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nuova unità fondata nel 1964
Periodico comunista di politica e cultura n. 6/2019 - anno XXVIII
Poche mani, non sorvegliate da controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa Antonio Gramsci
Il capitalismo è la società del crimine
Comprendere la demagogia populista e la strumentalizzazione delle forze politiche borghesi è fondamentale per capire che il movimento dei lavoratori deve rafforzarsi e organizzarsi sulla base dei propri interessi di classe Sia Salvini che Meloni vengono fatti passare come grandi comunicatori e affabulatori grazie al loro modo di presentarsi caratterizzato dalla vuotezza di contenuti e dalla loro becera propaganda “nazionale” attraverso mezzi di informazione, incluso i social, con la complicità in barba alla par condicio - dei prezzolati direttori e giornalisti di tutte le testate. Si sa che le folle possono essere trascinate dalle frasi ad effetto e che più slogan si lanciano, meno si fa ragionare e si colpisce la cosiddetta pancia, ma non i cervelli e in questo la storia ci aiuta con l’esempio di Mussolini, che è stato maestro. Il risultato delle elezioni in Umbria lo testimonia. Salvini - dopo aver trovato la via di fuga dal Governo per passare all’opposizione - ha calcolato che avrebbe reso di più e così è stato e il PD - che non si può più definire neppure di generica sinistra - ci ha messo del suo, in particolare con lo scandalo della sanità. A nulla sono servite le alleanze dell’ultimo momento con il M5S e persino con il PRC per rimanere in sella alla guida della Regione. Una Regione che a tre anni dal sisma sta ancora aspettando una soluzione definitiva ai tanti problemi dei terremotati. La Lega di Salvini ha raggiunto il 36,9% è la prima forza politica in una regione, considerata rossa anche se non lo è più da tempo, ed ha espresso anche la governatrice della Lega, già sindaco di Montefalco, senatrice e presidente della IV commissione permanente della Difesa. Come per tutte le elezioni Salvini si vanta, imbrogliando, di aver avuto la maggioranza degli umbri. Visto che gli elettori erano poco più di 703mila (521mila nella provincia di Perugia, 181635 in quella di Terni) e che a votare è andato il 64,42% pari a 453.000 votanti; che il centrodestra Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia ha raggiunto il 57,55% pari a 260.000 voti, la percentuale della Lega del 36,9% è pari 167.000 voti. Altro che maggioranza! Ma è tipico di tutti i politici ingannare sul numero per creare l’effetto di correre sul carro vincente. Nella logica elettoralista si è inserito il concetto del cambiamento, ma sempre facendosi condizionare dalla demagogia delle forze politiche guardando al quotidiano e non alla concezione generale della società e agli interessi che queste forze rappresentano. Di fronte al malessere della crisi aggravato dalla situazione post-terremoto, delusi dalla politica rinunciataria del centro-”sinistra” e dal M5S, allora la protesta si è orientata a destra, come se la destra potesse risolvere i problemi della classe lavoratrice e delle masse popolari. È successo così anche nel caso del voto di Terni, città operaia. Non viene capito che, nonostante tutta la loro prosopopea candidati e capi partito sono al servizio del capitale e non degli elettori, che il loro sbandieramento su “legittima difesa” e “sicurezza” è funzionale solo agli interessi delle industrie di armi e, più avanza la crisi, più la borghesia chiede di attuare metodi autoritari per poter esercitare il proprio potere e fare i propri interessi, come i Decreti Salvini che non vengono aboliti neppure dal Conte 2 perché le misure che contengono
sono volte a criminalizzare le azioni di protesta operaia e studentesca. Anche il taglio del numero dei parlamentari - incostituzionale con la legge vigente - rientra nella restrizione della stessa democrazia borghese.
Peggioramento delle condizioni di vita, di lavoro e rappresentanza politica pagina 2
Leggi e inganni. Staff leasing pagina 3
La “nuova epoca” della caduta del muro di Berlino pagina 4
Piazza Fontana cinquant’anni dopo. Una ferita che rimane aperta pagina 5
Cile, Ecuador, Haiti, Bolivia fine di quale ciclo? pagina 6
Brevi dal mondo pagina 7
Se volessero effettivamente risparmiare sul bilancio perché non diminuire compensi e vitalizi a parlamentari e consiglieri regionali? I parlamentari e i consiglieri non solo ricevono lo stipendio netto di 10mila euro, ma i costi aumentano con i supplementi per il portaborse, per il rimborso affitto, per l’indennità di carica (tutti esentasse!) e beneficiano gratuitamente di: telefono, autostrade, palestre, viaggi in aereo, cinema e teatro e... di assistenza sanitaria con medici e dentisti a disposizione (familiari compresi) che gravano per milioni sul bilancio statale e sono pagati in tasse dagli italiani. Prima gli italiani urla Salvini per aizzarli contro gli immigrati e convincere sui vantaggi dell’autonomia regionale, ma non svela aglil elettori che quanto sborsano, mentre non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, serve a mantenere la macchina dei partiti nelle istituzioni, dell’apparato statale, delle forze di polizia e militari. Prima gli italiani, ma obbedienti ai piani dell’imperialismo Usa e della Nato (che costa 70 milioni al giorno). Quante opere pubbliche, interventi sociali e sanitari si potrebbero sostenere dirottando tutte queste spese! Il capitalismo è la società del crimine non è possibile eliminare la delinquenza organizzata (che in molti casi gode di agganci politici e statali) se non si elimina il capitale finanziario, il riciclaggio, il traffico di droga, i paradisi fiscali, la mafia, segreti bancari ecc. Le leggi e le misure reazionarie sono utilizzate per soffocare le lotte operaie, perché non si combatte la piccola delinquenza se non si abbatte la disoccupazione, la povertà, l’emarginazione, l’ingiustizia. Se non c’è il lavoro per tutti. Significativo è ciò che da settimane sta succedendo in molte parti dell’America Latina - sopite da anni dal riformismo e dalla repressione - segna la frattura tra potere e masse oppresse dalla politica capitalista/imperialista e dai suoi strumenti come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale che strangolano l’intero continente (e non solo). Ora ci aspetta una nuova manovra finanziaria che si prospetta a favore delle imprese e delle banche. L’uso della moneta elettronica è un’idiozia in un Paese dove gli anziani ritirano ancora in contanti la pensione e per i molti che non avendo un conto corrente non la possono possedere. Comprendere la demagogia populista e la strumentalizzazione delle forze politiche borghesi è fondamentale per capire che bisogna rafforzare il movimento dei lavoratori, che ci si deve unire sui propri interessi di classe e non scegliere elettoralmente l’alternanza tra destra e “sinistra”, ma per dare vita ad una organizzazione autonoma e indipendente che risponda agli attacchi padronali - vediamo quello che sta succedendo all’Ilva, alla Lucchini, alla Whirpool, alla Pernigotti ecc. - e, al tempo stesso, metta al centro la necessità della socializzazione dei mezzi di produzione, eliminando la proprietà privata e il profitto, in un sistema socialista in contrapposizione al sistema democratico-borghese basato sulla dittatura del capitale e dei loro servi.
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lavoro
Peggioramento delle condizioni di vita, di lavoro e rappresentanza politica
Fino a quando la classe oppressa non sarà cosciente della inconciliabilità fra i suoi interessi e quelli del capitale, riconoscendosi nei partiti borghesi, accettando l’ordinamento sociale esistente come il solo possibile, vinceranno sempre le forze non favorevoli agli interessi della classe lavoratrice Michele Michelino Oggi nell’UE ci sono 16,6 milioni di disoccupati; la sottoccupazione continua ad espandersi raggiungendo il 21% del totale, cioè 43 milioni di persone; quelli che vivono sulla soglia di povertà o sotto sono più di 110 milioni e ogni anno circa 160mila cittadini europei muoiono per malattie collegate al proprio lavoro. In Italia negli ultimi dieci anni sono morti per infortuni sul lavoro sono più di 17 mila e ogni anno sono 1.400 i morti sul lavoro mentre decine di migliaia quelli per malattie professionali (solo per amianto oltre 6.000 all’anno). È in questo contesto che si sono svolte le recenti elezioni regionali anticipate in Umbria, in seguito ad uno scandalo giudiziario, “sanitopoli”, con accuse a PD e Giunta di scambi di favori e raccomandazioni nella sanità denunciato dai 5 Stelle. Nella tornata elettorale si sono fronteggiati i due schieramenti della destra e sinistra borghese. Singolare sono state le alleanze: i 5 Stelle che erano all’opposizione e che avevano denunciato la precedente giunta a guida Pd di essere ladra, si sono alleati proprio con quelli che avevano denunciato come disonesti in una competizione elettorale che si è conclusa con la vittoria delle destre e una sconfitta dei partiti di governo (PD5Stelle- LEU). Il nuovo partito di Renzi, Italia Viva e Rifondazione Comunista non si sono presentati in queste elezioni, anche se molti militanti e dirigenti locali umbri dei due partiti hanno votato per la coalizione di governo riconoscendosi in un “fronte antifascista” per arginare il pericolo delle destre. Questa consultazione elettorale è avvenuta in una Regione - l’Umbria con una popolazione residente di circa 900mila persone dove le condizioni materiali per il proletariato e la piccola borghesia sono andate peggiorando sempre più. Nel 2007, prima della crisi, i disoccupati erano complessivamente 18.000 (14.000 a Perugia, 4.000 nel ternano, nel 2018, questo dato è raddoppiato, 36.000 disoccupati (27.000 nella provincia di
Perugia, 9.000 nella provincia di Terni). Oltre alla disoccupazione, per effetto degli interventi dei vari governi, c’è stato un peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita, contratti sempre più precari e un aumento dei contratti a termine. I settori pubblici sono stati lottizzati (dalla sanità all’università), i servizi pubblici sono stati progressivamente esternalizzati con il conseguente abbassamento delle tutele lavorative dei suoi operatori e la creazione di sacche clientelari sempre maggiori e il “sistema cooperativo” è diventato uno dei principali attori di sfruttamento del lavoro. I partiti dell’alleanza di centrodestra - Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia - hanno sfruttato abilmente il malcontento dovuto agli scandali della precedente giunta di centrosinistra, le difficoltà economiche, le politiche contro i lavoratori dei precedenti
OPERAI, CARNE DA MACELLO La lotta contro l’amianto
contro tutti una battaglia per la salvaguardia del diritto alla salute di lavoratori e cittadini.
a Sesto S.Giovanni di Michele Michelino e Daniela Trollio
È a loro, alla loro tenacia e al loro coraggio che dedicato questo libro. Dodici anni di lotte con interviste, testimonianze, fotografie dei compagni che ci hanno lasciato. Il ricavato della vendita del libro va interamente al Comitato per sostenere le sue battaglie Costo, 8 euro
Questo libro racconta come un gruppo di operai della Breda Fucine di Sesto S. Giovanni siano riusciti a portare sul banco degli imputati non solo i dirigenti di una fabbrica “di morte”, ma un sistema economico che, in nome del profitto, calpesta e uccide uomini e natura. È una storia “vera”, una storia collettiva come tante altre – magari sconosciute – ma che formano la Storia del movimento operaio, di uomini e donne, spesso senza nome e senza volto che hanno portato avanti contro tutto e
Si può richiedere al Comitato per la difesa della salute nei luoghi di lavoro e nel territorio, Sesto S. Giovanni, via Magenta, 88 tel/fax 0226224099
governi che, insieme alla paura dell’invasione degli immigrati che “rubano il lavoro”, fanno presa dove è più vivo il malcontento per l’inettitudine, le ruberie e gli scandali. Questa competizione elettorale rispetto al passato si è caratterizzata per un aumento dei votanti, il 64%, quasi nove punti di differenza rispetto al 2015 quando fu di 55,46%. Un altro dato rilevante è che in queste elezioni erano presenti anche tre liste di partiti comunisti o anticapitalisti: il Partito Comunista (Rizzo) 4.108 voti pari all’1,0%, il Partito Comunista Italiano 2.098 voti pari al 0,5% e Potere al Popolo 1.345 voti pari al 0,3%. Questo fatto ha dato lustro al sistema dimostrando quanto sia democratico il sistema borghese che, quando non è in pericolo il suo potere, permette anche ai comunisti di competere elettoralmente.
Brevi considerazioni I risultati ottenuti portano ad alcune brevi considerazioni e riflessioni fra compagni comunisti. Per dei rivoluzionari, la partecipazione alle elezioni borghesi è una questione tattica ed è legata alle fasi della lotta di classe. Oggi la classe operaia, il proletariato sono senza una organizzazione politica della classe. In Italia assistiamo a un proliferare di piccole organizzazioni e partiti sedicenti comunisti che non sono riconosciuti dai proletari e la loro partecipazione alle elezioni suscita molte perplessità, quando non è negativa. Le elezioni sono un termometro che registra gli orientamenti delle varie classi sociali e gli insignificanti risultati elettorali raggiunti dalle forze comuniste o anticapitaliste deprimono ulteriormente i militanti (a parte chi si illude di aver aumentato lo zero virgola).
Eppure un comunista dovrebbe sapere bene che nel capitalismo, in una società divisa in classi, sono i padroni, i capitalisti, cioè la classe che possiede i mezzi di produzione, che dominano ed esercitano direttamente per mezzo del suffragio universale ad avere il potere. Senza un serio e continuo lavoro fra il proletariato, fra le masse proletarie, senza una organizzazione consolidata, presentarsi alle elezioni borghesi è addirittura controproducente. Questa volta in Umbria il peggioramento della condizione economica delle masse proletarie e degli strati più poveri della popolazione ha portato al voto più elettori del passato premiando il centrodestra, rimanendo tuttavia una percentuale di circa il 36% pari a 253.000 astenuti su 703.000 aventi diritto al voto. Anche se una parte del proletariato ha disertato consapevolmente le elezioni, fino a quando la classe oppressa non sarà cosciente della inconciliabilità fra i suoi interessi e quelli del capitale, continuerà a riconoscersi nei partiti borghesi, a riconoscere l’ordinamento sociale esistente come il solo possibile e, dal punto di vista politico gli attuali partiti rappresentanti delle varie frazioni della borghesia imperialista potranno vincere e avvicendarsi al potere contro gli interessi della classe lavoratrice. Senza un suo partito la classe operaia e proletaria continuerà ad eleggere i rappresentanti dei capitalisti e non i propri. Senza cadere nel cretinismo parlamentare o nell’astensionismo di principio, dobbiamo sempre ricordarci che le elezioni sono lo specchio, il termometro che dimostra il grado di coscienza raggiunto, la maturità o meno della classe operaia e proletaria. Quindi in queste condizioni ha senso presentarsi alle elezioni? E ancora ha senso presentarsi divisi e in competizione con altre organizzazioni che si definiscono comuniste? Potrebbe avere senso solo l’utilizzo delle tribune elettorali per denunciare che nel sistema capitalista/imperialista i governi sono semplici comitati d’affari del capitale, che sono le multinazionali, le lobbies finanziarie e industriali, le banche che finanziano le campagne
In morte di un bimbo
A Milano, oggi (22 ottobre, ndr), è morto Leonardo, un bimbo di quasi 6 anni. Era caduto venerdì mattina dal secondo piano delle scale della sua scuola elementare,mentrelabidelladelpianoaccompagnavainbagnoaltriduebambini. Negli articoli dei giornali ricorre nuovamente una parola che di solito la stampa usa per i morti sul lavoro: fatalità. La fatalità non c’entra proprio niente: questo è il risultato di anni e anni di privatizzazioni, di tagli alle scuole pubbliche e della pioggia di milioni dati invece alle scuole private. Ma chi vogliono prendere in giro? Nelle scuole pubbliche, soprattutto nelle elementari dove i bimbi cominciano il loro cammino per diventare “grandi”, il disastro è sotto gli occhi di tutti: strutture fatiscenti che si allagano, come ieri, per le piogge, controsoffitti che cadono e, soprattutto un affollamento assurdo. Classi da 25 o 30 bambini, cui maestri (due per classe se si è fortunati) mal pagati o precari dovrebbero insegnare e che dovrebbero sorvegliare (come non ce lo dicono, provateci voi), taglio del personale ATA (bidelli) ecc. Ora qualcuno verrà indagato per “mancata custodia” e qualcun altro dovrebbe invece dirci come si possono “ben” custodire i bambini in questa situazione. È orribile – e nauseante - dover ripetere, per la morte di un bimbo che poteva essere nostro figlio o nostro nipote, quello che ripetiamo per le migliaia di morti sul lavoro: questo sistema, il capitalismo, è morte. È morte un sistema che per il profitto spazza via ogni condizione di sicurezza e ci priva così, in particolare in questo caso, anche del nostro futuro. Daniela Trollio - Sesto S.Giovanni
nuova unità 6/2019 2
lavoro
Leggi e inganni
Staff leasing. Il lavoro a noleggio non è il “meno peggio” in attesa di una stabilizzazione, è un ulteriore strumento dei padroni per abolire il concetto di stabilizzazione redazione di Firenze Staff leasing. Non è una cosa nuova - è una forma di lavoro contrattuale trilaterale tra somministratore, utilizzatore, lavoratore - più conosciuto come interinale, usato dalle agenzie del lavoro. Risale alla Legge Biagi del 2003 che, a seguito della riforma del lavoro nota come Jobs act si espande a qualsiasi settore o lavoratore, tranne la Pubblica amministrazione. L’unica regola che l’azienda deve rispettare è il non superamento del 20%. I lavoratori sono assunti a tempo indeterminato e si distinguono in due forme contrattuali: tra “utilizzatore e somministratore” e “somministratore e somministrato”. Già il primo governo Conte sosteneva di rimediare ai danni del Jobs act con il “Decreto dignità”, ma così non è stato. Senza abolire il Jobs act e reintrodurre l’art. 18 e inserendo solo l’obbligo di “causale” per i contratti precari che superano la durata di 12 mesi e stabilisce la durata massima di 24 mesi per un contratto a termine, non lo trasforma a tempo indeterminato. Infatti le aziende si rifiutano di usare causali contenute nel decreto dignità, anzi sono diventate la scusa per abbreviare ulteriormente la durata dei contratti a termine e aumentare il turn over dei precari. Al raggiungimento dei 12 mesi, un precario viene lasciato a casa e sostituito da un altro. Perché lo affrontiamo adesso? Perché in una riunione con il Collettivo dei lavoratori della GKN (fabbrica metalmeccanica di Firenze) è stata resa nota l’assunzione di lavoratori con questa forma di noleggio nella propria fabbrica. Evidentemente per le aziende i vantaggi sono tanti: economico, temporale e fiscale in quanto l’assunzione anticipata dall’agenzia del lavoro è un risparmio di tempo, energie e costi per la selezione del personale. Combina domanda e offerta e ben si adatta alle esigenze precarie del mondo del lavoro attuale e soprattutto la possibilità di ampliare il proprio
organico nei periodi di maggiore produzione scaricando l’assunzione sull’agenzia del lavoro. I lavoratori sono più ricattabili e possono essere lasciati a casa alla minima fluttuazione del mercato. Perciò i lavoratori a tempo indeterminato sono la fornitura delle agenzie interinali alle aziende che li prendono in prestito - l’unico limite è che non devono superare il 20% dei lavoratori interni, ovviamente aggirabile dai contratti collettivi e dagli accordi aziendali - e non hanno alcuna garanzia di futuro né di stabilizzazione presso l’azienda
segue da pagina 2 elettorali. Avrebbe senso solo per denunciare il fatto che le varie frazioni del capitale finanziano i loro uomini in tutti gli schieramenti borghesi (di destra, centro o sinistra) per farli eleggere a difesa dei propri interessi e che in tutto il mondo i parlamenti sono al servizio dei capitalisti per legittimare il profitto, le guerre, lo sfruttamento. Il parlamento come le Regioni fanno parte della sovrastruttura politica del capitalismo. Sono i parlamentari, i consiglieri regionali e i politici istituzionali che si sottomettono agli interessi del capitale, e non i capitalisti che si adattano ai loro voleri. Solo degli ingenui possono credere di poter “influenzare” con il loro voto la politica di un paese capitalista. La democrazia rappresentativa borghese permette di votare ogni 5 anni, di scegliere quale partito o coalizione governerà nell’interesse del capitale, ma l’elettore non può più, dopo aver votato, far dimettere la persona (o il partito) che ha votato se questa tradisce le sue aspettative o tradisce i suoi interessi. Dopo il voto non può più revocare chi ha eletto anche se questo fa il contrario di quanto promesso in campagna elettorale, cosa che
che li utilizza, ovvero come diventare non stabili, ma stabilmente precari. Il contratto, infatti, è tra l’agenzia e il lavoratore con le stesse condizioni economiche e normative di tutti gli interinali. Quando finisce l’utilizzo, i lavoratori restano in attesa di ricevere, dalla agenzia, un’altra proposta di lavoro che dovrebbe essere professionalmente equivalente al lavoro precedente e che abbia un livello retributivo non inferiore al 15% rispetto all’impiego perso. Durante questo periodo ricevono 800 euro lordi, ma dovranno essere sempre reperibili e accettare impieghi distanti
succede e si ripete ad ogni tornata elettorale. Oggi in Italia esistono decine di partiti “comunisti” con scarsa o nessuna presenza nella classe, spesso senza neanche un operaio fra i loro militanti, partiti o organizzazioni in competizione, avversari nelle elezioni, che si combattono per rubarsi i pochi militanti o elettori. Accecati dalla autoreferenzialità sono concorrenti per aumentare un insignificante zero virgola mentre dimenticano gli interessi generali del proletariato. E ancora, e questo è più grave, questi partiti diffondono l’illusione che con loro al governo o nelle istituzioni borghesi la realtà della classe proletaria possa cambiare in meglio (come se la storia recente di Rifondazione Comunista e PdCI non fosse esistita). Un partito operaio rivoluzionario che non scriva apertamente nel suo programma che “Lo scopo immediato dei comunisti è lo stesso di tutti gli altri proletari: formazione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato” è un partito che fa da mosca cocchiera per la borghesia imperialista. Il marxismo si è caratterizzato nella storia come la teoria della liberazione della classe operaia dallo sfruttamento capitalista e con l’instaurazione del socialismo e il potere operaio e contadino in
fino a 50 km dalla residenza o comunque raggiungibile in 60 minuti con i mezzi pubblici. L’incertezza di dove lavorare rimane, così come l’impossibilità a pianificare le proprie spese perché non c’è la garanzia del reddito annuo, ma solo quella di rimanere a disposizione dell’agenzia interinale. E, motivo non secondario, è molto difficile integrarsi con i colleghi e organizzarsi per migliorare le proprie condizioni di lavoro, e quindi, di vita. Non si deve considerare lo staff leasing come il “meno peggio” in attesa di una stabilizzazione, bisogna essere consapevoli che è un ulteriore strumento dei padroni per abolire il concetto di stabilizzazione. Non arrendersi e continuare a lottare per i propri diritti è indispensabile per combattere la frammentazione dei lavoratori - che si perpetua anche con lo staff leasing -, vincere le paure e prendere coscienza che si può uscire da condizioni di schiavitù salariale solo se si ribaltano i rapporti di forza. Non c’è sicurezza di conservazione dell’occupazione neppure per coloro che abbassano la testa perché la garanzia del lavoro a tempo indeterminato non esiste più e per qualsiasi ragione: riduzione profitti, passaggio a nuovi acquirenti, delocalizzazione ecc. le imprese possono disfarsi dei propri dipendenti. Staff leasing è da considerare una delle tante forme di sfruttamento, la sua abolizione rientra nei numerosi obiettivi di una lotta più ampia - che vada oltre la sola resistenza, seppure valida - per riconquistare i diritti che spettano a chi produce. In una società come quella capitalistica non ci deve stupire che un termine come il leasing conosciuto per acquistare automobili o macchinari sia usato e applicato a delle persone, dei lavoratori. Vengono tolti i veli borghesi del rispetto della persona tanto decantata e vengono considerarti i lavoratori al pari di una macchina per produrre e da “rottamare “ quando non servono più.
Russia e in Unione Sovietica, con la Rivoluzione d’ottobre, la teoria è diventata realtà. La classe operaia al potere ha iniziato un processo di liberazione dallo sfruttamento per tutta l’umanità sostenendo i popoli oppressi nelle lotte di liberazione. dall’imperialismo. Come insegnano Marx-Engels nel Manifesto del partito comunista: “I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato. I comunisti non pongono princìpi speciali sui quali vogliano modellare il movimento proletario. ... I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall’altra per il fatto che sostengono costantemente l’interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia. Il nostro obiettivo, come comunisti, è quello di portare avanti con coerenza la battaglia per la conquista del potere politico da parte del proletariato attraverso l’abbattimento del capitalismo, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, con l’instaurazione di uno Stato proletario, per il socialismo fino al comunismo.
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anniversari
La “nuova epoca” della caduta del muro di Berlino Fabrizio Poggi Per una bizzarra parziale coincidenza, l’anniversario della nascita del primo Stato socialista e quello dell’atto iconoclastico per eccellenza che da 30 anni raffigura la “fine del comunismo”, quasi si toccano. Il 7 novembre 1917, operai, soldati e marinai davano l’assalto al Palazzo d’Inverno; il 9 novembre 1989, al capitale si spalancavano definitivamente le porte del mercato esteuropeo e l’abbattimento del muro di Berlino doveva simboleggiare la vittoria irreversibile “della democrazia sulla dittatura e il totalitarismo” che, come ci è stato rivelato nell’anno di grazia 2019, “per mezzo secolo” hanno privato “della libertà, della sovranità, della dignità, dei diritti umani e dello sviluppo socioeconomico... altri paesi europei”. Dopo il 9 novembre 1989, con la fine dell’URSS decretata a tavolino di lì a due anni, il circuito aperto nel 1917 si sarebbe richiuso. Essendo il mercato, per definizione, libero, il suo trionfo deve per forza significare, ancora per assunto, la vittoria della libertà sulle tenebre dell’illibertà. Il 9 novembre 1989 doveva saldare insieme i due mondi – quello del “controllo totalitario sull’uomo” da parte dello Stato, da un lato, e quello dell’intraprendenza individuale, della personalità gioiosamente estrinsecantesi, dall’altro – rimasti pericolosamente lontani fin dal 7 novembre 1917. Non tutto sembra essere andato come volevasi: il “trionfo del mercato” non ha bisogno di troppi commenti, se si pensa anche soltanto alle decine di migliaia di morti sul lavoro, ai milioni di disoccupati, ai senza casa, senza assistenze ecc. Sul piano “ideologico”, poi, il capitale si sente obbligato non solo a stabilire per decreto la “superiorità della democrazia”, ma persino a mettere sullo stesso piano comunismo e nazismo: segno che il comunismo, come ha scritto “nuova unità” sul n.5, fa ancora paura e, nel tentativo di esorcizzarlo, lo si dipinge alla stregua delle infamie hitleriane. Non è certo a beneficio dei reazionari, comunque agghindati da leghisti, fascisti o “democratici”, che ribadiamo l’attualità delle parole di Lenin, che il “regime sovietico significa massima democrazia per gli operai e i contadini e, al tempo stesso, rottura con la democrazia borghese e comparsa di un nuovo tipo di democrazia di importanza storica mondiale, e precisamente della democrazia proletaria o dittatura del proletariato”. E dunque, il 9 novembre 1989 veniva abbattuto “il Muro” per eccellenza: si sanciva la fine della Repubblica Democratica Tedesca, sorta nel 1949, in contrapposizione a quella Repubblica federale tedesca, riarmata dalla NATO quale centro dell’anticomunismo e della penetrazione ideologica, politica e finanziaria occidentale nell’est delle democrazie popolari. Dopo quarant’anni di vita, la DDR subiva la sorte comune ai Paesi dell’Europa orientale e, così come prima veniva definita la “vetrina del campo socialista”, così, dopo il 1989, veniva deputata a simboleggiare la “disfatta irrimediabile” di quel campo. Il trionfo della libertà, dunque! Se le crepe scolpite dall’anticomunismo di Solidarność in Polonia, nel 1980, sembravano esser state rattoppate alla bell’e meglio, con le cricche revisioniste apparentemente sorde al campanello d’allarme; se a Timișoara, l’aggressione occidentale avrebbe mostrato tutto l’abominio di cui è capace (e che avrebbe poi ripetuto in Jugoslavia e aggravato oggi in Ucraina), è però l’assalto finale alla DDR che simboleggia ancor oggi, per i “democratici”, la chiusura, secondo loro definitiva, del circuito aperto nel 1917.
“Grandi valori di civiltà”
“Il giorno più bello per l’Europa. Addio muro di Berlino”, titolava a sette colonne l’Unità dell’11 novembre 1989, esultando per “uno di quei momenti che segnano e cambiano la storia di una nazione. In questo caso è qualcosa di più, è la storia di un continente... mai, come in questo momento, il rapido e tumultuoso rivolgimento politico dell’Est sta aiutando tutti noi in Occidente a riscoprire i grandi valori di civiltà”, così a lungo soffocati, come ci ricorda oggi il parlamento europeo! Proclamata il 7 ottobre 1949, la nascita della DDR era stata la risposta alla decisione USA sulla creazione della RFT nelle zone di occupazione americana, britannica e francese, mentre l’URSS si era opposta alla divisione del paese. Dopo i primi due Volkskongress nel 1947 e ‘48, in cui si chiede anche un referendum sull’unità tedesca, il III Volkskongress pubblica un manifesto al popolo tedesco, che auspica una “Costituzione per la Germania intera”. Ma la Repubblica Democratica Tedesca non c’è più. Lo scorso 5 ottobre, il politologo Ekkehard Lieberam, ricordava su Die junge Welt le manifestazioni che, ancora poco dopo la caduta del muro, si ripetevano a difesa della DDR, pur se, afferma, “si trattava di tardive azioni di retroguardia” e finivano per essere, “come aveva scritto Marx nel dicembre 1848, quella “mezza rivoluzione” cui doveva seguire la controrivoluzione”. A dicembre ‘89 veniva eliminato il ruolo guida del partito alla Volkskammer, sancito dalla Costituzione; a febbraio 1990 l’URSS si ritirava dal Paese: “il resto era inevitabile”, dice Lieberam.
Il tradimento di Gorbaciov
Appena pochi giorni prima della fine, a inizio novembre 1989, l’allora Presidente del Consiglio di Stato della DDR, Egon Krenz, si era incontrato a Mosca con Mikhail Gorbačëv. In un capitolo del suo libro “Noi e i russi”, Krenz racconta di come Gorbačëv lo avesse ricevuto non al Cremlino, ma nella sede del Comitato Centrale, a “sottolineare che ci incontravamo come segretari
generali dei partiti guida nei nostri paesi. La leadership della classe operaia e il suo partito marxista-leninista erano ancora un principio costituzionale sia nella DDR che nell’Unione Sovietica”. Si vociferava che Mosca lavorasse per l’unità tedesca, ma alla domanda diretta di Krenz, Gorbačëv lo informò su un colloquio di Alexandr Jakovlev (l’ideologo della perestrojka) con Zbigniew Brzezinski: l’americano aveva detto che era inconcepibile una riunificazione dei due Stati tedeschi. In un’intervista a Georgij Zotov, pubblicata il 19 settembre su Argumenty i Fakty, Krenz dice chiaro e tondo: “ci ha traditi Gorbačëv”. Alla domanda di Zotov: “Nel 30° anniversario delle manifestazioni a Berlino che portarono alla caduta di Erich Honecker e alla fine della DDR, la Germania orientale avrebbe potuto essere conservata?”, la risposta è netta: “Purtroppo no. La DDR non avrebbe potuto sussistere senza l’URSS, né economicamente né politicamente. Alla fine della Seconda guerra mondiale, l’URSS vedeva la Germania come un unico paese e non intendeva lacerarla a metà. Ma ci furono le liti con gli alleati, fu creata la NATO, e alla fine andò in un altro modo”. Alla domanda: “si può affermare che Gorbačëv abbia tradito la DDR?”, Krenz risponde: “Mi sono fidato di Gorbačëv troppo a lungo. Due settimane dopo il nostro incontro del 1° novembre 1989, alle nostre spalle, chiedeva all’Occidente quanto fosse disposto a pagare perché l’URSS accettasse l’unità tedesca. Mi dica: è amicizia o tradimento? Sì, la DDR è stata tradita”. “Ho parlato con molti tedeschi dell’est e vedo delusione” dice Zotov; “tutti nutrivano forti speranze che dopo l’unificazione sarebbe arrivato il paradiso. Ma, di recente ho visitato l’ex KarlMarx-Stadt, ora Chemnitz: l’industria della DDR è stata liquidata; fabbriche completamente abbandonate. Disoccupazione; molti se ne sono andati a ovest”.
La Germania “unita”
A proposito dell’enorme divario tuttora esistente tra est e ovest, nel marzo scorso Markus Drescher scriveva su Neues Deutschland che è sufficiente prendere un qualsiasi villaggio di Meclemburgo o Pomerania Anteriore: secondo le “coordinate di disuguaglianza”, essi riuniscono tutti i fattori negativi: come campagna, sono messi peggio delle città, trovandosi a nord stanno peggio che al sud e, stando a est... I tedeschi dell’ovest non amano la parola “annessione”; sta di fatto che, ancora nel 2016, 464 delle 500 topaziende tedesche avessero la sede centrale a ovest. In Sassonia, due abitanti su tre si vedono, in quanto cittadini dell’ex DDR, come persone di “seconda classe”. In un sondaggio della conservatrice Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ), alla domanda “Pensa che la democrazia che abbiamo in Germania sia la migliore forma di governo?”, ha risposto in maniera affermativa il 77% a ovest, ma solo il 42% a est, mentre il 23% a est e il 10% a ovest ritiene che esista una “alternativa superiore”. Jana Frielinghaus nota su Neues Deutschland come, nel sondaggio della FAZ, il termine “democrazia” sia bellamente usato quale “sinonimo di parlamentarismo borghese”; e continua: “Persino 30 anni dopo l’annessione della DDR alla RFT”, i tedeschi dell’ovest occupano “più del 90% dei posti nel sistema giudiziario e amministrativo. Nei nuovi Länder, sono dell’ovest tutti i presidenti delle Corti amministrative e dei Tribunali”. L’attecchire degli slogan della destra a est, viene spesso sbrigativamente spiegato come conseguenza tardiva della “mancanza di libertà” nella DDR; ma non sarebbe fuor di luogo, osserva Frielinghaus, mettere nel conto gli sconvolgimenti economici degli ultimi decenni, primo fra tutti quanto fatto dalla
Treuhandanstalt (Ente per le privatizzazioni nella ex DDR) e le forti discriminazioni su salari, stipendi e pensioni. Basti pensare che, se solo nei primi due anni dopo l’annessione, a est si erano persi (ufficialmente) oltre un milione di posti di lavoro, per il trasferimento a ovest non solo dei centri di direzione economica e amministrativa, ma delle stesse strutture produttive, oggi le cifre del Bundesagentur für Arbeit (Ministero del Lavoro) indicano una differenza media di circa due punti nelle percentuali di disoccupazione tra est e ovest. Con un dato ufficiale del 4,6% di disoccupazione a ovest e 6,3% a est, la differenza vede estremi del 2,7% in Baviera e del 5,4% in Sassonia, 5,7% in Brandenburgo, 7,8% a Berlino, o 6,9% nel Mecklenburg-Vorpommern, nel quale ultimo ci sono distretti e circondari con medie del 8,5%: proprio come in Italia. Un inferno capitalista, insomma: da est a ovest, da sud a nord. Perché meravigliarsi, dunque, se già alle elezioni federali del 2017, a ovest un elettore su otto aveva votato lo xenofobo Alternative für Deutschland, mentre in tutti i Länder annessi nel 1989 lo aveva fatto uno su cinque, dando a AfD una media federale del 12,6% e punte del 30% in alcuni distretti orientali della Sassonia, Alle elezioni regionali, AfD ha avuto il 27,5% in Sassonia, il 23,5% in Brandeburgo. E anche lo scorso 27 ottobre, in Turingia, se Die Linke era salita dal 29% del 2014 al 31%, AfD è balzata di colpo dallo 0% al 23,4% decretando il tracollo di CDU (dal 33% al 21,8%) e SPD (da 13% a 8,2%). Ovunque, AfD punta sullo spauracchio dell’immigrazione, quale causa per cui i tedeschi dell’Est non stanno ancora così bene come era stato loro promesso 30 anni fa.
L’Occidente e la Germania
Naturalmente, non si può riassumere tutto nel tradimento di Gorbačëv, Jakovlev & Co., nel ruolo assegnato dagli artefici della perestrojka al loro “beniamino” Hans Modrow, dimenticando l’opera della CIA, direttamente contro la DDR sin dalla sua fondazione, del lavorio del cosiddetto “bjuro est” della SPD e dei suoi contatti con la SED, come pure delle teorie revisioniste nella stessa DDR, su “alternativa socialista” o “tentativo di socialismo”, ricordati da Ekkehard Lieberam. A proposito di Gorbačëv, in un’intervista alle Izvestija dello scorso 18 ottobre, l’ex Presidente dell’URSS ribadiva che la “caduta del muro fu un grosso passo sulla strada della libertà. Le conseguenze della caduta del muro e dell’unificazione della Germania sono state positive per l’Europa e il mondo”. Ecco quanto positive: il 31 gennaio 1990, il Ministro degli esteri della RFT, Hans Dietrich Genscher, dichiara: “Ci siamo accordati per il non allargamento della NATO a est. Ciò non riguarda solo la DDR, che noi non vogliamo conquistare. L’allargamento non ci sarà in generale”. Sempre nel 1990, il Segretario generale NATO Manfred Wërner dichiara: “siamo pronti a non dislocare truppe NATO fuori del territorio della RFT” e il Segretario di Stato USA, James Baker, giura a Gorbačëv che la “sfera di influenza della NATO non si sposterà di un pollice verso Est”, mentre il Segretario alla difesa Robert McNamara dichiara che “gli USA si impegnano a non espandere mai la NATO a est, se Mosca sarà d’accordo per la riunificazione della Germania”. Dopo il 1991, ogni “promessa” svanisce: in cambio delle “garanzie” occidentali, 380mila soldati sovietici si ritirano dall’Europa orientale; nel 1999 entrano nella NATO Ungheria,
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anniversari
Piazza Fontana cinquant’anni dopo Una ferita che rimane aperta Perchè dobbiamo ancora indignarci per questa cinica montatura del potere in funzione antipopolare
Luciano Orio Qualcuno disse che quel giorno perdemmo l’innocenza e scoprimmo la cattiveria, il complotto, la faccia assassina della politica. Non so se questo possa essere vero. È probabile che quell’innocenza non sia mai esistita: per noi italiani quel 12 dicembre del ‘69 arrivava dopo una lunga convivenza con alluvioni e frane, mafia e potere religioso, scioperi e scontri di piazza. In quell’epoca di boom economico, prodotto dallo spostamento di milioni di lavoratori dal sud al nord e all’estero, la nostra fragile democrazia borghese era ancora impregnata, appena un quarto di secolo dopo la caduta del fascismo, di funzionari e portavoce del fascismo. Una folta schiera di servi del regime, pronti a cambiar bandiera quando cambia il vento o scappare come topi dalla barca che affonda, sottobosco ideale per trame che attraversavano magistratura e polizia, i servizi segreti e le basi Nato, per organizzare la violenza dello Stato al fine di tenere in piedi il regime, garantire il funzionamento delle istituzioni repressive, magistratura e polizia, proteggere le illegalità e l’uso di parte dei mezzi di informazione. Ma non era un paese cupo, il nostro. Dall’altra parte esisteva ed era ben vivo un forte e articolato movimento di classe, operaio e proletario, che garantiva la difesa e il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita sul versante sindacale, mentre su quello politico garantiva l’espressione politica delle proprie avanguardie, sfidando l’egemonia della classe borghese. Nel mezzo dell’autunno caldo, nel pieno della lotta di classe, quel giorno, contemporaneamente, scoppiarono bombe a Roma e a Milano. Quest’ultima, in una borsa collegata ad un timer, sotto il tavolo centrale della Banca dell’Agricoltura, uccise diciassette persone e ne ferì seriamente ottantacinque. Fu l’inizio. Dopo piazza Fontana, il 22 luglio 1970, l’attentato al treno del Sole a Gioia Tauro (6 morti); il 17 maggio 1973, davanti alla questura di Milano, un ordigno causò 4 morti e 45 feriti; il 28 maggio 1974, una bomba in piazza della Loggia a Brescia provoca 8 morti e 103 feriti; il 4 agosto 1974, l’attentato al treno Italicus (13 morti e 48 feriti); fino all’orrore della bomba di Bologna, il 2 agosto 1980 che fece 85 morti e 200 feriti. Undici stragi che durarono 15 anni, dal 1969 al 1984, intervallate da tentativi di golpe o complotti militari. Una strategia della tensione, di marca fascista, intessuta da ipocrisie, violenze e menzogne che non ebbero una fine. Per nessuna di queste stragi è stato trovato un colpevole. La sentenza della Corte di Cassazione del 3 maggio 2005 condannò i familiari delle vittime della strage di Piazza Fontana a pagare le spese processuali, mentre lasciò impuniti o sconosciuti esecutori e mandanti. Per capirne le origini è necessario risalire a quegli anni di forte ripresa della lotta di classe. Succede che, come per gli studenti un anno prima, anche gli operai decidono, bruscamente, di mettere in discussione la loro condizione. Le contestazioni davanti ai cancelli delle fabbriche, le rivendicazioni che da sindacali si trasformano in politiche, le dimostrazioni e i cortei che quotidianamente paralizzano tante parti del paese, registrano una spinta ed una partecipazione via via crescenti, attraverso volantinaggi e sit-in, serrate e scioperi che costringono allo schieramento della polizia armata davanti ai cancelli, alle provocazioni dei fascisti e della stessa polizia nelle manifestazioni, alla pioggia di denunce ed arresti da parte della magistratura. Solo un mese prima, in novembre, con lo sciopero dei metalmeccanici, arriva la prima ondata di denunce (quattordicimila in tutta Italia), mentre a spinte di centomila per volta cortei e manifestazioni richiedono il rilascio di operai e compagni arrestati. La classe operaia, con ogni evidenza, si dimostra vincente. Risultò quindi evidente che quelle bombe non furono una combinazione, come non fu una combinazione il depistaggio, che cercò da subito i responsabili tra gli anarchici e tralasciò la pista nera, dei fascisti, già autori – guarda caso - in tutto il ‘69 di molti attentati. Gli anarchici funzionarono da capro espiatorio. Preso Valpreda e “suicidato” Pinelli, lo Stato avrebbe così voluto mettere la parola fine a quella stagione di lotta, impartendo una dura lezione al movimento di classe: la giustizia non è uguale per tutti. Ma così non sarà. Subito dopo Piazza Fontana, infatti, la campagna stampa avviata dalla sinistra extraparlamentare contro la “strage di Stato” smonta la tesi accusatoria contro gli anarchici e costruisce una
Polonia e Repubblica Ceca; poi nel 2004, Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia e Paesi baltici.
Stalin e la DDR
In varie occasioni, tra il 1949 e il 1952, Stalin aveva parlato dell’unità tedesca, augurando alla DDR “... ulteriori successi nella costruzione di uno Stato tedesco unito, indipendente, democratico, pacifico”, auspicando “una prossima conclusione dell’accordo di pace e il ritiro delle truppe d’occupazione, negli interessi della Germania e della pace in tutto il mondo”. Nell’aprile 1952, in una nota al governo USA, scriveva: “Proprio oggi si decide la questione se la Germania verrà
mobilitazione politica per allargare gli spazi di verità e giustizia nel nostro paese. Anche chi era assuefatto alla menzogna scopre il volto autentico del potere. Un episodio di questo periodo è esemplare del modo con cui i poteri pubblici scelgono gli interessi da tutelare, associandosi alla parte più occulta dei poteri privati. Nel corso del 1971 il giudice Guariniello, durante una perquisizione presso la sede della Fiat, per una causa di lavoro intentata da un ex dipendente, scopre una serie di contenitori metallici che racchiudono “schede informative” relative a 354.077 individui e che raccolgono informazioni su dipendenti ed altri cittadini, militanti addetti ai volantinaggi a Mirafiori, giornalisti, professori, uomini politici. In bella evidenza, il giudice scopre le prove dei versamenti effettuati dalla Fiat a carabinieri, poliziotti e agenti dei servizi (Sid) per il loro lavoro di schedatura. Tutto finì prescritto otto anni dopo, ma soprattutto dopo che la procura, facendo riferimento al rischio di incrinare i buoni rapporti tra magistratura e polizia, trovò inopportuno accusare i massimi dirigenti di un complesso industriale che “dà lavoro e benessere a tutta la popolazione”, con la possibilità di “innescare uno stato di agitazione” tra le masse operaie della Fiat. Piazza Fontana fu all’origine del decennio denominato “gli anni di piombo”. Il piombo di chi? Nel vuoto lasciato da uno Stato reticente, ambiguo e palesemente coinvolto e da una giustizia di parte, lo stragismo si intreccia con gli omicidi dei militanti. Serantini, Franceschi, Lo Russo, Bruno, Saltarelli, Zibecchi, Costantino sono uccisi da poliziotti o carabinieri; Pinelli “cade” dalla finestra della questura; Miccichè viene ucciso da una guardia giurata; Brasili, Amoroso, Varalli, Miccoli, Rossi dai fascisti. A questi si aggiungono i tanti compagni morti ammazzati per i quali non sarà possibile risalire all’esecutore materiale, come Fausto e Iaio nel ‘78. In mezzo a questo decennio viene approvata il 22 maggio 1975 la prima legge eccezionale sull’ordine pubblico, la legge Reale, passata col voto determinante dei fascisti, che riconosce alla polizia il diritto di sparare, incoraggiando e proteggendo l’omicidio di stato. Piazza Fontana (e dintorni) è dunque prima di tutto un fatto da non dimenticare e che comporta indignazione e rabbia in tutti noi. Ma è solo un tragico episodio del passato, superato dagli avvenimenti e dall’evoluzione della società? Niente affatto! Anzitutto la totale impunità di esecutori e mandanti costituisce motivo fondante per cui questa vicenda non può appartenere al passato, anche se il regime con il corollario dei media vorrebbe farci intendere che quell’epoca è definitivamente chiusa. Chi è Stato? Viene da chiederci se sia esistito ed esista uno “stato profondo”
ricostituita come Stato unito, indipendente, pacifico... oppure rimarrà in vigore la divisione della Germania e la minaccia, a ciò connessa, di guerra in Europa”. Il 19 settembre successivo, conversando su vari temi con Chou En-Lai, osservava che Washington non voleva l’unità tedesca, perché ciò avrebbe posto termine al saccheggio USA della Germania. Stalin, cioè, vedeva l’unità tedesca come garanzia contro ogni revanscismo bellico. Al contrario, proprio a questo miravano Washington e Bruxelles e, nel 1989, raggiungevano l’obiettivo con l’annessione della DDR a una Germania bastione avanzato di USA e NATO; un bastione
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anche in casa nostra, quel connubio tra spioni di Stato, neo fascisti, padroni, logge massoniche, con corollario di giornalisti, magistrati e poliziotti a coprire le spalle, in cui i mafiosi stanno sempre alla finestra. Viene facile pensarlo: l’impunità dei padroni e dei loro servi spazia a tutto campo. Da quello politico a quello del malaffare a quello economico. È di questi giorni la decisione della Corte di Cassazione di rifare il processo “Mafia Capitale”; la parola “mafia” va tolta da ogni imputazione a carico di Carminati, Buzzi & Co. Loro non sono in odore di mafia, ha detto la Suprema Corte, si tratta di una semplice associazione a delinquere, anzi due. L’aspetto politico-mafioso è risolutamente negato: un bel regalo per tutta la feccia politico affarista della capitale. In quella inchiesta al vertice supremo dell’organizzazione stava Massimo Carminati, già fascista e stragista dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), elemento di spicco della destra eversiva romana, abilitato ai lavori sporchi per conto della banda della Magliana. È lo stesso Carminati che venne pesantemente indiziato assieme ai suoi camerati Mario Corsi e Claudio Bracci per l’omicidio a sangue freddo dei compagni Fausto e Iaio, uccisi a Milano nel ‘78, e poi prosciolti “pur in presenza di significativi elementi giudiziari e di rilevanti dichiarazioni di ben sei pentiti”. Il marciume che emergeva a Roma era stato costruito dall’eversione fascista negli anni ‘70 e cresciuto nel sottobosco politico di regime (il mondo di mezzo) che ha garantito prima la loro totale impunità e poi la scalata ai palazzi del potere. Le foto che ritraggono questi personaggi con tanti esponenti dell’ex “governo del cambiamento”, di marca PD, testimoniano una volta di più la natura di questo partito, decisamente organica al grande capitale. Le “grandi inchieste” che emergono di quando in quando starebbero lì a testimoniare del buon livello democratico dei nostri apparati di potere. Fumo negli occhi. Nel corso di questo mezzo secolo e più le caste al potere (DC in testa), occulte o meno che siano, hanno garantito ai borghesi di ogni ordine e grado di passare indenni le loro crisi. E quando non ci pensavano loro, a salvarli provvedevano gli “equilibri internazionali”: nessun criminale di guerra italiano venne mai processato nel dopoguerra, anzi, diversi di loro furono reintegrati negli apparati dello Stato come questori, prefetti, responsabili dei servizi segreti, magistrati. Piazza Fontana, la “madre di tutte le stragi”, conserva un ruolo centrale nell’analisi politica di quegli anni. Lo assume ancor di più per tanti di noi comunisti che, a quella strage, lontana negli anni ma vicinissima nella coscienza, dobbiamo la nostra formazione politica.
che però, nel 2019, non è più così ligio ai dettami esterni. Di fronte alla rivalità (per ora, non armata) che oppone oggi USA e Germania, appaiono ancora una volta premonitrici le parole di Stalin: se Chou En-Lai notava come gli USA stessero ricostituendo gli eserciti di RFT e Giappone, sperando di servirsene, “ma quelle armi possono rivolgersi contro di loro”, Stalin conveniva che ciò era del tutto possibile, “addirittura, anche se a capo della Germania andassero nazionalisti o hitleriani”. “Sono giorni entusiasmanti per noi europei”, scriveva l’Unità dell’11 novembre 1989, riferendosi a Berlino, Varsavia, Budapest, Sofia,
definite melodrammaticamente “Le Bastiglie del 1989”. Se Stalin, congratulandosi con Wilhelm Pieck il 13 ottobre 1949, scriveva che “la fondazione della Repubblica democratica tedesca amante della pace rappresenta un punto di svolta nella storia d’Europa”, quarant’anni dopo, l’Unità auspicava per il PCI “un impegno comune con le forze del socialismo occidentale per costruire un nuovo ordine in Europa”, per “fare i conti non più soltanto con un modello politico che è franato, ma con un’epoca che si sta aprendo”. Allora la si indovinava, quell’epoca. Oggi, purtroppo, la si conosce.
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america latina
Cile, Ecuador, Haiti, Bolivia fine di quale ciclo? Non sappiamo come proseguiranno le lotte. Riusciranno a esprimere una avanguardia che consolidi la spontaneità e dia continuità a queste battaglie per un mondo diverso, che noi chiamiamo ancora socialismo? Daniela Trollio (*) Nel 1992 il politologo Francis Fukuyama scriveva il saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”, basato su una sua lezione tenuta presso la facoltà di Filosofia politica dell’Università di Chicago. La sua tesi: la storia come lotta delle ideologie era finita, con un mondo ormai basato sulla “democrazia liberale“ che si era imposta dopo la fine della Guerra Fredda. In altri termini, un mondo basato sulla “pax americana”. Il concetto fu ripreso da molti analisti dopo le sconfitte dei governi progressisti dell’America Latina, dall’Argentina all’Ecuador al Brasile (tra il 2014 e il 2018), che davano ormai per morto il “ciclo progressista”, sepolto dal “neoliberismo” che l’economista Joseph Stiglitz chiamava “fondamentalismo del mercato” e, molto più chiaramente, il professore di Economia statunitense David M. Kotz definiva “la dominazione completa del lavoro da parte del capitale”. Così questi analisti, politologi, “esperti” del nulla saranno certo rimasti molto delusi da questo ottobre 2019, che non è certo l’Ottobre bolscevico di 102 anni fa, ma che ricorda ai potenti del mondo che la lotta di classe non è affatto finita, che i popoli del Sud del mondo con il proletariato in prima fila (e anche quelli della dormiente Europa come i gilet gialli francesi) ci dimostrano ancora una volta che è possibile ribellarsi e anche vincere. Dalla piccola e martoriata Haiti all’Ecuador, al Cile, all’Argentina, alla Bolivia, all’Uruguay e persino al Brasile, questi ultimi mesi hanno visto masse di giovani, di lavoratori, di donne ribellarsi contro l’imperialismo, contro i suoi strumenti come quell’organizzazione criminale chiamata Fondo Monetario Internazionale e contro i suoi rappresentanti locali, i governi che ne hanno applicato spietatamente le politiche. Con strumenti diversi: le piazze e le elezioni. Certo gli esiti non sono scontati, perché si tratta di processi tuttora in corso mentre scriviamo, ma i segnali sono forti.
Una vetrina rotta: il Cile
Nel laboratorio per eccellenza del neoliberismo dei Chicago Boys, il paese che per trent’anni è stato venduto come “vetrina” dello sviluppo capitalista, scopriamo che, come scrivevano sui cartelli nelle manifestazioni di questi giorni, “Non sono 30 pesos – l’aumento delle tariffe dei trasporti, la scintilla che ha incendiato la prateria, che il Senato ha già abrogato nel tentativo di calmare la protesta – sono 30 anni”. Ecco qualche numero: un lavoratore cileno su 4 guadagna 301 mila pesos, che equivalgono a 400 dollari al mese e lavora in media più delle 45 ore settimanali legali. La prestigiosa e autonoma Fundaciòn Sol rileva che il 70% della popolazione guadagna meno di 550 mila pesos. L’80% delle famiglie cilene sono super indebitate. Si indebitano per la vita per studiare, per curarsi, per procurarsi una pensione miserabile, perché tutti i servizi - sanità compresa - sono stati privatizzati. L’arcivescovo di Conceptiòn radiografa così la situazione del paese: “In Cile circa 650.000 giovani (il 5,7% sul 13,1% totale di quell’età, su una popolazione totale di 18.700.000 persone, n.d.a.) , tra i 18 e i 29 anni, non studiano né lavorano; ci sono alti tassi di infermità mentale e di suicidi tra loro; migliaia di anziani sono soli e abbandonati e nessuno si preoccupa di loro… La violenza e la solitudine in Cile sono una pandemia”. Il prezzo dei trasporti incide per circa il 15% sul salario. Le AFP (Amministratrici dei Fondi Pensione, società private) sono un altro furto legalizzato imposto dallo Stato, cui per legge i lavoratori debbono destinare il 10% del salario. Il denaro raccolto è il doppio di quanto viene poi restituito alla voce “pensioni” e rappresenta l’80% del PIL del Cile. Il meccanismo nacque all’epoca della dittatura di Pinochet e venne riconfermato da tutti i governi “democratici” che si sono susseguiti. I lavoratori e i proletari cileni, che fino al giorno prima venivano descritti come “soddisfatti
consumatori”, si sono svegliati e si sono accorti che il loro paese non è per niente una bella “vetrina”. Così è molto più chiaro perché un “semplice” aumento del biglietto del metro ha fatto scoppiare la rivolta, dapprima tra i giovani studenti e poi tra la maggioranza della popolazione: 1 milione di persone nelle strade il giorno dello sciopero generale, la più grande manifestazione di protesta degli ultimi 30 anni. Senza parlare del saccheggio dei beni del paese da parte delle multinazionali, iniziato durante la dittatura e continuato allegramente dai governi susseguitisi. Il popolo cileno è stato spogliato di tutto: mari, boschi, miniere, risorse naturali e, come dicevamo prima, salute, educazione, acqua, gas ecc. E il 18 ottobre, infatti, a Santiago viene assaltato e bruciato l’edificio dell’ENEL (oh, sorpresa, i capitalisti italiani sono anche là) che controlla la distribuzione dell’elettricità e anche quello di Santa Rosa. Che la dittatura di Pinochet non sia solo un ricordo ma una realtà ancora attuale lo dicono anche altri numeri: in circa 15 giorni di ribellione, 20 morti, migliaia di feriti e più di mille arrestati, altri “desaparecidos”, denunce di torture e abusi sui prigionieri; esercito e polizia nelle strade, carri armati, cannoni ad acqua e gas urticanti ecc. ecc. Questo hanno affrontato le migliaia di manifestanti che non erano ancora nati quando fu scritta la Costituzione pinochetista, mai abrogata né dai governi di “centro sinistra” della Concertaciòn né da quelli della destra. Curioso che l’ex presidentessa Michelle Bachelet, così attenta a criticare le presunte “violazioni dei diritti umani” in Venezuela, sia riuscita a dire solo – di quello che succede nel suo paese - che è “addolorata”. Lasciamo per ora il Cile, dove la ribellione non si ferma, per fare qualche considerazione su altri paesi.
Ecuador in fiamme
Applicando le ricette del Fondo Monetario Internazionale, il presidente Lenìn Moreno patteggia un prestito milionario tra le cui condizioni c’è l’annullamento dei sussidi ai prezzi del carburante (circa 1.300 milioni di dollari l’anno). Immediata la rivolta: il 3 ottobre cominciano i trasportatori, e poi gli studenti, i docenti, i contadini, i lavoratori. Le loro organizzazioni, la CONAIE (Coordinamento delle Nazionalità Indigene), il Fronte Unitario dei Lavoratori, i sindacati della scuola portano in piazza migliaia e migliaia di persone che si riversano nelle strade e accerchiano Carondelet, il palazzo sede del governo e l’edificio dell’Assemblea Nazionale. E occupano anche la sede del FMI a Quito, dove sanno che risiede il “governo reale” che manovra la marionetta Morena. A loro si uniscono, per la prima volta, anche le comunità indigene dell’Amazzonia, minacciate nella loro stessa sopravvivenza dalle multinazionali petrolifere. Tutto il paese è mobilitato, con circa 300 interruzioni delle strade principali dell’Ecuador; vengono sequestrati circa 500 poliziotti nel nord del paese, il presidente è costretto a spostare il governo a Guayaquil dopo aver decretato il coprifuoco. Dopo 11 giorni di proteste con 7 morti, più di 1.400 feriti, 1.200 arresti e un centinaio di desaparecidos, il governo accetta di abrogare il decreto 883 sui combustibili. Ma il “pacchetto” del FMI prevede altre misure, di cui non si parla. Una “vittoria” parziale che, se mostra la forza di un movimento popolare, mostra anche la debolezza delle sue organizzazioni. La tattica del governo per sgonfiare la protesta popolare è stata riconoscere come interlocutore legittimo solo la CONAIE, scaricando la responsabilità delle “violenze” sui dirigenti della Rivoluciòn Ciudadana, l’organizzazione che raggruppa i seguaci dell’ex presidente Rafael Correa. La partita non è comunque chiusa, perché le altre misure del FMI – che comprendono la deregulation e precarizzazione dei diritti dei lavoratori, il rialzo dell’età pensionistica, tagli all’educazione ecc. - restano, a quanto pare, in vigore. Così come restano gli scandalosi regali alle banche e alle grandi imprese, con il
condono di circa 4.290 milioni di dollari di tasse, e per i lavoratori l’obiettivo di “ridurre la massa salariale, per cui i contratti occasionali verranno rinnovati con un abbassamento del 20% e le loro ferie passeranno da 30 a 15 giorni”. Non siamo veggenti, non sappiamo come proseguirà la lotta; quello che si può certamente dire è che il protagonismo delle masse popolari ecuadoriane dovrà, prima o poi, fare i conti con coloro che le rappresentano oggi.
Haiti, basta con la corruzione
Anche la piccola isola caraibica vede da cinque settimane scioperi, blocchi delle principali vie di comunicazione, mobilitazioni di piazza che hanno paralizzato tutte le attività economiche. La ragione è la richiesta che il presidente Moise e tutto il suo governo se ne vadano perché accusati di essersi appropriati dei fondi – 100 milioni di dollari nel 2010, altri 4 milioni nel 2018 oltre al condono del debito per la fornitura del petrolio con Petrocaribe di 395 milioni di dollari – donati dal Venezuela come aiuti umanitari tra il 2010 e il 2018 (come si ricorderà, nel 2010 l’isola fu scossa da un terremoto che fece 230.000 morti; nel 2018 ce ne fu un altro di minore potenza). Può sembrare strano, un popolo che si ribella nelle strade alla corruzione, ma non solo. Il 28 ottobre migliaia di lavoratori del settore tessile, maestri e studenti hanno nuovamente manifestato, in una giornata di strade vuote, vie bloccate da barricate e negozi chiusi. Oltre alla rinuncia del presidente, i lavoratori chiedevano un aumento del salario minimo, definito “miserabile”. Insegnanti, studenti e genitori, in un’altra parte della città chiedevano la riapertura delle scuole, chiuse dal governo dal 16 settembre, giorno in cui sono cominciate le proteste. Haiti non solo è il paese più povero dell’America Latina ma è uno dei più poveri del mondo, l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Tutto ciò che produce reddito - il turismo, la coltivazione del caffè e dello zucchero e qualche piccola industria - è in mano a multinazionali statunitensi. All’isola, inoltre, non è mai stato perdonato di essere stato il primo paese del mondo a liberarsi dalla schiavitù, boicottando sistematicamente ogni suo tentativo di svilupparsi. Ecco allora che la corruzione passa dall’essere una questione “morale” ad essere una questione di sopravvivenza per la maggioranza della popolazione.
Elezioni... che dolore!
Se la mobilitazione di piazza è stata il tratto distintivo dei 3 paesi di cui sopra, il rifiuto del modello neoliberista è stato espresso in questo mese anche a livello delle urne in altri come la Bolivia, l’Argentina e la Colombia. Ora, quando si parla di elezioni, siamo sempre tentati di storcere il naso dalla nostra prospettiva: nei paesi a capitalismo “avanzato” sono ormai diventate un rito vuoto in cui ci si chiede di scegliere chi meglio servirà gli interessi dei nostri capitalisti. Ma non è così in altre parti del mondo, soprattutto nei paesi oggetto della rapina più spietata da parte dell’imperialismo e delle grandi multinazionali – dove, tra l’altro, il suffragio “universale” non è mai stato universale, dove le classi sfruttate non avevano accesso neppure a questo strumento e dove eleggere non significa semplicemente scrivere una X ma scontrarsi fisicamente nelle piazze - e bisognerebbe ragionarci non in termini assoluti. Sono uno strumento, servono o no, in un determinato paese e in un determinato tempo, a far progredire la coscienza, l’organizzazione degli sfruttati, l’accumulazione di forze? L’esempio perfetto è sicuramente il Venezuela, ma parliamo invece della Bolivia. Evo Morales vince le elezioni presidenziali (la sua quarta vittoria) con il 47,08% dei voti contro il candidato delle destre che totalizza il 36,51%. Come di consueto l’opposizione parla di brogli, immediatamente sostenuta dall’OSA (Organizzazione degli Stati Americani) e dall’Unione Europea e chiama ad uno “sciopero” generale che si riduce a scontri violenti di piazza in varie città, una replica delle “guarimbas” venezuelane. Gli rispondono decine
di migliaia di minatori, di lavoratori, di contadini, di donne e di giovani che scendono in piazza a La Paz e in altre città il 28 ottobre per sostenere il loro presidente. Per sostenere soprattutto il suo progetto, che va contro la logica egemonica dell’offensiva capitalista e che, come dice il segretario della COB (la Confederazione Operaia Boliviana), “è costato sangue per recuperare la vera democrazia”. In Argentina, vince le elezioni Alberto Fernàndez, del Frente de Todos. Mauricio Macri se ne deve andare, dopo aver riportato il paese ai tempi del “Que se vayan todos” seguendo le ricette del FMI, tanto che un mese fa il Congresso doveva riconoscere che in Argentina c’è la fame (con un decreto che prevedeva un aumento del 50% delle sovvenzioni destinate alle mense popolari data la previsione della “emergenza alimentare” fino al 2022), e dove le statistiche ufficiali fissano la cifra della povertà al 32% della popolazione. In Colombia, il narco-Stato paramilitare di Uribe e del suo delfino Ivan Duque dove chi si oppone al regime viene semplicemente, tutti i giorni, eliminato fisicamente, le elezioni regionali vedono – oltre a scontri violenti in tutto il paese - la sconfitta pesante del governo (che perde 24 dei 32 dipartimenti) , soprattutto a Bogotà, Cali e Medellin, feudo tradizionale dell’uribismo. Vincono anche due candidati ex combattenti delle FARC, Marino Grueso e Guillermo Torres (alias Juliàn Conrado, il cantante della guerriglia). La campagna elettorale, con la più alta partecipazione che si ricordi, ha un saldo di ben 7 candidati uccisi da narcotrafficanti e paramilitari. Un piccolo dettaglio umoristico: mentre Duque e Uribe diventavano lo strumento centrale degli attacchi imperialistici al Venezuela bolivariano, non si sono accorti che il terreno cominciava a franare loro sotto i piedi, nel loro stesso paese. Anche in Uruguay ha vinto nuovamente il centrosinistra con il Frente Amplio. Dal punto di vista dei rapporti di forze, quindi, un risultato elettorale non è uguale all’altro.
Qualche lezione
La rivolta dei popoli contro il modello neoliberista (la versione più brutale del capitalismo globale, ormai senza maschere) è una ribellione contro un modello sociale che impoverisce, nega una vita decente e persino un futuro a miliardi di persone, porta verso la distruzione stessa del pianeta. L’insieme delle proteste sociali che hanno visto sfruttati e oppressi, soprattutto quelli giovani privati anche del futuro, mobilitati nelle strade nonostante una repressione pesante e brutale, costituisce certamente un episodio di accumulazione di forze che si è espresso in pochi giorni. Il neoliberismo, o meglio l’imperialismo, ha subito una serie di gravi disfatte, il suo progetto è ormai in rovina e la rabbia degli sfruttati non è più diretta solo contro i governi che sono il suo strumento, ma verso quegli strumenti come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale che hanno strangolato senza pietà un continente. In modi diversi – le mobilitazioni e le elezioni – le masse di sfruttati e oppressi hanno una volta di più sperimentato la loro forza. Hanno mostrato la stanchezza dei popoli verso le politiche egemoniche dell’imperialismo, verso l’offensiva mondiale del capitale contro il lavoro, la natura e la società. Cuba e Venezuela non sono più sole. Non siamo maghi, non sappiamo come proseguiranno le lotte, se esse riusciranno a esprimere una avanguardia che consolidi la spontaneità e dia continuità a queste battaglie per un mondo diverso, che noi chiamiamo ancora socialismo. Ma sicuramente questo ottobre 2019 dice che la storia non è finita, che il ciclo non è finito, che la lotta di classe è tornata alla grande.
(*) CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni
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rassegna stampa
Notizie in breve dal mondo - ottobre Montevideo, Uruguay 14 ottobre
New York, USA 28 ottobre
Migliaia di persone hanno seguito oggi il funerale di Eduardo Bleier Horovitz, militante e dirigente comunista, “desaparecido” dopo essere stato arrestato dal 1975. I suoi resti sono stati ritrovati lo scorso aprile nella sede del Batallòn n.13 dell’esercito, dove durante la dittatura civicomilitare (1973-1985) funzionava un centro clandestino di detenzione e tortura. Bleier fu anche membro del Comitato centrale del Partito Comunista. Secondo il rapporto della Commissione per la Pace del 2003, egli morì nei primi giorni del giugno 1976 a causa delle torture subite, insieme con altri militanti.
Mentre il Consiglio dei Diritti Umani discute oggi sul conflitto tra Israele e Palestina, il suo relatore per la Palestina Michael Link denuncia che Israele gli impedisce di viaggiare in territorio palestinese. “Questo è una violazione dei procedimenti e protocolli stabiliti perché, come parte del mio compito, io devo andarci e conoscere la situazione sul terreno di prima mano” ha detto il funzionario in una conferenza stampa a New York. Oltretutto, la missione di Israele a Ginevra non risponde alle sue richieste di visitare il territorio palestinese. Link ha compilato un rapporto per l’Assemblea Generale dell’ONU in cui chiede che la comunità internazionale faccia sì che Israele metta fine all’aggressione contro la Palestina perché “l’occupazione non morirà da sola”.
Madrid, Spagna 16 ottobre
Migliaia di pensionati hanno manifestato oggi a Madrid per chiedere il miglioramento del sistema pensionistico nazionale. Venivano da varie parti della Spagna e, dopo aver compiuto 25 giornate di marcia, due colonne provenienti da Bilbao (Paesi Bassi) e da Rota (Andalusia) sono arrivate nella capitale. Chiedono un aumento pari all’aumento dell’Indice dei Prezzi al Consumo (una specie di scala mobile), l’aumento delle pensioni minime, che i loro diritti vengano inseriti nella Costituzione e la fine dei tagli al welfare. La lotta dei pensionati, organizzati in una piattaforma, costituisce uno dei movimenti di protesta più costanti del paese. Le manifestazioni si susseguono da più di un anno e hanno visto momenti cruciali come la manifestazione “simultanea” che si è tenuta nel dicembre scorso in più di 70 città contemporaneamente.
L’Avana, Cuba 17 ottobre
Muore all’età di 98 anni la grande ballerina e coreografa Alicia Alonso, fondatrice del prestigioso Balletto Nazionale di Cuba. Ha portato il balletto cubano a livello internazionale, guadagnandosi 265 premi. “Voglio che non ci sia alcuno che non gridi “Viva Cuba, quando io ballo” affermava, tornando da un tour internazionale. Nella sua accademia studiano allievi che provengono da più di 50 paesi dei quattro continenti.
Ginevra, Svizzera 17 ottobre
Nonostante la campagna mediatica internazionale di odio, oggi il Venezuela è stato rieletto membro del Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU con 105 voti a favore su 193. “Oggi osiamo definire storica questa elezione perché lottiamo contro una campagna feroce da parte degli Stati Uniti e dei suoi governi satelliti” ha commentato il cancelliere venezuelano Jorge Arreaza.
Beirut, Libano 17 ottobre
Decine di migliaia di libanesi scendono in piazza a Beirut e in altre città del paese per protestare contro l’aumento delle tasse previsto dal Bilancio del 2020. Sono stati bloccati gli accessi alla piazza Riadh al Solh, nei pressi del Parlamento, ci sono stati blocchi stradali e incendi di pneumatici.
Siviglia, Spagna 18 ottobre
Centinaia di medici e operatori sanitari hanno manifestato oggi davanti ai due ospedali della città per denunciare la mancanza di personale. I manifestanti denunciano la mancanza di 600 operatori e si oppongono alle misure del Consiglio della Salute che, meno di un mese, fa ha emesso un’ordinanza che impedisce di coprire le uscite (prima si poteva coprire il 28%) e di assumere nuovi lavoratori.
Vienna, Austria 19 ottobre
Il “Kronen Zeitung”, il più diffuso quotidiano austriaco che stampa oltre 1 milione di copie al giorno, afferma che i paesi della NATO hanno effettuato esercizi militari segreti in Germania, e che lo scenario di tali manovre era la simulazione di una guerra nucleare. In questo esercizio si sperimenta il movimento, in sicurezza, di armi nucleari con aerei. Il giornale non fornisce altre informazioni. Si sa che a questi esercizi militari, chiamati “Stead Noon” partecipa personale tedesco e italiano. Altri media ricordano che le ogive nucleari statunitensi del tipo B61 sono tuttora immagazzinate in Renania/Palatinato
Port au Prince, Haiti 22 ottobre
Nel quadro delle proteste contro la corruzione del presidente e del suo governo, oggi altri 7 uomini sono stati feriti nella città di Jacmel, nel sud. Si aggiungono ai 19 morti e ai 200 feriti, bilancio delle proteste che durano da settimane, represse dalla polizia con bombe lacrimogene, cannoni ad acqua e pallottole a salve.
Bruxelles, Belgio 24 ottobre
251,3 milioni di euro in 9 anni: sono i soldi che le compagnie petrolifere più grandi del mondo – BP, ExxonMobil, Chevron, Shell e Total – hanno versato a membri del Parlamento Europeo per influire sulle politiche energetiche delle istituzioni comunitarie. Lo denunciano oggi in un rapporto 200 OnG, che chiedono che venga vietato l’accesso a questo tipo di società alla Commissione e al Parlamento Europeo. Secondo tale rapporto, le 5 compagnie “sono riuscite a ritardare, indebolire e sabotare l’azione della UE contro la crisi climatica”,
Beirut, Libano 30 ottobre
diluendo le politiche per le energie rinnovabili e ottenendo “lucrativi” sussidi per i combustibili fossili (71,5 milioni di dollari solo nell’ultimo anno). I rappresentanti delle compagnie petrolifere hanno incontrato alti dirigenti della Commissione Europea in 327 occasioni dal 2014. Chi ha ricevuto con più frequenza i lobbysti del petrolio è il commissario spagnolo Miguel Ángel Arias-Cañete, che ha il portafoglio del Clima e dell’Energia.
Dopo 13 giorni di proteste a livello nazionale, il primo ministro Saad Hariri si dimette. La lista delle ragioni delle proteste è lunga: corruzione, mancanza di servizi pubblici e una crisi economica sempre più grave. Le banche sono chiuse per paura di un collasso finanziario. Le centinaia di migliaia di manifestanti –cristiani, musulmani e drusi uniti in piazza -, chiedono la rinuncia dei leaders di tutti i partiti e nuove elezioni. Il Libano ha uno dei rapporti debito/PIL più alti del mondo. La disoccupazione si avvicina al 25% e decine di migliaia di giovani lasciano ogni anno il paese per mancanza di opportunità.
Tegucigalpa, Honduras 25 ottobre
Londra, Inghilterra 31 ottobre
Con cannoni ad acqua e bombe lacrimogene è stata repressa duramente una manifestazione che chiedeva le dimissioni del presidente del paese, Juan Orlando Hernàndez, dopo la condanna del fratello Tony, dichiarato colpevole di traffico di droga. I manifestanti accusano il presidente di presiedere un “narcogoverno”.
Iraq 25 ottobre
Proteste in tutto il paese, con più di 40 morti e 1.800 feriti. Due settimane fa le proteste avevano fatto più di un centinaio di morti. Gli iracheni chiedono nelle strade la fine della corruzione endemica, una riforma costituzionale ed esprimono la loro rabbia contro i partiti politici e i gruppi armati. A Bagdad le forze di sicurezza hanno usato bombe lacrimogene e ordigni assordanti contro i manifestanti in piazza Tahrir che tentavano di raggiungere la Zona Verde, dove si trovano la sede del governo e l’ambasciata degli Stati Uniti. Nel sud del paese sono state date alle fiamme due sedi governative e decine di sedi di partiti. Si tratta del primo movimento spontaneo di questo tipo in Iraq, paese ricco di petrolio che patisce però una mancanza cronica di elettricità e acqua.
Washington, USA 25 ottobre
Secondo l’Associated Press, Donald Trump proibirà tutti i voli dagli USA verso Cuba, ad eccezione di quelli verso l’Avana. Si tratta di una nuova misura che rafforza il blocco con l’isola ribelle. Il Dipartimento del Trasporto annuncia quindi che i voli JetBlue e America Airlines verso Santa Clara, Holguìn e Camaguey saranno proibiti a partire dal 10 dicembre.
La società israeliana di vigilanza cibernetica NSO Group, denunciata oggi da WhatsApp perché ha hackerato il suo servizio di messaggi per spiare in almeno 20 paesi, avrebbe agito, secondo l’Agenzia Reuters, anche contro alti funzionari governativi e militari di nazioni alleate degli USA come gli Emirati Arabi, il Bahrein, il Messico, il Pakistan e l’India.La Reuters afferma che negli ultimi anni NSO Group ha utilizzato i suoi prodotti contro un’ampia gamma di obiettivi, compresi manifestanti in paesi con governi autoritari Tra questi, che sono stati avvisati da WhatsApp con un messaggio speciale, compaiono giornalisti e dissidenti politici.
Mato Grosso do Sul, Brasile 31 ottobre
Il governo dello Stato del Mato Grosso informa oggi che sono bruciati più di 50.000 ettari di vegetazione, incendi di “proporzioni mai registrate” che hanno devastato il Pantanal, regione nel sud. Il comunicato attribuisce il disastro alla siccità e ad “atti criminali” e avvisa che il fumo nella zona rende pericolosi anche i trasporti. L’Istituto Nazionale di Inchiesta Spaziale (INPE) ha registrato 799 epicentri di incendi tra il 28 e il 29 ottobre. Il Pantanal, che tocca la Bolivia e il Paraguay, è considerato la zona paludosa più grande del mondo.
Santiago del Cile, Cile 31 ottobre
Il presidente Sebastián Piñera è costretto dalle continue mobilitazioni in tutto il paese ad annunciare la sospensione del Foro dell’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e della Conferenza dell’ONU sul Cambio Climatico (COP25) che dovevano tenersi rispettivamente a novembre e dicembre.
Memoria
Thomas Sankara Il 15 ottobre 1987 moriva assassinato il rivoluzionario africano Thomas Sankara. Era nato il 21 dicembre 1949 a Yako, allora parte dell’Alto Volta, colonia francese dell’Africa occidentale. Iniziata la carriera militare, negli anni ’70 fu testimone in Madagascar di una serie di insurrezioni popolari contro il governo coloniale. Cominciò allora a studiare il pensiero di Ernesto Che Guevara, di Fidel Castro, di Marx e di Lenin. Il 4 ottobre 1983 Sankara guida la Rivoluzione Democratica Popolare nell’Alto Volta che, nonostante avesse conseguito “l’indipendenza”, continuava a giacere sotto il gioco delle potenze eauropee e delle loro multinazionali : da quel giorno il paese si chiamerà Burkina Faso (Paese degli Uomini Integri), dando vita ad un governo antimperialista: “Chi mi ascolta mi permetta di dire che parlo non solo in nome del mio Burkina Faso, tanto amato, ma anche di tutti coloro che soffrono in ogni angolo del mondo. Parlo in nome dei milioni di esseri umani che vivono nei ghetti perché hanno la pelle nera o perché sono di culture diverse, considerati poco più che animali. Soffro in nome degli Indiani d’America che sono stati massacrati, schiacciati, umiliati e confinati per secoli in riserve così che non potessero aspirare ad alcun diritto e la loro cultura non potesse arricchirsi con una benefica unione con le altre, inclusa quella dell’invasore. Parlo in nome di quanti hanno perso il lavoro, in un sistema che
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è strutturalmente ingiusto e congiunturalmente in crisi, ridotti a percepire della vita solo il riflesso di quella dei più abbienti”. Quattro anni dopo, Sankara viene assassinato dopo un colpo di Stato favorito dalla Francia, governata in quel momento dal presidente socialdemocratico Francois Mitterrand e dal primo ministro Jacques Chirac. Il suo assassino, Blaise Compaoré, instaurerà una dittatura che verrà rovesciata solo nel 2014.
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lettere La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spedite ai vari quotidiani e riviste che non vengono pubblicate. Il sommerso a volte è molto indicativo
Dalla Sardegna solidarietà con la Palestina
Il 12 ottobre oltre 40 comitati, movimenti, associazioni e sindacati hanno manifestato presso il poligono di Capo Frasca contro le esercitazioni e l’occupazione militare. Le basi militari e i poligoni ospitano imprese dell’industria bellica ed eserciti militari, inclusi quello israeliano, e hanno dirette conseguenze nelle aggressioni contro altri popoli, come in Palestina e nello Yemen. Sfruttano e devastano oltre 35 mila ettari del territorio sardo sotto il vincolo delle servitù militari per attività finalizzate alle sperimentazioni di armamenti e alle esercitazioni militari. Chiediamo la chiusura definitiva di tutte le basi militari, nonché la loro bonifica e restituzione al popolo sardo, la fine di tutte le esercitazioni militari e della produzione di armamenti in Sardegna, che oltre a causare danni all’economia, alla salute e alla libertà dei sardi, porta morte e distruzione a milioni di civili inermi nello Yemen e in Palestina; la revoca dell’accordo del 2005 di Cooperazione Militare con Israele che, tra l’altro, comprende le esercitazioni militari congiunte in Sardegna; l’applicazione di un embargo militare totale nei confronti di Israele, come chiesto dal Comitato Nazionale Palestinese per il BDS, con il blocco di ogni fornitura di armi e l’interruzione di ogni forma di collaborazione militare e accademica Ribadiamo il rifiuto a ogni forma di colonialismo, discriminazione e razzismo. La lotta per la giustizia in Palestina è intrinsecamente legata alle lotte contro il militarismo e la filiera bellica. G.S.- Sassari
FB al servizio di Israele
In ottobre è stata cancellata la pagina del nuovo sito web del Palestinian information center senza neppure contattare gli amministratori della pagina. Conferma e continua l’attacco di facebook contro chi si schiera con la Palestina. Obbediente a Israele, Fb collabora con i social proIsraele per censurare e bloccare i contenuti che esprimono il punto di vista dei palestinesi. Fb non prende di mira l’incitamento all’odio - come sostiene -, ma le critiche alla guerra, all’aggressione, al razzismo del governo israeliano che nella sua strategia è compresa la hasbara, la massiccia campagna di propaganda di pressione pubblica e dei media su Facebook. È tipico dell’imperialismo censurare la voce di coloro che sfidano il razzismo, il colonialismo, l’oppressione e l’apartheid di qualunque Stato, in particolare in Palestina. Francesco Misura
Calcio e strumentalizzazione politica
Il saluto militare dei calciatori turchi alla partita di qualificazione euro2020 ha creato scompiglio nel mondo del calcio, ma non ho sentito che forse quel saluto era obbligato. La squadra è di proprietà del Ministero della gioventù e dello Sport. Ma conferma l’uso dello sport nella propaganda in una situazione di guerra. E non solo. Israele ha promosso se stesso tramite la Uefa nel 2013 per gli under 21; e nel 2018 per il Giro d’Italia per coprire l’annessione di Gerusalemme est. Solo nel settembre scorso non è stata giocata la partita di calcio tra Khadamat Rafah della strscia di Gaza e il Nablus Balata della Cisgiordania a causa delle restrizioni di viaggio imposte da Tel Aviv ai giocatori. Oppressione, razzismo, violenza, divieti, non sono riusciti a far criticare né tantomeno sanzionare Israele da parte dei vertici mondiali dello Sport. Invece di preoccuparsi del gesto simbolico, si preoccupassero della guerra in corso, di ciò che sta facendo Erdogan e il suo regime membro della Nato e legato alla UE anche attraverso lauti finanziamenti per “accogliere” i migranti, che ora sono in fuga... Marcello Santorini
Confusione tra vittime e carnefici per riscrivere la storia Montecatini val di Cecina, con un’importante miniera di rame, è stato il primo comune della Toscana a maggioranza socialista il cui sindaco non fu riconosciuto dal Regno perché si rifiutò di giurare fedeltà alla monarchia. Durante l’occupazione nazista vi fu una significativa lotta partigiana con la brigata “Otello Gattoli” e molte famiglie respingendo le leggi razziali e rischiando rappresaglie salvarono cittadini perseguitati. Il referendum sulla Repubblica del 1946 ottenne il 70% dei voti. Fino ad oggi si sono sempre avvicendate Giunte di sinistra o di centrosinistra e anche nelle elezioni del 2018 il Sindaco, centrosinistra, ha prevalso sul candidato di destra con oltre l’88% dei consensi. Cosa sta succedendo oggi? Per decisione unanime il Consiglio comunale ha deciso di intestare una piazza cittadina a Sergio Ramelli, un militante fascista milanese morto nel 1975 per mano di Avanguardia Operaia, “onorato” con tanto di esibizione di saluti romani e alla presenza del noto fucilatore di partigiani Giorgio Almirante. Ramelli fu ucciso in un periodo di scontri all’ordine del giorno. Sempre nel 1975 venne ucciso a Milano per mano dei fascisti Alberto Brasili. Tre anni dopo vennero uccisi Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci (Iaio), del Centro Leoncavallo. Per non parlare delle numerose vittime della strage di Piazza Fontana, effettuata da gruppi fascisti in combutta con apparati dello Stato. Perché è stato scelto di intestare la piazza proprio a quel fascista e non, ad esempio, ai morti di Reggio Emilia, uccisi dalla Polizia al servizio del governo filofascista di Tambroni? Il Secolo d’Italia ha elogiato il provvedimento promuovendo Montecatini a “capitale d’Italia della pacificazione politica” e della fine della “contrapposizione fra ideologie”. Quale pacificazione? Quella che mette sullo stesso piano le varie ideologie? Il fascismo è un crimine, ma un crimine ben visto in tempi di crisi da ampi settori del capitalismo. Oggi si vuole fare confusione tra vittime e carnefici per riscrivere la storia e leggi come il Decreto sicurezza e l’autonomia differenziata che limitano l’opposizione e la resistenza contro le politiche padronali. Il centrosinistra è complice di queste politiche come i partiti riformisti che votarono i crediti di guerra per far partecipare i propri paesi al macello della prima guerra mondiale che, dopo poco, portò al fascismo. Dovrebbero ricordarselo coloro che alle elezioni votano il meno peggio turandosi il naso. Alberto Mensoli-Roma
Gli Stati Uniti d’America? Chiamatela piuttosto schiavocrazia
Questo, nella sostanza, il titolo di un articolo apparso su La Repubblica e che dà notizia di una maxi inchiesta, destinata a fare scalpore, condotta non da un giornale di provincia ma dal New York Times, che riscrive la storia degli USA partendo dal suo vero evento fondativo: la tratta degli schiavi. L’atto di accusa è pesantissimo: “Cittadini americani quello che vi hanno sempre detto sulla nostra democrazia, sulle nostre istituzioni repubblicane, sulla libertà e sull’uguaglianza superiori a quelle di qualsiasi altro paese per non parlare della nostra Costituzione… è semplicemente una colossale bugia, ipocrisia e falsità. L’inchiesta del New York Times, il più importante giornale del mondo, è destinata sicuramente a lasciare un segno sull’America, sulle sue istituzioni, sulla sua immagine di grande potenza mondiale svelandone le caratteristiche che fanno di essa una potenza imperialista mondiale. The 1619 Project è il maxi progetto del New York Times pubblicato sulle pagine del New York Times Magazine. Si tratta di un grandissimo lavoro di inchiesta storica al quale hanno concorso storici, giornalisti ma anche poeti e musicisti. Insomma è abbastanza difficile, se non impossibile, mettere in discussione la veridicità dell’inchiesta e il giudizio complessivo sulla nascita e sulla storia dell’America. Infatti il vero evento fondativo della nazione non è l’arrivo dei Padri Pellegrini avvenuto nel 1620, data questa ricordata e festeggiata dalla nazione americana, bensì il baratto tra viveri e schiavi africani rapiti avvenuto sulle coste della Virginia nel 1619. Protagonisti: una nave pirata inglese e un gruppo di coloni. L’arrivo di quel primo gruppo, con la vendita degli africani segnò l’inizio della schiavitù americana che avrebbe portato su quel continente, in un viaggio in catene attraverso l’oceano Atlantico, 12,5 milioni di africani con oltre 2 milioni di morti causati dalle condizioni terribili della più grande migrazione forzata che la storia ricordi prima della fine della seconda guerra mondiale. A questo punto si impone una considerazione di ordine generale. La storia degli Stati Uniti è fatta di vari aspetti. Da quelli della guerra di indipendenza a quelli della conquista del west con le tribù indiane confinate nelle riserve, dalla guerra di secessione tra nord e sud che determinò nel 1865 l’abolizione dello schiavismo, agli interventi militari da gendarme mondiale dei popoli, alla negazione agli afroamericani dei diritti civili conquistati dopo dure lotte e versamento di sangue, al razzismo feroce del Ku klux Klan. Ma l’aspetto della storia dell’America che più colpisce è l’interrogativo su come gli Stati Uniti siano divenuti una potenza mondiale. La risposta non è poi così difficile. Milioni e milioni di afroamericani hanno assicurato nelle grandi piantagioni di cotone e nelle fabbriche del nord per più di un centinaio di anni, lavoro gratuito. Insomma la crescita economica degli Stati Uniti fino a diventare, sotto il profilo tecnologico e non solo, una grande potenza mondiale è avvenuta sotto il segno della schiavitù e della continua violazione dei più elementari diritti della popolazione afroamericana. Solo nel 1870, dopo la fine della guerra civile, il Congresso approvò il diritto di voto ma solo nel 1965, dopo anni di lotte civili, la popolazione nera poté esercitare questo diritto. Non è difficile, a questo punto, capire perché la schiavitù negli Stati Uniti sia durata così a lungo e tuttora permei la società americana. L’afroamericano schiavo rappresentava una fonte di ricchezza per il proprietario di schiavi: salario zero – vitto e alloggio: quel poco per ricreare nello schiavo la forza lavorativa. Le ingiustizie che hanno subito gli schiavi americani e, abolita la schiavitù, la popolazione afroamericana smentiscono in maniera netta e inappellabile le bugiarde e ipocrite declamazioni degli Stati Uniti sull’uguaglianza, sulla democrazia e sulla libertà. Altro che democrazia e libertà per una nazione che ha costruito le sue fortune sullo schiavismo, i cui primi otto su dieci presidenti erano proprietari di piantagioni di cotone e di schiavi neri con il governo si impegna va a garantire agli schiavisti la loro”proprietà” e l’uso di polizia ed esercito in caso di ribellioni o di fuga di schiavi. L’inchiesta ha lasciato allibita e furiosa tutta la destra americana, presidente in testa. Un poco straniti e cauti i democratici. Appaiono evidenti le ragioni. Nessuno vuole accettare la verità che la ricchezza e la potenza dell’America è nata e si è sviluppata all’insegna dello schiavismo. Fabio Zannoni -Prato
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