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Proletari di tutti i paesi unitevi!

nuova unità fondata nel 1964

Periodico comunista di politica e cultura n. 3/2019 - anno XXVIII

L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo V.I. Lenin

Sempre più imperante sviluppare la lotta e l’organizzazione della classe Lega: nove milioni di voti e il dominio delle regioni del nord sono sufficienti per imporre il proprio programma antipopolare e devastante

Sarà finita la campagna elettorale? Questo periodo elettorale ha superato ogni limite e ha messo in luce tutta la demagogia sociale e la propaganda razzista per raccogliere consensi, voti, ma anche per distrarre la popolazione dai reali problemi che avvelenano la vita e che non vengono risolti. Abbiamo tenuto in sospeso “nuova unità” aspettando i risultati per dare un’immediata e veloce lettura per quanto riguarda l’Italia, anche se per le nostre convinzioni gli esiti elettorali non sono fondamentali. Mentre tutti erano concentrati su come raccogliere un voto in più hanno chiuso altre fabbriche producendo nuovi disoccupati (quell’esercito di riserva così utile alla grande industria!), sono morti operai sul luogo di lavoro, è continuato lo sfruttamento, decine di immigrati hanno lasciato la vita nel Mediterraneo, ed è avanzato l’impoverimento generale. Sono andate avanti misure sempre più repressive che hanno colpito coloro che manifestavano il proprio dissenso ai demagogici comizi di Salvini e non solo. Le elezioni europee e in parte amministrative si sono svolte all’interno di una crisi capitalista che non ha accennato a diminuire perché ciò che domina è il capitalismo e la sua sete di predominio dei mercati che riversa i suoi effetti sul proletariato. Che cosa emerge da queste elezioni? Intanto che in tutta Europa è andato a votare il 50,5%, cioè la metà degli aventi diritto non ha partecipato e che là dove l’affluenza è stata relativamente alta, le destre hanno ottenuto i migliori risultati. In Italia si è recato alle urne il 56% - ben 2% punti in meno rispetto alle precedenti del 2014 (e quando il numero degli elettori era inferiore), cioè oltre 20 milioni degli aventi diritto. Astensionismo alto nel sud ed in particolare a Taranto, in Sardegna, Sicilia, Abruzzo - abbandonato dopo il terribile terremoto - con un calo di affluenza di ben 12 punti percentuali. Che dimostra come un grande numero di elettori non abbiano creduto alle illusioni e alle promesse dei candidati anche se questo non corrisponde alla una presa di coscienza della necessità della lotta di classe organizzata e di massa. La Lega è cresciuta e non ha stravinto (9milioni di voti), ma diventerà più aggressiva perché ha convinto la sua guerra tra poveri - sulla quale ha fortemente martellato tra l’arrivo degli immigrati (nascondendo l’attacco al diritto di sciopero) e il tema della sicurezza - nonostante tutti i guai giudiziari che la contraddistinguono e ha raccolto voti anche da Forza Italia in caduta libera. Fratelli d’Italia è avanzato (decisiva, forse, la performance della Meloni che il giorno prima del voto si è messa a raccogliere la plastica?) ma anche per il voto ”utile” dei fascisti dei vari gruppetti a discapito delle proprie liste. Voti a svantaggio del M5Stelle perché non più credibile dopo la prova di governo e l’abbandono dello “stile” dei vaffa. Il PD, in disgrazia per le sue scellerate politiche, pur avendo rincorso l’elettorato di destra schierandosi con le grandi (e distruttive) opere ha recuperato qualche punto dai delusi del M5S e con la “novità” Zingaretti. Ciononostante ha perso anche una importante regione come il Piemonte. Ciò comporta il dominio assoluto della Lega sul nord Italia che si trasformerà in un’accelerazione della famigerata autonomia differenziata - scelta che porterà allo sfacelo del Paese soprattutto per quanto riguarda il lavoro con la prevedibile introduzione delle gabbie salariali, la sanità e la scuola – e della flat tax a favore dei ricchi. Possiamo affermare che la maggioranza del popolo formato da

Padroni e operai uniti nella lotta... alla concorrenza!

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Intervista con Raùl Capote Fernàndez lo scrittore cubano, giornalista del Granma Internacional, professore di storia, noto anche per essere stato l’agente “Daniel” della Sicurezza cubana pagina 3 Presente e futuro. Intervista con Aldo Milani dopo la sua assoluzione pagina 4-5 Imperialismo e guerra. Bambini a perdere

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Alleanze militari. 1949-1999-2019: i criminali anniversari della NATO pagina 7

lavoratori, disoccupati, pensionati, in una parola i meno abbienti che pagano sulla loro pelle la crisi del sistema capitalista, non si fanno attrarre dalle sirene del capitalismo né dai suoi maggiori strumenti di sostegno: i mass-media. Servi del potere che, in barba alla par condicio, hanno riservato uno spazio spropositato ai candidati “di punta”: Salvini, Di Maio, Berlusconi, Meloni, Zingaretti. La compagine del futuro Parlamento europeo rimane nella sostanza invariata, in mano alle espressioni politiche rappresentanti del grande capitale e delle banche pronti a spartirsi i posti di potere. Sono avanzati i partiti conservatori, sciovinisti e fascisti – da Le Pen a Farange, da Orban a Kazcynsky, a Salvini -, ma è un assalto antieuropeo limitato e utile solo come pungolo per una politica di maggiore sfruttamento e repressione, dei divieti, dei richiami alla cristianità cioè all’oscurantismo, dell’attacco ai diritti sociali e civili con gravi ripercussioni sulla condizione femminile, come ha già dimostrato il raduno dei ministri europei a Verona. Sarà confermata la cooperazione più stretta tra alcuni membri della UE, in materia di sicurezza e difesa - introdotta dal trattato di Lisbona – per investire in progetti comuni e accrescere la prontezza e il contributo a livello operativo delle rispettive forze armate (Pesco). Aumenterà l’attacco all’ideologia comunista. L’Unione europea è per sua natura espressione del capitale monopolistico, lo confermano i 115 milioni di persone che vivono sotto la soglia ufficiale di povertà, ed è diretta dal grande capitale che ha bisogno di delocalizzare la produzione con forza lavoro a costo minore per realizzare massimi profitti e dai centri di potere della finanza. È un’alleanza imperialista che porta avanti interventi imperialistici in cooperazione con la NATO sotto la direzione dell’imperialismo Usa. Ma non potrebbe essere riformabile neppure da parte delle forze di sinistra che hanno partecipato convinte che l’Europa si possa trasformare in una “casa comune” democratica e basata sui diritti sociali, civili, di libertà e di tutte le espressioni di democrazia diretta dei cittadini basata su un “capitalismo sano” che nella pratica fa cadere la necessità della lotta per l’abbattimento dei rapporti sociali capitalistici. Si può pensare che obiettivo della BCE (!) diventi “la piena e buona occupazione”, contro i “parametri del Fiscal compact? Ancora una volta lo scontro elettorale si è dimostrato uno scontro tra le varie fazioni e strati della borghesia che vogliono mantenere il proprio potere con posizioni di destra fascista, xenofoba e sempre più anticomunista – e su questo ben poco potrà fare quella minima rappresentanza dei Partiti comunisti -, fino a quelle riformiste più o meno di sinistra, ma in pratica, sostenitrici del sistema capitalista. Su questo devono incentrare la loro attenzione i comunisti che vogliono cambiare realmente i rapporti di forza tra le classi. Utilizzare bene le nostre energie, la nostra intelligenza, il nostro odio di classe, per difendere l’ideale del socialismo e per acuire e allargare la spaccatura nella società tra i poteri e chi il potere non l’ha e lo subisce; per sviluppare la lotta e l’organizzazione. La forza del movimento operaio – come quella dei comunisti - non si può giudicare dai risultati elettorali o dal numero di iscritti al partito o ai sindacati, ma dal tipo di organizzazione comunista e dalla coscienza che porta alla comprensione di lottare per battere l’offensiva della borghesia e il fascismo, ma con una prospettiva più ampia, verso il cambiamento del sistema capitalista in socialista.

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lavoro

Padroni e operai uniti nella lotta... alla concorrenza!

Più che l’unità sindacale si propone il sindacato unico: centralizzato, gerarchico, sufficientemente istituzionalizzato, in grado di impedire ogni autonomia della classe operaia. Che nega il ruolo centrale del conflitto di classe e pretende la sottomissione dei lavoratori agli interessi padronali qualcosa in cambio: il placet ad un sindacato interclassista, facilmente controllabile, istituzionale, dominato da funzionari professionisti, furbi e antioperai, in grado di svuotare di senso il conflitto di classe là dove si presenti. Stipendiati, ovviamente, basta che non parlino di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Più che l’unità sindacale ci sembra si stia proponendo il sindacato unico; un bel sindacato centralizzato e gerarchico, sufficientemente istituzionalizzato, in grado di impedire di fatto dall’alto ogni autonomia della classe operaia, negando il ruolo centrale del conflitto di classe e pretendendo la sottomissione dei lavoratori agli interessi padronali.

Luciano Orio Uno scorcio di telegiornale mi offre la visione di Landini, nuovo segretario CGIL, assorto alle parole del Capo dello Stato, nel corso della celebrazione di non so quale anniversario dell’omicidio D’Antona, il ricercatore e intellettuale di area CGIL ucciso dalle Brigate Rosse. Per carità, ognuno si merita i propri eroi e Landini, da questo punto di vista, non è da meno: lui gli eroi se li sceglie borghesi, meglio ancora, intellettuali e ricercatori borghesi, impegnati, come fu D’Antona per anni, a fornire le linee guida del nuovo sfruttamento possibile del proletariato italiano, quelle che portarono alla precarizzazione del lavoro subordinato e al disastro sociale oggi imperante. Niente di che, certo, una partecipazione dovuta, data la comune appartenenza di entrambi al sindacato, ma un’occasione in più per riflettere sull’indirizzo che in tutti questi anni ha caratterizzato e continua a caratterizzare le scelte del maggior sindacato italiano, nella gestione del neo segretario Landini. Un indirizzo capitalista neo-liberista. Diventato numero uno della CGIL, il nostro sceglie accuratamente la propria partecipazione, che siano assemblee, manifestazioni, commemorazioni o altro, smettendo (per ora) i panni del capopopolo FIOM, per indossare quelli del leader sindacale e politico. In questa veste abbiamo potuto vederlo nelle manifestazioni e negli appelli unitari della triplice con Confindustria e PD, perorare la causa comune del “lavoro” e della “crescita”, ovviamente all’interno della cornice europea: un esplicito invito al voto per la prossima tornata elettorale.

Puntare alla crescita, battere la concorrenza (che l’Europa ci assista!) Sa parlare Landini, e parla alla pancia dei lavoratori italiani: al giorno d’oggi siamo sulla stessa barca, dice, gli interessi sono comuni tra padroni e operai. Rimaniamo all’interno dell’Europa perché possiamo difenderci meglio dagli assalti della concorrenza nei mercati, l’unione fa la forza, si sa, e l’Unione Europea ci può aiutare a superare questa fase di crisi dovuta ad una cresciuta concorrenza soprattutto da Est. Il lavoro, dobbiamo creare lavoro. Pertanto, completiamo Tav, e via a grandi opere e sbloccacantieri; teniamo aperti i cancelli all’Ilva ecc. ecc. Il mantra ripetuto è l’eccellenza del made in Italy, faro della ripresa possibile. Il punto di vista di un operaio su una simile questione potrebbe

benissimo concordare: se c’è il lavoro, c’è anche un salario possibile e poi col padrone ci sei per forza sulla stessa barca, eccome se ci sei! Gli operai sono incatenati al modo di produzione capitalistico che detta le sue leggi e ne sono perfettamente consapevoli. Sanno che le merci che hanno prodotto devono competere con la merce prodotta da altri operai. Anche il padrone compete con un altro padrone. È la legge della giungla. L’Europa, come si legge nell’appello congiunto di Confindustria e sindacati, è una barca comune e starne dentro è conveniente. Ci protegge dalla concorrenza. Ecco perché Landini parla alla pancia, ecco perché sembra razionale. Padroni e operai, due parti in contrasto, unite ad affrontare le sfide della concorrenza capitalista. Lo sappiamo, già altre volte si è invocata la collaborazione di classe a sostenere emergenze di ogni tipo, ora la si chiede perché in questo

mondo globalizzato dobbiamo sacrificarci tutti per poter reggere la posizione nei mercati. Siamo alla frutta. È reale questa razionalità? O non è la solita falsa retorica con la quale ci guadagnano solo i padroni, a mascherare il fatto che le perdite di posizione sono direttamente derivate dal declino industriale, dalla svendita dell’industria nazionale, dai limiti strutturali del nostro capitalismo, dalla corruzione pubblica e dalla spietatezza dei vincoli di bilancio, dalla svalutazione e dal finanziamento in deficit che non si possono più fare, dal debito pubblico che cresce… Dalla crisi generale del modo di produzione capitalistico. E sulle spalle di chi dovrebbe reggersi questa bella impalcatura se non su quelle larghe dei lavoratori? Dovremo sacrificarci, allora, per la concorrenza? Per essere abbastanza competitivi? Beh, non è certo dovuto al caso il reiterato tentativo di

Confindustria di eliminare la contrattazione sindacale di livello nazionale. Non è poco. L’inadeguatezza e l’impoverimento progressivo dell’attuale stato sociale, poi, comportano l’attivazione delle forme di welfare aziendale sulle quali il sindacato “unito” ha già messo gli occhi da tempo, attraverso la rete dei servizi - a partire dalla sanità - da scambiare col salario.

Unità sindacale o sindacato unico? Altro caposaldo del Landini pensiero è l’unità sindacale: per farne che? Un sindacato di lotta, un sindacato di classe? No, Landini non si rivolge ai lavoratori che dovrebbe rappresentare -, ma ai capitalisti, per rassicurarli sulle proprie intenzioni di pompiere sindacale, “unitariamente” a quelle di tutto il corpo dei dirigenti sindacali, oggi totalmente squalificato. Forse otterrà

Prospettive? Non ci convincono proprio le idee di Landini e quanti, tra i lavoratori, si adegueranno, oltre a compiere un bel servizio ai padroni, diventeranno loro stessi un problema. Perseguire l’obiettivo della crescita economica infinita, per come la vediamo, significa voler aumentare il volume dell’attività economica fino ad influenzare tutto: “dall’atmosfera al fondo dell’oceano, l’intero pianeta diventa una zona di sacrificio: tutti noi abitiamo alla periferia della macchina che produce profitto.” (G. Monbiot) Battere la concorrenza ha implicazioni di non poco conto. La concorrenza, si sa, non sta mai ferma, si fa sempre più minacciosa; di più, la concorrenza può assumere e assume forme nuove e più violente che danno origine non solo a spietate guerre commerciali, ma anche a guerre, giustamente definite imperialiste, tra le varie potenze.

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internazionale

Intervista con Raùl Capote Fernàndez Sabato 18 maggio si è tenuto un incontro organizzato dal Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” di Sesto San Giovanni (MI) e dal Circolo di Sesto S.G.-Cinisello B.mo dell’Associazione di Amicizia Italia Cuba. Invitato di eccezione lo scrittore cubano, giornalista del Granma Internacional, professore di storia, Raùl Capote Fernandèz, noto anche per essere stato l’agente “Daniel” della Sicurezza cubana che smascherò pubblicamente, dopo essersi infiltrato nella CIA, i metodi dell’Agenzia stessa per creare la dissidenza negli ambienti universitari e intellettuali a Cuba, descritti nel suo libro “Un altro agente all’Avana”. Nel corso della serata – cui hanno partecipato più di 80 persone Raùl Capote ha anche presentato il suo ultimo libro in italiano: “La guerra che ci fanno”, della Red Star Press di Roma. L’abbiamo intervistato per i lettori di “nuova unità” Potresti parlarci del ruolo della CIA, ora, in Venezuela? La CIA ha un ruolo nella posizione degli studenti e di strati della piccola borghesia? Sì: sia a Cuba che in Venezuela la CIA preparò dei piani, dopo i processi che misero fine alle dittature militari, piani che riguardavano le università perché, tradizionalmente, le università latinoamericane sono sempre state la culla della sinistra e della rivoluzione e loro hanno creato un progetto per formare “leaders” in tutta l’America Latina. Da lì escono i principali leader della destra latino americana: quasi tutti sono stati formati nei programmi di interscambio accademico. Il Venezuela non è un’eccezione, lì avevano cominciato a organizzarli prima ancora che Chàvez assumesse la presidenza. Naturalmente quando Chàvez assume la presidenza il progetto si intensifica. E dagli anni 2002/2003 cominciano anche a inviare questi ‘leaders’ a prepararsi a studiare con i loro professori le tecniche del ‘golpe morbido’. Il lavoro della CIA è stato quindi intenso, allo scopo di creare una quinta colonna contro il governo di Chàvez, e di Maduro poi. Il Venezuela è, da poco, sotto il fuoco diretto dell’imperialismo, con manovre militari e soprattutto l’embargo. Cuba soffre 70 anni di embargo e continua a resistere. Come mai la gente resiste a tutte

le mancanze di cose essenziali, cosa c’è dietro? La coscienza? La formazione della coscienza. Credo che possiamo parlare di similitudine. Sia la rivoluzione bolivariana che quella di Cuba sono rivoluzioni autentiche. Ciò che dà una grandissima forza a questi processi è l’autenticità. Sono processi che nascono dalla base, che nascono dalla cultura e dalla storia stessa di questi paesi e questo conferisce loro molta forza. È stato dimostrato che tutti questi progetti della CIA e del governo nordamericano che hanno avuto successo in altre parti del mondo non possono dare risultati in paesi come Cuba e Venezuela perché qui si tratta di rivoluzioni autentiche, perché tu puoi vincere contro un governo ma non puoi mai vincere contro un popolo. Quando un governo ha l’appoggio della maggioranza del popolo nessuna di queste manovre ha successo; io direi che ottengono l’effetto contrario, com’è successo in Venezuela con l’attacco al sistema elettrico, che ha lasciato il paese senza corrente, senza acqua, con l’intenzione di paralizzarlo e mettere in difficoltà il governo rivoluzionario: l’attacco ha avuto l’effetto che molte delle persone che erano confuse hanno capito chi era il vero nemico del loro paese. E dato che sono rivoluzioni autentiche, che nascono dalla cultura e dalla storia di un paese, questo nazionalismo, questo senso della sovranità e dell’indipendenza legittima il processo rivoluzionario, fa sì che il processo rivoluzionario cresca, aumenti, che abbia sempre maggiore appoggio e questo succede in molti luoghi del mondo, non solo in Venezuela ma quasi sempre in tutta l’America Latina. E Cuba come affronterà le nuove sanzioni, il Titolo III della legge Helms-Burton, tenendo conto che ora il Venezuela ha problemi nell’aiutare Cuba? Cuba ha molta esperienza in questo campo. Tutti dicevano che Cuba sarebbe caduta quando cadde l’Unione Sovietica e le relazioni con i sovietici erano molto più intense, più profonde, di quelle che abbiamo con il Venezuela. Quando ci fu la caduta del socialismo in Europa dell’est, la sparizione del campo socialista e dell’Unione Sovietica, il colpo fu fenomenale. Ora non è la stessa cosa, Cuba ha adesso una diversificazione economica molto grande, non dipende dal Venezuela, contrariamente a quello che dice la propaganda. Con il Venezuela abbiamo una relazione profondamente umana, compreso un nuovo modo di pensare alle relazioni tra paesi, siamo paesi fratelli, che si aiutano uno con l’altro anche nel commercio, ma Cuba ha legami con molti altri paesi e questo Titolo III, che fa parte di una legge terribile - perché io non separo mai il Titolo III dall’intera legge Helms-Burton; la legge Helm-Burton è una barbarie perché un governo straniero legifera su un altro paese, ma non solo su un altro paese ma sul mondo, è un governo straniero che sta dicendo con una legge come deve cambiare il sistema politico di un paese e che sta dicendo, passo per passo, come lo farà e noi cubani naturalmente non lo possiamo accettare perché danneggia il progetto socialista, la nazione e anche il paese stesso in quanto tale. E noi abbiamo affrontato in più di 60 anni questo tipo di problema che ci crea difficoltà, sì, ci crea difficoltà serie perché mette in pericolo gli investimenti a Cuba, ma io credo anche che ci sia un doppio aspetto in questo processo perché esso sta danneggiando molto anche gli Stati Uniti perché molti dei loro alleati fedeli sono anch’essi colpiti da questa legge. Cuba ha buonissime relazioni con il Canada, con l’Inghilterra e con

l’Unione Europea ed io non credo che l’Unione Europea accetterà che gli Stati Uniti facciano fallire i suoi affari. Per i capitalisti la cosa importante è il mondo del denaro, degli affari, e c’è una risposta forte da parte degli alleati degli Stati Uniti contro questa legge, che è davvero inapplicabile. L’effetto reale di questo Titolo III è diretto a impedire che si realizzino nuovi investimenti a Cuba. Vediamo ad esempio il problema delle navi che attraccano a Cuba. Negli Stati Uniti stessi, nessuna società nordamericana che ha affari a Cuba ha smesso di utilizzarle, perché gli agricoltori dell’est, dell’ovest e del sud degli Stati Uniti oggi dipendono molto dal commercio con Cuba, Cuba è il forse paese che compra più prodotti agricoli da questi produttori e i politici di quelle zone devono necessariamente rispondere ai loro elettori e i loro elettori stanno chiedendo loro con forza di non interrompere le relazioni con Cuba perché altrimenti ci sarebbe una grave crisi in questo settore importante dell’economia nordamericana. Ci sono società legate al turismo, società di navigazione che guadagnano molto a Cuba da anni, che dicono che si tratta di misure assolutamente folli ed io credo che ci siano cose che sono persino illogiche perché ora come fare con persone, padroni di proprietà che sono state nazionalizzate da Cuba, che effetto reale gli si può riconoscere se durante le nazionalizzazioni Cuba pagò tutti i proprietari del mondo intero, perché non c’erano solo nordamericani ma inglesi, italiani, francesi, e Cuba pagò un indennizzo per le loro imprese. I nordamericani non ebbero gli indennizzi perché il loro governo proibì loro di riceverli. Quindi, ora, che cosa pretendono? Cosa vogliono i cubani che se ne sono andati in seguito, che ora sono cittadini nordamericani, di recuperare una società, un terreno che gli è stato nazionalizzato in un determinato momento in base alla legge cubana e non di altri paesi, e anche in base a leggi internazionali che regolano queste cose, se Cuba ha agito anche in base alle leggi internazionali e ha agito in modo perfettamente legale… cosa reclamano adesso? Sulla base poi di processi che sono palesemente viziati contro Cuba! Nessuna società americana ha accettato questi processi, e neppure gli agricoltori che ci vendono i loro prodotti. Una cosa come questa non si può fermare, non conviene ad alcun

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porto degli Stati Uniti non avere uno scalo nel porto di Mariel, perché Mariel è un nodo straordinario per le rotte verso tutto il mondo: è una follia per un impresario americano non poter farne uso. È davvero suicida e inapplicabile. In questi giorni ci sono i portuali, a Genova, che rifiutano di scaricare una nave che porta armi per l’Arabia Saudita. In Italia questo è già successo anni fa: per il Vietnam e durante la 1° Guerra del Golfo. Per voi è importante la solidarietà internazionale? È vitale. Io credo che quello che può fermare questo capitalismo che si vuole imporre, con nomi differenti, chiamatelo come volete, questo capitalismo selvaggio che agisce nel mondo intero, quello che può impedire che esso trionfi è la solidarietà. Alla fine, anche se noi difendiamo i nostri paesi e lottiamo, i lavoratori del mondo intero sono una sola classe. Ci deve essere una solidarietà di classe, perché questa è la chiave della vittoria. Il capitalismo ha terrore di questo processo di solidarietà. Quello che sta succedendo in Grecia, alla Grecia e nel mondo con questo risorgere della destra… parliamo di fascismo e la gente dice “no, no è fascismo” e lo vedono come un processo ideologico indipendente dal capitalismo, e noi invece dobbiamo dire, e non sono certo io il primo a farlo, che il fascismo è una fase del capitalismo, il fascismo è lo strumento cui ricorre il capitalismo quando non ha più modo di dare soluzioni e di controllare la realtà. Ed è stato dimostrato che l’unico modo per batterlo è la solidarietà. E mai come oggi vale la famosa frase “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Così l’unità è vitale per fermare la controffensiva della destra. Secondo te, e solo secondo te, come si evolverà la situazione in Venezuela? Cercheranno una soluzione militare o continueranno a fare danni su danni e a cercare di strangolare lentamente il paese? Cercheranno di strangolare lentamente il paese. Anche se questo governo nordamericano si caratterizza per il livello di caos, intenzionale, perchè un paese che ha un alto livello di ordine e controllo non può avere un tale livello di caos. È in caos intenzionale. In questo momento il caos nel governo è incredibile, con un gruppo di consiglieri che sono i peggiori. Donald Trump è consigliato dal peggio della destra nordamericana. Non solo i peggiori in quanto reazionari ma in quanto sono inefficaci e sono molto pericolosi. Ma

un’azione militare in Venezuela sarebbe terribile per gli Stati Uniti. Primo, per la vicinanza geografica e, secondo, perché incendierebbe il continente. L’America Latina non è più quella degli anni ’60, l’America Latina di oggi è un’America Latina che è passata attraverso processi progressisti, c’è un’organizzazione e un livello di coscienza molto più alto di allora. Neppure alla destra piacerebbe. Oggi essa osa persino sfidare gli ordini di Washington, e si tratta delle posizioni e delle persone più vicine di Washington. E di questo devono tenere conto e cercheranno di far girare all’indietro l’orologio. Gli Stati Uniti oggi hanno un grave problema con il tempo e questi reazionari hanno bisogno di una vittoria in politica estera. Gli va tutto male: in Corea, in Siria, e le cose gli si complicano. È tutto fuori controllo: tutti i fenomeni, tutto il caos che hanno creato sfuggono al controllo. E non sanno come trovare una soluzione prima delle elezioni. Lo scenario è quindi completamente diverso da altre volte perché negli Stati Uniti si sta formando, adesso, un movimento di giovani che stanno cercando risposte. E ci sono giovani negli Stati Uniti che si stanno chiedendo qual è la risposta al sistema e il socialismo sta prendendo nuovamente forza, causando grandi preoccupazioni. Gli Stati Uniti hanno un problema economico molto grave, il debito estero degli USA è sempre più grande, la bolla finanziaria speculativa continua a crescere, molto più grande del 2008 e loro sanno cosa sta succedendo, stanno perdendo i mercati a favore di Cina e Russia, è una situazione molto grave e li rende più pericolosi e sono più pericolosi che mai, possono comportarsi contro ogni logica, anche se umanamente crediamo che sia impossibile, ma non credo che osino organizzare un’azione militare in America Latina. Ultima domanda: chi frequenta il nostro Centro, in maggioranza, sono operai che hanno vissuto sulla propria pelle la brutalità del capitalismo anche quando non era “selvaggio” e siamo comunque qui, lottando e cercando di fare solidarietà e di far capire alla gente che la battaglia di uno è la battaglia di tutti, che il nostro nemico è anche il loro. Cosa pensi della solidarietà degli operai italiani? Che si è perso moltissimo. L’Italia è stata vittima della guerra culturale più intensa fatta in Europa. In altri tempi l’Italia fu considerata il prossimo paese che avrebbe fatto una rivoluzione socialista e questo avrebbe cambiato la situazione del mondo. Questo il nemico lo sapeva benissimo e mise in atto tutto il possibile per fermare la classe operaia. Ora la classe operaia italiana è divisa, è divisa perché c’è un interesse perché sia divisa. Ma quest’ombra, la ragione per cui è divisa, non è una questione di principi ma di forma. E io credo che sia un fatto momentaneo. E dato che siamo comunisti, crediamo che sia un fatto momentaneo, un processo che si è sviluppato ed è importante anche che sia successo, perché così impariamo. Abbiamo tutti imparato molte cose dal passato e arriverà il momento in cui la gente cercherà l’unità. Lo pensano in molti luoghi. Io ho la possibilità di parlare, venendo dall’estero, con molti gruppi di comunisti di una tendenza, di socialisti di un’altra, e mi accorgo come tutti facciano la stessa domanda: “la classe è una e i comunisti sono tanti”. Quindi succederà. Ma se la gente non lo crede non succederà. La preoccupazione di tutta la sinistra italiana è l’unità. Se non fosse così, ci sarebbe da preoccuparsi. (intervista e traduzione di Daniela Trollio CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni, (MI)

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intervista

Presente e futuro

Con Aldo Milani, a tutto tondo, dopo la sua assoluzione nu.Tu pensi che oggi ci sia una fascistizzazione del sistema capitalista?

Michele Michelino nu. Nel 2017 sei stato arrestato con una accusa infame di estorsione, di aver incassato mazzette, e sbattuto in prima pagina su tutti i quotidiani nazionali e le televisioni per sputtanare te, il Sicobas e tutti e tutti quelli che creano conflitto con il capitale lottando per i loro interessi. Il 13 maggio 2019 sei stato assolto (ricordiamo che il PM aveva chiesto 2anni e 4 mesi di reclusione), ma i massmedia hanno riportato la notizia in poche righe su quotidiani e tv locali dimostrando di essere un’informazione di regime al servizio dei padroni. Come hai vissuto questa vicenda tu e i compagni del sindacato? Milani. In realtà con patteggiamento era già stato condannato il Piccinini e contro di me non vi era nessuna prova in quasi cinquemila pagine di intercettazione solo in sette sono citato e la sola volta che si parla di soldi che i Levoni dovevano dare lo si fa in riferimento alla nostra cassa di resistenza. In pratica Piccinini mi chiedeva quanti soldi il SI Cobas aveva sborsato per sostenere i lavoratori in lotta ed avendo risposto che erano stati spesi 30 mila euro, Piccinini mi diceva che ne aveva chiesti 60 mila ai Levoni e tutto ciò era un acconto sulla parte economica che dovevano pagare per le mancate corresponsioni in busta paga e che erano oggetto di trattativa tra gli avvocati di parte. Io rispondevo con un va bene (un niente per accusarmi di estorsione). Non c’entravo niente, ero estraneo alle mazzette del sig. Piccinini come si evidenzia dalle immagini trasmesse anche se manipolate e quindi sono stato assolto dalle accuse. Il fatto grave è che continua l’attacco repressivo perché sembra che gli avvocati di parte vogliano fare appello. In ogni caso proprio oggi il mio sindacato ha presentato una denuncia tendente a dimostrare che l’azienda LEVONI continua nella stessa politica non pagando il dovuto ai lavoratori, anche se loro (LA PROCURA, IL PADRONE) cercano di far diventare estorsione la semplice attività di contrattazione sindacale. A gennaio è stato dichiarato lo stato di agitazione per la GLS enreimpris di Piacenza, dove io non intervengo direttamente e solo per il fatto che ho firmato lo stato di agitazione, sono state depositate, da parte dell’azienda, 22 pagine di denuncia nelle quali si cerca di paragonare l’indizione dello sciopero - se non si ottiene l’incontro per una trattativa sulla applicazione contrattuale - come un ricatto e quindi una estorsione. Minacciare lo sciopero se i padroni non si attengono al CCNL significa estorsione. In pratica i padroni tendono a mettere in discussione l’attività di sciopero. Formalmente lo sciopero lo riconoscono però vogliono svuotarlo della possibilità di usare certe forme di lotta per ottenere dei risultati; questo è il loro obiettivo e stanno spingendo affinché si approvi una legge per regolare lo sciopero. Esiste il precedente dell’accordo - già firmato dai Confederali e dalla stessa USB - che tende ad impedire i veri scioperi perché prevede che si possano fare solo se hai una sostanziale maggioranza nelle RSU. Noi ad oggi non abbiamo all’interno delle aziende della logistica le RSU, ma le RSA e non firmando questo accordo tendono a non riconoscerci istituzionalmente. Noi non l’accettiamo e non abbiamo firmato accordi che tendono a regolare il conflitto. nu. I lavoratori da subito ti hanno espresso solidarietà avendo capito che ti avevano teso una trappola per fare fuori te e il SICOBAS, però abbiamo visto che questo fatto ha creato disorientamento e divisioni anche in una parte del movimento sindacale. Alcuni sindacati confederali e anche sindacati di base in concorrenza con il Sicobas hanno preso per buone e a pretesto le accuse di estorsione del padrone avallate dalla Procura e dallo Stato contro di te prendendo subito le distanze e negando anche un minimo di solidarietà. Molte organizzazioni e compagni invece da subito ti hanno espresso solidarietà. Quali sono state le cause che hanno contribuito a far cadere l’accusa nei tuoi confronti. Milani. Le cause che hanno permesso la mia assoluzione sono dipese da diverse cose. A parte la mobilitazione ci sono altri fattori del perché il giudice mi ha assolto dalle accuse. Il primo è stato senz’altro la mobilitazione dei lavoratori sin dal primo momento, già il giorno del mio arresto in tutti magazzini i lavoratori hanno scioperato dan-

Milani. Oggi non esiste un sistema fascista, c’è una tendenza alla fascistizzazione dello Stato attuata attraverso un utilizzo più accentuato della repressione. I capitalisti, nella crisi, avendo sempre minori margini di soprapprofitto per corrompere strati di lavoratori e aggregare intorno a sé il consenso della piccola e media borghesia hanno bisogno di dotarsi di strumenti di controllo e di repressione più accentuati. Lo Stato oggi, nella crisi, ha meno briciole e spazi economici per coinvolgere questi strati, quindi debbono ricorrere alla repressione dei movimenti a cominciare da quelli dei lavoratori. Davanti a questo scenario che ci vedrà più colpiti dalla repressione, diventa impellente allargare il fronte di lotta. La risposta non può più essere solo la denuncia di questo aumento della repressione, ma quella di organizzarsi di più, generalizzare la lotta dei lavoratori e delle lavoratrici, fare fronte unico!

do un chiaro segnale alla controparte. Anche nel giorno della sentenza nei magazzini spontaneamente si sono fermati per un’ora senza che ci fosse stata una chiara indicazione dell’organizzazione sindacale per indire lo sciopero, io stesso ero all’oscuro di tale decisione. Inoltre una cinquantina di persone il giorno della sentenza autonomamente hanno deciso di fare un presidio fuori dal tribunale. Anche nel nostro sindacato c’è stata una discussione perché chi non ha esperienza sosteneva che era meglio non fare dimostrazioni a Modena, così pure aveva suggerito il mio avvocato il quale sosteneva: tanto abbiamo vinto sul piano giudiziario, attenzione perché se fate qualche iniziativa in città possono usare le mobilitazioni per pronunciare una sentenza negativa. C’è stato un contrasto prima di tutto da parte mia nei confronti del mio avvocato perché con la sentenza poteva essere decisa da pregiudizio politico nei nostri confronti e quindi doveva essere il sindacato a decidere il che fare. Anche alcuni dei nostri quadri pensavano che era meglio non fare niente dal momento che l’accusa si era sgonfiata e il problema poteva essere risolto sul piano giudiziario. Invece abbiamo fatto una mobilitazione che ha permesso non solo di portare avanti la lotta su contenuti politici più avanzati, l’attacco contro di me che era stato portato avanti non era perché io non avevo fatto niente, anzi è proprio perché esercitiamo la lotta di classe contro i padroni, le istituzioni statali, per tali motivi che mi potevano condannare. I fatti dimostrano che tutte le volte che si manifesta davanti ai tribunali con una certa forza è un motivo in più per far capire le nostre ragioni e questo può condizionare in parte anche le valutazioni dei giudici. Il secondo elemento è che la giudice Musti - capo dei giudici a Modena che in prima persona si era esposta la sera stessa del mio arresto invitando altri padroni a denunciarmi per lo stesso reato, e che a detta di molti ha sempre affrontato questi processi in maniera molto reazionaria - è stata sostituita una settimana prima di questa sentenza. Non è un caso che il nuovo giudice abbia aspettato il 13 maggio un mese dopo che era finito l’ultima udienza per dare la sentenza. Io ero convinto che mi condannassero perché il PM, anche se ammetteva che avevo fatto l’estorsione a fine di bene per i lavoratori, aveva chiesto una condanna a due anni e 4 mesi di reclusione. Secondo me sono arrivati alla soluzione in senso positivo anche perché vi è stato questo cambiamento a livello di gestione della magistratura modenese: problema risolto quando l’organo supremo della magistratura ha sostenuto che questa giudice Musti aveva vinto il concorso di giudice a Modena in maniera illegale, perché avevano “truccato” la graduatoria. A Modena, a detta anche di fonti giornalistiche, c’è un gruppo di giudici appartenenti alla massoneria, legati al PD, che si sta disgregando nella misura in cui si stanno determinando altri equilibri politici del sistema di potere. La magistratura, la questura, gli organi di polizia di Modena nelle settimane precedenti alla sentenza avevano sempre avuto delle forme repressive di attacco alle lotte dei lavoratori e agli scioperi che facevamo. Anche i mezzi utilizzati dal punto di vista militare, da polizia e carabinie-

ri, sono sempre più improntati alla violenza, non sparano più lacrimogeni in aria, ma quando sei seduto per terra: questo atteggiamento è un anticipo di quello che sarà il decreto sicurezza bis. Non potrai più neanche avere in mano un fumogeno per essere condannato. Modena fa scuola, è un apripista all’accentuarsi delle azioni repressive contro gli scioperi e alle nostre forme di lotta che portiamo avanti nella logistica e questo modello si estenderà a tutti. Il terzo elemento sono le contraddizioni in campo nemico, nelle forze borghesi, nell’ultimo periodo relativo allo sciopero dell’Italpizza, la CGIL ha cominciato a prendere pozione contro una aperta repressione delle lotte. In questa azienda la maggioranza dei lavoratori è iscritta, su indicazione delle cooperative alla UIL, e per concorrenzialità, in questo caso, la CGIL si è schierata perché sia applicato il contratto in relazione alle professionalità esercitate. In più c’è stato un incontro al MISE dove l’inserimento dei 5stelle nella gestione di quel ministero ha favorito noi perché questo partito cerca di mettere in discussione la forza del PD nell’area modenese. Infatti, nell’incontro con l’azienda Italpizza al Ministero, quando la UIL ha posto il veto sulla nostra presenza perché non firmatari di contratti nazionali, il funzionario gli ha risposto negativamente sostenendo che anche il SI Cobas aveva tutto il diritto di stare al tavolo di trattativa. Questi fatti, insieme all’allargamento della lotta e del conflitto, secondo me hanno influito in parte sulla decisione del giudice di assolvermi. nu. Alla fine ti hanno assolto ma per un anno e mezzo sei stato messo alla gogna mediatica, ti hanno applicato delle restrizioni e impedito di muoverti liberamente, cosa ha comportato per te questo domicilio coatto? Milani. Il fatto di dover stare in casa senza possibilità di muovermi è stato un grosso problema, ma tutti noi che ci muoviamo sul terreno della lotta con una visone di classe dobbiamo metter in campo che andranno avanti contro le lotte operaie e la repressione sarà un dato oggettivo che aumenterà. Però, stare ai domiciliari è stato pesante non potendomi muovere sul territorio. Essendo, in questa fase, ancora il compagno che si muove di più sul piano nazionale per il sindacato, stare chiuso in casa e segnalare quando uscivo dove andavo è stato molto pesante. Un altro aspetto a proposito di repressione: Venerdì dell’altra settimana siamo stati a Napoli per un’assemblea operaia e mentre eravamo in albergo di notte del (18), si sono i presentati i carabinieri notificando una denuncia per uno sciopero fatto qualche mese prima al coordinatore del sindacato di Bologna, Simone Carpegiani, il quale aveva prenotato le camere dell’hotel. Il sistema intimidatorio, come si vede, è continuo e riguarda tutti. Anche gli altri sindacati, se si muovono su un terreno meno movimentato del nostro, se pensano di non essere toccati da questa svolta repressiva si sbagliano. Avranno anch’essi problemi di agibilità sindacale. Le scelte repressive che si acuiscono non attaccano solo il Sicobas ma tutti coloro che eserciteranno il conflitto di classe.

nu. La vostra esperienza molto radicale anche nelle forme di lotta sindacale, nonostante le conquiste ottenute dimostrano anche i limiti dell’azione sindacale basata sui rapporti di forza. Sappiamo entrambi che la lotta sindacale è necessaria per porre un argine allo sfruttamento, al peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato, ma i licenziamenti, i morti sul lavoro e tutti i mali che deve subire la classe operaia contro cui lotta ogni giorno sono solo gli effetti del sistema; la causa risiede nel capitalismo/l’imperialismo. Nel Sicobas come intendete muovervi nelle contraddizioni tra lotta sindacale e organizzazione politica, vi ponete il problema dell’organizzazione politica di classe e del potere? Milani. Posso rispondere per me non per tutti i compagni del sindacato. Anche nelle nostre tesi abbiamo cominciato ad abbozzare una prospettiva politica. A differenza del passato, faccio un esempio, negli anni ‘20 mentre si lottava per la difesa del salario, delle condizioni dei lavoratori, contro i licenziamenti ecc, i riformisti e i comunisti avevano prospettive diverse. I riformisti nello sviluppo della lotta trovavano un accordo con i padroni e il più delle volte tradivano gli interessi specifici di quelle stesse lotte, i rivoluzionari erano più conseguenti nella difesa economica e dei diritti dei lavoratori e si adoperavano per l’allargamento della lotta. Oggi invece, soprattutto negli ultimi 70 anni, dopo che c’è stata una maggiore integrazione dei sindacati nello Stato e questo è avvenuto in tutto il mondo, non solo in Italia, le piattaforme dei sindacati confederali sono dall’inizio improntate alla difesa del sistema capitalistico. Se l’economia è in crisi si debbono accettare i sacrifici ed i lavoratori devono aumentare gli indici di produttività. Questo criterio di fondo avviene per le piattaforme di tutti i settori, nei metalmeccanici, chimici e altre categorie. Era così come allora, all’inizio del ‘900 ma oggi è ancora più evidente, sostengono e rivendicano questi sindacati apertamente le esigenze dell’economia capitalista, gli interessi borghesi. Al primo posto si mette la produttività, la salute del sistema, per cui bisogna accettare sacrifici, licenziamenti e via di seguito. Essendo poi venuta a mancare, almeno negli ultimi cent’anni, un’organizzazione di classe nella forma partitica (una volta erano i partiti che erano il punto di riferimento dei sindacati) i lavoratori si presentano di fronte all’avversario senza avere una politica prospettica e spontaneamente arrivano a sviluppare una politica tradunionistica tuttalpiù cercano di supplire alla mancanza del partito compiti che hanno una valenza non puramente di contrattazione della forza lavoro. Non è un caso che noi sosteniamo che il compito del sindacato e quello di rivendicare al meglio le condizioni dei lavoratori, ma per poterlo fare bisogna definire gli obiettivi e le forme di lotta all’interno di una prospettiva anti capitalistica. Il sindacato finisce per supplire la mancanza del partito e avere un ruolo che “non è il suo”. Le nostre lotte sul piano delle rivendicazioni sono coerentemente anticapitalistiche: abbiamo ottenuto la riduzione di due giornate di lavoro all’anno, molto poco ma è in controtendenza con quello che sta succedendo in Europa. Questo però dimostra che la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro si può fare concretamente se si costruiscono delle lotte ed un fronte unitario dei lavoratori, forti aumenti sa-

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lariali, passaggi di livello non in base alla professionalità, ma agli anni di presenza nei magazzini. Tutta la lotta classe contro classe non può essere fatta solo per avere un costo più favorevole della forza lavoro e anche su questo terreno il capitalismo se le condizioni del mercato lo impongono chiude le fabbriche, la lotta deve spostarsi e allargarsi contro tutte le manifestazioni del dominio borghese. Ecco perché dei compagni si pongono non solo di portare avanti delle lotte radicali ed in senso anticapitalista, ma diventa essenziale favorire la formazione di un’organizzazione politica e non solo sindacale della classe. Tuttavia la crisi evidenzia che questo sistema ormai non può più concedere neanche queste briciole e le briciole le ottieni solo se si in grado di fare la lotta in un quadro anticapitalista. La caratteristica del Sicobas, a differenza degli altri sindacati è questa. Il sindacalismo di base sta entrando in crisi, perché nel ‘92/93 quando è nato, era una forma di critica alla democrazia all’interno delle fabbriche, ai burocrati sindacali che decidevano e i lavoratori non avevano nessun spazio, allora questo è stato un momento dirompente però oggi restando sul terreno del tradeunionismo di spartirsi un po’ le quote: meno al profitto più al salario, si resta ancorati ad una visione opportunista che non paga nemmeno più. È necessario legare la battaglia dal punto di vista economico alla necessità di sviluppare una propria organizzazione politica. Questo è e sarà un dato imprescindibile per quei lavoratori che si vorranno porre come classe nei confronti della classe borghese: dovranno porsi il problema di un attacco più complessivo al sistema capitalista. I due termini, sindacato e partito non si debbono intendere separati e non si può dire questa è solo una lotta limitata all’ambito sindacale, oppure questa è relativa all’ambito politico e riguarda quindi il partito. I due elementi non sono distinti sono strettamente collegati nella lotta operaia. L’avanguardia dei lavoratori non si conquista attraverso la propaganda delle idee. L’organizzazione politica se nascerà e, noi cerchiamo di favorirla, sarà data se saprà coniugarsi alle lotte dei lavoratori d’avanguardia. Alcuni di noi stanno lavorando per far evidenziare ed emergere la

necessità di una organizzazione politica perché ci sono tanti problemi che riguardano i rapporti fra le classi e solo una organizzazione politica può sviluppare un’azione per rendere coscienti i lavoratori. Bisogna essere dialettici, noi abbiamo un vantaggio e un handicap. Il vantaggio è che il sistema capitalistico della logistica dove operiamo maggiormente noi la composizione organica del capitale e più bassa rispetto ai diretti concorrenti, quindi più utilizzo degli uomini che dei mezzi, inoltre in Italia - a differenza degli altri paesi imperialisti nostri concorrenti che hanno avuto una maggiore forza e dominio nei paesi arretrati e una immigrazione di terza generazione - l’immigrazione è avvenuta negli ultimi vent’anni. Oggi in Italia l’immigrazione conta numeri consistenti. Abbiamo una classe operaia meno ideologizzata, meno legata ai partiti, meno sindacalizzata, diventa più protagonista delle lotte, anche se non ha una visione politica di prospettiva. Molti di loro pensano che attraverso le lotte sindacali si possano ottenere risultati duraturi, definitivi. Ma anche nella logistica nell’ultimo anno e proprio nelle aziende in cui si sono ottenute più conquiste sindacali, aumenti di salario, riduzioni dell’orario di lavoro, e migliori condizioni di lavoro è in atto una riorganizzazione del sistema padronale che sta portando alla chiusura delle aziende, questo è il capitalismo bellezza. Il risultato di questo processo è che gli stessi operai come i nostri che hanno ottenuto con le lotte da 700 a 2200/2400 euro in certi magazzini importanti non possono pensare che le cose vadano sempre bene, devono porsi il problema che sempre nel processo capitalistico la concorrenza e il processo di ristrutturazione ha conseguenze sul loro livello di vita. nu. La concorrenza divide i lavoratori e la lotta contro lo sfruttamento li unisce, tuttavia le contraddizioni nel proletariato rimangono, come convivono nel Sicobas le varie nazionalità, e con diverse religioni? Milani. L’unità nella lotta ha dimostrato la forza dei lavoratori e li ha uniti sul piano sindacale, ma il fatto che questi operai provengono da varie par-

ti del mondo fa sì che si portino dietro anche l’ideologia delle regioni di provenienza. Certo che oggi costruire un partito marxista all’interno dei lavoratori diventa un problema in un settore di classe in cui il 95% appartengono a religioni diverse. L’averli organizzati, uniti, perché c’era un razzismo anche fra loro, discutendo insieme anche delle questioni religiose, non in maniera ideologica ma rendendo evidente come gli antagonismi di classe sono inconciliabili, per noi è una battaglia politica e questo è utile anche dal punto di vista politico internazionalista. Noi oggi abbiamo 32 nazionalità all’interno del sindacato per cui il nazionalismo è un problema presente. Per esempio, molti pensano che Erdogan sia per loro un punto di riferimento, in particolare nelle aree arabe. Noi quindi c’e anche una battaglia contro questi aspetti che sono culturali, religiosi e politici che dobbiamo fare, che non è solo sindacale, ma anche politica. Noi non ci poniamo solo il problema di migliorare le condizioni sul posto di lavoro, ma il problema nostro come marxisti è quello di porre il problema dal punto di vista politico. Su questo, a livello di slogan, di concezione, di battaglie i nostri quadri cominciano e sentire questa influenza. Per molti dirsi comunisti diventa un problema. Per esempio ieri discutevamo con i compagni tedeschi del Partito Comunista m-l e loro ci dicevano che in Germania se dici che sei comunista, marxista non puoi neanche partecipare ai sindacati ma vieni espulso. Oggi per noi non è cosi, anche se diciamo che siamo comunisti, ponendoci dal punto di vista marxista per i nostri lavoratori non c’è questo problema anche negli slogan, negli interventi che fanno si stanno muovendo su quel terreno. È la materialità che li spinge a risolvere la contraddizione e quindi anche l’elemento soggettivo, l‘organizzazione politica diventa sempre più importante proprio per la direzione di questo processo. Gli stessi lavoratori cominciano a prendere coscienza della limitatezza della lotta sindacale, sia aziendale sia di settore. Noi siamo nati come sindacato fondamentalmente della logistica, andare oltre come a Modena, Napoli o altre parti è importante. Modena più di Bologna ha la ceramica, la Maserati, la Ducati, metalmeccanica, alimentare con l’Italpizza è la prima in Europa, tutta una serie di altri settori. Il 30% dei lavoratori di queste fabbriche sono immigrati, ma anche italiani e questo significa che cominciamo a incidere perché anche questi cominciano ad aderire al sindacato. Non pensiamo di allargarci e diventare da soli il sindacato di classe, ma lavoriamo in una prospettiva di fronte unico con tutti i lavoratori per fare una battaglia sul terreno complessivo che per noi diventa fondamentale. Il nostro definirci sindacato intercategoriale ha un valore in prospettiva, non è il sindacato di più federazioni, una confederazione, con il segretario dall’alto che gestisce. Noi vogliamo essere dei coordinatori di un’attività contro la delega che oggi è ancora molto forte anche nel Sicobas e mettere al centro i Cobas, deve essere il delegato che si fa attivo dal punto di vista sindacale e politico di questo processo o confronto. Anche adesso nel sindacato si tende a dare più peso ai coordinatori invece che al Cobas. nu. Il vostro slogan “se toccano uno toccano tutti” è diventata la parola d’ordine generale del movimento operaio e di lotta e questo è un grande risultato. È uno slogan che si basa sulla solidarie-

tà di classe che gli operai coscienti hanno sempre praticato e che oggi con l’acuirsi della concorrenza e la guerra fra poveri diventa ancora più importante. Tu hai detto che riconosci i limiti della lotta economica-sindacale e, quindi l’importanza di una organizzazione politica, ma i lavoratori più coscienti di cui parlavi prima cominciano a porsi il problema del Potere operaio? Del socialismo? Milani. Sì, anche se in maniera empirica. Oggi succede che con l’allargamento e la radicalizzazione della lotta alcuni pensano che questo sia possibile attraverso il sindacato. Noi stiamo lavorando per favorire il confronto sul terreno politico. Sta poi alle avanguardie dimostrare che questa è una limitatezza. Basta seguire le nostre manifestazioni anche esterne dove si vede come questo avviene. Oltre agli obiettivi della lotta economica si pongono i problemi dell’imperialismo, la presenza imperialista nelle varie aeree nei loro paesi e tutta una serie di temi, ma non si tratta solo di propagandare come è giusto che i marxisti facciano sempre. Ci vuole la capacità di far comprendere che questa lotta è all’interno delle cause che producano queste contraddizioni. Sta a noi far comprendere, e lo stiamo facendo, che dentro questa prospettiva puoi anche avere dei vantaggi sul piano economico. Ora molti lavoratori s’iscrivono al sindacato, abbiamo cinque avvocati per i servizi, come in altri sindacati, ma il nostro è un sindacato di militanti. nu. Nel mese di maggio prima in Francia e poi in Italia ci sono stati manifestazioni e picchetti dei lavoratori portuali e di comitati contro la guerra per impedire l’attracco nei porti di una nave che portava armi saudite da utilizzare nella guerra civile in Yemen, cosa pensi di questo fatto? Milani. Noi siamo solidali, a livello di denuncia anche noi lo stiamo facendo. Io pongo però l’accento sulla materialità. Anche la questione delle donne proletarie all’interno dei posti di lavoro è un problema che ci poniamo anche praticamente avendo ormai un buon numero di lavoratrici all’interno del sindacato e abbiamo fratto uno sciopero di tutti i settori questo problema. Anche su temi come quello della guerra ricordo che è la DHL quella che porta le armi per gli americani in Medio oriente e nei vari fronti di lotta, quindi la logistica è un settore fondamentale. Riuscire a fare degli scioperi internazionali significa ostacolare, agire concretamente contro la guerra non limitandosi solo alla propaganda seppur necessaria contro l’imperialismo e oggi purtroppo su questo problema siamo ancora indietro, ma ci stiamo lavorando. Infatti, nei nostri incontri nazionali poniamo sempre il problema di un collegamento anche materiale, non solo volantini e prese di posizione di denuncia. Siamo stati recentemente in Asia, in India abbiamo preso contatti come sindacato con sindacati di quei paesi perché crediamo che l’unità internazionale ci rafforzi, ad esempio il gruppo Zara produce i propri abiti in Bangladesh e in quelle’aree, lo stesso vale anche per Benetton e tutti i gruppi multinazionali. Recentemente in quell’area hanno licenziato migliaia di lavoratori perché avevano fatto uno sciopero, ecco davanti a questi avvenimenti essere in grado di far scioperare e mobilitare tutti i lavoratori del gruppo anche in Italia è fondamentale. Non è che noi ci poniamo il problema dell’internazionale per il futuro, noi cerchiamo di praticarlo già adesso, come importante è confrontarsi e discutere di questa crisi e delle lotte che si stanno sviluppando a carattere internazionale per noi è fondamentale. Intervista raccolta il 20 maggio 2019

Ucraina Un clan oligarchico-golpista ne sostituisce un altro Un risultato deciso da Washington... Al secondo turno delle presidenziali ucraine del 21 aprile, lo showman Vladimir Zelenskij, pedina dell’oligarca Igor Kolomojskij (finanziatore, tra l’altro, dei neonazisti di Pravyj Sektor) con il 73,2% dei voti ha dato cappotto al Presidente golpista uscente, l’oligarca Petro Porošenko, che ha raccolto il 24,4%. “Zelenskij è un Porošenko messo a nuovo”: questo il lapidario commento che viene dal Donbass. Difficile, in sintesi, che cambi qualcosa di sostanziale, a parte un largo rimpasto di vertici golpisti, per riempire le tasche di chi è rimasto all’asciutto in questi cinque anni. Tanto Porošenko, quanto Zelenskij sono per l’ingresso dell’Ucraina in UE e NATO e, di fatto, per la continuazione della guerra nel Donbass; il primo, da cinque anni ne massacra la popolazione; il secondo, la definisce “feccia del Donbass” e parla della resistenza all’aggressione ucraina come di una “terribile, crudele e ributtante azione” delle milizie, mentre proclama

che “nessuno avrà indulgenza per i banditi!”. Al pari di Porošenko, ammette l’ucraino quale unica lingua di Stato, ignorando tutte le minoranze linguistiche del paese e, come lui, proclama “eroe dell’Ucraina” il filo-nazista capo di OUN-UPA, Stepan Bandera. Unica novità: il giorno successivo alla proclamazione dei risultati, sono iniziati gli avvisi procedurali e il “repulisti” contro l’entourage di Porošenko. Ai piani di Zelenskij di respingere i punti cardine degli accordi di Minsk per por fine alla guerra nel Donbass, Mosca ha risposto con la semplificazione delle procedure per la concessione dei passaporti, prima agli abitanti delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk e, poi, a tutti gli ucraini. Sul lato della “legittimità”, il voto è stato negato ai tre milioni di ucraini rifugiati in Russia dopo il golpe del 2014 e agli oltre 3,5 milioni di abitanti di DNR e LNR. Ovviamente, il risultato era de-

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ciso da tempo e al di fuori dell’Ucraina. Se Parigi è intervenuta apertamente a favore di Zelenskij, alla fine il risultato è stato deciso da Washington, che ha silenziato ogni appoggio ufficiale all’uno o l’altro candidato. Solo a ridosso del voto, il rappresentante speciale USA Kurt Volker ha dichiarato chiaro e tondo che “gli USA sono arrivati in Ucraina per rimanerci a lungo”, perché, contro la Russia, vogliono una “forte Ucraina, nei vecchi confini”. E, già il 4 aprile, la rappresentante regionale della Banca Mondiale si era rivolta proprio a Volker prefigurando la probabile vittoria di Vladimir Zelenskij al secondo turno, disegnando il futuro assetto dell’Ucraina e dettando le relative cariche ministeriali. Quando si dice la “sovranità del paese”... fp

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imperialismo e guerra

Bambini a perdere

Se il socialismo a molti sembra essere uno scenario lontanissimo noi continuiamo a pensare che sia l’unico sbocco possibile per mettere fine, oltre che allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, anche agli orrori della guerra e alla probabile distruzione dello stesso pianeta – la barbarie è qui, ogni giorno Daniela Trollio (*) Se la prima vittima delle guerre (e quando parliamo di guerre ci riferiamo a quelle imperialiste) è la verità, la seconda sono certamente i bambini, nonostante la loro uccisione sia vietata dal diritto internazionale. Proprio nel periodo storico in cui tutti parlano e sparlano dei “diritti umani”, Save the Children (di cui utilizzeremo i dati ben sapendo che sono parziali, ma sono gli unici a disposizione e che queste organizzazioni hanno anche loro “interessi” particolari) calcola che i bambini che vivono in aree di conflitto siano 420 milioni, uno su cinque al mondo. I dati del 2017 indicano che siano almeno 10.000 i bambini uccisi o mutilati a causa dei bombardamenti e che circa 100.000 neonati perdano la vita ogni anno per cause dirette o indirette delle guerre, come malattie e malnutrizione. Nel 2018 4,5 milioni di bambini hanno rischiato di morire per fame nei 10 paesi più coinvolti in conflitti: Afganistan, Yemen, Sudan del Sud, Repubblica Centroafricana, Repubblica democratica del Congo, Siria, Iraq, Mali, Nigeria e Somalia. I bambini, da sempre, rappresentano il futuro del genere umano. Ma non tutti siamo uguali e alcuni sembra abbiano meno diritti di altri ad avere un futuro. Così come ci sono attualmente molti modi di chiamare le guerre – intervento militare, intervento “umanitario”, guerra ibrida, guerra di 5° generazione ecc. ecc. – così ci sono molti modi per uccidere i bambini. Vediamone alcuni esempi, anche per fare un sano esercizio di memoria.

Cuba e Venezuela

Due paesi che hanno – e stanno – sperimentando molte forme di guerra. Dall’invasione armata (Playa Giròn 17-19 aprile 1961 a Cuba al tentativo di invasione al ponte di Cùcuta al confine tra Colombia e Venezuela l’11 febbraio di quest’anno al ‘bloqueo’, che è forse l’arma più spietata di cui l’imperialismo dispone. Più spietata perché non viene considerata un’azione di guerra. Come agisce quest’arma sulla vita, la salute, la morte dei bambini? Il bloqueo, ad esempio, impedisce attualmente a Cuba di acquisire attrezzature e prodotti fondamentali per curare i piccoli pazienti affetti da cardiopatie. Nel 2007 il Dipartimento del Tesoro USA ha inserito il Centro Nazionale di Cardiologia e Cardiochirurgia Pediatrica “William Soler” dell’Avana nella lista dei nosocomi non riconosciuti. Così l’ospedale, che ha curato circa 10.000 piccoli pazienti dalla sua fondazione nel 1986, deve sottostare a severe restrizioni nell’acquisto della tecnologia e dei medicinali di ultima generazione necessari, obbligando i medici ad utilizzare tecniche chirurgiche diverse poiché Cuba non può comprare sul mercato nordamericano sonde vescicali, tracheali, cateteri e stent. Il Venezuela aveva recentemente stabilito un accordo con il nostro paese – sì, proprio con l’Italia – in base al quale un gruppo di bambini, malati di leucemia, avrebbero ricevuto trapianti di midollo osseo. Peccato che, come ha denunciato qualche settimana fa il cancelliere venezuelano Jorge Arreaza, su richiesta nordamericana il Novo Banco, una banca portoghese, ha bloccato i fondi venezuelani là depositati a questo scopo.

Striscia di Gaza

Non parleremo qui delle vittime dirette dei bombardamenti, dei feriti o di coloro che subiscono amputazioni, o dei bambini incarcerati in spregio a tutte le norme internazionali, oltre che alla morale comune. Solo una cifra: dal marzo al maggio dell’anno scorso, durante le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, sono morti oltre 1.000 bambini negli scontri (secondo l’Unicef). Vogliamo invece segnalare altri fattori. L’acqua, fonte di vita, è diventata per i bambini palestinesi una causa di morte. L’assedio economico, i continui e ripetuti bombardamenti di Israele sulle infrastrutture idriche e fognarie hanno causato un enorme aumento delle malattie trasmesse dall’acqua contaminata: diarrea, epatite, salmonella e febbre tifoide, che colpiscono principalmente i più piccoli. A Gaza il 95% dell’acqua, secondo l’Unicef, non è adatta al consumo umano. La mortalità infantile palestinese è di 7 volte maggiore di quella israeliana. L’85% delle risorse idriche palestinesi sono state dirottate dagli israeliani verso gli insediamenti dei coloni sionisti e così questa risorsa, nel più grande campo di concentramento a cielo aperto del mondo, è diventata la principale causa della mortalità infantile. In tutta la Palestina, 8.000 bambini e 400 insegnanti hanno bisogno ogni giorno di essere protetti per andare a scuola perché devono attraversare insediamenti ebraici e checkpoint.

Yemen La guerra più “dimenticata”, di cui non parla mai nessuno nonostante sia stata definita come la più grande catastrofe umanitaria al mondo. Iniziata nel 2015, vede una coalizione di 9 paesi arabi guidati dall’Arabia Saudita e sostenuti dagli Stati Uniti contro i ribelli del nord, gli Houti. Oltre alla guerra dichiarata contro il paese più povero del Medio Oriente – che ha però una posizione strategica perché da lì passa il controllo del Golfo di Aden - la coalizione ha messo subito in atto un blocco economico feroce

e l’Arabia Saudita si è sempre opposta anche alla creazione di corridoi umanitari per soccorrere i civili. Risultato: il ritorno di una malattia quasi debellata come il colera, che ha fatto 500.000 vittime, la maggior parte di esse bambini. Qui viene utilizzata un’altra arma di guerra: la fame, nell’indifferenza dell’opulento mondo capitalista e delle istituzioni nonostante Ban Ky Moon (ex segretario ONU) avesse affermato nel 2016 che “la morte per fame utilizzata come arma rappresenta un crimine di guerra”. Sempre le “stime prudenti” di Save the Children riferiscono che circa 85.000 bambini sono morti di fame o di malattia dall’inizio del conflitto. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, a causa della guerra in corso, l’80% dei bambini ha bisogno di assistenza umanitaria. Un ultimo dato: ogni 10 minuti in Yemen muore un bambino per denutrizione. Ci siamo dilungati su questa guerra dimenticata perché, tra le bombe fornite alla coalizione, spiccano quelle prodotte nel nostro paese, più precisamente quelle della Rwm Italia S.p.A., la filiale italiana del conglomerato tedesco Rheinmetall, con sede a Ghedi e fabbrica a Domusnovas, in provincia di Carbonia. “L’Italia rifiuta la guerra” dice la nostra Costituzione, ma gli affari delle multinazionali non vanno fermati.

Afghanistan e Iraq

Afghanistan. L’ONU ha iniziato il conteggio dei civili morti solo nel 2009 (la guerra NATO iniziò nel 2001) e riporta la cifra di 28.000 morti e 52.000 feriti. È quindi ben difficile stabilire la conta dei morti, anche se stime indipendenti calcolano che in Iraq e in Afganistan siano morti almeno 4 milioni di persone. Comunque i bambini, secondo l’ONU, costituiscono l’89% delle vittime civili da residuati bellici, vittime che aumenteranno visto che Donald Trump ha dichiarato fin dall’inizio del suo mandato che la strategia nordamericana si sarebbe basata sull’incremento degli attacchi aerei. Una pesante ipoteca anche sul futuro, visto che tutti ritengono impossibile lo sminamento del paese. Iraq. Cifre dell’Onu mai contraddette stimano che in Iraq solo le sanzioni occidentali abbiano causato la morte di circa 1,7 milioni di civili: la metà delle vittime erano bambini. Del resto Madeleine Albright, segretaria di Stato della democratica amministrazione Clinton, alla domanda: “Abbiamo saputo che sono morti più mezzo milione di bambini, più di quanti ne uccise la bomba di Hiroshima. Valeva la pena far pagare un simile prezzo?” rispose candidamente, evidentemente certa dell’impunità, “Credo che sia stata una scelta molto difficile, ma quanto al prezzo, pensiamo che ne valesse la pena”. Oltre alle vittime dirette della guerra, vanno conteggiate quelle causate dalla distruzione delle infrastrutture, soprattutto quelle dell’acqua e dalla distruzione mirata di ospedali e scuole. Per entrambi i paesi (non dimentichiamo il precedente vicinissimo a noi: la guerra in Yugoslavia) c’è anche una pesantissima eredità lasciata alle generazioni future: l’uso di armi all’uranio impoverito, uranio arricchito, fosforo bianco e altre, non solo vietate ma sconosciute alla letteratura scientifica, con il loro carico di aborti, deformazioni congenite, aumento esponenziale dei tumori ecc. Lasciamo ora questo (ridottissimo e limitatissimo) catalogo degli orrori – cui andrebbero aggiunti i caduti della guerra in atto oggi contro i rifugiati, oltre che ad altre guerre come quella contro la

Siria - per farci una domanda. Perché questo accanimento contro i bambini? Non solo perché oggi la guerra è cambiata: lo scenario principale non sono più – ormai dalla 2° guerra mondiale - i campi di battaglia, ma le città e i centri di vita sociale, le infrastrutture, tutto ciò che si è costruito in anni e anni. Ma soprattutto, perché sono cambiate le forme della rapina imperialista. Sempre più cieca, la logica del profitto mira solo ad impadronirsi delle risorse di altri popoli e, date le continue crisi di sovrapproduzione, ha sempre meno bisogno dell’esercito di riserva, che rimane comunque – grazie a quanto abbiamo detto sopra – sterminato. Quindi non ha più bisogno di investire le poche briciole del passato sul futuro dei popoli e delle classi che sottomette, rappresentato dai bambini. Le guerre imperialiste depredano le loro vittime di quello che hanno, di quello che sono e di quello che potrebbero essere: in questa ottica ricordiamo la resistenza palestinese, tre generazioni di giovani che continuano la battaglia dei loro nonni e padri, diventando un pericoloso esempio come lo sono le giovani generazioni di cubani che, pur isolati in un mondo a maggioranza capitalista e castigati con il più lungo embargo della storia, continuano a resistere e a costituire un esempio del fatto che “si può” lottare e vincere. Le vittime, quindi, non sono affatto un “danno collaterale” ma un elemento essenziale delle guerre imperialiste. Ma non è carino e provoca problemi nell’opinione pubblica dire che i governi imperialisti fanno la guerra per il petrolio o per altre risorse vitali per i capitalisti: così i bambini iracheni dovevano essere protetti dal tiranno Saddam Hussein quando si affermava che “staccasse le spine delle incubatrici”, ma non meritano neanche una parola quando muoiono sotto le “nostre” bombe. Le vittime hanno solo un valore strumentale, sono il pretesto preferito per attuare la rapina selvaggia di paesi e popoli. Lo stesso vale per la lunga lista di “tiranni” costruiti a tavolino, ultimo della serie Nicolàs Maduro, legittimo presidente del Venezuela, cui si pretende di portare “aiuti umanitari” mentre si rubano le riserve finanziarie del paese depositate all’estero. Due parole ancora su quello strumento delle guerre imperialiste particolarmente infame che sono le sanzioni, gli embarghi e i “bloqueos” che, in quanto rivolti non certo contro i governi che si vogliono abbattere ma contro la popolazione civile ed i bambini in particolare (di solito infatti vengono bloccati per primi cibo e medicine). Come ben sanno i cubani, i palestinesi, gli iracheni, i venezuelani e forse domani anche gli iraniani, queste misure sono solo uno strumento di castigo dei popoli che non si ribellano ai “tiranni” costruiti dall’Occidente imperialista. Molte volte abbiamo ripetuto su queste pagine le parole di Rosa Luxemburg, “Socialismo o barbarie”. Se il socialismo a molti sembra essere uno scenario lontanissimo – ma noi continuiamo a pensare, ogni giorno di più, che sia l’unico sbocco possibile per mettere fine, oltre che allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, anche agli orrori della guerra e alla probabile distruzione del nostro stesso pianeta – la barbarie è qui, ogni giorno. Continueremo inerti a farci derubare anche del futuro? (CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)

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imperialismo

Alleanze militari

1949-1999-2019: i criminali anniversari della NATO dell’Est europeo nell’orbita del mercato mondiale. Nella creazione dello “Stato del Kosovo” sono confluiti gli “interessi del governo USA, delle multinazionali americane e quelli della mafia albanese e del terrorismo internazionale”. Tempo fa, il sito colonelcassad riportava la testimonianza dell’ex agente della CIA Robert Baer, secondo cui negli anni 1991-’94 la sua sezione disponeva di milioni di dollari per le attività in Jugoslavia, tese a favorire la secessione delle varie repubbliche. La prima operazione fu nel gennaio ‘91, contro “presunti terroristi serbi a Sarajevo; ma tali terroristi non esistevano affatto”, dice Baer, e i vertici della CIA “miravano ad attizzare gli odii interetnici in Jugoslavia; si doveva scegliere un capro espiatorio da incolpare di guerra e violenza: fu scelta la Serbia, in qualche modo successore della Jugoslavia”.

Fabrizio Poggi La NATO ha celebrato in tono minore il 70° anniversario della fondazione: i crescenti dissidi interni rischiano di oscurare la stessa immagine del “nemico esterno”, che soprattutto gli Stati Uniti tentano di mantenere in primo piano, allo scopo di conservare la propria supremazia sugli “alleati” europei. Al centro di tutto, ci sono le contraddizioni tra poli imperialisti mondiali e, all’interno di essi, tra potenze in declino e in ascesa. Il duopolio franco-tedesco in ambito UE ne è l’espressione più appariscente, anche se non l’unica, con Washington che minaccia rappresaglie contro la Germania per la scelta della tecnologia cinese 5G; che introduce dazi sulle merci dei paesi (Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna) che partecipano al progetto “Airbus”; che avverte Berlino di orientarsi verso il gas di scisto americano e abbandonare il “North Stream 2” con la Russia; che mostra il pugno alla Merkel per la spesa militare “troppo bassa” - 1,3% del PIL, invece del 2% preteso da Trump. A ovest, la NATO vuol trasformare gli alleati latinoamericani degli USA in propri bracci operativi, come già fatto con la Colombia, “partner” dell’Alleanza atlantica dal 2017 e come si sta prospettando con il Brasile del fascista Jair Bolsonaro. A un’altra longitudine, Washington punta alla Alleanza per la sicurezza in Medio Oriente, detta “NATO araba”, con Giordania, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Bahrain, Oman, Kuwait e Qatar. Quanto ci costa la NATO La NATO conta 29 Paesi membri (di cui 27 in Europa) e si dà quasi per acquisita la Macedonia; tra questi, la classifica dei 15 con il più alto bilancio militare nel 2018, va dagli Stati Uniti, con 684 miliardi di dollari, alla Danimarca, con 4,2. L’Italia è quinta, con 25,3 miliardi di dollari, dietro a Gran Bretagna (61,6 mld $), Francia (51,2) e Germania (50,2). Le percentuali in rapporto al PIL, vanno dagli USA con il 3,39%, fino a Germania e Canada (1,23%) e Italia (1,15%). Con una popolazione complessiva di circa 570 milioni di persone, per portare guerre in qualsiasi parte del mondo, nel 2018 ogni cittadino yankee ha dovuto sborsare 2.088 dollari, un norvegese 1.364 $, 602 un tedesco, 428 $ ogni italiano. Secondo possibili futuri scenari tracciati dal NATO Defense College, non si esclude una crescente disunione politica tra gli Stati membri, una regionalizzazione della NATO e un suo ruolo sempre minore nelle questioni mondiali, fino alla perdita delle proprie posizioni geopolitiche. Da qui, la presenza sempre più estesa delle forze USA in Europa e i tentativi di coinvolgere i Paesi membri nella contrapposizione statunitense con la Russia, la Cina o nelle azioni di guerra in Medio Oriente.

La necessità di un nemico Insomma, la NATO e, soprattutto, gli USA, hanno il costante bisogno di presentare un nemico contro cui – o evocando il quale – mantenere un’unità interna altrimenti molto instabile. Dice il politologo russo Dmitrij Abzalov: “la presenza del nemico è la principale componente organizzativa del blocco politico. Se Mosca cessasse di essere un potenziale avversario, si porrebbe la domanda: a chi si oppone il blocco militare?”. Anche secondo il politologo Alexandr Asafov, alla NATO conviene

Srebrenitsa

considerare la Russia “erede dell’Unione Sovietica”: questo, nonostante il Patto di Varsavia, creato nel 1955, non esista più dal 1991. Ma gli alleati europei della NATO, dice Abzalov, iniziano a stancarsi: lo dimostrano i passi franco-tedeschi per un “esercito europeo” e i piani UE per l’incremento della presenza nelle zone di conflitto in Africa e Medio Oriente. In ogni caso, dopo l’inglobamento di quasi tutti i Paesi ex socialisti e di diverse ex Repubbliche sovietiche; messa ora un po’ in sordina la battaglia contro il terrorismo islamista e mentre emerge con sempre più forza quella contro la Cina, la “lotta contro Mosca” continua a venir sbandierata quale obiettivo cardine dell’Alleanza, come nel 1949. Un obiettivo sintetizzato nelle parole del suo primo Segretario generale, il barone britannico Ismay, secondo cui la NATO esiste per tenere gli americani in Europa, i sovietici fuori dall’Europa e i tedeschi sotto l’Europa. Poi, messe in soffitta le famose “assicurazioni” fatte nel 1990 da James Baker a Mikhail Gorbaciov, secondo cui “la sfera di influenza della NATO non si sposterà di un pollice verso Est”, il generale USA Joseph Votel aveva tranquillamente vociferato che “obiettivo della Russia è quello di non farsi accerchiare dalla NATO; quello della NATO è fare proprio questo”. E lo ha fatto, con i battaglioni multinazionali in Paesi baltici e Polonia, i sistemi missilistici in Romania, le basi militari (NATO e USA) attorno ai confini terrestri e marini sud-nord-occidentali della Russia. Ma, settant’anni più tardi, oltre l’impennata del 2014, col golpe nazista in Ucraina e la recente questione del ritiro di USA e Russia dal trattato sui missili a medio e corto raggio in Europa, sembra che proprio i tedeschi, lungi dall’esser rimasti “sotto l’Europa”, rappresentino per la NATO una minaccia più seria della Russia, per le mire teutoniche di supremazia nel polo imperialista europeo e la sempre minore sottomissione ai dettami yankee, in campo energetico e militare.

L’aggressione alla Jugoslavia Insomma, una celebrazione, quella del 70°, svoltasi lo scorso 4 aprile a Washington, ben diversa da quella “monoliticità” che sembrava cosa acquisita, ad esempio, vent’anni fa, quando proprio la Germania del governo “rosso”-verde di Gerhard Schröder e Joschka Fischer (ma anche a Londra sedeva il laburista Tony Blair, a Roma Massimo D’Alema e Segretario generale NATO era il “socialista” spagnolo Javier Solana) fu tra i paesi più solerti nella criminale aggressione alla Jugoslavia. Un anniversario, quello dei bombardamenti su Belgrado, iniziati il 24 aprile 1999, che la NATO si è guardata bene dal ricordare. Per 78 giorni, con l’operazione “Allied Force”, su Belgrado, Priština, Užitse, Novi Sad, Kragujevats, Pančevo, Podgoritsa e altre città della Jugoslavia si abbatterono tremila missili da crociera, 80mila tonnellate di bombe, comprese quelle a grappolo e a uranio impoverito, tanto che ancora oggi, in Serbia, su 7 milioni di popolazione, ci sono 40mila malati di cancro e l’incidenza del male nei bambini è di 2,5 volte superiore alla media europea. I bombardamenti, in quella che fu forse la prima “guerra umanitaria” della “nuova” Europa (in violazione della Carta ONU e persino degli obblighi dei Paesi NATO) provocarono oltre mille morti tra i militari e 4mila civili, tra cui circa 90 bambini, con oltre diecimila feriti. Gli aerei NATO (di USA, Gran Bretagna, Francia, Spagna, Paesi Bassi, Belgio, Canada, Turchia, Italia e Germania) decollati dalle basi in Italia, e i missili lanciati da navi e sommergibili della VI Flotta in Adriatico e Ionio, colpirono non solo obiettivi militari, ma soprattutto edifici residenziali, amministrativi e governativi, radio e giornali, scuole, ospedali, cliniche ostetriche, ponti, treni passeggeri e autobus, strutture industriali, chiese, mercati. Con l’inizio dell’aggressione, i terroristi albanesi lanciarono in Kosovo un attacco generale, equipaggiati con ar-

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mamenti e le più recenti attrezzature di comunicazione satellitare, dono della missione OSCE. I tagliagole dell’UCK, spalleggiati dai gruppi terroristici islamisti, affluiti da paesi arabi e dalle aree centro-asiatiche dell’ex URSS, si diedero a pulizie etniche, distruzioni di chiese, rapimenti di serbi per il commercio di organi e tutt’oggi il Kosovo è al centro del riciclaggio di denaro sporco, traffico d’organi e funge da retrovia per operazioni sporche di ogni tipo, anche con la partecipazione di reparti jihadisti, funzionali ai disegni USA e NATO. Il politologo russo Andrej Medvedev scriveva qualche settimana fa che “con l’esempio della piccola Serbia, l’Occidente ci ha mostrato cosa sarebbe successo a noi; solo una circostanza non ha loro permesso di condurci sullo scenario jugoslavo: l’arma nucleare. La Jugoslavia è un esempio di ciò che si fa agli indifesi; di ciò che accade a un paese con un’élite filooccidentale”. Lo scorso 18 marzo, il Presidente serbo Aleksandar Vučić – peraltro ora sotto attacco concentrico di un’opposizione interna simile a quella antecedente il golpe ucraino del 2014 e dei separatisti del Kosovo, eredi dei tagliagole dell’UCK – ha dichiarato che la Serbia “può perdonare l’aggressione NATO, ma non può dimenticarla. Desideriamo buoni rapporti con la NATO, ma non vogliamo entrarvi”. Un anno fa, i sondaggi indicavano che il 62% dei serbi non ha perdonato l’aggressione NATO e non accetterebbero nemmeno le scuse, mentre l’84% è contrario all’adesione all’Alleanza atlantica. La politologa moscovita Elena Ponomareva dichiara che l’aggressione NATO del 1999 non fu che “la fase finale della strategia per il controllo occidentale sui Balcani. La Casa Bianca aveva messo a punto i piani per la distruzione della Jugoslavia molto prima del 1999. Nel 1984, l’amministrazione Reagan aveva emesso la direttiva NSC n. 133 per una “tacita rivoluzione” volta a rovesciare i governi comunisti e “far rientrare i paesi

A proposito di Srebrenitsa, Baer afferma che il “numero delle vittime serbe non fu inferiore a quello di altre nazionalità, ma Srebrenitsa doveva essere un “marketing politico”. Un mese prima del presunto genocidio, il mio boss disse che la città sarebbe stata la principale notizia in tutto il mondo e ci ordinò di contattare i media. Srebrenitsa ricade su bosniaci, serbi e americani; ma di tutto furono accusati i serbi. Molte delle vittime sepolte come musulmani erano serbi e di altre nazionalità”. Srebrenitsa fu il risultato di un “accordo tra il governo USA e i politici bosniaci: fu sacrificata per dare all’America il pretesto per attaccare i serbi: fu la “linea rossa” di Bill Clinton”. La giustificazione ufficiale dell’aggressione del 1999 continua a essere quella della “difesa della popolazione albanese del Kosovo”, ma lo scorso ottobre, il Segretario generale NATO, Jens Stoltenberg, ammise candidamente che essa fu compiuta “per prevenire ulteriori azioni del regime di Miloševič”, fatto poi morire in carcere nel marzo 2006. Sono “giustificazioni abbastanza risibili” ha commentato la storica russa Irina Rudneva; “cercano di convincere i serbi che tutto è stato fatto per il loro bene. Ma ora viene detto che avevano semplicemente deciso di rimuovere Miloševič e sostituirlo con uno più adatto”. Ricordo, scrive l’osservatore della Tass Andrej Šitov, come un anno dopo i bombardamenti NATO su Belgrado, il Comitato newyorkese per la difesa dei giornalisti presentasse l’annuale rapporto sulla morte dei lavoratori dei media nel 1999; per la Jugoslavia erano indicate sei persone: tre corrispondenti cinesi uccisi dal missile NATO che aveva colpito l’ambasciata della RPC a Belgrado, due reporter tedeschi in Kosovo e un editore serbo, ucciso da ignoti. Ma lo stesso Comitato aveva ammesso che il 23 aprile 1999, 16 persone erano rimaste uccise nel bombardamento dell’edificio della TV di Stato serba a Belgrado; quando chiesi come mai queste persone non fossero state inserite nel martirologio professionale, il coordinatore europeo del Comitato, Emma Gray, rispose che era stato deciso di non “considerarli giornalisti”, perché, disse, “prendevano parte alla propaganda della violenza”. Quanti degli italici propagandisti dovrebbero esser considerati non giornalisti!

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lettere La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo

La NATO, potente strumento di guerra e non solo Da poco è stato il 70 anniversario della NATO che continua a svilupparsi pericolosamente in tutta Europa e non solo, che militarizza gran parte del nostro territorio e ci costringe a pagare milioni ogni giorno per mantenerla, come voi spesso denunciate, e ne pretende sempre di più, che provoca e sostiene guerre distruttive in ogni parte del mondo, ad esempio come in Ucraina e nel Kosovo. Dietro questa Alleanza militare - che ha sempre condizionato gli affari interni dell’Italia - ci sta tutto l’anticomunismo della dittatura del capitalismo già da quando è nata nel 1949 ai tempi della guerra fredda, grazie alla DC di DeGasperi e del Vaticano, e gli Stati Uniti vedevano in Italia il pericolo comunista non prevedendo che in seguito Berlinguer avrebbe apprezzato l’”ombrello NATO”. Infatti ha avuto un ruolo anche nei vari tentativi di golpe e sostegno delle organizzazioni paramilitari clandestine e la preparazione dei gruppi fascisti nelle Basi come Camp Darby. Ciò che mi stupisce è che tutto quello che rappresenta NATO non sia di dominio pubblico e non si sviluppi un movimento, forse anche perché neppure i partiti della cosiddetta sinistra se ne occupano. Ma non è un bene tenersi la NATO in Italia! Mario Franchi

Firenze ha dato il suo benvenuto a Salvini

È stata davvero una sorpresa la mobilitazione contro il comizio di Salvini e del candidato a sindaco della Lega a Firenze. Militanti di vari gruppi, antifascisti, semplici democratici si sono ritrovati in piazza insieme ai centri sociali che in genere “fanno paura”. È stata una bella serata perché ha rintuzzato Salvini e la Lega salvaguardati da centinaia di poliziotti che non hanno mancato qualche manganellata. È vero che Salvini è contestato in tante parti d’Italia ma ha stupito questa mobilitazione così eterogenea perché ha dato l’idea che in molti sono coscienti del momento di fascismo strisciante che non è solo quello dei soliti fascistelli di Casapound, Casaggi, Forza nuova ma che è anche rappresentato da chi gestisce il capitale come fa anche l’attuale governo. Tutti stufi dei continui slogan beceri e decisioni autoritarie di Salvini e della retorica sulla famiglia, la demagogia sul “prima gli italiani” ecc. E nonostante - o forse per questo - Firenze, città pilota, per le ordinanze del Sindaco e del prefetto e il provvedimento per 17 zone rosse, cioè zone vietate a chi ha una denuncia - non una condanna! - si è meritata l’apprezzamento di Salvini che auspica si faccia altrettanto in tutto il resto del Paese. Piccola annotazione: non è proprio lui che vuole abolire i prefetti? Mariangela Semeria

Ma dove sono i navigator?

Tecnologia e disoccupazione cara nuova unità il signor Marco Bentivogli, che spesso sento in tv, di professione sindacalista antimarxista e anticomunista, non riesce a capire che con la tecnologia si producono più merci in meno tempo e con meno lavoratori; è per questo che la disoccupazione tende ad aumentare e non perché i lavoratori non sono formati ai nuovi lavori tecnologici. A meno che non si pensi che si possa aumentare la produzione (che è cosa diversa dalla produttività) oltre ogni limite e che gli imprenditori siano disposti a raddoppiare i salari dei lavoratori onde poter vendere tutte le merci che si producono e a meno che non si pensi che il nostro pianeta possa sostenere una crescita illimitata dei consumi! Marco Bentivogli non riesce a capire che la contraddizione antagonistica tra capitale e lavoro continua ad esistere anche se non siamo più nel ‘900 e continuerà ad esistere fino a che esisterà il capitalismo, a dispetto del lavoro che cambia. L’innovazione tecnologica ci spingerà oggettivamente verso la rivoluzione socialista e comunista perché renderà impossibile ai capitalisti la realizzazione di un tasso di profitto sufficiente o soddisfacente, posto che il plusvalore-profitto è prodotto dagli operai e non dalle macchine, le quali ammortizzano solo il loro valore, per quanto tecnologicamente avanzate possano essere. I capitalisti comunque che sostituiscono i lavoratori proletari con i robot non potranno certo poi vendere ai robot le merci fabbricate dai robot! La crisi del capitalismo che è ormai strutturale lo sta già dimostrando. La rivoluzione tecnologica, il socialismo, il comunismo, libereranno l’umanità dal lavoro necessario. Perché l’umanità ha bisogno prima ancora che del lavoro dei prodotti del lavoro. Mario Rossi Imperia

Si dice che vengono assunti 6 mila navigator determinanti per il funzionamento del reddito di cittadinanza. Io penso che sarà l’ennesimo buco nell’acqua in un sistema che non funziona. Chi li forma? Come fanno a trovare lavoro ai disoccupati? E chi ci dice che se trovano lavoro non privilegino parenti e amici o loro stessi? E poi perché continuare a prendere il peggio che c’è dall’estero e utilizzare anche i termini inglesi? Francesco Milos Latina

La Resistenza nei campi di concentramento Ho letto che nel 1941 quando i nazisti avevano occupavano un paese dopo l’altro e con l’invasione dell’URSS sembrava crollasse il mondo, a Mauthausen prese forma una sorta di organizzazione. Quando il 22 giugno l’amministrazione del campo decise di “disinfettare” il campo costringendo tutti i prigionieri, nudi, nel freddo intenso, nei “garage”, i membri del Partito Comunista di Spagna si resero conto che dovevano organizzarsi all’interno del campo. Hanno formato un nucleo del comitato internazionale di Mauthausen eleggendo otto compagni con lo scopo principale di mantenere alto il morale e sostenere i principi politici nel mezzo della barbarie cercavano di far capire l’importanza della lotta all’interno del campo, per mantenere la solidarietà e dare speranza. Nel 1942, nel bel mezzo degli omicidi e delle torture, la conoscenza della resistenza sovietica e la successiva sconfitta dei nazisti in Stalingrado rafforzò la fiducia tra coloro che avevano scelto di reagire. L’organizzazione clandestina intensificava e accelerava il suo lavoro fino alla liberazione del campo. Questa esperienza non appare nella storiografia ufficiale. Forse perché è preferibile dipingere i prigionieri come sconfitti, impotenti, ignoranti e sottomessi? Claudia Fabiani

Memoria 16 aprile 1961, L’Avana: durante il funerale delle vittime dei bombardamenti dei giorni precedenti, Fidel Castro proclama il carattere socialista della Rivoluzione cubana: “Quello che gli imperialisti non ci possono perdonare è la dignità, l’integrità, il valore, la fermezza ideologica, lo spirito di sacrificio e lo spirito rivoluzionario del popolo di Cuba. … E che questa Rivoluzione socialista la difenderemo con questi fucili! E che questa Rivoluzione socialista la difenderemo con il valore con cui ieri i nostri artiglieri antiaereo hanno mitragliato gli aerei aggressori. E questa Rivoluzione, questa Rivoluzione, noi non la difendiamo con mercenari; questa Rivoluzione la difendiamo con gli uomini e le donne del popolo. … E che questa Rivoluzione socialista la difenderemo con questi fucili!»! 16/17 aprile 1975, Milano: Claudio Varalli viene assassinato a pistolettate da un fascista sanbabilino; Giannino Zibecchi, il giorno dopo - nel corso di un corteo di protesta per l’assassinio di Claudio che si dirige verso la sede del Msi di via Mancini - viene assassinato dai carabinieri durante una carica con i camion.

nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) anno XXVIII n. 3/2019 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone

25 aprile 1974, Lisbona: la radio portoghese trasmette la canzone “Grandola, vila morena”, proibita dal regime salazariano. È il segnale concordato che fa scoppiare, nell’Occidente sviluppato, nella penisola iberica dominata dal fascismo, la “Rivoluzione dei Garofani” guidata da Vasco Goncalves. Comincia così il processo di de-colonizzazione nei possedimenti portoghesi.

Hanno collaborato a questo numero: Emiliano, Michele Michelino, Luciano Orio, Fabrizio Poggi, Daniela Trollio,

5 maggio 1981, Long Kesh, Irlanda del Nord: dopo 66 giorni di sciopero della fame, muore a 26 anni Bobby Sands, leader dell’IRA Provisionals. 100.000 persone seguiranno il suo funerale a Belfast.

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8 maggio 1945, Sétif e Guelma, Algeria: nel giorno della resa incondizionata della Germania nazista, decine di migliaia di algerini, che avevano partecipato alla 2° guerra mondiale, scendono in piazza per festeggiare il Giorno della Vittoria e chiedere alla Francia l’indipendenza dell’Algeria. L’esercito francese spara senza pietà sulla folla, fucila gli arresti, l’Aviazione e la Marina bombardano, i coloni linciano prigionieri presi a caso nelle carceri. Secondo le stime governative, in questo giorno perdono la vita 45.000 algerini: è il vero inizio della guerra d’Algeria. 21 maggio 1871, Parigi: 100.000 soldati delle truppe versagliesi entrano nella città di Parigi. La Comune, primo governo operaio che dà l’assalto al cielo, aveva dimostrato al mondo la capacità di formare un governo autonomo e rivoluzionario; la borghesia cercherà di spezzare questa realtà con un sanguinario massacro: più di 30.000 morti.

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20/05/2019

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