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nuova unità fondata nel 1964
Periodico comunista di politica e cultura n. 7/2019 - anno XXVIII
Il potere politico moderno è solo un comitato che amministra gli affari comuni dell’intera classe borghese
Karl Marx
C’è odio e odio di classe Il socialismo è l’unico sistema di emancipazione reale per il proletariato e le masse popolari
lC’è odio e odio. Le sardine in piazza in tante città d’Italia, con metodi non proprio democratici (provare per credere) predicano la non violenza e attaccano l’odio e il comunismo e così mobilitano giovani sprovveduti e benpensanti - anche coloro che non si mobilitano per cause importanti che riguardano il movimento operaio o l’internazionalismo proletario - scendono in piazza con la sardina al collo per pulirsi la coscienza. Questo fenomeno, come il Friday for future, è possibile per l’assenza di un forte movimento operaio. Proprio l’anniversario del 50° della strage di piazza Fontana a Milano (l’abbiamo trattato sul numero scorso) ci ricorda la differenza tra ieri e oggi. Erano anni nel pieno della lotta di classe, contestazioni e rivendicazioni - costate denunce, arresti, morti, provocazioni fasciste, stragi - ma con le quali si sono ottenuti dei risultati a favore della classe operaia. Lo conferma l’ondata di informazione anticomunista scatenata su tutti i massmedia nella settimana del 12 dicembre. Per questo stiamo dalla parte di chi rivendica l’odio di classe perché senza non si può abbattere nessun potere. Lo spettro del comunismo - ciò che avevano già individuato Marx ed Engels quando scrissero il Manifesto del Partito Comunista - e che perseguita la classe dominante continua a perseguitare la borghesia, a distanza di oltre 150 anni. Il capitalismo è invischiato da anni in una crisi inestricabile e senza fine. Nessuno Stato capitalista è riuscito a garantire sicurezza economica e giustizia sociale ai lavoratori. E non ci può riuscire perché la sua immensa ricchezza è concentrata in poche mani che aumentano sempre maggiori ricchezze per quei pochi, riservando alle popolazioni difficoltà economiche, disuguaglianza, distruzione dell’ambiente, guerre. Come si può credere nel capitalismo? Le manifestazioni in tante parti del mondo - protestano persino gli insegnanti di Chicago -, i duri scioperi generali e ad oltranza in Francia sono la risposta all’attacco del capitalismo contro i lavoratori e le masse popolari, la prima e immediata risposta, importante anche se non sufficiente. In Italia le cose languono. I lavoratori - condizionati da anni di revisionismo e collaborazionismo dei sindacati confederali traccheggiano. L’esempio più eclatante è l’ex Ilva che produce il 70% dell’acciaio e lo esporta per il 60% in 8 Paesi europei. Un settore che chiude il 2019 con una crescita mondiale del 3,9% mentre nel 2020 è prevista una crescita ulteriore dell’1,7%. Di fronte a motivazioni pretestuose, che porteranno al graduale spegnimento degli altiforni, il governo non arriva a soluzioni che evitino una scelta senza ritorno, se non accettare l’esubero di 5mila lavoratori o accettare la richiesta di Arcelor della Cig straordinaria. Richiesta sicuramente non estranea ai sindacati confederali che - per non creare disturbo al capitale - evitano uno sciopero generale unitario nazionale che coinvolga i lavoratori di tutte le vertenze lasciate separate e tutto il paese. Ciò comporta l’ulteriore indebolimento della classe operaia, la scarsa fiducia in se stessa e nella “sinistra” che, unita alla disorganizzazione, è causa della sconfitta che si trasferisce sul piano elettorale verso forze politiche di destra che intercettano la paura ormai generalizzata e, promettendo l’irrealizzabile, impongono a livello sociale e culturale, la concezione individualista, nazionalistica e fascistoide. La Lega sostiene che le misure economiche impediscono gli investimenti. Ma quali investimenti? Gran parte degli stranieri che hanno investito in Italia lo hanno fatto per eliminare la concorrenza. Ai turchi Pernigotti interessava il marchio, la multinazionale Whirpool, della quale non si sente più parlare,
viene chiusa non certo per le regole economiche ma, come per altre centinaia di fabbriche, per l’avidità del massimo profitto. La delocalizzazione che non viene impedita né dal Governo, nè dallo Stato, né dalle forze politiche è indirizzata nei paesi dove i salari sono più bassi e le leggi sul lavoro ancora più permissive che in Italia dove, comunque, morti e incidenti sul lavoro e malattie professionali sono in aumento. Com’è ben emerso dall’assemblea dei “Lavoratori autoconvocati per l’unità della classe” lo scorso 7
La morte sul lavoro non è mai una fatalità
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A Torino, il Coordinamento lavoratrici/ lavoratori autoconvocati per l’unità della classe, in occasione del 12° anniversario della strage alla ThyssenKrupp pagina 2 ArcelorMittal: Unità contro il capitalismo
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La questione nazionale ieri e oggi
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America latina: Il condor vola ancora pagina 5 La NATO araba sta prendendo forma? E il ruolo di Israele resta rilevante pur se dietro le quinte pagina 6 Brevi dal mondo
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dicembre a Torino. In questi ultimi giorni al centro della “politica” e in particolare della perenne campagna elettorale di Salvini c’è stato il Mes, che non spiega di che si tratta. Perché se lo avesse fatto, avrebbe detto che è il meccanismo di stabilizzazione finanziaria, che è entrato in vigore nel 2012 per rispondere alle crisi del debito sovrano nell’Eurozona, per prestare assistenza agli Stati in difficoltà finanziaria, che è nato dalle modifiche al Trattato Europeo approvate il 23 marzo 2011 (quando al governo c’era Berlusconi con la Lega nord e con la Meloni e La Russa ministri) sostituendo il Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf), forse anche i suoi beceri elettori capirebbero che il Mes esisteva anche nei suoi 14 mesi di governo. Oggi Salvini si preoccupa di quanto ci costa il Mes. Costa molto è vero, è il costo imposto dall’Europa imperialista, parliamo di miliardi (pare che l’impegno sia di 125), ma non si è mai sentito lamentarsi dei miliardi che ci costano ogni anno per l’appartenenza alla Nato (70 milioni al giorno!) braccio armato degli Stati Uniti che, a differenza del Mes, vengono versati. Anzi - plaudendo alla decisione del ministro PD Guerini di avviare la fase 2 - difende l’acquisto dei 131 F35 e le spese per i programmi militari. Al forum di LaPresse a Milano ha detto: “Quanto al disarmo, non è utile, sarebbe un suicidio economico, e poi il settore difesa è strategico per i prossimi cinquant’anni. Un Paese disarmato è un Paese occupato e occupabile; noi abbiamo una diversa posizione su questo rispetto al Movimento 5 stelle”. Lega e Salvini stiano sereni. L’Italia ha guadagnato due posizioni da 13 a 11 nella classifica delle spese per la difesa, pari all’1,5% (mentre si fanno le bucce su sanità, scuola, ricerca) e si impegna a spendere il 2% entro il 2024. Ricordiamo che per la difesa nel 2018 si sono spesi globalmente 1.822 miliardi di dollari, cioè il 2,6% in più rispetto al 2017. Il sistema capitalistico non può dare risposte né al movimento operaio, né alle masse popolari. Il suo compito è quello di succhiare il sangue con lo sfruttamento, di reprimere, di tagliare i servizi, di discriminare per alimentare la guerra tra poveri, di inquinare e distruggere l’ambiente fino a portare alla terribile soluzione che è la guerra. Da un recente sondaggio è emerso che il 48% degli italiani sono favorevoli ad un uomo forte al potere. Evidentemente sono coloro che cercano la via più breve, rifiutano impegno e partecipazione e non ricordano che un uomo solo al potere c’è già stato e ha portato l’Italia alla guerra. Nel sistema capitalista non c’è progresso, se non conquiste momentanee e ottenute con duri sacrifici e potenti lotte. Non si può realizzare il socialismo all’interno della struttura della società capitalista. Il socialismo - l’unico sistema di emancipazione reale per il proletariato e le masse popolari - si realizza solo quando la classe lavoratrice prende il potere, socializza i beni di produzione ed elimina lo Stato capitalista e stabilisce un governo rivoluzionario. “nuova unità” continua la sua informazione e propaganda. Un obiettivo immane se si paragona la differenza di mezzi tra noi e il monopolio borghese e reazionario della stampa, il cui scopo è manipolare le notizie pur di servire i padroni. Come ogni fine anno è aperta la campagna abbonamenti e sottoscrizione per permetterci di continuare e migliorare il nostro difficile compito: favorire la lotta di classe!
nuova unità 7/2019 1
lavoro/morti
La morte sul lavoro non è mai una fatalità Le cosiddette morti bianche sono un crimine contro l’umanità. Sul lavoro si muore più che in guerra
Michele Michelino Per i capitalisti, i governi e i politici che rappresentano i loro interessi, i morti sul lavoro sono effetti collaterali dello sfruttamento e come tali accettati come inevitabili. In particolare, quando si arriva a un processo e lo Stato e i suoi rappresentati sono imputati di strage, lo Stato assolve sempre se stesso, come dimostra anche l’ultimo episodio della strage di Rigopiano, in cui i politici sono stati salvati. L’Italia è il paese in cui - subito dopo l’incendio che uccise i 7 operai bruciati vivi nel 2007 - gli industriali applaudono i dirigenti assassini della ThyssenKrupp come l’A.D. Harald Espenhahn durante l’assemblea di Confindustria, nonostante la sentenza di condanna a 16 anni. Emma Marcegaglia, allora presidente dell’Associazione degli imprenditori, così disse nel suo intervento all’assemblea di Bergamo il 7 maggio 2011: “È un unicum in Europa”. “Una cosa di questo tipo, se dovesse prevalere, allontanerebbe gli investimenti esteri mettendo a repentaglio la sopravvivenza del sistema produttivo”. Il 13 maggio del 2016 la Corte di Cassazione - quarta sezione penale – ha condannato l’amministrare delegato Espenhahn e il consigliere Priegnitz a pene definitive, rispettivamente a 9 anni e 8 mesi e a 6 anni e 10 mesi, ma questi assassini non hanno mai scontato un giorno di carcere per la strage operaia del 2007 nell’acciaieria. Oggi, nonostante la condanna, questi criminali sono liberi in Germania perché questa nazione non applica la sentenza e non rispetta la legge italiana. Guarda caso è la stessa cosa che fa oggi ArcelorMittal sull’ex ILVA di Taranto. In galera finirono solo i dirigenti italiani Cosimo Cafueri (responsabile della sicurezza) condannato a 6 anni e 8 mesi, Marco Pucci (consigliere del CdA) a 6 anni e 10 mesi, Raffaele Salerno (direttore dello stabilimento di Torino), 7 anni e 2 mesi, Daniele Moroni (dirigente area tecnica e servizi), 7 anni e 6 mesi. Tutti, dopo la sentenza, si sono consegnati alle autorità per scontare la propria pena e, dopo aver scontato una condanna di poco più di due anni sono usciti tutti dal carcere avendo ottenuto la possibilità di svolgere un lavoro esterno al carcere.
Lo scontro capitale/lavoro
Nel nostro paese c’è una guerra non dichiarata
degli sfruttatori contro gli sfruttati nella quale i morti, i feriti e gli invalidi si contano da una parte sola, quella degli operai, dei lavoratori che producono la ricchezza da cui sono esclusi. Così scriveva, quasi 50 anni fa, Giovanni Berlinguer in “Medicina del lavoro” – “La salute nella fabbrica”, edizioni Italia – URSS, Roma 1972, pag. 32: “Nel ventennio 1946–1966 si sono verificate in Italia 22.860.964 casi di infortunio e di malattia professionale, con 82.557 morti e con 966.880 invalidi. Quasi un milione di invalidi, il doppio di quelli causati in Italia dalle due guerre mondiali, che furono circa mezzo milione. Mentre la media degli infortuni e malattie professionali nel ventennio 1946–1966 è stata lievemente superiore ad 1 milione di casi annui, negli anni dal 1967 al 1969 la cifra è salita ad oltre 1,5 milioni di casi e nel 1970 ad 1.650.000 casi”. Sono passati molti anni da questo studio, ma la condizione della classe operaia italiana oggi è in continuo peggioramento. Nella crisi si riducono i posti di lavoro, ci sono meno lavoratori occupati, ma gli infortuni continuano ad aumentare. Gli incidenti sul lavoro in Italia hanno fatto più morti fra i lavoratori che fra i soldati della coalizione occidentale della 2° guerra del Golfo. L’Eurispes ha calcolato che dall’aprile 2003 all’aprile 2007 i militari che hanno perso la vita sono stati 3.520,
mentre dal 2003 al 2006 in Italia i morti sul lavoro sono stati ben 5.252 e l’età media di chi perde la vita è intorno ai 37 anni. Anche se la Costituzione afferma che l’operaio e il padrone sono uguali e hanno stessi diritti, la condizione di completa subordinazione economica sancita dall’ordinamento giuridico fa sì che la “libertà” e la “uguaglianza” dei cittadini sia solo formale. In realtà in una società divisa in classi, i lavoratori vivono una condizione di uguaglianza giuridica astratta, e una situazione concreta, di fatto, di disuguaglianza sociale ed economica. L’art. 32 della Costituzione recita che: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. In realtà con la privatizzazione della sanità pubblica questo articolo, anche se mai abrogato, è ormai carta straccia. Un affare per le assicurazioni, gli ospedali privati e le multinazionali farmaceutiche, a scapito del diritto alla salute dei cittadini, tuttora formalmente garantito dalla Costituzione. Dietro le vuote parole della democrazia si nasconde la cruda realtà della dittatura del capitale fatta di violenza, licenziamenti, assassinii contro chi si oppone e ostacola la “libera accumulazione del profitto”. Una delle parole d’ordine che abbiamo sempre
sostenuto in fabbrica fin dagli anni ‘70 è stata: “La salute non si paga – la nocività si elimina”, scontrandoci con il padrone (che dava la paga più alta per i lavori nocivi e mezzo litro di latte) e con il sindacato che barattava salario e salute. Anche alcuni nostri compagni di lavoro vedevano nell’indennità di nocività la possibilità di arrotondare il salario (anche se di poche lire) senza essere pienamente coscienti dei pericoli per la salute. Questa concezione è tuttora dominante. Nei processi penali e civili si continua a monetizzare la salute e la vita umana. In molti processi, i padroni o i manager, pur essendo stati riconosciuti colpevoli di omicidio colposo sono rimasti impuniti e nessuno di loro ha pagato. Ancora oggi nel 2019, nella” moderna e democratica” società capitalista gli operai continuano a morire di lavoro e di non lavoro per il profitto come nell’Ottocento. In questa guerra del capitale contro i lavoratori negli ultimi anni vediamo anche in forte aumento i suicidi di lavoratori disoccupati, cassintegrati o colpiti dalla repressione e dal dispotismo padronale nel totale silenzio delle istituzioni e della stampa Tv. E non è un incidente di percorso o la dimenticanza, il fatto che la magistratura non apra inchieste. Basta con l’ipocrisia di chi legittima e sostiene lo sfruttamento per realizzare maggiori profitti e poi in pubblico versa lacrime di coccodrillo. Per noi anche una sola morte sul lavoro o per di malattia professionale a causa del profitto è intollerabile e va impedita. Il movimento operaio e popolare deve battersi per la difesa della salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro e nel territorio, per il rischio zero. Dobbiamo costruire nel paese un movimento operaio e popolare di lotta per la salute e la sicurezza sui posti di lavoro e nel territorio, con l’obiettivo di impedire che si continui a morire per il profitto “costringendo” il legislatore a varare una legge che equipari l’omicidio colposo e ancor più quello volontario almeno al dolo eventuale e all’omicidio stradale (che prevede pene fino a 15 anni). Il capitalismo è la società del crimine legalizzato contro i proletari e dobbiamo lottare contro questo sistema barbaro e inumano: questo è l’unico modo per impedire che gli infortuni e i morti sul lavoro e di lavoro, i morti del profitto non vadano mai in prescrizione e siano invece considerati veri e propri crimini contro l’umanità.
Un grido d’allarme e impegno
Il Coordinamento lavoratrici/lavoratori autoconvocati per l’unità della classe, a Torino in occasione del 12° anniversario della strage alla ThyssenKrupp redazione “nuova unità” Non erano sardine, per questo non hanno avuto l’attenzione di alcun tipo di stampa. Erano un gran numero di lavoratori - appartenenti a varie sigle sindacali (Cub, SICobas, opposizione Cgil, (Confederazione Cobas, Slai Cobas, Cobas Sanità Università Ricerca, Sgb, Orsa, Cat), delegati RSU e lavoratori non iscritti, Associazioni di familiari delle innumerevoli stragi, Comitati in difesa della salute ecc. - riuniti a Torino, la mattina davanti la sede dell’Unione industriali, individuata come rappresentante del capitalismo, per ricordare - con un susseguirsi di interventi - gli operai morti alla Thyssen 12 anni fa. Nel pomeriggio in un’affollata assemblea al circolo “La Cricca” (messo gentilmente a disposizione) è stato discusso un argomento sempre all’ordine del giorno: sicurezza e salute nei posti di lavoro e denunciato le condizioni di lavoro e le cause che provocano omicidi, infortuni, malattie e danni all’ambiente. Non con il taglio lacrimevole - tipico delle istituzioni - ma con la consapevolezza del fatto che incidenti e morti sul lavoro non sono eventi naturali o dovuti a fatalità, ma hanno cause precise imputabili alle imprese, a logiche e leggi del mercato, cioè al raggiungimento del massimo profitto da parte dei capitalisti. Da qui l’importanza di continuare a battersi favorendo la mobilitazione e l’organizzazione dei lavoratori per resistere alla distruzione della vita, della salute dell’ambiente e costruire condizioni favorevoli alla lotta più generale. Pubblichiamo il Comunicato ufficiale Coordinamento lavoratrici/lavoratori autoconvocati per l’unità della classe che sintetizza le conclusioni dei lavori dell’assemblea e dà appuntamento al prossimo incontro nazionale già fissato per sabato 11 gennaio 2020 a Firenze.
COMUNICATO SULLA GIORNATA DI MOBILITAZIONE DEL 7 DICEMBRE A TORINO Sabato 7 dicembre si è tenuta l’iniziativa nazionale del Coordinamento Lavoratori/trici Autoconvocati per l’Unità della classe (C.L.A.) sul tema “Salute e Sicurezza sul posto di lavoro e nel territorio”. Come spiegato nei documenti di convocazione, data e luogo sono stati scelti per collegarsi alla strage del 6 dicembre 2007 di 12 anni fa in cui morirono, arsi vivi, 7 operai alla Thyssen Krupp.
Le madri e i familiari di quegli operai uccisi dal profitto capitalista e una delegazione di familiari delle vittime della strage ferroviaria di Viareggio (29 giugno 2009) hanno presenziato alla nostra assemblea ed hanno parlato alla platea con interventi che hanno dato il senso delle ragioni per cui ci siamo
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lavoro/ambiente
Unità contro il capitalismo
ArcelorMittal, ex ILVA: l’unità di lotta degli operai e degli abitanti di Taranto è la strada per difendere occupazione, salario, salute e ambiente Michele Michelino Nel mese di novembre 2019 la multinazionale ArcelorMittal ha annunciato esuberi, tagli degli organici con fermate degli altiforni e del treno nastri dell’ex Ilva di Taranto. ArcelorMittal, nella ricerca del massimo profitto, in questi giorni con la presentazione del piano di ristrutturazione, ha annunciato 4.700 nuovi esuberi, 2.800 dal 2020 e gli altri negli anni successivi. Con i 500 operai espulsi dalla fabbrica lo scorso anno, sono circa 6mila e 500 gli “esuberi”. I sindacati collaborazionisti, che finora hanno concordato con il padrone e il governo i licenziamenti mascherati e le dimissioni incentivate, anteponendo il profitto del padrone alla salute e alla vita umana dei lavoratori e della popolazione di Taranto, davanti a quest’altro attacco all’occupazione hanno chiamato i lavoratori in produzione allo sciopero per difendere il posto di lavoro e la fabbrica, che continua ad avvelenare e inquinare. Lo scontro fra gli stessi operai, guidato dai sindacati confederali e anche di alcuni di quelli di base che difendono il posto di lavoro così com’è senza sicurezza, inquinato che avvelena prima loro e poi le loro famiglie e abitanti di Taranto, serve solo al padrone. I sacrifici di ieri - che l’azienda, con la complicità del governo e sindacati collaborazionisti, filo padronale Cgil-Cisl-Uil-Ugl e Usb, ha imposto agli operai con i primi esuberi e lo scudo penale concesso al padrone (in pratica l’impunità, la licenza di uccidere e avvelenare i lavoratori e la popolazione) - hanno preparato quelli ancora più pesanti di oggi. Gli operai sono le prime vittime dello sfruttamento e dell’inquinamento. Le sostanze nocive e inquinanti prima avvelenano e uccidono gli operai poi, dopo averli avvelenati, escono dalla fabbrica, si disperdono nel territorio attraverso le falde acquifere, l’aria, la pioggia avvelenando la popolazione. Chiudere le fonti inquinanti, risanare gli ambienti nocivi della fabbrica bonificandola è interesse comune dei lavoratori e della stragrande maggioranza dei cittadini di Taranto. Solo un pugno di sfruttatori o parassiti che vivono delle briciole e dei privilegi che il padrone della fabbrica
gli concede possono difendere la fabbrica così com’è. Per anni le organizzazioni sindacali hanno barattato (e continuano a farlo) salario e occupazione, monetizzando la salute e la vita umana degli operai invece di lottare per chiudere le fonti inquinanti. L’esperienza ci ha insegnato che la salute del lavoratore non può essere tutelata solo attraverso l’adozione di strumenti protettivi (aspiratori, maschere, tute ecc.) capaci di preservarci dalle nocività così come s’intende
riuniti. Le ringraziamo e li ringraziamo profondamente e sinceramente. Per la prima volta il Coordinamento ha voluto organizzare una manifestazione di piazza, oltre all’assemblea. Entrambe sono riuscite, con 150-200 presenze la mattina al presidio di fronte all’Unione industriali ed alla Confindustria piemontese ed il pomeriggio in assemblea. Un risultato che quali-quantitativamente soddisfa ampiamente, pur essendo consapevoli dei limiti di cosa è oggi il C.L.A. e di cosa rappresenta. Fra le organizzazioni sindacali ed operaie hanno aderito con propri comunicati: • le federazioni del Piemonte e del Veneto della Cub; • lo Slai Cobas provinciale di Milano; • lo Slai Cobas per il Sindacato di Classe; • il Coordinamento lavoratori dell’alto-vicentino “Voci Operaie”; • la federazione Cobas sanità-università e ricerca; • l’Usi con l’associata Usicons (Associazione di difesa e tutela utenti e consumatori servizi pubblici); • il Sindacato Generale di Base (SGB) ha inviato un contributo scritto. Oltre agli attivisti e delegati promotori, erano presenti, realtà, attivisti e responsabili: delle federazioni Cub di Genova, Milano, Varese, Firenze; del SI Cobas di Torino, con gli operai licenziati dalla cooperativa CLO in appalto al magazzino Coop di Rivalta Scrivia (Alessandria); • della Confederazione Cobas di Torino e di Genova; • del Sindacato è un’altra cosa (area di opposizione in Cgil) • delle province di Lucca e Massa; • ferrovieri Cub, Cat, Usb, Orsa e non iscritti; • il gruppo “Operai Autorganizzati FCA” di Torino; • il “Comitato per la difesa della Salute nei luoghi di lavoro e nel territorio” di Sesto S. Giovanni (Mi); • Medicina Democratica; • il gruppo “Cassa di resistenza territoriale” di Torino. Oltre all’introduzione ed alle conclusioni gli interventi sono stati 17, di fronte ad una sala colma, attenta e
normalmente (calore, rumore, polveri ecc.). Nel sistema capitalista tutta l’organizzazione del lavoro nella fabbrica dove si produce per il profitto è nociva. Cottimo, ritmi, orario di lavoro, organici, qualifiche, dislocazione e tipo del macchinario, rumore, calore, polveri, sono funzionali allo sfruttamento del lavoratore. Lo sfruttamento non si evidenzia solo nella pericolosità degli ambienti lavorativi che producono morti sul lavoro e nel territorio, si eivenzia anche da un salario insufficiente alle necessità della vita. Lo sfruttamento è anche il
partecipe. I temi emersi con maggiore forza: • la necessità di evidenziare il collegamento fra condizioni generali di vita e d’impiego dei lavoratori e le condizioni riguardanti la salute e sicurezza sul posto di lavoro e nel territorio: da ciò la forte denuncia sul ruolo complice col padronato del sindacalismo collaborazionista di Cgil-CislUil, sottolineato anche nell’intervento delle madri dei 7 operai della Thyssen; • la necessità di collegare e coordinare a livello nazionale le lotte per la salute e la sicurezza; • la necessità di collegare la lotta operaia con quella delle associazioni e di singoli familiari delle vittime di stragi sul e da lavoro, dei comitati di difesa del territorio, sulla base della consapevolezza che la soluzione del problema sta nella lotta dei lavoratori e delle lavoratrici che lavorano in quelle realtà, fabbriche e infrastrutture; • la vicenda dell’Ilva: in ogni azienda la lotta deve essere condotta per la difesa della salute e della sicurezza degli operai e delle popolazioni dei quartieri limitrofi alla fabbrica. Per come è stata preparata, sviluppata e condotta, l’iniziativa non è stata fine a se stessa, né si è limitata ad una pur significativa e necessaria commemorazione della strage operaia di 12 anni fa. Come prossimo appuntamento, è stato proposto dal gruppo promotore della giornata un’assemblea nazionale per sabato 11 gennaio 2020 a Firenze. Martedì 10 dicembre 2019
Per contatti scrivere a: coordautoconvocat2019@gmail.com Coordinamento lavoratrici/lavoratori autoconvocati per l’unità della classe
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prolungamento della giornata lavorativa sui mezzi di trasporto insufficienti, una casa inadeguata e comoda, il sistema sanitario e quello tributario iniqui. I lavoratori e i cittadini devono unitariamente rivendicare un’efficiente medicina preventiva, che ricerchi scientificamente il rapporto di casualità tra malattie tipiche della società industriale (disturbi cardiaci, reumatismi, bronchiti, tumori, aborti ecc.) e ambiente di lavoro, e che intervenga al fine di rimuovere le cause delle malattie. In Italia gli anni tra il 1965 e il 1970 hanno visto gli operai protagonisti di dure lotte che mettevano in discussione - tra le altre cose anche gli ambienti di lavoro insalubri e ponevano con forza la necessità e l’urgenza di sottrarre il lavoratore al lento massacro cui era sottoposto. In quegli anni scioperi, fermate improvvise e spontanee di operai e di gruppi di lavoratori costretti a lavorare in ambienti angusti e nocivi, nelle fonderie, nelle forge e in ambienti a caldo, nei cantieri e nelle campagne, soprattutto nei mesi estivi quando la temperatura sul posto di lavoro diventava intollerabile, erano la prima forma di difesa e di ribellione. Nelle piattaforme - insieme al salario - si rivendicavano obiettivi che riguardavano l’organizzazione e l’ambiente di lavoro rivendicando la salute e la chiusura dei siti fino a bonifica fatta. È necessario che gli operai, liberandosi della direzione dei bonzi sindacali che hanno tutto l’interesse a garantire il profitto, prendano nelle proprie mani il problema della salute insieme ai comitati cittadini, rivendicando con forza la chiusura dei siti inquinanti e l’utilizzo dei lavoratori di questi siti per la bonifica a salario pieno. Le bonifiche sono l’obiettivo unificante per gli operai e i cittadini e questo vale sia che il padrone si chiami ArcelorMittal o Stato. Una fabbrica nazionalizzata avrebbe lo stesso problema del privato, il mercato dell’acciaio in crisi imporrebbe nuovi piani industriali, esuberi e peggioramento delle condizioni normative e salariali. Chi s’illude che con la nazionalizzazione la situazione degli operai migliorerebbe rimarrà in breve tempo deluso. Lo Stato rappresenta gli interessi collettivi della classe dominante capitalista al potere e tutti i governi, di qualsiasi colore, difendono sempre gli interessi del capitale.
OPERAI, CARNE DA MACELLO La lotta contro l’amianto a Sesto S.Giovanni di Michele Michelino e Daniela Trollio Questo libro racconta come un gruppo di operai della Breda Fucine di Sesto S. Giovanni siano riusciti a portare sul banco degli imputati non solo i dirigenti di una fabbrica “di morte”, ma un sistema economico che, in nome del profitto, calpesta e uccide uomini e natura. È una storia “vera”, una storia collettiva come tante altre – magari sconosciute – ma che formano la Storia del movimento operaio, di uomini e donne, spesso senza nome e senza volto che hanno portato avanti contro tutto e contro tutti una battaglia per la salvaguardia del diritto alla salute di lavoratori e cittadini. È a loro, alla loro tenacia e
al loro coraggio che dedicato questo libro. Dodici anni di lotte con interviste, testimonianze, fotografie dei compagni che ci hanno lasciato. Il ricavato della vendita del libro va interamente al Comitato per sostenere le sue battaglie Costo, 8 euro Si può richiedere alla redazione di nuova unità (tel. 055450760) Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio, Sesto S. Giovanni, via Magenta, 88 tel/fax 0226224099
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marxismo
La questione nazionale ieri e oggi
In “Sui principi del leninismo”, Stalin ricorda come la questione nazionale debba esser affrontata in connessione “con la questione generale del rovesciamento dell’imperialismo, della rivoluzione proletaria” Fabrizio Poggi Il 21 dicembre i comunisti ricordano quest’anno il 140° anniversario della nascita di Iosif Stalin, a Gori, in Georgia. In una tavola rotonda organizzata nel 2010 dalla rivista del PCFR, Političeskoe Prosveščenie, fu ricordato come Stalin amasse definirsi “un russo di origine georgiana”. In quella definizione, è racchiusa la visione di Stalin dei problemi legati alle questioni nazionali, principalmente nei paesi in cui convivono nazionalità diverse; ma non solo, dal momento che, come sostenevano i bolscevichi, la questione nazionale è strettamente legata alla lotta di classe all’interno dei singoli paesi, e alla lotta contro l’imperialismo, su scala mondiale. Non di rado, oggi, si confonde la questione nazionale con il nazionalismo, gettando nella mescolanza patriottismo e difesa degli interessi nazionali, e lasciando in secondo piano, o addirittura ignorando, la lotta di classe. Stalin rimarcava come solo il socialismo e la dittatura del proletariato possano risolvere il problema nazionale, unendo le lotte del proletariato delle nazioni oppresse con quelle degli operai dei paesi avanzati e, negli stati plurinazionali, le rivendicazioni dei lavoratori delle nazionalità sottomesse con quelle della classe operaia della nazione dominante. Nel 1927 affermava: “Dichiarazioni sulla parità di diritti ce ne sono tante in ogni partito borghese o socialdemocratico”; ma “la questione è quella di distruggere quelle classi che sono portatrici dell’oppressione nazionale. Tali classi erano da noi i latifondisti e i capitalisti. Noi abbiamo rovesciato queste classi e con ciò stesso abbiamo distrutto la possibilità dell’oppressione nazionale”. Nel cosiddetto “spazio post-sovietico”, i conflitti nazionali – fino alle guerre più sanguinose – siano scoppiati quando ha cominciato a venire meno la funzione politica del partito comunista, già prima del crollo dell’URSS. Nella tavola rotonda summenzionata, Vladislav Grosul ricordava come il progetto di formazione dell’URSS prevedesse “l’inclusione delle altre repubbliche nella RSFSR, con diritti di autonomia, il che avrebbe significato la fine della loro sovranità. Erano contrari al piano i comunisti georgiani, ma anche Ucraina e Bielorussia. Ciò allarmò Lenin, che quindi propose un piano di federazione, con diritto di libera separazione dall’URSS. Quando fu fatto notare il pericolo di disfacimento, Lenin osservò che c’era il partito e, se necessario, avrebbe corretto tutto. Il Partito comunista era cioè il fulcro del paese e i distruttori dell’Unione Sovietica lo sapevano bene quando portarono il loro attacco contro di quello. Stalin, prima fautore dell’autonomia, si associò a Lenin e non mise mai in dubbio la sua correttezza”.
Sciovinismo e separatismo Ma, già nei primissimi anni ‘30, quando ancora si riconosceva la permanenza, se non di classi vere e proprie, quantomeno di strati e settori sociali, legati alle vecchie classi borghesi, si ammetteva che, proprio da quelle venivano ancora i pericoli, sia di separatismo, che di sciovinismo. Al XVI Congresso del partito bolscevico, nel 1930, trattando delle deviazioni interne, Stalin affronta anche il tema delle “deviazioni sulla questione nazionale. Intendo, in primo luogo, la deviazione verso lo sciovinismo grande-russo e, in secondo luogo, la deviazione verso il nazionalismo locale... l’aggravamento della lotta di classe non può che portare ad un certo inasprimento delle tensioni nazionali, che si riflettono nel partito... Qual è l’essenza dello sciovinismo grande russo?... consiste nella tendenza ad aggirare le differenze nazionali di lingua, cultura, vita quotidiana... Abbiamo distrutto i confini statali... tra le nazionalità dell’URSS... Ma questo significa forse che abbiamo liquidato le differenze nazionali, le lingue nazionali, la cultura, la vita ecc.? Chiaramente no”. Capiscono i deviazionisti, diceva Stalin, che “eliminare ora repubbliche e regioni nazionali significa privare milioni di masse dei popoli dell’URSS della possibilità di ricevere un’istruzione nella lingua madre, avere una scuola, un tribunale, un’amministrazione, organizzazioni pubbliche nella lingua madre?... questa deviazione riflette il desiderio delle superate classi della nazione grande-russa, un tempo dominante, di riprendersi i privilegi perduti”. Di contro, la deviazione verso il nazionalismo locale, consiste “nella tendenza a isolarsi e rinchiudersi nel proprio guscio nazionale, mettere in ombra le contraddizioni di classe all’interno della propria nazione... non vedere ciò che unisce le masse lavoratrici delle nazioni dell’URSS, e vedere soltanto ciò che può alienarle le une dalle altre”. Questa deviazione “riflette il malcontento per la dittatura del proletariato, da parte delle vecchie classi delle nazioni un tempo oppresse, la loro tendenza a isolarsi nel proprio stato borghese nazionale e stabilirvi il proprio dominio di classe”. Ancora Vladislav Grosul notava che “fino alla rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 la politica nazionale del POSDR (b) si basava su due principi: diritto delle nazioni all’autodeterminazione e internazionalismo proletario. I bolscevichi erano unitari, esortavano all’unità dei lavoratori. Solo in questo contesto, davano la preferenza ai federalisti, che erano la maggioranza nei movimenti nazionali, e il partito più numeroso, i socialisti-rivoluzionari (SR), puntava al federalismo, per cui i movimenti nazionali avrebbero potuto seguire i SR”. Di notevole interesse, nell’esposizione dell’approccio di Stalin alla
questione nazionale, l’articolo del prof. Mikko Kammari, apparso sul n. 3-4 del 1932 della rivista Sotto la bandiera del marxismo. Kammari ricorda come, nel fondamentale lavoro del 1912, “Il marxismo e la questione nazionale”, Stalin definisse la nazione come una categoria non eterna, ma “storica, di un’epoca determinata”. Le nazioni, scrive Stalin, si formano nell’epoca del capitalismo emergente: la “nazione, come qualsiasi fenomeno storico, è soggetta alle leggi del cambiamento, ha una propria storia, un inizio e una fine”. Nel 1917, contro i “sinistri” nel partito bolscevico, che esigevano l’eliminazione dei confini nazionali, Stalin osserva che ciò rischiava di trasformare i bolscevichi in annessionisti; al contrario, “abbiamo necessità di creare una retrovia per l’avanguardia della rivoluzione socialista, costituita dai popoli in lotta contro l’oppressione nazionale, per gettare un ponte tra Occidente e Oriente, verso la rivoluzione socialista mondiale”.
Questione nazionale e rivoluzione proletaria Nel novembre 1918, in “La Rivoluzione d’Ottobre e la questione nazionale”, Stalin afferma: “Essendo solo una parte della questione generale della trasformazione del sistema esistente, la questione nazionale è interamente determinata dalle condizioni della situazione sociale, dal carattere del potere nel paese”. Nel 1925, notava che, prima del 1914, “la rivendicazione dei marxisti del diritto all’autodeterminazione non era considerata parte della rivoluzione proletaria, bensì parte della rivoluzione democraticaborghese. Sarebbe ridicolo non vedere che da allora la situazione internazionale è cambiata radicalmente, che la guerra, da un lato, e la rivoluzione d’Ottobre, dall’altro, hanno trasformato la questione nazionale, da parte della rivoluzione democratica-borghese, in parte della rivoluzione proletaria socialista”. Al XII Congresso del partito, nel 1923, Stalin disse: “Un gruppo di compagni, con a capo Bukharin e Rakovskij, ha gonfiato troppo l’importanza della questione nazionale, così che... si è lasciata sfuggire... la questione del potere della classe operaia. E invece, per noi comunisti, è chiaro che la cosa principale nel nostro lavoro, è l’opera di rafforzamento del potere operaio e, dopo di questo, abbiamo di fronte un’altra questione, molto importante, ma subordinata alla prima, la questione nazionale”. In “Sui principi del leninismo”, Stalin ricorda come la questione nazionale debba esser affrontata in connessione “con la questione generale del rovesciamento dell’imperialismo, della rivoluzione proletaria”. Il sostegno del proletariato ai movimenti nazionali si riferisce a quelli che sono “rivolti a indebolire, rovesciare l’imperialismo e non alla sua conservazione, al suo rafforzamento”. Solo la dittatura del proletariato, scrive Mikko Kammari, ha risolto in URSS la questione nazionale, eliminando l’oppressione e lo sfruttamento delle nazioni oppresse da parte della nazione dominante e il terreno per l’ostilità e l’antagonismo nazionale, alimentati dal capitalismo. È vero che l’ostilità nazionale, lo sciovinismo, come residui e sopravvivenze del capitalismo nell’economia e nelle coscienze, sono forti ancora oggi, principalmente tra gli elementi capitalisti e la piccola borghesia. Il compito, posto dalla XVII Conferenza del partito per la seconda pjatiletka, cioè “l’eliminazione delle sopravvivenze del capitalismo in economia e nelle coscienze degli individui”, include la liquidazione di simili sopravvivenze del capitalismo, quali il nazionalismo, granderusso e locale.
Nazione e Stato Nel 1929, in “Questione nazionale e leninismo”, rispondendo ad alcuni quesiti, Stalin scriveva che “I marxisti russi hanno da tempo la propria teoria della nazione, secondo cui la nazione è una
comunità stabile e storicamente definita di individui, sorta sulla base della comunanza di quattro caratteristiche principali, e cioè: comunità di lingua, territorio, vita economica e struttura mentale, che si manifestano in una comunanza di caratteristiche specifiche della cultura nazionale... voi proponete di aggiungere alle quattro caratteristiche una quinta: l’esistenza di un proprio Stato nazionale separato. Ritenete che senza questo quinto attributo non ci sia e non possa esserci una nazione... secondo il vostro schema, si dovrebbe sostenere che: a) gli irlandesi sono diventati una nazione solo dopo la formazione dello “Stato libero irlandese”... b) i norvegesi non erano una nazione prima della separazione della Norvegia dalla Svezia... c) gli ucraini non erano una nazione, quando l’Ucraina faceva parte della Russia zarista e divennero una nazione solo dopo la separazione dalla Russia sovietica, ma cessarono di nuovo di esserlo dopo aver unito la loro Repubblica Sovietica ucraina con le altre Repubbliche sovietiche nell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche... Il vostro schema conduce inevitabilmente alla giustificazione dell’oppressione nazionale... per non dire che porta alla giustificazione dei nazionalisti borghesi nelle nostre Repubbliche sovietiche, i quali vogliono dimostrare che le nazioni sovietiche hanno cessato di esser nazioni dopo aver unito le loro Repubbliche sovietiche nazionali nell’URSS”. Oggi, nell’illustrare gli scontri che oppongono singole nazionalità agli apparati statali centrali, troppo spesso si tralascia l’analisi dei rapporti tra le classi, sia all’interno di quelle nazioni, sia nel quadro statale generale, sia nell’intreccio di interessi tra classi dominanti nazionali e sovranazionali, contrapposti a quelli delle classi sfruttate. Si dimentica di analizzare la forza del capitale internazionale nell’economia della data nazione e del determinato stato; si evita di studiare quali siano gli interessi della classe operaia della data nazione e come si leghino agli interessi della classe operaia dell’intero stato. Se manca, ad esempio, l’analisi degli interessi e degli spostamenti della piccola-borghesia, che può orientarsi – seppure in modo oscillante - ora dalla parte del proletariato, ora della grande borghesia, risulta difficile valutare la reale natura di classe di un determinato movimento nazionale, se questo sia oggettivamente orientato a rafforzare, oppure indebolire, il grosso capitale, statale e internazionale. Oggi come ieri, sinché la lotta nazionale non incide nei rapporti tra classi sfruttatrici e classi sfruttate, rischia di rimanere monca. La classe operaia della nazione sottomessa, può lottare insieme alla “propria” borghesia, contro lo stato centrale; ma sinché, insieme alle masse lavoratrici di tutto lo Stato, non farà i conti con l’intera classe borghese, statale e nazionale, e poi con le grinfie dell’imperialismo internazionale, il rischio della reazione più brutale sarà sempre in agguato. L’ultima, tragica, dimostrazione, è quella dell’Estado Plurinacional de Bolivia, in cui le etnie indigene, Quechua, Aymara e altre minori, costituiscono oltre il 50% della popolazione e dove - tra le altre condizioni che hanno determinato il golpe contro Evo Morales – la sopraffazione nazionale e razziale è direttamente legata alla violenza di classe.
Memoria 11 dicembre 1967, Palestina. Per difendere i diritti dei palestinesi oppressi dall’occupazione israeliana e per raggiungere l’obiettivo della liberazione della loro patria, oggi viene fondato il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). È la risposta ai genocidi, ai crimini di lesa umanità, alle mattanze, alle torture, all’impiego di armi proibite e alla politica di sterminio sistematico da parte di Israele contro la Palestina. Nel suo programma di lotta – la difesa della sovranità e la liberazione della Palestina - il Fronte stabilisce di guidare una rivoluzione con tutti i palestinesi oppressi: contadini, lavoratori, giovani, donne. E fonda una rivista – Al Hadaf – perché, come dice la sua guida George Habbash, “un guerrigliero senza cultura rivoluzionaria è come l’ignorante che rivolge il fucile contro se stesso”. 25 novembre 2016. L’Avana, Cuba. Il Comandante in Capo della Rivoluzione cubana, Fidel Castro Ruz, ci abbandona fisicamente. Ci lascia le sue idee, tra cui quella della necessità della lotta, anche contro “l’impossibile” per renderlo possibile. Così diceva il 1° settembre del 2014: “Non sarebbe preferibile lottare per produrre più alimenti e prodotti industriali, costruire ospedali e scuole per le migliaia di milioni di esseri umani che ne hanno disperatamente bisogno, promuove arte e cultura, lottare contro le malattie di massa che provocano la morte di più della metà dei malati, eliminare finalmente malattie come il cancro, l’ebola, il paludismo e altre che colpiscono le funzioni vitali degli esseri umani?! Se oggi è possibile prolungare la vita, la salute e il tempo libero delle persone, se è perfettamente possibile pianificare lo sviluppo della popolazione in virtù della produttività crescente, della cultura e dello sviluppo dei valori umani… cosa aspettano a farlo?! Trionferanno le idee giuste o trionferà il disastro”.
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america latina
Il condor vola ancora
Se il condor ha ripreso a volare è anche vero che sta perdendo sempre più le piume e la nostra solidarietà antimperialista e anticapitalista può contribuire a strappargliene molte altre Daniela Trollio (*) Alla fine, l’annunciato golpe civico-militare in Bolivia si è consumato, con un pesante bilancio di 35 morti e non si sa quanti feriti, la maggioranza di loro indios (e ritorneremo su questo più avanti). Quanto è successo ha molte analogie con quanto l’imperialismo statunitense e le oligarchie locali hanno tentato – invano, fino ad oggi – di fare contro il governo bolivariano di Nicolàs Maduro, oltre ai vari tentativi abortiti contro Hugo Chàvez Frìas. Elezioni, denunce di frodi prima ancora che si aprissero le urne, l’Organizzazione degli Stati Americani – l’OEA, fedele servitore dell’imperialismo USA – che denuncia brogli elettorali una volta effettuate le elezioni (salvo poi, dopo il golpe, riconoscere che non c’è stato alcun broglio), la formazione di “comitati civici” che danno il via alla violenza nelle strade aprendo letteralmente la caccia in Venezuela alle magliette rosse di Maduro e in Bolivia agli indios, per il solo essere tali, e ai seguaci del partito di Morales, il Movimento al Socialismo. Due presidenti “ad interim” autoproclamati: uno, il ridicolo Guaidò venezuelano e l’altra la boliviana Jeanine Áñez (che tra l’altro è di origine india anche se si è cambiata il nome originale, Anahì, e si tinge i capelli di biondo). Entrambi politici di secondo piano che nelle elezioni precedenti avevano ottenuto ben pochi voti. Naturalmente anche il governo di Áñez, come quello del tutto fantasma di Guaidò, è stato immediatamente riconosciuto dagli USA e dalle sue organizzazioni regionali come la OEA e il Gruppo di Lima, dai governi di destra come quello del Brasile e, non può mancare, dall’Unione Europea, sempre così preoccupata per la democrazia e i diritti umani e che non riconoscerebbe un colpo di Stato militare, civico o giudiziario - neanche se questo le morsicasse il naso. I fatti sono certamente ben conosciuti dai lettori di “nuova unità” e non ci dilungheremo oltre. Ci interessa invece fare qualche ragionamento più generale, anche per capire l’esito diverso, in due paesi diversi, della stessa strategia, partendo comunque da una profonda solidarietà antimperialista e di classe e dal rispetto nei confronti di popoli che lottano per liberarsi da sfruttamento e oppressione e costruire un mondo senza schiavi, dove giustizia, equità, democrazia, futuro siano realtà e non parole vuote scritte sulla carta e pagando un prezzo terribile, e dovendo scontare la conoscenza abbastanza superficiale che possiamo avere, perché nell’era della “disinformazione globale” non è affatto semplice conoscere realtà così lontane. Cominciamo da qualche dato: sia Venezuela che Bolivia, paesi prima colonizzati e poi rapinati dall’imperialismo, presentano una composizione etnica dove la maggior parte della popolazione non è di origine bianca. La popolazione venezuelana è in parte maggioritaria composta dai cosiddetti “mestizos” (meticci, il 51%) quella boliviana è india per l’85%. Va da sé che questi gruppi hanno costituito la parte più povera e sfruttata, il proletariato agricolo e operaio, cittadini di ultima categoria privi persino di ogni diritto “democratico” borghese, che sono stati le basi di appoggio sia per la Repubblica Bolivariana che per lo Stato Plurinazionale di Morales. Il retaggio di odio coloniale e di classe nei loro confronti non è mai cessato: basta ricordare che uno degli slogan della destra durante le elezioni che portarono Evo Morales al potere, slogan scritto e detto senza ambiguità, era “Vuoi aiutare la Bolivia? Ammazza un indigeno!” – cosa puntualmente avvenuta. Ecco allora spiegata la fiducia – che noi rivoluzionari occidentali tendiamo a ritenere sbagliata - nei riguardi della forma elettorale per uscire dalla condizione di schiavi – letteralmente, e non solo di schiavi salariati - e diventare finalmente dei cittadini con un loro Stato: lo Stato Plurinazionale della Bolivia di Evo Morales, ad esempio. Forma elettorale per conquistare le istituzioni dello Stato che comunque non si è mai limitata all’apporre una croce su una scheda ma che ha fatto, in entrambi i paesi, morti e feriti. E qui c’è la prima differenza tra Venezuela e Bolivia, probabilmente. In Venezuela si è costruita una rete di organizzazioni democratiche di base che - oltre a gestire una serie di servizi come l’approvvigionamento alimentare in un paese bloccato dalle sanzioni, spogliato dal mercato nero organizzato, bisognoso di cose elementari come sanità, istruzione, abitazioni dignitose - si occupano anche della difesa fisica del proprio paese, nonostante la fiducia nei confronti delle Forze Armate Bolivariane (che sono state profondamente riformate, a differenza di quelle boliviane, e messe alla prova diverse volte, non ultima durante le giornate di Guaidò): le 63.890 Unità Popolari di Difesa Integrale, in ogni paese, città e centro di lavoro, che raccolgono più di 3 milioni di proletari armati pronti a difendere la Rivoluzione Bolivariana. Non è accaduto lo stesso in Bolivia: l’ansia di costruire uno Stato democratico che potesse liberare la parte più sfruttata e oppressa dell’immensa maggioranza della popolazione ha portato probabilmente a puntare sulle organizzazioni costruite dal nuovo Stato (tra cui le Forze Armate e la Polizia) e a sottovalutare le forme organizzate storiche come le comunità ancestrali che hanno sempre guidato la vita e la socialità della popolazione india. E qui vogliamo chiarire una cosa: là dove parliamo di popolazione india oggi possiamo tranquillamente tradurre questa parola in proletariato. Minatori, classe lavoratrice urbana, braccianti agricoli – tutti provenienti dalle comunità indigene o afrodiscendenti –
costituiscono il proletariato di questi paesi: ecco cosa scriveva, nel lontano 1927, da José Carlos Mariàtegui, fondatore del Partito Comunista Peruviano: “ Il socialismo ci ha insegnato a porre il problema indigeno in termini nuovi. Abbiamo smesso di considerarlo astrattamente come problema etnico o morale per riconoscerlo concretamente come problema economico, sociale e politico”. Un altro problema fondamentale è il seguente: è vero che questi processi rivoluzionari non sono riusciti a distruggere totalmente lo Stato borghese né la struttura capitalista. E nessuno ha mai sostenuto che si trattasse di una “rivoluzione” come quella bolscevica del 1917, men che meno Hugo Chàvez o Evo Morales, che hanno sempre definito “processo” verso il socialismo quanto accadeva nei loro paesi. Qui vogliamo anche ricordare che – dopo la caduta dell’URSS con tutte le sue conseguenze – fu proprio il Comandante Chàvez a riportare all’ordine del giorno la parola “socialismo” che nessuno osava più pronunciare. E intanto bisognerebbe riflettere su quanto sia difficile costruire una società socialista in paesi colonizzati, rapinati da secoli delle loro risorse, attorniati e dipendenti dal capitale finanziario, dal mercato e dai paesi capitalisti. Cuba c’è riuscita per un lungo periodo pagando comunque un prezzo pesantissimo, e oggi tenta la strada di permettere il “lavoro per conto proprio” ben cosciente dei rischi che questo significa per la Rivoluzione. Un esempio – negativo – che molti critici portano è quello di non aver spezzato il sistema “estrattivo”, ma di averlo solo nazionalizzato e non aver intrapreso politiche che permettessero di sganciarsi da questo modello. Cosa non vera perché, ad esempio, era nei piani del governo Morales non solo lo sfruttamento del litio di cui la Bolivia è ricchissima ma la costruzione di impianti industriali per il suo utilizzo, così come da anni in Venezuela si cerca di affrancarsi dal modello basato sull’estrazione e la vendita del petrolio. Tuttavia cambiare la struttura industriale di un paese non è un gioco da ragazzi, se pensiamo che l’Italia (paese imperialista con una struttura industriale che ne faceva una potenza a tutti gli effetti), per risollevarsi dai danni della 2° Guerra Mondiale, nonostante il fiume di dollari del Piano Marshall riuscì a farlo solo negli anni ’60, a 15 anni dalla fine della guerra. Se poi parliamo di paesi dove i capitali se ne vanno all’estero appena realizzati, dove le multinazionali hanno saccheggiato per decenni ogni risorsa e regnano ancor oggi incontrastate, lasciando ai governi (borghesi) solo l’onere di indebitarsi con le istituzioni finanziarie internazionali, ci rendiamo conto che, come diceva Marx, siamo nel “regno della necessità” e con questo bisogna fare i conti, come hanno dovuto farlo la Rivoluzione bolscevica (ricordate la NEP?), quella cinese e quella cubana, tra altre. È il problema, insomma, del socialismo in un solo paese, dibattuto da decine di anni e comunque mai risolto. E che coloro che hanno guidato in questi anni i processi rivoluzionari sudamericani hanno sempre avuto presente: da qui l’insistenza e il grande lavoro fatto riguardo a quella che hanno chiamato “integrazione regionale”, cioè la costruzione di una serie di meccanismi economici e finanziari che permettessero alla Patria Grande (il sogno del Liberatore Simòn Bolìvar, un’America Latina unita, integrata e libera) di svincolarsi dal dominio dei vari Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale
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ecc., ed evitare lo strangolamento non più militare (che resta comunque sempre un’opzione sul tavolo, come ha detto Donald Trump) ma finanziario, che all’imperialismo costa molto meno e produce di più. L’esempio di Cuba e del Venezuela, del bloqueo cinquantennale e delle sanzioni è chiarissimo. Diciamo poi francamente che a molti ‘rivoluzionari’ europei, scusate… con la pancia piena, governi come quello di Hugo Chàvez e di Evo Morales non sono mai piaciuti - non rispondevano alla formula classica – e quindi oggi risuonanono le voci di “te l’avevo detto”. Ma anche le “rivoluzioni” classiche – e ricordiamo le parole di Lenin sul fatto che chi sogna una rivoluzione “pura” sarà sempre deluso perché le rivoluzioni sono opera di uomini concreti e reali e come tali imperfetti – sono state il risultato di processi di accumulo di forze e di esperienze iniziati anni e anni prima dello scoppio finale. Il capitalismo ha potuto contare su più di 100 anni per costruire il proprio sistema; alle rivoluzioni e ai processi rivoluzionari non è mai stato concesso neppure un attimo di “pace” per consolidarsi, hanno dovuto e devono immediatamente difendersi dal feroce attacco del nemico di classe. Proviamo a immaginare dove sarebbe arrivata Cuba senza 50 anni di attacchi militari, economici, ideologici ecc.ecc. In più ogni processo rivoluzionario che prende il potere ha un compito immediato cui non può sfuggire: iniziare a cambiare profondamente lo stato di sfruttamento, di oppressione, di estrema povertà e disuguaglianza, a volte di vera e propria schiavitù in cui si trova il proletariato e la maggioranza della popolazione. Con quali mezzi, visto che non possiede un grammo di “accumulazione primaria” nonostante, come nel caso della Bolivia e del Venezuela, possa essere avvenuto in paesi ricchi di risorse naturali? All’epoca della prima elezione di Evo Morales, la povertà assoluta in Bolivia toccava il 38,2% della popolazione. Qualche altro dato su cui riflettere: la rapidità con cui gli USA hanno bloccato l’oro del Venezuela, e prima ancora quello della Libia di Gheddafi; il blocco degli investimenti quando Venezuela, Ecuador, Bolivia e Nicaragua rifiutarono di accettare i meccanismi di arbitraggio della Banca Mondiale. Ci sono molti altri problemi da analizzare, come ad esempio la composizione, il livello di organizzazione del proletariato e delle sue avanguardie, il ruolo, storico e attuale, dei vari Partiti Comunisti della Patria Grande. Ma queste sono solo poche riflessioni che volevamo condividere con i nostri lettori. In Bolivia, per ora il nemico di classe ha vinto (non del tutto, perché ogni giorno si registrano scontri sanguinosi, scioperi, ribellioni sparse in tutto il paese, anche se la stampa occidentale non ne parla). Ma è chiaro a tutti che la maschera del neoliberismo in questo continente è andata in pezzi: lo testimoniano ad esempio i fatti del Cile, la “vetrina” per eccellenza del capitalismo andata in mille frantumi e gli scioperi contro il governo che si susseguono nel narco-Stato della Colombia. Se il condor ha ripreso a volare sull’America Latina è anche vero che sta perdendo sempre più le piume e la nostra solidarietà antimperialista e anticapitalista può contribuire a strappargliene molte altre. (*) CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni
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imperialismo
La NATO araba sta prendendo forma? E il ruolo di Israele resta rilevante pur se dietro le quinte
Enrico Vigna Secondo molti analisti e studiosi militari internazionali, ma anche in molti quotidiani arabi, in questi ultimi mesi, sta prendendo corpo un obiettivo da molto tempo perseguito dagli USA, e cioè la costruzione di una NATO Araba sotto la guida dell’Arabia Saudita. Molte riunioni avvenute in quest’anno, risapute, ma i cui contenuti non sono stati resi pubblici, hanno visto la partecipazione di funzionari di alto livello di Stati Uniti, degli Stati del Golfo e della Giordania, queste riunioni fanno capire che si sta preparando il decollo della cosiddetta “Alleanza strategica per il Medio Oriente” (MESA). Si tratta di una nuova entità militare progettata per un’egemonia e dominio occidentale nella regione, il cui scopo sarebbe quello di osteggiare e contrastare il crescente ruolo dell’Iran nella regione stessa. C’è poi un aspetto meno appariscente, più nascosto: questo organismo, tacitamente rafforzerebbe la “sicurezza” di Israele. Questa idea di una coalizione “NATO araba”, che sarebbe composta da sei Stati del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, Oman e Qatar più la Giordania), è uno dei risultati del vertice arabo-islamico ospitato da Riyad nel Maggio 2017 cui presenziarono, annunciandone la proposta, gli USA, anche se - nel gioco delle parti - il Regno saudita si definisce promotore. Il piano consiste nell’unire i Regni del Golfo con la Giordania, in questa nuova alleanza militare, fondata su basi sunnite e quindi discriminante e frammentante nei confronti degli altri paesi mediorientali. Vorrebbero coinvolgere in quest’alleanza anche l’Egitto, ma in questo paese la situazione è molto complessa e di conseguenza la coalizione ritiene di soprassedere. Già lo scorso anno è stato rilevato che Israele ha avuto un ruolo di supporto essenziale in questa Alleanza in costruzione, attraverso la fornitura di intelligence e altre forme indirette di assistenza militare, ma oggi - dopo il riconoscimento unilaterale di Trump dell’intera Gerusalemme come sua capitale e la recente approvazione della legislazione israeliana che dichiara Israele uno “stato-nazione ebraico” - è ovvio che non può essere messa in prima fila, ma il suo ruolo resta rilevante pur se dietro le quinte. Le sue relazioni con i Regni del Golfo, sono in gran parte migliorate, in primo luogo stante l’interesse, condiviso con gli USA, nell’opporsi al progetto nucleare iraniano. Tuttavia, per i Regni del Golfo, il conflitto con i palestinesi è un ostacolo arduo da superare, pena la perdita completa della facciata politica verso la popolazione palestinese. Comunque il tema dell’instaurazione di legami diplomatici con Israele non è un tema sconosciuto, seppure in sordina e senza troppo clamore. Negli ambienti della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato USA, trapela che l’obiettivo, su spinta di Trump, è quello di ufficializzare questo cosiddetto “accordo del secolo” entro la fine dell’anno. Ma il processo di strutturazione di MESA ha subito un grosso ostacolo dopo lo scontro tra il Qatar e gli altri Paesi del Golfo, anche se altre fonti occidentali ritengono che potrebbe non rappresentare un problema insormontabile. Quest’Alleanza è già coinvolta in varie forme e interessi nei conflitti siriani e yemeniti, oltre alla necessità di garantirsi la sicurezza del trasporto marittimo nel Mar Rosso, in particolare nello Stretto di Hormuz, vitale geostrategicamente
per loro e fonte di conflittualità che tenderà ad incrementarsi. Il primo passo dovrebbe essere quello di costruire per i suoi membri, uno scudo di difesa antimissile appoggiato dagli USA principalmente contro l’Iran, proprio come la NATO sta facendo contro la Russia, utilizzando sia i paesi dell’Europa centrale, sia i paesi baltici. È evidente che questa scelta è vissuta come una provocazione dall’Iran, che vede in questo un atto ostile alla sua esistenza e indipendenza, oltre che una sfida al suo ruolo politico nell’area. L’Arabia Saudita il 18 aprile aveva ospitato un incontro con la partecipazione di esponenti di alto livello di Arabia Saudita, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar e Giordania. Secondo l’agenzia di stampa saudita WAS, l’incontro avrebbe segnato “Un passaggio importante per il lancio dell’Alleanza, che mira a rafforzare la sicurezza e la stabilità della regione e del mondo”. Sulaiman al-Oqaily, importante analista politico saudita, ha poi dichiarato che: “Si deve costruire una strategia tra le nazioni arabe che formano l’Alleanza, oltre a un chiaro obiettivo strategico affinché tale sforzo abbia successo”. In primo luogo, al-Oqaily ha sottolineato, “Che ci deve essere un blocco arabo omogeneo e ha convenuto che la “NATO araba” avrebbe protetto il mondo arabo da ogni tipo di minaccia e sfida alla sicurezza. I motivi e gli obiettivi dei suoi membri devono essere gli stessi”, aggiungendo che: “il settarismo con cui l’Iran affronta il Medio Oriente è più pericoloso di Israele… L’Iran sta sfruttando la sua cultura e i suoi legami religiosi con il mondo arabo per espandersi nella regione e distruggerlo”. È dal 2017 che gli USA lavorano alla creazione di una nuova organizzazione militare con i paesi sunniti del Medio Oriente, per contrastare il ruolo regionale dell’Iran. Secondo gli intenti statunitensi, gli Stati membri della MESA devono, oltre a una cooperazione più stretta sulle difese antimissili, aumentare l’addestramento militare e le strategie d’intervento nelle crisi regionali, rafforzando - nel contempo - i legami politici ed economici; naturalmente sotto guida USA. All’interno della campagna mediatica e di pressione condotta dagli USA, sulla necessità di una MESA araba, il comandante del comando centrale delle forze aeree statunitensi, il tenente generale J. Guastella, ha specificatamente indicato l’Iran come una minaccia alla stabilità
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nella regione del Golfo, durante il 2° simposio sull’aeronautica di Manama lo scorso anno. J. Guastella ha affermato che“… L’Iran continua a causare rischi ad altre nazioni e ad agire come agente destabilizzante in questa regione. Ha lo scopo di interrompere l’equilibrio di potere esistente nell’area e mettere a rischio il benessere dei cittadini locali…”. Ha ribadito, inoltre, che: “Le esercitazioni militari iraniane mirano al blocco dello stretto di Hormuz, il potenziale di errori di calcolo delle intenzioni militari ha conseguenze strategiche. Le loro azioni sono dirette a minacciare tutte le nostre economie… Osservare in profondità simili scenari, può rivelarsi utile per sostenere la necessità di una NATO araba…”. A sua volta, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha affermato, riferendosi all’auspicata nuova alleanza MESA: “L’Alleanza sarebbe un baluardo contro le aggressioni dell’estremismo iraniano e porterebbe stabilità. Più perplesso sulla fattibilità concreta del progetto statunitense si dichiara invece Qassem Qaseer, noto analista politico libanese. Pur confermando che gli USA stanno lavorando da tempo con alcuni Stati arabi per formare un tale organismo, ritiene però che: “Ci sono problemi legati alle differenti agende politiche e approcci diversi dei vari paesi implicati. L’obiettivo è quello di fare una pressione minacciosa sull’Iran con tale iniziativa, ma ciò può essere attuato solamente quando la NATO araba sarà divenuta una realtà “, ha affermato Qaseer. Secondo l’agenzia Media Line nell’ultimo anno, alti funzionari americani, tra cui il consigliere del presidente Trump, J. Kushner e il negoziatore internazionale J. Greenblatt, hanno condotto un fitto lavoro di diplomazia tra le capitali del Medio Oriente. Diversi analisti che hanno parlato con Media Line hanno confermato che le visite avevano lo scopo di gettare le basi per MESA.
Il magg. Generale Hamad bin Abdullah alKhalifah, comandante della Royal Bahraini Air Force, ha dichiarato che “È un’idea americana, che è stata approvata dai paesi del Golfo Arabo, ma non ha ancora preso una forma definita. Mi aspetto che una tale NATO araba abbia successo, ma siamo ancora all’inizio”. Anche il Ministro degli Esteri del Bahrein aveva dichiarato all’IISS Manama Dialogue che l’idea di una NATO araba sarebbe diventata realtà entro il 2019. Nell’attuale situazione ci sono però molti aspetti militari, e non solo, da risolvere per una NATO araba del genere. Il più complicato è legato ai problemi d’interoperabilità; i sette paesi gestiscono diversi tipi di piattaforme militari. Ad esempio, l’Arabia Saudita gestisce l’F-15SA americano e l’Eurofighter Typhoon europeo mentre gli Emirati Arabi Uniti gestiscono gli F-16 e il Mirage francese, e così via per gli altri. Ma esistono anche problematiche legate agli accordi tra paesi, Rick Groesch, vicepresidente della Lockheed Martin per il Medio Oriente, rispondendo a una domanda sulla condivisione dei dati tra varie piattaforme militari, ha dichiarato: “Quando un paese acquista apparecchiature statunitensi, ci sono alcune cose firmate nell’accordo. In altre parole, un paese non può mettere un’arma non statunitense su un sistema di armi statunitense senza l’approvazione del governo USA”. Basti pensare allo scompiglio scatenato con USA e coma2do NATO, dalla decisione della Turchia, membro NATO, di acquistare dalla Russia gli S-400 del sistema missilistico della difesa aerea mobile. La condivisione dei dati non è l’unico ostacolo per una NATO araba. Le relazioni tra il Qatar e altri paesi del Golfo, a seguito del blocco contro di esso, rimane attualmente irrisolta. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein hanno interrotto tutte le relazioni con il Qatar a giugno 2017, con una forma di blocco terrestre, marittimo e aereo. Il già citato tenente generale J. Guastella, comandante del Comando centrale delle Forze Aeree statunitensi, ha serenamente affermato quanto segue: “… È utile guardare a ciò che la NATO è stata in grado di fare e ai successi di questa Alleanza in Europa e nel mondo, che ha garantito stabilità per decenni… Alcuni di questi insegnamenti potrebbero essere applicati qui? Potrebbe una simile alleanza di nazioni affini del Golfo, unirsi in u unirsi in un sistema che offre la stessa stabilità che è stata garantita in Europa e nel mondo? Penso che la risposta sia sì, e penso che il passo per raggiungerlo dovrebbe essere considerato seriamente e concretamente da tutte le nazioni coinvolte qui… “Provare per credere verrebbe da dire, magari chiedendo ai popoli afgano, palestinese, somalo, iracheno, grenadino, jugoslavo, libico, siriano, del Donbass, yemenita… cosa ne pensano della “stabilità e benessere“ portato loro da USA e NATO...
nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) anno XXVIII n. 7/2019 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Emiliano, Michele Michelino, Fabrizio Poggi, Daniela Trollio , Enrico Vigna abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 1031575507 intestato a: nuova unità - Firenze
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rassegna stampa
Notizie in breve dal mondo novembre-dicembre Atene, Grecia 17 novembre
Decine di migliaia di persone hanno manifestato nel centro della città per ricordare l’anniversario delle rivolta studentesca del Politecnico del 1973, simbolo della fine della dittatura dei colonnelli in Grecia. Tra il 14 e il 17 novembre 1973 scoppiò una rivolta studentesce nel Politecnico, che venne schiacciata grazie all’irruzione dei carri armati nell’ateneo; la cifra dei morti salì a 55 persone. I fatti diedero il via alla caduta della Giunta dei Colonelli. La cifra dei partecipanti – studenti, professori, lavoratori e sindacati, movimenti antifascisti e antirazzisti, anarchici - la fornisce la Polizia: circa 20.000 persone hanno sfilato dal Politecnico e da piazza Syntagma fino all’ambasciata degli Stati Uniti. Durante la manifestazione sono state arrestate 6 persone. Gli slogans: “Il Politecnico non è un museo” (con riferimento al pian del governo di cedere l’edificio al Museo Archeologico nazionale” e “Pane, educazione e libertà” e molti contro la polizia e l’eliminazione del cosiddetto “asilo universitario” (la proibizione dell’intervento poliziesco nei campus senza il permesso delle autorità universitarie) che il governo vuole eliminare.
Buenos Aires, Argentina 19 novembre
I lavoratori della fabbrica argentina della Fernet Branca (Fratelli Branca Destileria S.A.) scioperano e votano in assemblea un comunicato contro il golpe di Stato in Bolivia e in appoggio alla lotta del popolo cileno. Ecco il comunicato: “Noi lavoratori e delegati della fabbrica di Fernet Branca abbiamo deciso in assemblea di pronunciarci contro il colpo di stato effettuato nel paese fratello della Bolivia, e solidarizziamo e diamo il nostro sostegno ai lavoratori e al popolo boliviano che vede calpestati i propri diritti. Appoggiamo anche il popolo cileno, che da più di un mese è in lotta contro le misure di aggiustamento e l’attacco alle sue condizioni di vita e appoggiamo la sua richiesta delle dimissioni di Piñera. Riteniamo che queste ribelllioni, come altre che si susseguono in diversi paesi, siano il prodotto di un attacco generalizzato ai diritti dei lavoratori e del popolo in generale; per questo non scartiamo l’ipotesi che avvengano attacchi simili nel nostro paese, dove già ci sono stati annnunci sul patto sociale e sulla revisione dei contratti collettivi di lavoro. La risposta a questi deve essere ferma e decisa e le dirigenze sindacali devono fare quanto i lavoratori decideranno. Abbasso il golpe in Bolivia, Piñera via dal Cile!”.
La Esperanza (San Pedro de Jujuy), Argentina 21 novembre Nell’ ingenio La Esperanza (un insieme di edifici dove, già in epoca coloniale, viene lavorata la canna da zucchero per produrre alcolici) scoppia un incendio e 12 operai muoiono asfissiati e bruciati vivi. Il fuoco è partito da un silo della distilleria per espandersi ad altri edifici della fabbrica, che si trova in mezzo al paese, i cui abitanti hanno dovuto essere evacuati. Per fermare l’incendio c’è voluto anche un aereo cisterna. I lavoratori avevano già denunciato alla direzione la mancanza di sicurezza delle infrastrutture della fabbrica, tanto che il gruppo Budeguer proprietario della fabbrica aveva promesso di investire 2/3 milioni di dollari per la ristrutturazione (mai fatta).
Bogotà, Colombia 22 novembre
Centinaia di migliaia di persone scendono in piazza per il primo Paro Nacional (sciopero nazionale) contro il governo Duque a Bogotà e in tutta la Colombia: si calcola che i partecipanti a livello nazionale siano più di un milione di persone. Oltre a lavoratori e sindacati, partecipano le organizzazioni indigene e afrodiscendenti, le organizzazioni femministe e gli studenti. La protesta è contro le riforme pensionistiche e del lavoro, contro le uccisioni impunite di indigeni (solo quest’anno 52 nel dipartimento di Cauca) e leaders sociali (155 in tutto il paese), contro il reclutamento forzato dei ragazzi. Ci sono stati scontri in alcune città, e a Cali è stato decretato il coprifuoco.
La Paz, Bolivia 22 novembre
Dopo un corteo di 16 chilometri da El Alto (la popolosa e poverissima cittadina costruita ai margini di La Paz) a La Paz, bare abbandonate nella via mentre la gente fugge perchè la polizia lancia gas lacrimogeni. Così è finito il funerale di alcuni degli 8 morti di El Alto, uccisi dalla polizia che sparava dagli elicotteri durante il blocco di un convoglio di camion cisterna nel quadro delle proteste per il golpe di Stato. Decine di migliaia di persone, in gran parte indigene, partecipavano a questi funerali/manifestazione contro il governo golpista di Jeanine Anez. All’arrivo in città il corteo è stato applaudito dalla gente ai margini delle strade e i negozi hanno chiuso per rispetto. Il corteo è giunto al centro della città, dove uno dei feretri coperti dalla Whipala (la bandiera nazionale) è stato appoggiato su un veicolo militare: da qui è scattata la repressione, con il lancio di gas lacrimogeni.
Brasile, 26 novembre
Cominciano 5 giorni di sciopero contro le privatizzazioni dei beni dello Stato e i licenziamenti di massa. Il primo giorno – oggi – ha visto in piazza 6 mila lavoratori del settore petrolifero.
Colombia, 5 dicembre
Terzo Paro Nacional (sciopero nazionale) – in meno di 3 settimane - contro le politiche del narco-stato di Ivàn Duque. Centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in tutte le principali città del paese - Bogotá, Medellín, Cali, Manizales, Bucaramanga, Barranquilla e Cartagena - secondo la formula dello sciopero nazionale scelta dai sindacati dei lavoratori e degli studenti. Oltre ad essi partecipano alla mobilitazione le comunità indigene, che chiedono giustizia per i 130 morti per la repressione nel dipartimenti del Cauca. I manifestanti hanno anche ricordato Dilan Cruz, il giovane ucciso il 25 novembre da un candelotto sparatogli alla testa.
Washington, USA 2 dicembre
Sendai, prefettura di Miyagi, Giappone 28 novembre
La società Tohoku Electric Power ha annunciato di aver ottenuto dall’Autorità di Regolazione Nucleare giapponese la prima delle autorizzazioni per poter riaccendere il reattore n. 2 della sua centrale nucleare ad Onagawa. La cittadina fu il sito nucleare più vicino all’epicentro del terremoto di magnitudine 9 registrato nel marzo 2011 in Giappone, che provocò uno tsunami, uccise circa 20.000 persone e produsse il disastro nucleare di Fukushima, in seguito al quale l’impianto di Onagawa fu fermato.
Francoforte, Germania 29 novembre
La società Daimler, padrona della Mercedes Benz, comunica che taglierà almeno 10.000 posti di lavoro in tutte le sue fabbriche nei prossimi tre anni, seguendo l’esempio di altre che stanno puntando sui veicoli elettrici. Quello di Daimler è il terzo annuncio di licenziamenti massicci da parte di altre società automobilistiche tedesche, in crisi anche per la caduta della domanda dei mercati cinesi, a causa della guerra commerciale tra Washington e Pechino. Secondo un accordo con i sindacati, Daimler taglierà così il 3% della forza lavoro, oltre ad alzare l’età pensionabile per i lavoratori a tempo parziale. Qualche giorno fa anche la Audi (che rappresenta il settore di lusso della Volkswagen) ha annunciato il taglio di 9.500 posti di lavoro e la BMW metterà in atto misure di riduzione dei salari.
Brasile 29 novembre
Secondo le cifre ufficiali, tra l’agosto 2018 e il luglio 2019 l’Amazzonia ha perduto più di 10.000 kmq. di foresta in un solo anno, il 48% in più dei 12 mesi precedenti. Il 74% di questa cifra rappresenta quanto perduto nei territori indigeni, secondo l’INPE (Istituto nazionale di Studi spaziali).
Tucson, USA 1° dicembre
L’autorevolissimo American Journal od Medicine pubblica oggi uno studio in cui si afferma che il 42% dei malati di tumore negli USA perdono in due anni tutti i loro risparmi per curarsi, anche se dispongono di un’assicurazione sulla salute. Il costo medio delle cure si aggira sui 92.000 dollari, in base alla statistica riguardante 9,5 milioni di pazienti ammalati di cancro tra il 2000 e il 2012: secondo i ricercatori il 62% dei pazienti ha contratto debiti per curarsi e il 55% di loro hanno debiti per più di 10.000 dollari. I costi medici totali per le cure contro il cancro negli USA toccano la cifra di 80 mila milioni di dollari.
Tegucigalpa, Honduras 2 dicembre
Finalmente la Sala I del Tribunale Nazionale ha comunicato la sentenza contro gli assassini materiali di Berta Càceres, l’ambientalista indigena leader della Copinh (Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras) e il tentativo di assassinio con il messicano Gustavo Castro, avvenuti il 3 marzo 2016. Il processo era terminato nel novembre 2018. I sette condannati sono: Sergio Ramón Rodríguez Orellana, dipendente della Desarrollos Energéticos (DESA), società che gestiva il progetto di una diga sul Rio Gualcarque alla cui costruzione si opponevano Berta e il Copinh, Douglas Geovanny Bustillo, ex militare, Mariano Díaz Chávez, maggiore delle Forze Armate e Edilson Atilio Duarte Meza, Elvin Eriberto Rápalo Orellana, Óscar Aroldo Torres Velásquez. Familiari e attivisti chiedono comunque che vegnano accusati e processati anche gli autori “intellettuali”: gli azionisti di maggioranza della DESA, appartenenti alla famiglia Atala Zablah, una delle più potenti dell’Honduras.
Londra, Inghilterra 4 dicembre
Nella storica Trafalgar Square, piena di bandiere di tutti i paesi del mondo, chiamate dai movimenti Stop the War e CND (Campagna per il Disarmo Nucleare), migliaia di persone manifestano nella città contro la NATO, i cui vertici sono riuniti oggi a Londra per celebrare il 70° anniversario dell’organizzazione più criminale del mondo, alla presenza di Donald Trump.
nuova unità 7/2019
Il segretario di Stato Mike Pompeo elogia oggi il governo di fatto golpista della Bolivia per aver riallacciato le relazioni diplomatiche con Israele. Il governo legittimo di Evo Morales, oltre ad accusare il regime di Tel Aviv di crimini di lesa umanità e a rompere le relazioni nel 2009, aveva riconosciuto la Palestina come Stato indipendente e sovrano.
Londra, Inghilterra 9 dicembre
Secondo il Financial Times il governo cinese ha deciso di proibire l’uso di tecnologia straniera in tutti gli uffici governativi. Il piano della Cina per conseguire una maggiore indipendenza tecnologica nei prossimi tre anni è di sostituire tutto l’hardware entro il 2022. Tale sostituzione verrà estesa anche a settori “chiave” come l’energia, le telecomunicazioni e gli istituti finanziari.
Santiago del Cile, Cile 6 dicembre
L’Istituto nazionale per i Diritti Umani del Cile (INDH) informa oggi che sono già 352 il numero dei manifestanti che nei 50 giorni di proteste hannno sofferto ferite agli occhi dovute ai proiettili di gomma sparati dalla polizia nelle manifestazioni contro la disuguaglianza sociale ed economica ereditata dalla dittatura di Pinochet e contro l’élite politica formata da un piccolo gruppo delle famiglie più ricche del paese. Secondo la OEA (Organizzazione degli Stati Americani) la protesta è già costata 26 morti, più di 12.000 feriti e 20.600 arrestati. L’INDH (un ente pubblico autonomo e indipendente) ha già presentato 685 denunce contro l’azione della polizia, di cui 6 per omicidio, 11 per tentato omiciio, 108 per violenza sessuale e 544 per torture e trattamenti inumani.
Roma, Italia 5 dicembre
(da antidiplomatico.it): Enel aumenta i suoi investimenti in Cile. Per questo il governo italiano tace sugli abusi di Piñera? Un piano da 2,5 mld di dollari per la decarbonizzazione del Paese e la digitalizzazione delle reti, l’11,5% in più rispetto al biennio 2019-2021.Nonostante il crollo del pesos cileno ai minimi storici su dollaro ed euro e nonostante la fuga dei capitali, l’ad di Enel, Francesco Starace non teme la congiuntura economica e la crisi politica del Paese. Piuttosto minimizza: “è un anno di cambiamenti costituzionali che sono sempre un momento in cui le società si uniscono per concordare un terreno comune. Era ora”. “Il Cile non ha debito - prosegue - Hanno mezzi per affrontare le preoccupazioni della popolazione. I fondamentali ci sono, è strano pensare che un paese con queste capacità non possa risolvere” Insomma, Enel non vede alcuna ragione che impedisca l’aumento di investimenti in Cile. Nè la crisi politica ed economica la preoccupa né le violenze e gli abusi delle forze armate, costate un’accusa costituzionale per violazione dei diritti umani all’ex ministro degli Interni Andres Chadwick Piñera, fratello di Herman, attuale presidente di Enel Chile e cugino del Presidente della Repubblica Sebastian Piñera. La presentazione del piano di investimenti di Enel in Cile è stata preceduta da un viaggio tenuto in sordina del viceministro degli Esteri, Marina Sereni (PD). La visita a Santiago, avvenuta dal 5 al 7 novembre, all’indomani della rimozione dello stato di emergenza e del coprifuoco, è stata commentata dalla Sereni con una lettera al Mercurio, il principale quotidiano cileno. Nella lettera non si legge alcuna condanna al governo cileno, al contrario si danno garanzie sul fatto che “L’Italia starà - come lo è sempre stata – al fianco del Cile”. La viceministro non ha ravvisato alcun problema con le violazioni dei diritti umani, certificate dai rapporti INDH, Amnesty International e Human Rights Watch. Enel Chile, la società presieduta dal fratello del ministro indagato per violazioni dei diritti umani e cugino di Piñera, detiene la maggior parte delle concessioni di energia elettrica in Cile e dallo scorso luglio fornisce AngloAmerican, multinazionale mineraria che sfrutta il sottosuolo cileno. Il rogo dell’edificio Enel sull’Alameda di Santiago ha dato il via alle rivolte, il 18 ottobre 2019.
Atene, Grecia 12 dicembre
La polizia greca ha arrestato nuovamente per “pubblica minaccia” Salam Aldeem, fondatore di Team Humanity, una OnG danese che aiuta i rifugiati nell’isola di Lesbo. Aldeem ha recentemente inoltrato una denuncia al Parlamento Europeo sulle condizioni di detenzione dei profughi – ben 20.000 persone – nell’isola greca. Egli era già stato arrestato in Grecia per traffico di persone e condannato a 10 anni; insieme i pompieri spagnoli Manuel Blanco, Julio Latorre e Quique Rodríguez, membri della ONG Proemaid; tutti poi assolti nel 2018.
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