solo negli Stati Uniti, ma anche in Guatemala e Nicaragua, oltre che nelle sue basi militari di Porto Rico e del Canale di Panama. In meno di 72 ore, l’Esercito ribelle, la Polizia Nazionale Rivoluzionaria e – soprattutto – i miliziani volontari, guidati da Fidel Castro in persona, accerchiano e sbaragliano gli invasori. I rivoluzionari pagheranno un alto costo per questa vittoria:
portante delle operazioni “speciali” del Comando statunitense in Africa, secondo il portavoce. Vi parteciperanno soldati del Burkina Faso, Camerún, Chad, Mali, Mauritania, Nigeria e Senegal, oltre a militari di 12 paesi occidentali.
Damasco, Siria 8 aprile
Secondo l’Agenzia Siriana di Notizie, che ha trasmesso un video, i militari dell’esercito siriano hanno scoperto vari depositi contenenti armamenti nascosti dai terroristi dello Stato Islamico di provenienza israeliana e della NATO. Tra il materiale scoperto si trovavano lanciagranate, mortai per missili, munizioni pesanti, gilet “suicidi” e armi chimiche. Secondo i rappresentanti delle Forze armate siriane questo equipaggiamento è stato usato durante l’assedio di Deir Ezzor.
Parigi, Francia 9 aprile
Secondo le dichiarazioni del direttore generale delle Ferrovie francesi, allo scadere del quarto giorno lo sciopero dei ferrovieri “è già costato 100 milioni di euro”. Ma lo scontro, iniziato qualche tempo fa dopo la presentazione di un progetto governativo di privatizzazione della compagnia statale SNCF, continuerà. I sindacati delle ferrovie hanno programmato 36 giorni di sciopero fino a fine giugno, due giorni ogni cinque. A causa degli scioperi a Parigi si sno registrate code sulle strade di 375 km. all’entrata nella città, a fronte dei consueti 280. Una trentina di intellettuali di sinistra ha lanciato la costituzione di un fondo per gli scioperanti, che ha già raggiunto i 500 mila euro. I sindacati della linea aerea Air France hanno dichiarato sciopero per ottenere aumenti salariali. Anche in questo settore gli scioperi continueranno per tutto il mese.
Curumau, Brasile 9 aprile
Assassinato Alexandre Pereira Maria, di 37 anni: il leader comunitario, una settimana prima della sua morte aveva testimoniato nel processo aperto per la morte di Marielle Franco, la consigliera comunale assassinata insieme al suo autista il 14 marzo dopo aver denunciato l’operato della polizia nei quartieri poveri di Rio de Janeiro. Il corpo di Alexander Pereira è stato trovato, crivellato di colpi, in un’auto lungo una strada.
Phoenix, Arizona 11 aprile
Con camicie rosse e striscioni gli insegnanti delle scuole pubbliche dell’Arizona protestano oggi per chiedere aumenti salariali. Le proteste, che si tengono in più di 1.000 scuole di tutto il paese,
176 morti e più di 300 feriti. Il 16 aprile 1996, nel ricordare che con la vittoria di Playa Giròn fu anche proclamato il carattere socialista della Rivoluzione, Fidel Castro dirà: “… Uomini più o meno giovani come quelli che ci sono qui, uomini e donne come voi, un popolo come voi, andavano alla lotta, andavano al combattimento, andavano alla morte, separandosi dal proprio focolare e dagli esseri che più si amano a questo mondo. Un numero importante morì in poco tempo, un numero importante fu ferito in poco tempo e se a qualcosa possiamo anelare, possiamo desiderare con tutto il cuore in questo giorno, è che voi e tutti i nostri compatrioti siano sempre uguali a quei combattenti, uomini e donne, a quel popolo che ha scritto una delle pagine più brillanti della storia, perché le future generazioni non penseranno alle dimensioni che aveva il nostro vicino, ma alle dimensioni che aveva questo piccolo paese, che ha saputo resistere 35 anni e che è disposto resistere altri 35 anni, e 35 volte 35 anni”.
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Il governo di Sebastián Piñera intende presentare un progetto di legge per commutare la pena ai prigionieri malati e di età avanzata in arresti domiciliari. Quella che sembra una misura “umanitaria” in realtà è diretta specificamente ai prigionieri del carcere di Punta Peuco, prigione speciale per i militari dichiarati colpevoli di violazioni dei diritti umani durante la dittatura di Pinochet (19731990). Il senatore del Partito Socialista Juan Pablo Letelier ha immediatamente dichiarato: “C’è un settore della destra che vuole che i prigionieri di Punta Peuco – cioè i responsabili di delitti di lesa umanità – escano dal carcere”. Anche la presidentessa dell’Associazione dei familiari dei Detenuti Desaparecidos, Lorena Pizarro, ha affermato: “Il governo sta favorendo i suoi soci di un tempo, questo è un governo di estrema destra che ha nelle sue file, che fanno parte del governo, delle intendenze, dei governatorati, soggetti che difendono la dittatura, ma non solo, anche partecipanti al genocidio”.
Damasco, Siria 20 aprile
Presso l’ambasciata rumena, che cura gli interessi francesi nella capitale siriana, oggi è avvenuta la restituzione, da parte del presidente Bashar al-Assad, della Legion d’Onore ricevuta dal presidente francese Chirac nel 2001. La presidenza siriana ha emesso questo comunicato: “Per il presidente al-Assad non costituisce alcun onore il portare una decorazione concessa da uno stato schiavo degli Stati Uniti, che appoggia i terroristi”.
Parigi, Francia 20 aprile
L’attrice Nathalie Portman, nata in Israele ed emigrata bambina negli Stati Uniti - cui Israele ha assegnato quest’anno il Premio Genesis, considerato il Nobel ebreo - ha cancellato la sua visita in Israele per protesta contro la situazione nella Striscia di Gaza. Portman ha scritto in un messaggio su Instagram: “Ho deciso di non assistervi perché non voglio che sembri un appoggio a Benjamin Netanyahu, che doveva pronunciare un discorso alla cerimonia. Che nessuno creda ad alcuna parola che non venga da me”. E aggiunge: “Israele fu creato proprio 70 anni fa come rifugio per le vittime dell’Olocausto, ma i maltrattamenti di coloro che soffrono le atrocità attuali non fanno parte dei miei valori ebrei. Poiché mi preoccupo di Israele, devo tenere testa alla violenza, alla corruzione, alla disuguaglianza e agli abusi di potere”.
L’Avana, Cuba 21 aprile
Il nuovo presidente del Consiglio di Stato e dei Ministri appena eletto, Miguel Dìaz-Canel Bermùdez, ha ricevuto oggi – come primo atto ufficiale - il presidente del Venezuela Nicolàs Maduro. Maduro è arrivato a Cuba per congratularsi con Dìaz-Canel per la sua elezione, “per dare un grande abbraccio al fratello maggiore Raùl Castro” e ratificare l’alleanza tra Cuba e Venezuela. Evo Morales, il presidente della Bolivia, arriverà invece domenica 22.
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