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RIVISTA COMUNISTA DI POLITICA E CULTURA Periodico n. 1/2015 - anno XXIV

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O PROTAGONISTI O SFRUTTATI

Si prospetta un altro anno di sacrifici e repressione. La lotta continua ad essere l’arma per rispondere ai feroci attacchi della borghesia

Le vicende dei primi giorni dell’anno ci fanno capire che altro anno terribile ci aspetta. Prima di tutto sul lavoro. L’ottimismo espresso dai Ministri è tutto del Governo Renzi. Lavoratori, pensionati, disoccupati, giovani vivono una realtà ben diversa che continua ad aggravarsi. In piena continuità con il rigore economico, delle scelte antipopolari e con le alleanze statunitensi, con i poteri forti dell’Unione europea e sioniste Mattarella ha sostituito Napolitano. E’ passato il jobs act (vi rimandiamo agli articoli sui numeri precedenti) in Parlamento nel silenzio di Cgil, Cisl, Uil, Ugl (lo sciopero di dicembre fortemente voluto dalla base è stata una farsa), arrivano i decreti attuativi che sanciscono lo schiavismo del XXI secolo, il via libera ai licenziamenti, l’attacco alle condizioni di lavoro, ai diritti e la salvaguardia del profitto padronale. Il lavoratore diventa una merce ad uso e consumo del “mercato”, i contratti a tempo indeterminato sono un’illusione, il TFR in busta paga - soldi del lavoratore peraltro tassati - fa parte della propaganda elettorale come lo sgravio degli 80 euro e la promessa del bonus bebè. L’attacco si accompagna all’aumento della repressione contro i lavoratori con controlli e sanzioni, contro le occupazioni delle case e per imporre gli sfratti. Un 2015 di nuovi tagli, tranne negli sprechi, nella spesa per mantenere il Palazzo e per il riarmo. Sforbiciata al Ministero del Lavoro di 4,6 milioni, ai Trasporti per 11,2 milioni, per la sanità sono 11,3 milioni, tagli che saliranno a 33,3 nel giro di tre anni e la parte del leone la farà il settore della prevenzione con quasi 11 milioni di euro per i prossimi tre anni, sebbene l’Italia destini alla sanità solo il 6% del Pil, il più basso d’Europa e degli stessi Stati Uniti. Tagli che ricadono sulla popolazione obbligata a pagare ticket salati per le prestazioni, tant’è che sono circa 9milioni gli italiani che non ricorrono alle cure. Situazione che peggiorerà dopo la firma di nuovi trattati in via di approvazione come il TTIP e il Tisa. La Toscana, che vanta il primato di “buona sanità”, nonostante gli ammanchi degli ospedali - non certo a causa delle eccessive cure - è stato aggiunto un ticket per la “digitalizzazione” di 10 euro che devono pagare anche gli esenti. La situazione sanitaria è gravissima e forse non è ancora recepita perché è orientata alla privatizzazione, all’uso delle assicurazioni e alla creazione di ricoveri di tipo A e B aumentando la discriminazione tra malati. Non va meglio alla scuola dove la cultura è sostituita dal nozionismo, da un nuovo piano di tagli a favore degli isti-

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tuti privati e dalla definitiva aziendalizzazione della scuola statale confacente all’industria. Con l’aggravarsi della crisi emergono i fascisti che si inseriscono nel malessere sociale tentando il controllo dei territori. Al servizio dei padroni, collegati con la criminalità, il malaffare e gli stessi servizi segreti oggi trovano una sponda nella Lega nord di Salvini - alla ricerca dei voti di destra - che prosegue la sua politica reazionaria, razzista e xenofoba. Ma com’è nella loro natura i fascisti non tralasciano il lavoro sporco di manovalanza, aprono sedi in varie città d’Italia che sono veri e propri centri di organizzazione squadrista. E’ dalla sede di Cremona di CasaPound (uno dei gruppi della galassia fascista) che è partito l’assalto al CSA Dordoni aggredendo i suoi militanti che si sono poi dileguati grazie all’intervento della polizia. Il più grave, Emilio, dopo un lungo periodo in coma necessita di cure particolari e costose. La situazione è altrettanto grave sul piano internazionale. La politica del governo Renzi garantisce il contributo all’Alleanza Atlantica sia sul piano economico che sugli scenari di guerra e conferma, a fronte di tutti i tagli relativi alle spese sociali, il continuo aumento di spese militari. Non è che crediamo alle promesse di Renzi però ricordiamo - tanto per sbugiardarlo ulteriormente - che cinque mesi fa aveva annunciato di riesaminare l’acquisto dei cacciabombardieri F.35 con l’obiettivo di dimezzare il budget. Ebbene nei giorni scorsi è stato annunciato che l’Italia mantiene l’acquisto dei 90 caccia, per un importo pari a 13 miliardi di euro, denaro pubblico come quello per i 52 milioni di euro al giorno che l’Italia paga alla NATO e che forse sfugge ai più e che non possiamo aspettarci che PD o simili né gli stessi sindacati confederali informino i propri iscritti . Le scelte internazionali del governo Renzi ci trascinano nella guerra che la Nato conduce su due fronti: meridionale e orientale in coerenza con la sottomissione agli Usa che lavorano per accrescere la loro influenza sull’Unione europea: si schiera con il governo di Kiev dove la NATO ha organizzato il golpe dopo anni di controllo in posizioni chiave nelle forze armate e dopo aver addestrato gruppi neonazisti, dove i comunisti sono messi al bando e il ministero della Giustizia ha presentato all’approvazione della Rada suprema (il Parlamento) un progetto di legge per la proibizione dell’ideologia comunista. Ed è pronto per inviare militari in Libia. Distrutta nel 2011 per l’ambizione e la conquista del petrolio della Francia con il codismo del governo italiano, oggi si conferma la nostra analisi e tutti coloro che inneg-

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giavano alla caduta di Gheddafi strumentalizzano l’ascesa dell’IS con il ricatto del terrorismo. Ma chi ha creato questi gruppi e per quale motivo? E ritroviamo sempre i soliti Stati Uniti che come hanno utilizzato Al Qaeda oggi utilizzano IS. La Grecia ha votato. Grande successo di Syriza. Gli elettori greci stremati dai sacrifici e dalla povertà si sono illusi delle promesse di Tsipras. Ma ancora fresco di vittoria elettorale il nuovo governo ha subito rassicurato l’Unione europea che non si trattava dell’uscita dalla Ue, argomento al centro dei comizi elettorali, ma della rinegoziazione. E, consegnando il ministero della Difesa alla destra, ha assicurato la fedeltà alla Nato. E’ possibile fare l’interesse delle masse popolari se non si mettono in discussione il capitalismo e le alleanze militari imperialiste? La guerra divampa in Libia e il conflitto in Ucraina - anche se scompare dai notiziari in seguito ai negoziati trilaterali - continua. Siamo nel pieno di contraddizioni interimperialistiche che rafforzano il potere della Germania e dimostrano l’inevitabilità della guerra. Ma gli Stati Uniti restano la prima potenza imperialista che prosegue il suo inserimento nell’Europa orientale con la creazione di basi Nato, lo spiegamento di militari come “forza di risposta”, con l’assistenza militare al governo di Kiev, in funzione dello spostamento dei propri interessi strategici. E imponendo all’Europa trattati economici capestri come il TTIP e il Tisa. Il pericolo del coinvolgimento dell’Italia in guerra è più che mai reale. Il governo è pienamente sottomesso agli Stati Uniti, con le basi Usa e Nato dislocate sul nostro territorio la presenza militare statunitense è enorme, il riarmo è continuo. È evidente che il mondo ha bisogno di capovolgimento, ma restando in Italia non possiamo dire che ci sia una risposta adeguata. Le lotte sono parziali, locali, parcellizzate. Paghiamo il disarmo ideologico e politico sul quale la borghesia, i socialdemocratici e i revisionisti lavorano da tempo con l’obiettivo di cancellare la contraddizione di classe tra capitalisti e lavoratori sostituendolo con il mito della legalità e l’abolizione tra destra e sinistra. Finché non sarà chiaro che la classe lavoratrice deve diventare protagonista della lotta di classe e prendere in mano la propria vita politica per capovolgere questo sistema marcio e costruirne uno socialista senza sfruttamento e senza padroni ci saranno sempre delle toppe imposte dal capitalismo e i lavoratori e le masse popolari continueranno a vivere di stenti.

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lavoro

Quale rappresentanza e di chi? Da RSU apprappresentanze Sindacali Unitarie) a RSU (Rifiuti Solidi Urbani) Eraldo Mattarocci Il 10 gennaio dello scorso anno, con la firma del Testo Unico sulla Rappresentanza, CGIL-CISL–UIL e Confindustria hanno concluso il percorso iniziato nel lontano luglio 1993 con un accordo che definiva le norme per la costituzione e le elezioni delle RSU e che garantiva, in maniera alquanto mafiosa, un terzo dei membri ai sindacati concertativi. Lo scopo dell’accordo era, allora come ora, quello di escludere i militanti sindacali più combattivi, spesso organizzati nei Sindacati di Base, privando i lavoratori di una rappresentanza reale che rispondesse del suo operato all’assemblea e non ai funzionari sindacali. Evidentemente, nella fase odierna di costante erosione di diritti e salario, le RSU elette con le pur restrittive regole del vecchio accordo, nonostante non fossero certo un esempio di democrazia e di partecipazione, lasciavano ancora troppi spazi ai lavoratori di avanguardia ed alle organizzazioni sindacali di base. Per eliminare questi spazi e, quindi, stroncare preventivamente qualsiasi possibilità di conflitto i vertici dei sindacati collaborazionisti e le organizzazioni padronali hanno definitivamente sancito la fine delle RSU come strumento di rappresentanza dei lavoratori. Nel contempo, con un meccanismo paradossale degno del famigerato Comma 22, apparentemente hanno aperto la contrattazione nazionale a soggetti sindacali diversi da CGIL–CISL–UIL mentre in realtà l’hanno blindata ulteriormente. Infatti la partecipazione ai tavoli della contrattazione, così come la partecipazione alle elezioni delle RSU, è vincolata non solo alla sottoscrizione da parte delle organizzazioni sindacali dell’Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d’Intesa del 31 maggio oltre che del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014 ma è vincolata anche a criteri numerici di rappresentanza (il 5% della categoria conseguito con la media tra iscritti e

scritto il Testo Unico, anche se solo per accettazione come ha fatto la Confederazione Cobas, ed i suoi eventuali delegati nel caso non condividano l’accordo siglato non si possono opporre in alcun modo, né promuovendo raccolte di firme o assemblee né, tantomeno, dichiarando sciopero. Se lo facessero, sarebbero soggetti a sanzioni. 3) La procedura di indizione delle elezioni può essere attivata solo dai firmatari dell’Accordo. Ad ulteriore dimostrazione che i membri delle RSU sono i terminali sui posti di lavoro delle organizzazioni territoriali anziché di chi li ha eletti, il delegato, nel caso di un cambio di organizzazione, decade. 4) Se, come già detto, agli incontri per il rinnovo del CCNL possono partecipare quelle organizzazioni che raggiungono il 5% della categoria, cifra tutto sommato ragionevole, dove è la trappola? A certificare i numeri è il datore di lavoro che però, guarda il caso, è tenuto a fare la trattenuta sindacale in busta solo se l’organizzazione sindacale in questione ha sottoscritto, accettandolo in toto, il “pacchetto”! A questo punto non ci resta che ringraziare sindacati confederali e pavoti presi alle elezioni RSU) che, per i motivi che spiegheremo, non potranno mai essere raggiunti da un’organizzazione sindacale antagonista. Entrando molto schematicamente nei dettagli del Testo Unico, rileviamo che: 1) Gli accordi sottoscritti in azienda possono essere peggiorativi, cioè possono ridurre i minimi definiti dalle Leggi e dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. Tali accordi sono validi se sottoscritti da organizzazioni che rappresentino il 51% dei lavoratori (media tra iscritti e voti ottenuti dai propri candidati alle elezioni delle RSU) oppure dal 50% più 1 dei delegati. 2) Le organizzazioni che hanno sotto-

droni perché costringono tutti a tirare giù la maschera ed a scegliere da che parte stare. Non mancano e non mancheranno gli opportunisti, singoli ed organizzazioni, che sceglieranno con mille funambolismi, di mettere in soffitta il diritto di sciopero e di organizzazione così come fa la FIOM che, a parole, critica l’accordo e non lo sottoscrive mentre, in realtà, partecipa a questi simulacri di RSU utilizzando l’adesione della CGIL. Per quanto ci riguarda la strada è un’altra, quella dell’autonomia della classe operaia, autonomia culturale e di conseguenza politica ed organizzativa, dai padroni, dai loro servi e dai loro governi. La lotta di classe non si ferma solo perché non possiamo e non vogliamo partecipare a queste RSU, ci sono i nostri Collettivi sui posti di lavoro da rafforzare ed altri da costruire e far funzionare e, soprattutto, ci sono lotte da organizzare considerando che uscire dalla palude del piccolo sindacalismo quotidiano per darci obiettivi di più ampio respiro non può farci che bene. * Coordinatore FLMUniti–CUB Genova

Alla Camera c’è un progetto di legge di Cesare Damiano e al Senato uno di Pietro Ichino, entrambi del Pd per trasferire in un testo di legge l’accordo del gennaio 2014. Il 15 marzo Inps, Cgil-CIsl-Uil, Confindustria hanno firmato la convenzione per l’elaborazione e la comunicazione dei dati relativi alla rappresentanza, ovvero sarà rilevato il numero degli iscritti per ogni organizzazione sindacale e, in base alle “soglie” sarà stabilita la titolarità per fare accordi commenti: Camusso ha ringraziato il nuovo presidente INPS per avere “recuperato tempo in velocità” su una convenzione “assolutamente importante”; Barbagallo (Uil) dice di “non aver avuto mai problemi per farci contare”; Furlan (Cisl) sostiene che questa convenzione rende “trasparente e certa la rappresentanza delle organizzazioni sindacali: tutto alla luce del sole”. Anche gli industriali sono molto contenti della tempistica e riconoscono che la firma del Testo unico è “un grande atto di maturità delle parti sociali dopo l’accordo sulla rappresentanza” definito “storico”.

CONTRO LO SFRUTTAMENTO DEGLI ESSERI UMANI E LA DISTRUZIONE DELLA NATURA A PERENNE RICORDO DI TUTTE LE VITTIME DELL’AMIANTO E DELLE SOSTANZE CANCEROGENE

Sabato 18 aprile 2015 – ore 16.00 corteo

partenza dal Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli” di via Magenta 88, Sesto San Giovanni (Mi), fino alla lapide di via Carducci Le fibre di amianto che hanno arricchito i padroni dell’Eternit e di tante altre fabbriche, pubbliche e private, continuano a uccidere lavoratori e cittadini mentre i responsabili rimangono impuniti. In Italia c’è una realtà fatta di decine di migliaia di morti sul lavoro e di lavoro, di altre migliaia di lavoratori e cittadini che si ammaleranno e moriranno in futuro, e c’è una “giustizia” che continua a dire che nessuno è colpevole. Una società che considera normale che ogni anno migliaia di lavoratori e cittadini si ammalino e muoiano a causa del lavoro, che non persegue i responsabili di questa strage che continua, è una società barbara in cui il diritto del padrone a fare profitti vale più della giustizia verso le vittime. Punire i colpevoli, bonificare l’ambiente e i luoghi di lavoro è un problema non più rinviabile; una vera emergenza ambientale, sanitaria, sociale. Contro l’omertà e la complicità di padroni, governi e istituzioni, MANIFESTAZIONE

in ricordo di tutti i lavoratori assassinati in nome del profitto

Dopo il corteo per le vie della città e la deposizione dei fiori alla lapide posta dai lavoratori delle fabbriche di Sesto, la manifestazione terminerà alle ore 17,30 con un’assemblea aperta presso il Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli” di Via Magenta 88, Sesto San Giovanni Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio e-mail: cip.mi@tiscali.it web: http://comitatodifesasalutessg.jimdo.com

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note di classe

Nel segno del comando Ovvero come la “Buona Scuola” riorganizzerà il sistema dell’istruzione in chiave autoritaria al servizio della speculazione finanziaria e del profitto aziendale brugio

Dalle parole ai fatti…

Dopo la fase delle spacconate e della sindrome da “annuncite”, il Governo Renzi è passato alla messa in opera: dalle parole ai fatti. In qualche modo ci fa rimpiangere quei governi che bighellonavano e si trastullavano, parassitariamente, ma che non provocavano danni irreparabili all’impianto sociale e agli equilibri istituzionali. Questo governo, invece, si sta contraddistinguendo per l’organica distruzione dell’impianto sociale e costituzionale, più di quanto abbia fatto il “pionieristico” Berlusconi. Renzi è il continuatore, l’erede perfetto del berlusconismo, nonché il manipolatore perfetto della Costituzione per svuotarla dei contenuti più progressisti. Con il Jobs Act (Legge 78/14, detta Poletti, e il DDL delega), si sono annientati i diritti dei lavoratori consegnando nelle mani del padronato un potente strumento per tenere sotto ricatto i lavoratori e licenziare impunemente; con la soppressione delle Province (Legge 56/14, detta Delrio) si sottrae il diritto di voto ai cittadini per l’elezioni delle assemblee che gestiscono le risorse del territorio e i piani per ambiente, rifiuti, trasporti, edilizia scolastica etc., e si annunciano tra il 30% e il 50% di esuberi sul personale degli Enti provinciali; adesso Renzi mette le mani sulla scuola, scontentando decine di migliaia di precari che resteranno fuori dal provvedimento di assunzione e avviando un incerto percorso con un disegno di legge che, per i tempi che occorrono per l’approvazione, potrebbe provocare l’allontanamento dalla stabilizzazione di alcuni mesi, oltre il fatidico primo settembre 2015, anche per i precari delle GAE (Graduatorie Ad Esaurimento). Questo aspetto grave, in cui di fatto più della metà di docenti (e ATA?) precari, che hanno lavorato come supplenti consentendo il funzionamento delle scuole in anni ed anni, saranno “licenziati”, si iscrive in un contesto di profonda mutazione della natura della scuola pubblica, come istituzione delineata dagli articoli 3, 33, 34 della Carta Costituzionale.

È impossibile dimenticare quanti miliardi sono stati sottratti dalle casse pubbliche per finire nelle tasche di istituti privati, in prevalenza ideologicamente impostati e tuttavia considerati essenziali per la libertà dei ceti borghesi, ma finanziati dai contributi dello Stato: il sistema pubblico-privato, fondato sul principio di sussidiarietà, rappresenta la più grande truffa perpetrata ai danni del mondo della scuola, riconfermata dalle concessioni del Governo Renzi (473 mil. di euro solo dallo Stato) e da un ulteriore bonus fiscale alle famiglie che iscriveranno i propri figli agli istituti privati. Tuttavia, rispetto all’alternanza tra la scuola atta a fornire manodopera specializzata al capitale del XXI

secolo (modello centrosinistra) e quella ferocemente classista che destina i sottomessi all’analfabetismo (voluta dalle destre), si annuncia un nuovo orizzonte della formazione, assai più integrato nella nuova concezione dominata dal capitale finanziario e dall’autoritarismo elitario. La scuola di Renzi è impostata verso un modello funzionale all’assetto imperialistico in cui l’Italia è collocata, come articolazione dell’imperialismo euro atlantico. La scuola necessaria per questo nuovo scenario economico-sociale, in cui le classi subalterne forniscono la riserva precaria dello sfruttamento produttivo e della speculazione finanziaria, è un sistema in cui la catena gerarchica determina un assetto a-

La scuola del futuro

Il Disegno di legge approvato il 12 marzo dal Governo Renzi ridisegna completamente, come nessuna controriforma della scuola ha fatto in questi anni, l’assetto e la natura della scuola pubblica. Non si tratta di una semplice manovra di ristrutturazione nel senso economicista, cioè incentrata sull’evidente ricerca di risparmio per le casse dello Stato: in questi anni, centrosinistra e centrodestra hanno devastato e saccheggiato le risorse dello Stato destinate ai servizi pubblici, tra cui annoveriamo la scuola come il sistema più esposto a questo massacro sociale. Lo stravolgimento del sistema dell’istruzione è uno dei più articolati e profondi attacchi ai diritti e alle tutele sociali garantite dalla Costituzione, ed è anche per questo che la distruzione della scuola pubblica è stata difficile: purtroppo adesso siamo veramente alle battute finali.

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democratico. Come le istituzioni si auto-legittimano e si ergono su moltitudini private di diritti sociali e politici, come di coscienza di classe, così la una scuola dovrà rispondere a criteri burocraticamente meritocratici e al principio gerarchico del comando manageriale: gli assunti saranno infatti collocati in un organico funzionale atto a coprire le necessità delle scuole (singole o a rete), per la necessità di sostituire docenti o personale ATA assente; l’assunzione o meno dipenderà dai presidi, nelle cui mani si concentreranno poteri enormi di attingere direttamente da appositi Albi (ancora da costituire); infine, la progressione di carriera automatica è stata quasi

interamente preservata (tanto comunque gli scatti di anzianità non li pagano da tre anni e resteranno bloccati fino al 2018!), mentre viene introdotta una parte marginale (sperimentale, per la bellezza di 200 milioni in tutto) che dovrà essere devoluta direttamente dalle singole scuole (in piena autonomia!) secondo criteri individuati nelle scuole stesse (possiamo solo immaginare lo scontro che si aprirà tra colleghi per spartirsi quel misero 5%).

Comprare e asservire

Nel Ddl si continua a promettere assunzioni, le stabilizzazioni che spettano di diritto come ricorda la sentenza della Corte Europea, ma Renzi continua con il gioco delle tre carte: da 148mila siamo scesi a 100mila precari da assumere a settembre, se il Ddl avrà il tempo di concludere il suo iter. In realtà, Renzi compie una brutale amputazione di quei precari che, non inseriti nelle GAE istituite nel 2007, hanno titoli culturali e riconoscimenti concorsuali (gli idonei del 2012), ma resteranno comunque fuori. Potranno ritentare con il concorso del 2015-16, se vorranno, nel frattempo è bene che si trovino un’altra occupazione. Ai docenti sarà riservata una elemosina da €500 per acquistare libri, biglietti di teatri e musei, mentre si risparmiano migliaia di euro con l’eliminazione di supplenze e incarichi, che verranno ricoperti dai neoassunti (anzi, dai cooptati dai Dirigenti Scolastici). In questo modo, con un obolo da poche centinaia di euro, il Governo spera di comprarsi la fiducia del mondo della scuola, mentre gerarchizza e riduce in servitù decine di migliaia di docenti ed ATA.

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vertenze/salute

Processi amianto e interessi operai dopo la sentenza Eternit In questa società barbara il diritto e il profitto dei padroni vale più della salute e della vita

Michele Michelino Lunedì 23 febbraio, nello stesso giorno in cui la Corte di Cassazione ha depositato le motivazioni della sentenza che lo scorso 19 novembre ha considerato prescritto il reato di disastro colposo annullando la condanna a 18 anni di reclusione inflitta dalla Corte d’Appello di Torino, il pm Guariniello della procura di Torino ha chiesto nuovamente il rinvio a giudizio per padrone svizzero della Eternit, Stephan Schmidheiny 67 anni. Questa volta l’accusa è di omicidio volontario aggravato per la morte da amianto, tra il 1989 e il 2014, di 258 persone. Il processo del secolo, com’era stato definito dalla stampa contro i padroni dell’Eternit, è finito con l’assoluta impunità dei padroni. Per la Corte di Cassazione, il processo per le morti da amianto era prescritto prima ancora del rinvio a giudizio di Schmidheiny perché l’accusa avrebbe dovuto contestare non il disastro colposo ma l’omicidio e lesioni. Al danno si è aggiunta la beffa e così sono stati annullati anche i risarcimenti ai familiari delle vittime dei quasi 2000 morti e ammalati degli stabilimenti di Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli. Secondo la Cassazione, inoltre, l’imputazione di disastro a carico di Schmidheiny non era la più adatta da applicare per il rinvio a giudizio poiché la condanna massima sarebbe troppo bassa, per chi miete morti e malati, perché punita con 12 anni di reclusione. In pratica «chi dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage», sarebbe punito con solo 12 anni di carcere e questo è «insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contrario al buon senso», e qui ancora una volta al danno si aggiunge la beffa, perché anche se colpevole grazie alla prescrizione il padrone rimane impunito. Anche se oggi si continua a morire per le fibre killer che hanno arricchito i padroni dell’Eternit, la Cassazione dice che Schmidheiny non deve essere ritenuto responsabile neanche della mancata o incompleta bonifica dei siti produttivi. Per i giudici il reato di disastro non lo contempla. Ancora una è stata applicata una giustizia di classe a favore dei borghesi. La vergogna della “giustizia italiana“ è che con la prescrizione si difende il diritto dei capitalisti a fare profitti sulla pelle dei lavoratori rimanendo impuniti. La società capitalista considera normale e fisiologico, un costo necessario da pagare alla realizzazione del profitto che ogni anno migliaia di lavoratori e cittadini muoiano a causa del lavoro e di malattie. Il profitto viene prima di tutto, per

questo non vengono condannati i responsabili di una società barbara in cui il diritto e il profitto del padrone vale più della salute, della vita dei proletari, e della giustizia degli esseri umani. Questa sentenza ha fatto scuola, stabilendo un nuovo orientamento nella giurisprudenza. Marlane. Un mese dopo, il 19 dicembre 2014, nel processo Marlane a Praia a Mare tenuto a Paola (CS) tutti i 13 imputati, che all’epoca dei fatti lavoravano a vario titolo in quella che per anni è stata definita la “Fabbrica dei veleni” e che secondo la pubblica accusa ha causato la morte di più di 100 persone tra dipendenti e cittadini di Praia a Mare, comune dove si trova l’ex lanificio sono stati assolti. Ancora una volta il diritto di uccidere in nome del profitto viene prima della giustizia per le vittime. In questa fabbrica gli operai erano avvelenati senza protezioni da cromo esavalente, vanadio, piombo, arsenico, zinco, rame, mercurio, amianto, elementi cancerogeni ritrovati nell’area circostante la “Fabbrica dei veleni”, come ha testimoniato nel processo l’ex addetto all’impianto di smaltimento della fabbrica che dopo aver ucciso gli operai hanno ucciso i cittadini. Vittorio Cicero, addetto all’impianto di smaltimento della fabbrica come operatore d’impianto delle acque reflue per un certo periodo, in una testimonianza, ha spiegato alla corte i metodi usati per smaltire le sostanze tossiche della lavorazione tessile. Nonostante questo lavoratore abbia di-

chiarato che le acque della tintoria, del lavaggio e del fissaggio, provenienti dalla lavorazione tessile, una volta schiarite dal depuratore le faceva scaricare direttamente a mare, mentre i fanghi rimanenti erano seppelliti nei terreni dello stabilimento, per il Tribunale questo non è stato un elemento rilevante. Come ormai avviene in tutti i processi in cui si cerca giustizia per gli operai assassinati dalla logica del profitto, anche in questo caso, dopo aver monetizzato la morte e la vita umana, pagando anticipatamente con somme dai 20 ai 30 mila euro le vittime e i loro famigliari costituitesi parte civile gli imputati si sono comprati l’impunità. Il gruppo Marzotto e l’Eni, entrambi proprietari, anche se in periodi storici differenti della fabbrica, che com’è emerso dalle testimonianze delle vittime che non potevano non sapere sono stati assolti. Pietro Marzabotto, ex Presidente del gruppo, Carlo Lo Monaco due volte sindaco di Praia a Mare responsabile del reparto tintoria, Silvano Storer, ex amministratore delegato del gruppo e Jean De Jaegher, consigliere dell’associazione europea delle industrie tessili e presidente della Marzotto Usa imputati di disastro ecologico, ambientale e sociale sono stati assolti con formula piena. Enel di Turbigo. Anche qui resta senza un colpevole la morte di otto operai della centrale termoelettrica Enel di Turbigo, in provincia di Milano, colpiti da mesotelioma pleurico stato

provocato dalle polveri di amianto respirate tra gli anni ‘70 e ‘80. Il Tribunale di Milano ha infatti assolto “per non aver commesso il fatto” quattro ex dirigenti Enel ed ex responsabili della centrale imputati per omicidio colposo. Una decisione questa che ha provocato le proteste dei parenti delle vittime e dei comitati presenti in aula. Dopo la lettura della sentenza alcuni sono scoppiati in lacrime, mentre altri hanno inveito contro il presidente della quinta sezione penale del Tribunale di Milano, Beatrice Secchi, urlando “vergogna” e “li hanno uccisi un’altra volta”. Anche in questo caso il pm aveva chiesto la condanna dei sei ex dirigenti Enel alla sbarra da due fino a otto anni e mezzo per l’ex direttore di compartimento. Al centro del processo le morti di otto operai (avvenute tra il 2004 e il 2012) che hanno lavorato nella storica centrale termoelettrica di Turbigo, in provincia di Milano, la cui prima attività risale agli anni ‘20. Operai che, secondo l’accusa, si sono ammalati per la presenza di fibre di amianto all’interno della centrale. “Mio marito era il ritratto della salute - ha spiegato la vedova di Mario Ranzani, uno dei lavoratori morti -, l’amianto ha ucciso il padre dei miei figli dopo un’agonia durata un anno e nessuno pagherà per questo”. Quella emessa è la prima sentenza nella serie di processi ancora in corso a Milano a carico di ex manager di società come Breda, Fiat, Pirelli, Ansaldo, accusati di omicidio colposo in relazione a decessi di operai provocati dalla presenza di amianto in stabilimenti lombardi in continuità con la sentenza della Cassazione sul caso Eternit. Anche in questo caso, l’assoluzione dei dirigenti di un’azienda pubblica, in quegli anni di proprietà del governo, riporta alla luce l’omertà e la complicità fra manager e istituzioni di cui continuano a godere i vertici aziendali. In Italia – paese barbaro e incivile - le leggi e i diritti sono uguali solo per i ricchi; chi uccide i lavoratori, inquina e distrugge l’ambiente e la natura ha una legislazione di favore. Ai padroni e manager che nella ricerca del massimo profitto hanno consapevolmente mandato a morte migliaia di operai e cittadini la legislazione vigente, consente la licenza di uccidere impunemente. Lo sfruttamento capitalista e la guerra di classe in Italia producono una realtà di decine di migliaia di morti sul lavoro e di lavoro e una “giustizia” di classe che dice che nessuno è colpevole. Nella società capitalista la medicina, la giustizia e in generale i diritti previsti dalla bella Costituzione Repubblicana sono solo quelli del padrone, per gli sfruttati non c’è pace né giustizia.

Il Partigiano Enzo Galasi ci ha lasciato Venerdì 13 marzo 2015 abbiamo salutato per l’ultima volta il compagno Enzo Galasi (91 anni), partigiano e gappista, comunista che ha lottato fino all’ultimo per il socialismo. Dopo l’intervento del segretario provinciale dell’Anpi si sono succeduti brevi interventi dei compagni che l’hanno conosciuto, ricordando i momenti vissuti con lui, salutandolo alla fine al canto di Bella Ciao insieme a molti pugni alzati, come sarebbe piaciuto a lui. Enzo Galasi coerente antifascista militante e comunista aderì negli anni 60/70 al movimento marxista-lenista (Pcd m-l) e da moltissimi anni pur partecipando a tutte le iniziative dell’Anpi, non si era si era più iscritto perché in disaccordo con la sua politica. Enzo fu da sempre critico sull’amnistia ai fascisti concessa da Togliatti il 22 giugno 1946, pochi giorni dopo la nascita della Repubblica, l’amnistia che doveva pacificare il paese, si tradusse nella liberazione di migliaia di fascisti e portò all’archiviazione di molti processi contro i fascisti. La legge fu proposta dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia del Governo De Gasperi, Palmiro Togliatti segretario del PCI. L’amnistia di Togliatti comprendeva il condono della pena per reati comuni e politici, dal collaborazionismo con i tedeschi fino al concorso in omicidio, commessi in Italia dopo l’8 settembre 1943, legge che Enzo Galasi non accettò mai. Enzo Galasi era figlio di Alfonso partigiano che fu torturato a Villa Triste, entrambi appartenevano alla terza Gap II distaccamento. La Gap di Alfonso ed Enzo Galasi ebbe un ruolo importante nella Resistenza milanese collaborando con Egisto Rubi-

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ni e Gigi Campegi, comandanti della 3a Gap in periodi diversi. Enzo, allora giovanissimo combatteva al fianco del padre Alfonso e insieme alle azioni di combattimento svolgeva anche quella anche quello di abilissimo falsario. Era lui che prepara documenti necessari ai compagni e alla lotta armata. La GAP non si limitava semplicemente al recupero di materiale, ma organizzava e attuava azioni di disarmo di numerosi militi nazifascisti recuperando armi per la lotta partigiana e ogni volta doveva fare i conti con le rappresaglie. Enzo ha visto molti suoi compagni cadere sotto il piombo nazifascista. Il dolore e la perdita di tanti amici e compagni di lotta, la diffi-

coltà di combattere un nemico feroce e ben armato, non scoraggiano i partigiani e la combattività della Gap. Nonostante le difficoltà altri partigiani si riuniscono al gruppo, in particolare due suoi giovani amici Sergio Bassi ed Elio Sammarchi. La lotta si fa sempre più accanita e la resistenza e la lotta armata subiscono la perdita di altri compagni. De Giuli, catturato, morirà in un lager nazista. Bravin, Galimberti e Mastrodomenico saranno fucilati il 10 agosto 1944 in piazzale Loreto. Abico, Alippi, Clapiz e Del Sale vengono fucilati in via Tibaldi. Sammarchi morirà a Chesio e Sergio Bassi sarà fucilato con altri quattro partigiani al Forlanini, il 31 luglio 1944 insieme ai compagni caduti in combattimento. Nelle tante giornate passate insieme al Centro di Iniziativa proletaria Enzo (tutte registrate su cassetta) Enzo ricordava sempre, con commozione, la perdita dei suoi compagni di lotta. In particolare l’arresto del padre Alfonso denunciato da un vicino di casa il 5 settembre 1944 che nonostante le torture non parlerà. Sarà liberato ai primi di novembre del 1944 e, nonostante le sue condizioni, riprenderà la lotta armata entrando in contatto con il comando garibaldino, assumendo la guida del gruppo in città, e insieme al figlio Enzo e altri partigiani combattenti la Gap comandata da Galasi, cambia la propria denominazione in 3a Gap – II distaccamento. Ciao Enzo, grazie per tutto quello che hai fatto e quello che ci hai insegnato. I compagni e le compagne del Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli” di Sesto San Giovanni

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anniversari

Una colpa che il tempo non cancella Trent’anni fa Pedro veniva ammazzato dallo Stato italiano

Luciano Orio Il 9 marzo ‘85, in via Giulia a Trieste, quattro agenti della polizia e dei servizi segreti dello stato italiano uccisero il militante comunista Pietro Greco, Pedro. Lo attesero nascosti nell’androne della casa in cui era ospitato e gli spararono addosso da distanza ravvicinata. Ferito, il compagno ebbe la forza di spingersi fuori e gridare, ma venne nuovamente colpito dal poliziotto appostato all’esterno. Fece ancora pochi passi e cadde, morente. La tecnica fu quella del plotone d’esecuzione. Pedro era latitante. A suo carico due mandati di cattura dei magistrati Calogero e Mastelloni, quelli che allora definimmo “boia di stato”, titolari di inchieste condotte sulla base di teoremi successivamente destituiti di ogni fondamento. Scrivo dopo aver ascoltato assemblee di compagni che lo ricordano. Ne sono state organizzate diverse, sparse un po’ per tutta Italia, da Trieste, al Veneto, in Calabria, la sua terra. Ne ho seguite un paio. La proiezione del video che lo ricorda, la conta dei compagni che si ricordano. C’era il bisogno di ritrovare quelle emozioni e quella rabbia. Molti dei compagni che lo ricordano, trent’anni dopo, sono giovani. Ne sono felice. Quei compagni ci dicono che oggi è come ieri, che il tasso di disoccupazione era allora come oggi e che pro-

prio l’anno dopo, l’86, gli Stati Uniti bombardarono la Libia, come stanno minacciando di fare in questi giorni. Cosa è cambiato?... è la stessa crisi capitalista. Sono sempre gli stessi assassini che difendono gli interessi dei loro padroni, minacciati dal movimento di classe, allora come oggi. Qualcuno più anziano riprenderà la storia dei “gloriosi ’70” e della dura repressione a colpirci, l’assassinio di Pedro a chiudere il conto del ciclo di lotte. Ho stima di quei compagni, ne capisco lo sforzo, lo condivido. Però non basta: oggi è peggio di ieri, c’è una sconfitta di mezzo. Mi sforzo allora di cercare un quadro storico più convincente, più vicino alla sua figura, perché è di lui che voglio parlare. Cerco di scansare il dibattito di moda, i “gloriosi ‘70”, non perchè questi non c’entrino in qualche modo, quanto perchè è nella sconfitta di quel decennio che emerge l’epilogo e la grandezza della vita di Pedro. Nell’autunno dell’80 i “35 giorni” delle lotte contrattuali alla Fiat furono la resa dei conti definitiva, dalla quale la classe operaia, assoluta protagonista del decennio percedente, uscì perdente. La Fiat aveva vinto ed era il segnale che i padroni ed il loro stato attendevano. Alla massiccia espulsione degli operai dalle fabbriche, seguì la completa ristrutturazione del ciclo produttivo, l’aumento del controllo sul lavoro, soprattutto l’allonta-

namento ed emarginazione degli operai più combattivi. Sconfitta la resistenza operaia, “ l’assalto al cielo” era fallito. Nel 1985 il “movimento” cercava di resistere come poteva, schierandosi su battaglie di solidarietà, internazionale o interna, il carcere, la repressione... ma senza più mettere in campo la centralità dello scontro di classe - vincente - sui luoghi di lavoro. I “gloriosi ‘70” finirono nel supermercato del revisionismo come “anni di piombo”. Con la sconfitta del movimento operaio venne anche quella nostra, di militanti, avanguardie incapaci di ricostruire l’organizzazione politica di classe. In questo passaggio, sta il contesto che cercavo per questo compagno caduto. Della sua militanza nelle lotte dei precari della scuola e dei disoccupati, dei senzatet-

to, del suo antifascismo militante so e ne ho sentito parlare. Molto. Ma ancora di più so della sua integrità come dirigente politico, della sua convinzione e responsabilità per l’importanza che assegnava al ruolo dell’organizzazione politica rivoluzionaria. E’ in questo che ritrovo la sua unicità e statura morale; grande nella sconfitta, quando ha deciso di continuare a lottare come e dove poteva, senza arrendersi, mentre tutto crollava, rifiutando di starsene a Parigi, come tanti intellettualini di movimento, rifiutando di costituirsi. Instancabile, lui il suo posto lo voleva qui, a cercare di organizzare e a lottare da comunista, con la responsabilità e la voglia e la determinazione di sentirsi tale, arrabattandosi in mille modi, avanti e indietro dove c’era bisogno, dove poteva

rendersi utile, anzi, dov’era indispensabile. Per ricostruire, da rivoluzionario. Per questo lo hanno eliminato. L’ultima immagine è di lui che esce dal portone di via Giulia gridando, ad impedire che il tutto avvenga senza testimoni, a smascherare lo scenario di uno “scontro a fuoco” con cui tanta stampa velinara titolerà - falsamente - il giorno dopo. Vitale e determinato fino alla fine, concreto, non possiamo - noi oggi - riservargli l’aureola del martire, in una memoria anestetizzata, mummificata. La sua eredità sta nella coscienza politica che ci ha lasciato. La mia gli deve tantissimo. “Cadeva con la sua testa calda sul masso pulito che sembrava andargli incontro come una mano dura, di terra, ma che

In ricordo di Fausto e Iaio Il 18 marzo 1978, due giorni dopo il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro e l’uccisione dei 5 poliziotti della sua scorta da parte delle Brigate Rosse, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, due giovani frequentatori del Centro Sociale Leoncavallo sono assassinati prima delle 21 a colpi di calibro 38 in via Mancinelli, a poche centinaia di metri da casa mia in via Picozzi. Subito la notizia vola di bocca in bocca. La telefonata di un compagno mi avvisa dell’accaduto, immediatamente chiamo altri compagni e ci diamo appuntamento sul luogo del delitto per testimoniare la nostra solidarietà e la nostra rabbia. La notizia gira velocemente e in meno di un’ora migliaia di persone si radunano sul luogo del duplice omicidio accusando i fascisti. Al presidio sono presenti anche molti compagni della Breda di Sesto San Giovanni, la fabbrica dove lavoro, e insieme decidiamo di riunirci il giorno dopo per prendere posizione con un volantino da distribuire in fabbrica. Intanto il clima si è fatto rovente. In Italia tutte le forze di polizia e dei carabinieri da due giorni fanno centinaia di perquisizioni a casa dei compagni più esposti nelle lotte in fabbrica e nel territorio. Decine di lavoratori della Breda Fucine hanno la casa messa a soqquadro dalle perquisizioni e il clima di tensione e di paura si sente nell’aria. In questo clima generale di criminalizzazione dei compagni le prime dichiarazioni degli inquirenti parlano di delitto maturato “nell’ambiente dello spaccio di droga”, di “regolamento di conti” di “faida fra gruppi della Nuova Sinistra e gruppi dell’Autonomia Operaia” nel tentativo di creare sospetti, divisioni e confusioni, cercando di rompere la solidarietà fra compagni. In questo clima subito riparte la compagna contro gli “opposti estremismi”. Nonostante il clima “di caccia alle streghe” nelle fabbriche e nella società si fosse inasprito (bisogna ricordare che dopo il rapimento

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dell’onorevole Moro tutti gli operai che criticavano le scelte dei sindacati collaborazionisti e del PCI del compromesso storico, i lavoratori che non accettavano lo sfruttamento come legittimo che criticavano chi voleva spacciare come obiettivi operai la produttività, la competitività, il mercato e il profitto, cioè che lottavano contro lo sfruttamento capitalista erano ritenuti sospetti “fiancheggiatori”della lotta armata), via Mancinelli il luogo dell’assassinio dei due compagni diventa luogo di ritrovo di molte persone fra cui molto numerosi sono gli operai. Nei giorni seguenti,

mentre cortei e manifestazioni di protesta si svolgono in molti quartieri della città e in tutto il paese, il luogo del duplice delitto sarà sommerso di messaggi, poesie, pensieri in segno di solidarietà e vicinanza umana ai familiari. In quei giorni in tutti i posti di lavoro, nei Consigli di Fabbrica e negli apparati sindacali si fanno grandi discussioni dividendosi sull’opportunità o meno di partecipare ai funerali. Nella riunione dei compagni della Breda Fucine decidiamo di fare un volantino chiamando tutti i lavoratori e il CdF a partecipare ai funerali, denunciando i fascisti, come

non mostrava durezza, che non gli sembrava di sasso. E aveva la sensazione di caderci sopra una volta, e poi un’altra, sempre nello stesso punto, in quell’unica caduta gli pareva di cadere e ricadere, come un destino imposto, lì, a bloccargli il cammino, il giorno, la stessa lotta che sgorgava dal grido che gli bruciava in bocca, nella schiena, nel petto; lo stesso grido che era un altro sole che gli infiammava la bocca, la saliva; il sangue che sentiva sgorgare insieme a tutto quello che gli restava da compiere, che gli mancava ancora; una smania che gridava insieme al calore, rifiutandosi di cadere con lo stesso occhio incolume di soli che cercavano di sgorgare dalle sue mani appoggiate in terra, sulla roccia, gridando di farlo, gridando che c’era ancora molto da fare, da fare, da fare, da fare”.

Il 18 marzo 1978 Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci “Iaio” vengono uccisi in un agguato fascista a Milano. Dopo 37 anni i loro assassini continuano a rimanere impuniti. Vogliamo ricordarli con una testimonianza pubblicata nel libro Fausto e Iaio trent’anni dopo responsabili della morte dei due giovani compagni. Il 22 marzo 1978 siamo in tanti. Una folla immensa (qualcuno dice centomila), molti delegati dei CdF delle fabbriche milanesi e altre città fra cui la Fiat Mirafiori e moltissimi sono gli operai venuti in Piazza San Materno a portare l’ultimo saluto ai due compagni e protestare contro il barbaro assassinio fascista. Purtroppo Fausto e Iaio non saranno le ultime vittime dei fascisti. Dopo 30 anni il muro di omertà e di complicità con cui istituzioni compiacenti nascondono la verità è ancora in piedi, e l’ingiustizia continua. Nel paese delle stragi di Stato e fasciste impunite, delle stragi delle migliaia di operai e lavoratori morti sul lavoro e di lavoro compiute dai capitalisti nella ricerca del massimo profitto, la lotta è l’unica speranza di ottenere un giorno giustizia, di costruire un mondo libero dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Michele Michelino ex operaio della Breda Fucine di Sesto San Giovanni CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni (Mi) cip.mi@tiscali.it web http://ciptagarelli.jimdo.com/

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Libia

Dopo quattro anni è ancora caos Velleità e cattiva coscienza dell’imperialismo

Pacifico Se il ministro degli Esteri Gentiloni ha ventilato pubblicamente la possibilità di un intervento militare italiano in Libia, un motivo ci sarà. Questo motivo, proprio mentre avviene nel canale di Sicilia l’ennesima strage di emigrati, parrebbe essere il contenimento dei flussi migratori che, da quando è stata spazzata via la Jamahiriya, sono ripresi a ritmi sempre più intensi. Per la verità, gli immigrati arrivavano via mare anche quando era in sella il colonnello Gheddafi, ma è innegabile che, con la Libia sempre più ridotta ad una sorta di Somalia, la situazione, anche per quanto riguarda il traffico di esseri umani, sia diventata praticamente insostenibile. Oltretutto, con la proclamazione dell’affiliazione di parte della Cirenaica al preteso “califfato” del Levante islamico, i motivi di preoccupazione, non possono che aumentare. Non perché i “jihadisti” s’insinuerebbero tra coloro che sbarcano in Italia, bensì perché essendo il cosiddetto “fondamentalismo islamico” una creatura dei servizi d’intelligence occidentali, bisogna assolutamente tenere d’occhio gli sviluppi in quella che non ha mai smesso di essere, per l’imperialismo straccione italiota, la “Quarta sponda”. Perché, cent’anni dopo lo “sbarco a Tripoli”, si ricomincia a pensare di riconquistare la Libia o, perlomeno, di far sì che non vi si crei una situazione troppo negativa per gli interessi dell’imperialismo straccione e servile italiota laggiù. L’attacco proditorio alla Jamahiriyya, che aveva stipulato con l’Italia un accordo dopo anni di faticose trattative, venne portato unilateralmente dagli Usa e dalla Francia, soprattutto utilizzando sul terreno armati locali e reduci da altre “guerre sante” per procura che ebbero la meglio dell’esercito regolare. Sullo sfondo, la Turchia, che storicamente non ha mai smesso di puntare al controllo della Tripolitania e della Cirenaica (infatti, la guerra del 1911-12 è chiamata “Italo-turca”, ed è bene ricordare che, all’epoca, tutto il resto dell’Africa del Nord era colonizzato da Francia e Inghilterra). Ora, l’Italia afferma timidamente di voler far qualcosa “sotto mandato dell’Onu”, perché sa benissimo chi e perché ha voluto fare della Libia un campo di battaglia. La politica estera italiota è inscindibilmente legata ai successi dell’Eni che in Libia rischia di essere sempre più estromesso qualora finisse nelle mani di un “califfato” made in England. Dunque, per l’imperialismo di “casa nostra” bisogna far qualcosa, su questo non c’è dubbio. Specialmente perché la crisi ucraina e la chiusura del South Stream non inducono all’ottimismo energetico. E se ci aggiungiamo i tentativi di scatenare una “primavera” o una “ribellione” in Algeria, tutti prontamente sedati dall’esercito, il quadro è sufficientemente preoccupante. Meglio agire d’anticipo e lanciare subito il messaggio: nella nuova spartizione “neocoloniale” del mondo, quindi, ci siamo pure noi, senza più tentennamenti e mal di pancia di sorta. E più velocemente senza lacci e lacciuoli del processo democratico con le sue interminabili discussioni, le sue trattative e i suoi compromessi. Ed ecco quindi la Libia, la nostra “quarta sponda” sulle cui macerie cresce la minaccia dell’Isi. Il dovere ci chiama: per l’ennesima volta la difesa della civiltà ci chiama. Che la stessa civiltà da difendere sia la prima responsabile della distruzione dello Stato libico e dell’avanzare del nuovo nemico pubblico, poco importa. Ricordarlo è semplice

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disfattismo. Invece quello che rimane è la solita menzogna sul quarantennale governo di Muammar Gheddafi sia stato una crudele dittatura, come quella ossessivamente ripetuta dalla stampa ufficiale, soprattutto alla vigilia e durante l’aggressione e distruzione totale di quel paese e a queste funzionali.

L’abbattimento del re fantoccio Il Governo Gheddafi nacque nel 1969 con una rivoluzione che ha detronizzato re Idris, fatta anche con l’aiuto di militari nazionalisti, ma sostenuta da tutto un popolo già ribelle allo sterminio e alla depredazione colonialista italiana, espressisi in ben tre guerre (1911, 1936, 2011) e conclusasi con il passaggio delle consegne colonialiste ai britannici e al loro fantoccio. Un re fantoccio che ha rinnovato il dominio delle multinazionali occidentali sui beni del

ni culturali e politiche e a volontà popolari espresse in congiunture alternative all’esperienza europea. Lo stiamo vedendo anche con la Russia di Vladimir Putin, colpevole di difendere la propria sovranità, e colpevole per la sua volontà di opporsi ad ogni tentativo di ridurla a colonia subalterna agli USA. Si ignora che quella della Jamahirija libica, come teorizzata nel “Libro Verde”, è stato un tentativo di adottare per un popolo fin lì assoggettato a domini assoluti e diviso in tribù, i principi della democrazia diretta. Questa si articolava in assemblee territoriali e di raggruppamenti sociali e industriali deputate a formulare direttive per il proprio autogoverno e a esprimere le proprie richieste in organi via via allargati, fino al Congresso Nazionale dei delegati, organo esecutivo. Gheddafi non rivestiva alcuna carica istituzionale, ma, da padre della Patria, che aveva portato al riscatto

tani integralisti del Golfo), origine di numerose sollevazioni, colpi di Stato tentati e, oggi, provincia del Califfo. A proposito di questo conflitto e delle “dure critiche” dell’ONU a Gheddafi, quell’ONU, che pur avendo avallato tutte le aggressioni Nato ad Afghanistan, Iraq, Iran, Siria, Libia, Jugoslavia, non ha per niente “autorizzato Francia, Gran Bretagna e Italia” a farsi aviazione dei mercenari jihadisti. Venne autorizzata solamente una “No Fly Zone”, poi allargata abusivamente dai governi capitalisti. A proposito dell’ONU, è interessante ricordare, il documento ufficiale della Commissione ONU sui Diritti Umani che, già nel febbraio 2011, riconosceva alla Libia di Gheddafi il primato continentale nei diritti umani. Si chiama “Indice dello Sviluppo Umano” ed elenca l’emancipazione delle donne, la riappropriazione e distribuzione delle ricchezze nazionali, la giustizia so-

paese e la situazione di sfruttamento ed emarginazione dei suoi abitanti. Non per nulla, coloro che vengono abusivamente definiti “rivoluzionari” e che in effetti sono stati i mercenari integralisti dell’imperialismo, hanno da subito inalberato il vecchio vessillo di Idris e si sono rivelati agenti del recupero coloniale della Libia. Sono gli stessi che oggi provocano la frantumazione sanguinaria di un paese già unito e prospero. La rivoluzione di Gheddafi, abolita la monarchia, aveva chiuso nel 1970 le basi militari statunitensi e britanniche, e nazionalizzato le proprietà della British Petroleum.

... e quello di Gheddafi

Gheddafi è stato demonizzato per ottenere il consenso pubblico alla spedizione Nato del 2011 (così come lo fu Milosevic, Saddam, Chavez, così come lo sono Putin e Assad). Una demonizzazione che si ripete per ognuno dei leader di Stati che non si piegano al dominio neoliberista e militare dell’Occidente capitalista e che rivela un approccio neocoloniale, con toni razzisti, a organizzazioni di società diverse da quelle che detta il pregiudizio eurocentrista, basato sull’edonismo, individualismo, atomizzazione della società, sulla democrazia mercantile - funzionale alle multinazionali, all’“american way of life”, al grande capitale -, ma magari rispondenti a tradizio-

e all’unità tutto un popolo, godeva di una grande autorità morale che naturalmente aveva il suo peso sulle decisioni assunte dalle istituzioni. Alla falsa coscienza dell’Occidente - che piange lacrime da coccodrillo quando commenta le “efferate azioni degli estremisti islamici” - si deve ricordare che alla luce della storia risulta che il massimo nemico del governo, nato dalla rivoluzione verde, fosse proprio l’integralismo islamista che aveva mantenuto la sua roccaforte a Bengasi (da dove poi sarebbero partite nel 2011 le bande jihadiste sollecitate e armate dall’imperialismo e dai sul-

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ciale che aveva portato al benessere generale, l’istruzione e la sanità gratuite, la piena occupazione, la sicurezza della casa, l’assenza di povertà, l’uguaglianza, la dignità. Tutto senza confronti, non solo nel continente africano, ma assolutamente inconciliabile con i progetti della globalizzazione neoliberista (vedere soprattutto la voce Unione Europea, che sta vampirizzando le vite di chi appartiene alla classe operaia).

Nel sanguinoso caos La sedizione, immediatamente ar-

mata, dei jihadisti di Bengasi, fin dall’inizio diretta da forze speciali dei paesi imperialisti e che la resistenza del popolo libico sconfisse, fino a recuperare il 70% del territorio, prima del micidiale intervento dell’aviazione Nato e di migliaia di mercenari forniti dagli Stati islamici più retrivi. Oggi, nel sanguinoso caos libico, sono attivi gli stessi protagonisti, evolutisi in IS e affini. Non di “guerra civile” si è trattato, ma, come nel caso di Iraq e Siria, di una cospirazione occidentale e sionista, tesa a liquidare gli ultimi bastioni di una nazione araba laica e sovrana. Un paese di cui Gheddafi aveva realizzato l’unità e ne aveva fatto una nazione libera e indipendente, promuovendo al contempo l’unità e l’indipendenza africane: una banca africana, una valuta africana, un’unione economica africana, telecomunicazioni africane. Altrettanti motivi per cui doveva essere rimosso e ucciso. Mentre la Clinton accusava Gheddafi di genocidio,

l’intelligence Usa riferiva attraverso i suoi rapporti interni che «Gheddafi aveva dato ordine di non attaccare i civili, ma di concentrarsi sui ribelli armati». Viene alla luce anche un documentato rapporto, inviato nel 2011 dalle autorità libiche a membri del Congresso Usa, sulle forniture di armi ai jihadisti libici da parte del Qatar con il «permesso della Nato». Tornando ai giorni nostri, la situazione appare tutt’altro che pacificata, e altri venti di guerra soffiano per l’ennesima volta. Per l’ennesima volta si parla di operazioni di “Peace keeping”, ma lo scenario libico ci mostra una crudele e feroce guerra civile, con interventi di combattenti stranieri. Un intervento in Libia non potrà essere altro che una guerra vera e propria con bombardamenti massicci che coinvolgeranno le popolazioni dei centri urbani. Sarà una “guerra coloniale” a tutti gli effetti, con lo spiegamento di truppe di terra che dovranno affrontare tutte le insidie di una guerriglia diffusa. Illuminanti le parole del generale Carlo Jean: “Neanche se inviassimo diecimila o centomila uomini la situazione si tranquillizzerebbe, dal momento che sul territorio ci sono un milione di armati divisi in 1500 gruppi che tentano di ottenere profitti per prendere il potere politico. Di conseguenza il problema non è di fare un peace keeping, ma un peace enforcement: avere una forza tale da riuscire a

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imporre la pace alle varie milizie disarmandole. Un risultato tutt’altro che semplice”. E a condurre questa missione saranno gli stessi Paesi responsabili del disastro in corso. La netta sensazione è che si stia aprendo un’altra fase della guerra al terrore iniziata da Bush dopo l’11 settembre 2001 e mai terminata. Non a caso, in riferimento agli eventi di Parigi, si parla di 11 settembre europeo. Anche in questo caso però, come in ogni guerra, di qualunque tipo essa sia, la prima vittima è la verità. Per questo, è fondamentale sollevare il velo dell’ipocrisia che impera sovrana e andare alla realtà dei fatti. Un obiettivo che, però, è complicato dal mutamento del quadro storico, caratterizzato da fenomeni che un tempo avevano un ruolo meno importante e soprattutto regionale, a partire dal radicalismo musulmano. Su questo aspetto, come sulla attualizzazione della categoria di imperialismo e sul ruolo dell’immigrazione extraeuropea nella Ue, la sinistra sconta un sostanziale ritardo nell’analisi e un incerto posizionamento politico e ideologico, tant’è vero che la stessa Sinistra e Libertà ha proposto l’idea di mandare truppe in Libia, sia pur sotto l’egida dell’ONU. La prima questione da evidenziare è che proprio la diffusione dell’estremismo islamico è strettamente dipendente dal processo di destabilizzazione dell’area medio-orientale e nord africana sistematicamente portata avanti dalle potenze imperialistiche occidentali, a partire da Usa e Francia. Il sostegno occidentale al radicalismo islamico e segnatamente al movimento jihadista, che ha rivendicato gli attentati di Parigi e cui hanno dichiarato di appartenere i fratelli Kouachi e Coulibaly, è stato un elemento decisivo di questa strategia, che riguarda da vicino anche noi italiani. Infatti, già negli anni ‘80 i servizi segreti italiani favorirono e sostennero l’estremismo islamico nel nord Africa contro regimi laici che si volevano abbattere o ridimensionare.

vamente scaricati dagli italiani e perseguitati dal nuovo governo tunisino di Ben Ali, ripararono in Algeria dove alimentarono la lunga e sanguinosa guerra civile degli anni ‘90 tra islamici e forze armate.

La testimonianza di Arconte

locali non rappresenta nulla di nuovo. All’epoca del colonialismo l’Inghilterra combatteva le sue guerre con le truppe indiane e l’Italia aveva dubat e ascari. Il problema, però, è che i nuovi “ascari” non sembrano essere sufficientemente controllabili e direzionabili come vorrebbero, anzi spesso si rivoltano contro coloro i quali pretendevano di manovrarli, tuttavia i “nostri politici” avrebbero dovuto imparare la lezione già dall’Afghanistan, visto che si verificò uno scenario assai simile.

Nel luglio 2007, la rivista Limes pubblicò una testimonianza di Nino Arconte, nella quale l’ex agente del Sismi rivelò che l’intelligence militare italiana aveva costruito venti campi d’addestramento per i militanti islamici, appoggiando le rivolte che nel 1987 portarono alla cacciata di Bourghiba, allora presidente laico della Tunisia1. Gli islamici, successi-

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Responsabilità Se oggi nel Nord Africa e nel Medio Oriente ci sono ampi territori in preda all’anarchia o nelle mani di organizzazioni terroristiche e di milizie jihadiste, come il famigerato Is (Stato islamico), è anche perché gli Stati laici preesistenti, che le combattevano e le arginavano, sono stati sistematicamente distrutti. Tale distruzione è avvenuta o direttamente ad opera delle forze armate occidentali, come nel caso dell’invasione dell’Iraq, o ad opera di milizie locali sostenute politicamente e con armi dall’imperialismo e dalle petromonarchie arabe sue alleate, come nel caso della Libia e della Siria. In particolare, in Libia i bombardamenti aerei, compiuti da Europa e Usa e costati la vita a numerosi civili, hanno permesso agli insorti una altrimenti improbabile vittoria su Gheddafi. La responsabilità della Francia (e di tutto l’occidente imperialista) nella creazione di questa situazione sono particolarmente forti. Sono state proprio la Francia e, in misura inferiore, la Gran Bretagna a promuovere più decisamente l’intervento militare sia diretto, sia di sostegno agli “insorti” in Libia e in Siria. La facilitazione dell’afflusso di combattenti islamici in Siria è coerente con la strategia imperialista cui s’ispira, almeno fino ad ora, l’amministrazione Obama: evitare interventi diretti con truppe di terra, e preferire l’impiego dell’arma aerea e di milizie locali. Tale soluzione è meno costosa sul piano economico, meno compromettente sul piano politico internazionale, e meno problematica per il mantenimento del consenso interno. L’impiego di truppe

Nell’epoca dell’informazione usa e getta, quello che non fa comodo si dimentica facilmente o si nasconde. Così, se tutti (sinistre comprese) gridano all’unisono “Je suis

relativamente alla capacità di integrarla nell’unico modo possibile nella società attuale, cioè impiegandola come merce forza-lavoro nel processo di accumulazione del capita-

Nel mese di febbraio si è celebrata la giornata del ricordo. Colgo l’occasione per ricordare gli orrori dovuti all’occupazione italiana, gli orrori inflitti al popolo libico da Balbo e Graziani, con incendi di villaggi, decimazioni, avvelenamento delle acque, deportazioni, campi di concentramento (600mila morti su due milioni di abitanti).

allo scopo di meglio contrastarne la funzione di strumento di dominio da parte delle classi dominanti. Anche oggi, per non pochi europei (nativi e immigrati) la religione (islamica e cristiana) rappresenta l’unico modo che identità frantumate da una modernità sempre più alienante hanno di esprimersi. Ad ogni modo, oggi per quella parte di giovani figli d’immigrati che si rivolgono al radicalismo politico islamico, l’Islam rappresenta l’arma del riscatto e della rivalsa contro un’Europa, e per estensione contro un Occidente, che li emargina sempre di più. Ciò è dovuto alla grave crisi del movimento comunista internazionale incapace di assumere un ruolo preponderante e di guida nei processi di liberazione, lasciando così il campo a movimenti di stampo confessionale da un lato, oppure, come accade e accadrà sempre più in Europa, alle destre neo fasciste e populiste come la Lega, il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, e Alba Dorata in Grecia. E’ necessario un movimento, un partito comunista che sottolinei che il vero problema è il ruolo dell’imperialismo e la sua tendenza alla guerra.

Inoltre occorre fare menzione di un film censuratissimo in Italia che rende giustizia alla vera unificazione promossa dalla resistenza di tutti i libici sotto la guida di Omar Al Mukhtar, poi impiccato dai fascisti: il film è Omar Al Mukhtar il leone, che potete trovare su youtube all’indirizzo https://www.youtube.com/ watch?v=KkmDGYYqSAI

Charlie”, si omette di ricordare che l’attentato terroristico più grave degli ultimi anni in territorio europeo è stato quello realizzato dal norvegese di estrema destra Anders Breivik, che nel 2011 si produsse nella mattanza di 77 giovani e adolescenti del partito socialdemocratico norvegese allo scopo di “protestare contro la decostruzione della cultura norvegese per via dell’immigrazione di massa degli islamici”. Inoltre nemmeno una parola per quanto accaduto a 43 studenti barbaramente uccisi in Messico, mentre abbondano video degni dei migliori registi Hollywoodiani per quel che riguarda le esecuzioni marchiate ISI. Risultato… una nuova on-

le. Questa sovrappopolazione relativa colpisce molti europei, non solo immigrati o figli d’immigrati, ma anche molti “indigeni”, che passano alla “riserva” dell’esercito del lavoro, che diventano disoccupati cronici, in forma permanente. Questa situazione determina una tensione sociale che deve trovare in qualche modo uno sbocco e, non trovandolo in una lotta unitaria “sovra-etnica” contro la vera causa del problema (il modo di produzione capitalistico), si manifesta in una lotta fra i miseri. Marx, in quanto materialista e politico rivoluzionario, era critico verso la religione, che vedeva insieme come “l’espressione della miseria materiale e la protesta contro la

data di xenofobia nei confronti della religione musulmana, e quindi una nuova (l’ennesima) guerra fra poveri, o tra chi è povero e chi ha paura di diventarlo... La crisi del capitale e le “riforme di struttura”, sollecitate dalle politiche di austerity dell’Europa, stanno livellando i salari, contraendo il welfare state e soprattutto la possibilità di avere un lavoro decente. Insomma, quello che si produce è un eccesso di popolazione, una sovrappopolazione non in termini assoluti, ma

miseria materiale”. Del resto, ai loro inizi, cristianesimo e islamismo erano le religioni dei poveri e degli schiavi. Nel Corano e nei Vangeli troviamo parole molto aspre nei confronti dei ricchi, mentre l’Apocalisse biblica è un atto d’accusa contro l’imperialismo di Roma (consiglio per chi volesse approfondire il tema, i libri di Ambrogio Donini). Questi richiami a Marx e alla storia delle religioni vogliono sottolineare la necessità politica di comprendere la natura ambivalente della religione

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Scenari di guerra Quella nella quale ci troviamo è una fase storica nuova, caratterizzata da due fenomeni, la crisi strutturale del modo di produzione capitalistico e la mondializzazione dell’economia. La crisi si manifesta soprattutto nei paesi a sviluppo capitalistico più antico, l’Europa occidentale, gli Usa e il Giappone. Al declino delle aree centrali del sistema economico mondiale corrisponde la rapida crescita dei paesi cosiddetti emergenti, tra i quali Brasile, Russia, India e soprattutto Cina. La quota del Pil mondiale degli emergenti balza dal 16,8% del 1970 al 36,9% del 2011 (la Cina passa dal 2,7 al 12,5%), viceversa la quota degli Usa nello stesso periodo crolla dal 32,2% al 22,7% e quella della Ue scende dal 25,9% al 23,3%. Come sempre accade, quando si verifica una crescita diseguale, si determina una spinta a modificare i rapporti di forza economici, e con essi quelli politici e militari, dato lo stretto nesso esistente tra economia e potere territoriale degli Stati. È a tale ridefinizione dei rapporti di forza che l’Occidente, cioè l’asse atlantico Usa-Europa si oppone utilizzando tutte le leve su cui conserva un predominio, la finanza, la tecnologia, l’informazione e soprattutto la forza militare, come possiamo notare dal sorgere di sempre nuovi scenari di guerra anche in Europa (vedere il caso ucraino). La lotta contro i paesi emergenti, in particolare contro la Cina e la Russia, viene condotta in modo indiretto, soprattutto nelle aree strategiche quali sono il bacino del Mediterraneo e l’area del Golfo Persico, nonché il Donbass. Il controllo di queste due aree - dove ci sono le riserve di petrolio e di gas più estese e più facilmente estraibili del mondo - è fondamentale

da molteplici punti di vista. Il petrolio mediorientale è importante per il rifornimento dei Paesi europei occidentali e dell’Estremo Oriente, Cina e Giappone incluse. Per gli Usa, che non si approvvigionano di petrolio in quest’area, il controllo del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo è vitale come strumento di egemonia mondiale e persino per poter sopravvivere come potenza economica. Il controllo sulle risorse energetiche non solo gli permette di esercitare un’influenza indiretta sulle altre economie industrializzate, ma gli consente anche di esercitare un controllo sul mercato finanziario mondiale. Infatti, se gli Usa riescono a finanziare i loro due enormi debiti gemelli, quello del commercio estero e quello pubblico, è perché il dollaro è la valuta mondiale di scambio e di riserva mondiale. Le banche centrali di tutto il mondo acquistano quantità massicce di titoli del tesoro degli Usa, finanziandone così il debito pubblico e l’economia. Il punto è che il declino economico relativo degli Usa mette in difficoltà l’egemonia del dollaro, che rimane valuta mondiale fintanto che è usata per commercializzare le merci più importanti, e la merce più importante è senz’altro il petrolio. Per questo gli Usa devono controllare il mercato mondiale del petrolio, cosa che non si può fare se non si controlla il petrolio mediorientale. Non fu un caso, infatti, che Saddam Hussein firmò la sua condanna nell’ottobre del 2000, quando convertì in euro il conto che aveva presso le Nazioni Unite nell’ambito del programma oil for food. Il fattore che, in ultima istanza, possiamo rintracciare alla radice di quanto accade è la crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, che proprio nei suoi punti più alti di sviluppo vede una tendenza permanente al calo del saggio di profitto. Nei Paesi centrali si determina così una stagnazione dell’attività produttiva e una attitudine sempre più parassitaria, che, tramite la speculazione e producendo continue bolle finanziarie, porta alla putrefazione del sistema economico. Nello stesso tempo, all’interno di questi Paesi si produce una concentrazione del potere economico nelle mani di élite di pochi super miliardari, cui corrisponde una concentrazione del potere politico mediante le c.d. riforme delle istituzioni statali in senso reazionario e anti democratico (vedasi la riforma costituzionale tanto voluta da Renzi). I risultati sono sotto gli occhi di tutti: una situazione di guerra diffusa che è ormai degenerata. Si intuisce quindi come la contraddizione principale è quella che oppone l’imperialismo alle masse di salariati e di poveri che abitano le sue periferie sia interne che esterne. Ed è sempre l’imperialismo, espressione della crisi e della tendenza aggressiva dei rapporti di produzione capitalistici ormai dominanti a livello mondiale, ad essere l’ostacolo principale alla risoluzione dei conflitti e alla pace. Ripetiamo e ripeteremo fino alla noia che il nemico è già in casa nostra: è l’imperialismo! Nino Arconte, Il nostro golpe contro Bourghiba, in “Limes” n.4, luglio 2007 www.youtube.com/ watch?v=KkmDGYYqSAI

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Fronte Palestina

Milano, 25 Aprile 2015 sempre! Al fianco della Resistenza palestinese, di tutte le resistenze e le lotte di liberazione

Il 25 Aprile di settanta anni fa, con l’insurrezione di Milano e di altre città italiane, si concludeva la lotta di Liberazione del popolo italiano contro il fascismo e l’occupazione nazista. La gran parte delle città e delle province italiane, dopo l’otto settembre, veniva liberata dal popolo in armi. Quest’anno il 25 Aprile cade in una situazione dove i venti di guerra sono impetuosi, fin dentro l’Europa, come dimostra l’aggressione occidentale all’Ucraina. Il fronte imperialista Usa, Ue e Israele rappresenta il principale nemico dei popoli, mentre la straordinaria tenacia della Palestina fa da esempio

be vietare agli antifascisti italiani il diritto di manifestare per la libertà dei palestinesi condannando chi calpesta i loro diritti. Il triste spettacolo delle bandiere dello Stato israeliano (fondato nel 1948) che sfilano usando la Brigata Ebraica come Cavallo di Troia nel corteo del 25 Aprile deve cessare! Quelle bandiere sono le stesse riportate sugli aerei che la scorsa estate hanno selvaggiamente bombardato Gaza distruggendo interi quartieri, campi profughi, scuole, terreni agricoli, acquedotti, depositi alimentari, ospedali e centrali elettriche con il non celato proposito di ridurre quel po-

partigiane italiane, era invece sotto il comando britannico, appartenente al suo esercito come altre formazioni nepalesi, indiane, neozelandesi, australiane, canadesi e sudafricane che non sono considerate alla stessa stregua. Ecco perché anche quest’anno contesteremo la presenza sionista al corteo di Liberazione del 25 Aprile, senza temere l’ipocrita accusa di antisemitismo usata per tacciare chiunque sostenga la Resistenza palestinese o condanni l’operato criminale d’Israele. Non siamo noi gli antisemiti, noi siamo contro il sionismo, ideologia reazionaria, neo colo-

La tendenza alla guerra portata avanti dai governi israeliani dovrebbe indignare gli antifascisti e le realtà che si oppongono alla militarizzazione, solidali con i lavoratori e con le lotte sociali. Invece oggi viene permessa e promossa la loro agibilità soprattutto da parte del Partito Democratico che si ritrova al centro nevralgico degli accordi internazionali, complice dei crimini commessi dal neo colonialismo e dalle “guerre preventive” e che internamente si scaglia contro i lavoratori e le classi subalterne, massacrando i loro diritti e lo sviluppo sociale con infami riforme come il Jobs Act.

alle lotte che hanno origine ovunque questi predatori mettano le loro mani: una granitica trincea di resistenza che rafforza e alimenta tutte le altre. Questa giornata ha per noi il significato di rendere vivi, nella pratica di oggi, gli insegnamenti della resistenza partigiana nel 70° anniversario della sua vittoria: la prassi della lotta a sostegno di tutte le resistenze. I popoli oppressi da regimi fascisti o militari o da occupazioni coloniali hanno sempre trovato il sostegno incondizionato degli antifascisti italiani. Nelle piazze dei partigiani non ci deve essere posto per i simboli degli oppressori, dei razzisti, dei vecchi e nuovi colonialisti, dei fascisti comunque camuffati e dei guerrafondai, ma solo per quelli di chi lotta per la libertà, l’autodeterminazione dei popoli, l’uguaglianza e la giustizia sociale. C’è un popolo che da oltre sessant’anni vive sotto occupazione militare straniera, soggetto ad un’odiosa e vile discriminazione razziale, oppresso e segregato in bantustan, sistematicamente aggredito con armi sperimentali di distruzione di massa, disperso nella diaspora in tutto il mondo; eppure c’è chi vorreb-

polo alla fame, oltre che piegare la resistenza palestinese e sterminare gli abitanti, compresi i bambini, considerati pericolosi terroristi di domani. Quelle bandiere sono le stesse che sventolano sul muro dell’apartheid che impedisce ai palestinesi della Cisgiordania di muoversi liberamente; sono quelle che svettano dagli insediamenti disseminati in tutta la Palestina; sono quelle che si vedono ai check-point, dove ogni giorno i palestinesi devono fare ore di coda per andare a lavoro o a scuola, spesso senza riuscirvi, o dove troppe volte si muore su ambulanze bloccate dall’esercito sionista, che sotto quelle bandiere decide chi, quando e se può passare. Quelle bandiere sono le stesse portate al corteo dalla Brigata Ebraica, la cui partecipazione è mediaticamente sopravvalutata e non corrisponde al marginale contributo alla lotta che questa diede, storicamente composta da coloni europei di religione ebraica che si erano insediati in Palestina sotto mandato britannico, grazie al sostegno della potenza coloniale europea. Non risulta che la brigata abbia fatto operazioni congiunte alle formazioni

niale e razzista! Condanniamo inoltre i modelli sionisti di repressione e controllo sociale esportati in tutto il mondo, grazie anche ad occasioni come Expo 2015 dove i Paesi imperialisti e le multinazionali concordano nuovi paradigmi di sfruttamento del pianeta e dei suoi abitanti riducendo l’umanità alla barbarie. Per questo saremo anche in piazza il primo Maggio per contestare Expo e la presenza israeliana in “pompa magna” a tale kermesse. Il “made in Israel” quindi non riguarda solo gli attivisti per la Palestina ma anche persone impegnate nelle lotte sociali e contro gli apparati repressivi dello Stato. La presenza sionista al corteo del 25 Aprile e all’Expo non è pericolosa solo perché tenta di ripulire l’immagine di Israele agli occhi del mondo nascondendo la natura genocida del suo progetto coloniale, ma è pericolosa perché rappresenta la vetrina del modello carcerario non solo delle popolazioni indigene ma di tutti i fenomeni migratori, dei movimenti studenteschi, operai e di contestazione nonché delle lotte sociali in Italia e nel resto del mondo.

Noi stiamo dalla parte dei palestinesi e sosteniamo la loro legittima lotta di liberazione: mentre denunciamo con forza lo sterminio nazista degli ebrei, non accettiamo che un simile genocidio possa avvenire contro i palestinesi. Siamo anche dalla parte degli ebrei che rifiutano il sionismo e denunciano la pulizia etnica che sta alla base della nascita di Israele, come gli storici Ilan Pappé e Guido Valabrega, il partigiano Primo Levi e molti altri. Assieme a loro ed anche in nome di coloro che non ci sono più, il 25 Aprile grideremo: PALESTINA LIBERA! ORA E SEMPRE RESISTENZA! FACCIAMO APPELLO A TUTTE LE REALTÀ DEL MOVIMENTO DI SOLIDARIETÀ AL POPOLO PALESTINESE E DI OPPOSIZIONE ALLA GUERRA IMPERIALISTA, A TUTTI/E GLI/LE AUTENTICI/CHE ANTIFASCISTI/E E ANTIRAZZISTI/E AFFINCHÈ SIANO PRESENTI IN PIAZZA CON NOI IL 25 APRILE A MILANO PER AFFERMARE CHE NON C’È LIBERAZIONE SENZA LOTTA AL SIONISMO!

nuova unità

I servi buffoni e i miserabili Il Fronte Palestina sul non riconoscimento dello Stato palestinese

Con il voto sul “riconoscimento” dello Stato palestinese, è stata raggiunta una nuova profondità di degrado e ambiguità, dalla classe politica borghese italiana. Ormai senza più pudore e paletti etico-politici invalicabili, il governo e il parlamento italiani si sono nuovamente calati le braghe di fronte al cliente sionista. Non potendo evitare la decisione UE di salvare il salvabile, gettando l’osso dello pseudo-riconoscimento alla moribonda ANP, sempre più in crisi di credibilità e legittimità, il “decisionista” Renzi e compari, hanno deciso di non decidere. In maniera grottesca. Infatti potevano limitarsi alla solita mozione senza arte e ne parte, così come votata dal parlamento spagnolo. Hanno invece deciso di stabilire il primato mondiale del ridicolo e della doppiezza. Il PD e gli altri accoliti, hanno optato per il grottesco, lottizzandosi e sostenendo due mozioni opposte. Da una parte quella presentata proprio da PD, sostenuta dall’inqualificabile SEL – accodatasi dopo aver ritirato la propria – che testualmente auspicava, senza riconoscerlo, di “promuovere il riconoscimento della Palestina quale Stato democratico e sovrano entro i confini del 1967 e con Gerusalemme quale capitale condivisa, tenendo pienamente in considerazione le preoccupazioni e gli interessi legittimi dello Stato di Israele”, Dall’altra quella presentata da NCD-AP che, ancor peggio, si limitava “a promuovere il raggiungimento di un’intesa politica tra Al-Fatah e Hamas che, attraverso il riconoscimento dello stato d’Israele e l’abbandono della violenza, determini le condizioni per il riconoscimento di uno Stato palestinese”. Un siparietto vergognoso del Partito Unico imperial-sionista, suggellato dal sardonico commento dei “clienti” dell’Ambasciata di Israele che, sprezzante, ha recitato “Accogliamo positivamente la scelta del Parlamento italiano di non riconoscere lo Stato palestinese e di aver preferito sostenere il negoziato diretto fra Israele e i palestinesi, sulla base del principio dei due Stati, come giusta via per conseguire la pace”. In questa scena del grottesco, indecoroso appare il commento rilasciato dalla “ambasciata” della Autorità Nazionale Palestinese - da virgolettare dopo il non riconoscimento votato nel parlamento italiano...- che, incredibilmente ha diramato una nota in cui afferma “Accogliamo positivamente la scelta del Parlamento italiano di non riconoscere lo Stato palestinese e di aver preferito sostenere il negoziato diretto fra Israele e i palestinesi, sulla base del principio dei due Stati, come giusta via per conseguire la pace”. Cercando di fare buon viso a cattivo gioco, dopo il clamoroso “calcio nel sedere” ricevuto, nonostante gli sforzi di lobbing istituzionale, infruttuosamente profusi. Una posizione resa ancora più patetica tenendo presente che persino dall’ANP di Ramallah è arrivata una netta bocciatura dei testi approvati in cui è stato dichiarato che “E’ infelice (‘unfortunate’, nel testo in inglese) che la risoluzione non si impegni per l’incondizionato e ufficiale riconoscimento dello Stato di Palestina”. Con tutta evidenza le toppe sono state peggiori del buco, ridicolizzando una questione, quella del diritto all’autodeterminazione, che gronda del sangue e dei sacrifici del popolo palestinese, sottoposto al regime di colonizzazione e Apartheid da decenni. Una dimostrazione ulteriore del fatto che non ci sono vie “pacifiche e diplomatiche” alla liberazione del popolo arabopalestinese dall’occupazione sionista, ma solo la via della Resistenza con tutti i mezzi necessari. Sarà meglio per tutti destarsi dall’autoinganno, facendo la scelta partigiana di schierarsi dalla parte degli oppressi anziché da quella degli oppressori. Soprattutto in vista del 70° Anniversario della Liberazione antinazifascista, che ricorre il prossimo 25 Aprile. Fronte Palestina

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Venezuela

Il lupo perde il pelo ma non il vizio Se un Paese non si inginocchia agli ordini dell’imperialismo...

Daniela Trollio (*) Due anni fa moriva – proprio nel mese di marzo – l’indimenticabile Comandante della Rivoluzione Bolivariana del Venezuela, Hugo Chàvez Frìas. Un anno dopo il Venezuela saliva nuovamente agli “onori della cronaca” per le rivolte reazionarie partite dai fascisti dell’estrema destra dei quartieri bene di Càracas, note con il nome di “guarimbas” che fecero morti e feriti soprattutto tra il proletariato venezuelano. Eccessi che hanno finito per far cadere velocemente la maschera dei soliti “combattenti per la libertà”. Quest’anno si è appena concluso – male per i suoi organizzatori – un nuovo tentativo di colpo di Stato ai danni della Rivoluziona Bolivariana. A tentarlo, questa volta, un gruppo di ufficiali dell’aviazione che progettava di bombardare il palazzo presidenziale di Miraflores, uccidere il presidente attuale Nicolàs Maduro, attaccare il Ministero della Difesa e distruggere la sede di TeleSUR (l’unica emittente che ha permesso che milioni di ascoltatori sapessero in diretta che l’aviazione di Ghjeddafi NON aveva bombardato Bengasi, che i cosiddetti civili indifesi erano in realtà bande di sanguinari mercenari che puntavano al petrolio) e seminare il caos nel paese: e chi, non poi così lontani del Cile di Allende. Mentre le rivolte reazionarie dell’anno scorso erano dirette in prima persona da esponenti dell’ultra destra e dell’oligarchia del paese, quest’anno l’impero nordamericano – visto il cattivo risultato del passato – si è impegnato in prima persona nella “Operazione Gerico”. Non solo ad alcuni degli ufficiali coinvolti erano già stati concessi i visti d’ingresso negli Stati Uniti (nel caso qualcosa andasse storto, come in effetti è stato), ma funzionari dell’ambasciata nordamericana telefonavano alle mogli dei generali venezuelani affermando che i loro mariti erano stati inseriti in una lista “nera” del Congresso e non avrebbero mai potuto chiedere visti per gli USA. Era già stato redatto anche un programma di governo che comprendeva la privatizzazione della PDVSA (la società pubblica proprietaria del petrolio), la distruzione manu militari di tutte le forme di potere pubblico e comunitario, la sospensione delle garanzie democratiche e l’espulsione entro 24 ore di tutto il personale cubano che si trova nel paese, impegnato in missioni umanitarie (uno dei primi bersagli delle guarimbas dell’anno scorso furono proprio gli ambulatori medici gratuiti gestiti dai cubani). La stampa europea, grossolanamente ignorante come al solito della storia dell’America Latina, ha dato poca importanza a quello che è solo l’ultimo episodio di uno strisciante “golpe lento” in marcia da anni contro la Repubblica Bolivariana, azzardando persino l’ipotesi di un auto-golpe della dirigenza venezuelana. Ma, proprio analizzando questa storia recente, troviamo i soliti ingredienti, perché un golpe – in queste terre ribelli - non è mai un avvenimento improvviso. Viene sempre preceduto da alcuni fatti. In questo caso nel mese di gennaio, con l’appoggio degli industriali, si è verificata un’ennesima campagna di accaparramento di prodotti alimentari e di prima necessità, per creare scarsità e malcontento nella popolazione, preparando le condizioni perché la gente scendesse nelle strade e – perché no – saccheggiasse negozi e supermercati. Non ci ricorda lo sciopero dei camionisti del Cile di Allende,

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primo passo del golpe del 1973? Ma questa volta il popolo venezuelano, che ha buona memoria e ottima conoscenza della storia del suo continente, non c’è cascato. Si è così dato il via ad una massiccia campagna di stampa internazionale, strombazzando che nel paese del Socialismo del XXI Secolo era in corso una “crisi umanitaria”, definizione che a tutti noi – dopo l’Iraq, l’Afganistan, la Libia, l’Ucraina ecc. ecc. - dovrebbe immediatamente far rizzare non solo i capelli ma anche le orecchie. Secondo la denuncia pubblica del presidente Maduro, la terza fase prevedeva l’appello di un “traditore” – di cui non è stato ancora fatto il nome – una personalità importante che, attraverso la stampa e la televisione, avrebbe lanciato un toccante appello alla ribellione. E infine la quarta fase, una ribellione militare, sventata prima del nascere dagli organismi di sicurezza della Repubblica Bolivariana (in Cile fu la Fanteria di Marina che l’11 settembre diede inizio al golpe occupando la città di Valparaìso). Il golpe è fallito, e la gigantesca manifestazione di popolo del 28 febbraio in appoggio al governo di Nicolàs Maduro che ne è seguita dimostra che la rivoluzione bolivariana è ben viva. Perché tanto accanimento contro il Venezuela? Prima di tutto bisogna ricordare che proprio nel momento in cui gli imperi entrano in una fase di decadenza diventano più violenti e brutali (e questa è un’altra lezione della storia che troppo spesso dimentichiamo, dall’impero romano fino alle potenze colonialiste del secolo scorso). Il “nuovo secolo americano” di Bush e Clinton sta miseramente franando e deve affrontare ogni giorno ex alleati sempre più disobbedienti. La Cina avanza, i BRICS anche, l’Europa obbediente è sempre più immersa in una crisi senza sbocco – l’Ucraina è un disastro, la Grecia fa paura e tra poco sarà il turno di Spagna e Portogallo di mettere in discussione l’ineluttabilità dei diktat del “mercato” - e bisogna correre ai ripari con tutti i mezzi. Nel cortile di casa USA di questo secolo la Repubblica Bolivariana, fin dall’avvento del Comandante Hugo Chàvez, è diventata la bestia nera che, nel secolo scorso, era rappresentata da Cuba. Di nuovo un paese che non si inginocchia agli ordini dell’imperialimo e che ha rappresentato un esempio che ha riportato nella realtà di oggi l’attualità del socialismo, e cui sono seguiti i processi in Bolivia, in Ecuador e in altri paesi. Di nuovo un popolo organizzato e cosciente cui guarda l’intero continente con la creazione dell’ALBA e di tutta una serie di istituzioni che sperimentano l’integrazione non dei mercati, non dei profitti, non dei privilegi ma dei popoli sfruttati ed oppressi. Del resto il Nobel per la “pace” Barak Obama

aveva avvertito poco tempo prima: “torceremo il braccio ai paesi che non fanno quello che noi vogliamo”. Il Venezuela non lo fa dal 1998 e, da allora, è sempre nel mirino. E, dulcis in fundo, una questione di bassa lega – ben lontana da paroloni come “libertà” e “democrazia” - ma di grande importanza economica. Negli anni scorsi la nostra stampa, sempre ossequiosa alle veline del potere, ha messo in risalto il fatto che gli Stati Uniti, grazie al fracking (tecnica di estrazione del petrolio median-

te immissione di liquidi ad altissima pressione nel terreno che permette l’estrazione di petrolio dalle sabbie di scisto – e che alcuni paesi come la Svizzera hanno vietato, visto che ci sono forti sospetti che provochi terremoti localizzati come quello avvenuto sul lago di Costanza) avevano raggiunto l’autonomia energetica. Balle spaziali: ora gli analisti avvertono che entro 5 anni gli USA termineranno il petrolio ottenuto con il fracking e diventeranno “importatori netti”. E il Venezuela, a pochi passi dal territorio

nordamericano, prima riserva mondiale di petrolio del pianeta, acquista un’importanza essenziale. Certo non finirà qui ma, una volta di più, onore al popolo venezuelano che difende con intelligenza, passione e organizzazione la “sua” rivoluzione, la “sua” dignità e il proprio paese dalle grinfie degli imperialisti. Non solo in nome di Hugo Chàvez ma in nome di tutti gli sfruttati e gli oppressi. (CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni)

“QUELLI DEL PLAYA GIRON”

Il filo rosso delle RESISTENZE

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“O Comunismo o Barbarie“, Associazione Culturale Joris Ivens CONTRIBUTI E DOCUMENTAZIONE DEI COMPAGNI ITALIANI CONTRIBUTI PERSONALI della ZONA FIORENTINA Introduzione militante del partigiano “Sugo” Mario Gorini, Partigiano “VITTORIO” - 22ª bis Brigata d’Assalto Garibaldi “Vittorio Sinigaglia” Cesare Massai, Partigiano dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) di Firenze. Enio Sardelli, Partigiano “FOCO” della “Caiani” Sirio Ungherelli, Partigiano “GIANNI” 22 ª bis Brigata d’Assalto Garibaldi “Vittorio Sinigaglia DOCUMENTAZIONE della ZONA APUANA Presentazione: “Testamento” di Tristano Zekanowsky Lettera del Comando del Distaccamento d’Assalto Garibaldi “Aldo Cartolari” al Gruppo “Patrioti Apuani” Rapporto del Vice Commissario

Politico “T. Z. Ciacco” al ComandoDistaccamento d’Assalto Garibaldi “Aldo Cartolari” Regolamento Militare del Distaccamento d’Assalto Garibaldi “Aldo Cartolari” Costituzione e Statuto della Brigata d’Assalto Garibaldi “Ugo Muccini” CONTRIBUTI compagni latinoamericani Eucebio Figueroa Santos, “RONY”, delle Forze Armate Ribelli del Guatemala César Mario Rossi Garretano, “TONY”, delle Forze Armate Rivoluzionarie Orientali dell’Uruguay CONTRIBUTI compagni palestinesi LEILA KHALED, “SHADIA ABU GHAZALI”, attualmente membro dell’Ufficio Politico del FPLP e dirigente dell’Ufficio Rifugiati € 12,00

Si può richiedere tramite email alla redazione di nuova unità: redazione@nuovaunita.info

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Cuba

Dall’intervento di Raul Castro (...) Non si deve pretendere che Cuba rinunci ai suoi ideali di indipendenza e giustizia sociale, né dubitare in un solo dei nostri principi, nè cedere un millimetro nella difesa della sovranità nazionale. (...) Noi non ci lasceremo provocare, ma nemmeno accetteremo pretese di consigli o pressioni nei nostri temi interni Lo scorso 17 dicembre, sono tornati nella loro Patria i combattenti antiterroristi cubani Gerardo Hernández, Ramón Labañino e Antonio Guerrero che, con Fernando González e René González sono per noi motivo di orgoglio ed esempio di fermezza. Il Presidente degli Stati Uniti ha riconosciuto il fallimento della politica contro Cuba applicata da oltre cinquant’anni e il completo isolamento che ha provocato al suo paese; il danno che il blocco provoca al nostro popolo ed ha ordinato la revisione dell’ovviamente ingiustificabile inclusione dell’Isola nella lista dei Paesi patrocinatori del terrorismo Internazionale. Nella stessa giornata ha annunciato la decisione di ristabilire le relazioni diplomatiche degli Stati Uniti con il nostro Governo. Questi cambi sono il risultato di quasi due secoli e mezzo di eroica lotta e fedeltà alla nuova epoca che vive la nostra regione e al solido e coraggioso reclamo dei governi e dei popoli della CELAC, che sono una rivendicazione per Nuestra America, e che hanno agito in stretta unità per questo obiettivo nell’Organizzazione delle Nazioni Unite e in tutti gli ambiti. Preceduti dal Vertice dell’ALBA a Cumaná, in Venezuela, i dibattiti sostenuti nel 2009 nel Vertice delle Americhe a Puerto España, in Trinidad y Tobago, avevano portato il Presidente Obama, recentemente eletto a pianificare un nuovo inizio con Cuba. A Cartagena, in Colombia, nel 2012, avvenne una forte discussione, con una pianificazione unanime categorica contro il blocco, occasione nella quale aveva incitato un importante dirigente nordamericano a riferirsi alla stessa come al grande fallimento di Cartagena o disastro – è stato il termine esatto – e ci fu un dibattito sull’esclusione di Cuba da quegli incontri. L’Ecuador, come protesta aveva deciso d’assentarsi. Venezuela, Nicaragua e Bolivia avevano avvisato che non avrebbero partecipato ad un altro Vertice senza Cuba, con l’appoggio di Brasile, Argentina e Uruguay. La Comunità dei Caraibi espresse la stessa decisione e Messico e le altre nazioni si pronunciarono alla stessa maniera. Il presidente di Panama, Juan Carlos Varela, prima della sua elezione, aveva fatto sapere con determinazione, che avrebbe invitato Cuba con pieni diritti e uguaglianza di condizioni all’VIII Vertice delle Americhe, e lo ha fatto. Cuba ha immediatamente dichiarato che parteciperà. Si dimostra la certezza di Martí, quando scrisse che un principio giusto dal fondo di una caverna può più di un esercito. A tutti i presenti esprimo la più profonda gratitudine di Cuba. Ai 188 Stati che votano contro il blocco nell’ONU, a quelli che hanno espresso lo stesso reclamo nell’Assemblea Generale, nei Vertici e nelle conferenze internazionali e a tutti i movimenti popolari, le forze politiche, i parlamenti e le personalità che si sono mobilitate instancabilmente con questo obiettivo. Li ringrazio sinceramente in nome della nazione. Al popolo degli Stati Uniti che ha espresso una crescente opposizione alla politica di blocco e ostilità di più di cinque decenni, reitero ugualmente il nostro ringraziamento e i nostri amichevoli sentimenti. Questi risultati dimostrano che Governi che hanno profonde differenze possono incontrare soluzioni ai problemi mediante un dialogo rispettoso e scambi

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basati sull’uguaglianza sovrana e nella reciprocità, a beneficio delle proprie rispettive nazioni. Come ho affermato reiteratamente, Cuba e gli Stati Uniti dobbiamo imparare l’arte della convivenza civile basata nel rispetto delle differenze tra i due Governi e nella cooperazione in temi d’interesse comune, che contribuiscano alla soluzione delle sfide che affrontano l’emisfero e il mondo. Ma non si deve pretendere che per questo Cuba rinunci ai suoi ideali di indipendenza e giustizia sociale, nè dubitare in un solo dei nostri principi, nè cedere un millimetro nella difesa della sovranità nazionale. Noi non ci lasceremo provocare, ma nemmeno accetteremo pretese di consigli o pressioni nei nostri temi interni. Noi ci siamo guadagnati questo diritto sovrano con grandi sacrifici e al prezzo dei più grandi rischi. Si possono forse ristabilire relazioni diplomatiche senza riannodare i servizi finanziari alla Sezione d’Interesse di Cuba e al suo ufficio consolare a Washington, tagliati come conseguenza del blocco finanziario? Come spiegare il ristabilimento di relazioni diplomatiche senza togliere Cuba dalla Lista degli Stati patrocinatori del terrorismo Internazionale? Quale sarà d’ora in poi la condotta dei diplomatici statunitensi a L’Avana, rispetto all’osservanza delle norme stabilite dalle convenzioni internazionali per le relazioni diplomatiche e consolari? Questo è quello che la nostra delegazione ha detto al Dipartimento di Stato nelle conversazioni bilaterali della scorsa settimana e ci vorranno diverse riunioni per trattare questi temi. Abbiamo condiviso con il Presidente degli Stati Uniti la disposizione di avanzare verso la normalità delle relazioni bilaterali, una volta che saranno ristabilite le relazioni diplomatiche, e questo implica l’adozione di misure reciproche per migliorare il clima tra i due paesi, per risolvere altri problemi pendenti e avanzare nella cooperazione. La situazione attuale apre modestamente un’opportunità all’emisfero per incontrare nuove e superiori forme di cooperazione che convengono alle due Americhe. Questo permetterà di risol-

vere brucianti problemi e aprire nuovi cammini. Il testo del Proclama dell’America Latina e dei Caraibi come Zona di Pace, costituisce la piattaforma indispensabile per questo, includendo il riconoscimento che ogni Stato ha il diritto assoluto d’eleggere il suo sistema politico, economico, sociale e culturale senza ingerenze in nessuna forma da parte di un altro Stato e che questo costituisce un principio irrinunciabile del Diritto Internazionale. Il problema principale non è stato risolto. Il blocco economico, commerciale e finanziario che provoca enormi danni umani ed economici, ed è una violazione del Diritto Internazionale, dev’essere eliminato. Ricordo il memorandum del vicesegretario Mallory, dell’aprile del 1960 che, in mancanza di un’opposizione politica effettiva, pianificava l’obiettivo “di creare in Cuba fame, disperazione e sofferenza, per provocare la caduta del governo rivoluzionario”. Adesso tutto sembra indicare che l’obiettivo è fomentare un’opposizione politica artificiale con mezzi economici, politici e delle comunicazioni. Il ristabilimento delle relazioni diplomatiche è l’inizio di un processo verso la normalità delle relazioni bilaterali, ma questo non sarà possibile sino a che esisterà il blocco, non si restituirà il territorio illegalmente occupato della base di Guantánamo non smetteranno le trasmissioni radiofoniche e televisive che violano le norme internazionali, non ci sarà un compenso giusto per il nostro popolo, per i danni umani ed economici che ha sofferto. Non sarebbe etico, giusto o accettabile che si chiedesse qualcosa in cambio a Cuba. Se questi problemi non si risolveranno, questo avvicinamento diplomatico tra Cuba e gli Stati Uniti non avrebbe un senso. Non si può pensare nemmeno che Cuba accetti di negoziare gli aspetti citati per i nostri temi interni, assolutamente sovrani. Se abbiamo fatto dei passi avanti in questo negoziato è perchè ci siamo trattati reciprocante con rispetto, come uguali, però per continuare ad avanzare si dovrà continuare così. Abbiamo seguito con attenzione l’an-

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nuncio del Presidente degli Stati Uniti di alcune decisioni esecutive per modificare certi aspetti dell’applicazione del blocco. Le misure pubblicate sono molto limitate: persistono la proibizione dei crediti, dell’uso del dollaro nelle nostre transazioni finanziarie internazionali; s’impediscono i viaggi individuali dei nordamericani senza la licenza per i detti scambi “popolo a popolo”, si condizionano questi a fini sovversivi e s’impediscono anche i viaggi per via marittima. Continua il divieto di acquisti in altri mercati di strumenti e tecnologie che hanno più de 10% di componenti nordamericane e le importazioni negli Stati Uniti di merci che contengono materie prime cubane, tra moltissime altre. Il presidente Barack Obama potrebbe usare con determinazione le sue ampie facoltà esecutive per modificare sostanzialmente l’applicazione del blocco e farlo stare nelle sue mani, anche senza la decisione del Congresso. Potrebbe permettere in altri settori dell’economia tutto quello che ha autorizzato nell’ambito delle telecomunicazioni, con evidenti obiettivi d’influenza politica in Cuba. È significativa la sua decisione di sostenere un dibattito con il Congresso, con l’obiettivo di eliminare il Blocco. I portavoce del governo nordamericano sono stati chiari nel precisare che cambiano ora i metodi, ma non gli obiettivi della politica, insistendo nelle azioni d’ingerenza nei nostri temi interni, che non accetteremo. Le controparti statunitensi non dovrebbero proporsi d’avere relazioni con la società cubana come se in Cuba non ci fosse un Governo sovrano. Nessuno può sognarsi che la nuova politica che è stata annunciata accetta l’esistenza di una Rivoluzione Socialista a 90 miglia dalla Florida. Si vuole che nel Vertice delle Americhe di Panama sia presente la cosiddetta società civile, e questo Cuba lo ha sempre condiviso. Protestiamo per quello che è avvenuto nella Conferenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Seattle, nel Verticie delle Americhe di Miami e nel Quebec, nel Vertice sul Cambio Climatico di Copenaghen o quando si riuni-

scono il G-7 e o il Fondo Monetario Internazionale, situati dietro sbarramenti d’acciaio, con una brutale repressione della polizia, confinati a decine di chilometri dagli incontri. È chiaro che la società civile di Cuba parteciperà, e io spero che non ci siano restrizioni per le organizzazioni non governative del nostro paese, che ovviamente non hanno, né interessa loro alcuno status nell’OSA, ma contano con il riconoscimento dell’ONU. Spero di poter vedere a Panama i movimenti popolari e le organizzazioni non governative che chiedono il disarmo nucleare, gli ambientalisti contro il neoliberismo, gli Occupy Wall Street e gli Indignati di questa regione, gli studenti universitari e liceali, i contadini, i sindacati, le comunità originali, le organizzazioni che si oppongono all’inquinamento dei gas, quelle che difendono i diritti degli immigranti, quelle che denunciano la tortura e le esecuzioni extra giudiziarie, la brutalità politica, le pratiche razziste, quelle che reclamano per le donne un salario uguale per un lavoro uguale, quelle che esigono riparazioni per i danni provocati dalle multinazionali. Senza dubbio gli annunci realizzati il17 dicembre hanno scatenato un riconoscimento mondiale e il presidente Obama ha ricevuto per questo un ampio appoggio nel suo paese. Alcune forze negli Stati Uniti cercano di far abortire questo processo che comincia. Sono gli stessi nemici di una giusta relazione degli Stati Uniti con l’America Latina e i Carabi, sono coloro che intorpidiscono le relazioni bilaterali di molti paesi della nostra regione con questa nazione. Sono coloro che sempre ricattano e fanno pressioni. Sappiamo che l’eliminazione del blocco sarà un cammino lungo e difficile, che necessiterà dell’appoggio, la mobilitazione e l’azione decisa di tutte le persone di buona volontà negli Stati Uniti e nel mondo; dell’approvazione da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU nella sua prossima sessione, della risoluzione che ne reclami la fine e soprattutto dell’azione concertata di Nuestra America. (traduzione a cura di Gioia Minuti)

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rassegna stampa

Notizie in breve dal mondo febbraio-marzo 2015 Madrid, Spagna 9 febbraio

però dovuto sbarcare – e non lo fece – a Miami. Circa due settimane dopo il presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower firmerà il documento intitolato “Un programma di azioni segrete contro il regime di Fidel Castro”. Il testo conterrà una serie di misure preparatorie per la futura invasione di Playa Giròn del 1961.

Il Ministro degli Esteri spagnolo, dice oggi in un’intervista che l’Unione Europea, con l’imposizione delle sanzioni economiche alla Russia, ha perso ben 21.000 milioni di euro. Le sanzioni sono state imposte alla Russia su richiesta degli Stati Uniti, un giorno dopo le conversazioni tra Barak Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Hollande e i primi ministri inglese David Cameron e italiano Matteo Renzi.

Venezuela, 5 marzo

Washington, USA 13 febbraio

L’Ucraina ha fornito false fotografie – scattate in realtà nel conflitto tra Russia e Georgia del 2008 – come prova che la Russia l’ha invasa. I senatori statunitensi autori del progetto di legge basato su tali “prove”, che ha permesso agli USA di armare Kiev, dichiarano oggi di sentirsi “furiosi” per la truffa. Le false immagini furono fornite al Comitato per i Servizi Armati statunitense da una delegazione ucraina lo scorso dicembre e rese pubbliche dal congressista Jim Hinhofe che ora, pur riconoscendo il suo errore, dice di essere comunque convinto della giustezza del programma di armamento dell’Ucraina.

Londra, Inghilterra 15 febbraio

Secondo uno studio dell’Università di Zurigo pubblicato oggi sul prestigioso The Lancet, realizzato da un’équipe di medici svizzeri che hanno esaminati i dati di 63 paesi tra il 2000 e il 2011, la disoccupazione causa 45.000 suicidi all’anno, nove volte di più che quelli provocati dalle difficoltà economiche.

New York, USA 21 febbraio

Centinaia di persone hanno partecipato alla commemorazione di Malcolm X, assassinato 50 anni fa, ricordando durante la cerimonia che la sua lotta per l’eguaglianza razziale è più viva e necessaria che mai in un paese dove la brutalità poliziesca contro le minoranze è sempre più grave. La commemorazione si è tenuta nel quartiere di Harlem, a pochi passi dal luogo dove egli fu assassinato il 21 febbraio 1965.

Baghdad, Iraq 22 febbraio

In un’intervista l’ex primo ministro iracheno Nouri Al-Maliki ha accusato il presidente Obama di aver aiutato l’Esercito Islamico (ISIS) a rafforzarsi. Secondo Al-Maliki la Casa Bianca e i suoi alleati “hanno commesso un errore strategico quando hanno cercato di usare l’ISIS e il Fronte Al-Nusra per rovesciare il sistema politico in Siria e questa politica ha provocato il rafforzamento del DAESH (acronimo arabo dell’ISIS) in Iraq e nelle altre nazioni della regione”. L’ex primo ministro ha detto anche che l’Iraq, fin dall’inizio, aveva avvertito del pericolo rappresentato dagli estremisti e delle conseguenze per la sicurezza regionale e mondiale, ma che gli USA hanno ignorato questi avvertimenti.

nuova unità

Londra, Inghilterra – 23 febbraio

Secondo The Telegraph, nel timore di un’uscita della Grecia dalla zona euro, gli investitori si affrettano a compare oro. Secondo quanto riporta il giornale, il distributore di metalli preziosi BullionByPost, che l’anno scorso ha venduto monete e lingotti d’oro per circa 96 milioni di sterline (circa 148 milioni di dollari), ha ricevuto – nelle prime 5 settimane dell’anno corrente – richieste per un 40% in più rispetto all’anno passato. La domanda di lingotti d’oro del peso di 1 chilo è aumentata del 74% rispetto all’anno precedente. Il giornale afferma che la guerra delle monete in Europa spinge gli investitori ad accaparrarsi l’oro.

Tel Aviv, Israele 1° marzo

In una conferenza stampa, con un atto senza precedenti nella storia del paese, 200 veterani dei servizi di sicurezza hanno accusato il primo ministro Netanyahu di essere un pericolo per Israele. Il gruppo - chiamato “Comandanti per la Sicurezza di Israele” e di cui fanno parte ufficiali ritirati e altri che servono nella riserva, tutti con un grado equivalente a quello di generale - chiede al primo ministro di cancellare la sua prossima visita a Washington, nel timore che questi metterà a rischio le buone relazioni con gli USA intervenendo contro i negoziati sul nucleare iraniano, dato che Netanyahu è stato

invitato a parlare al Congresso dai repubblicani senza l’assenso di Barak Obama. Commentando la dichiarazione del Gruppo, il professore universitario ed esperto di relazioni israelostatunitensi Yaron Ezrahi, ha detto: “Si tratta di un gruppo molto potente e distinto di ex comandanti, che sono molto preoccupati rispetto alla strada su cui Netanyahu sta portando Israele. E’ ovvio che non parlano solo per se stessi ma per conto di numerosi comandanti attivi che non possono esprimere la loro opinione, ma che condividono i punti di vista di questo gruppo”.

L’Avana, Cuba 4 marzo 1960

Nel porto dell’Avana esplode la nave francese La Coubre, con un saldo di più di 100 morti e 400 feriti. La nave proveniva da Amburgo con un carico di armi acquistate dal governo cubano in Europa ed era giunta nel porto cubano nonostante le pressioni di Washington perché non vi arrivasse. Nelle prime ore del giorno si produsse una prima esplosione iniziale e, poco tempo dopo, una seconda che coinvolse anche i militari e i lavoratori cubani accorsi per prestare soccorso. Le indagini successive riveleranno che membri della CIA avevano posizionato dell’esplosivo in mezzo alle casse di granate anti-carro. Sulla nave viaggiava, non si sa perché, anche un giornalista statunitense di nome Donald Lee Chapman, che sarebbe

nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) Anno XXIV n. 1/2015 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 - Editore: Liberedit piccola società coop a.r.l. Amministrazione e direzione: c/o Service & Consulting - via delle Cave, 42 - 00181 Roma Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 055450760 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info - www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Brugio, Michele Michelino, Luciano Orio, Pacifico, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 14856579 intestato a: nuova unità - Firenze oppure su c/c bancario nr. 21231 ABI: 03127 - CAB: 02800 - IBAN: IT33 L031 2702 800C C002 0021 231 - BIC: BAECIT2B Unipol Banca intestato a: Liberedit piccola società coop a.r.l. Firenze Stampato interamente su carta riciclata, nessun albero è stato abbattuto per farvi leggere queste pagine Chiuso in redazione:10/02/15

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Oggi si commemora in tutto il paese il Comandante Hugo Chàvez Frìas, morto due anni fa. Le celebrazioni cominceranno con “fuochi artificiali nazionali” per ricordare il leader della Rivoluzione Bolivariana, a cui seguirà un omaggio nel Cuartel de la Montana, a Caracas, dove riposano i suoi resti.

Washington, USA 5 marzo

Il poliziotto che ha ucciso in agosto un adolescente nero disarmato a Ferguson, Missouri, non verrà incriminato a livello federale, secondo un rapporto del Dipartimento della Giustizia pubblicato oggi dal Washington Post. Nonostante il rapporto riconosca che gli agenti di Ferguson risultino avere pregiudizi razzisti ed abbiano agito in modo sproporzionato in numerose occasioni verso i cittadini neri, gli estensori si limitano ad osservare che le autorità dovrebbe apportare cambi sostanziali nelle forze di polizia.

Gerusalemme, Israele 10 marzo

Le autorità israeliane confermano oggi la distruzione dei rifugi eretti ad est di Gerusalemme con il finanziamento dell’Unione Europea, dove vivono beduini palestinesi costretti a fuggire dalle loro case a causa degli attacchi dell’esercito. La scusa addotta è che tali rifugi erano stati costruiti in un parco nazionale. Sono circa 160.000 i rifugiati che vivono in condizioni di estrema povertà - in questi rifugi costruiti ai margini del deserto del Neghev. La metà degli insediamenti esistenti non è riconosciuta dal governo israeliano e quindi non hanno servizi come acqua, elettricità e sistema fognario. L’Unione Europea ha condannato le demolizioni.

Fukushima, Giappone 11 marzo

“Il Giappone ha fatto significativi progressi. La situazione è migliorata sul luogo. Ma continua ad essere molto complicata”: questo il giudizio dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica a 4 anni dal sisma e dal susseguente tsunami. La radioattività è presente dappertutto, compreso nel sottosuolo e nelle acque contaminate che ogni giorno fluiscono in mare, con un tasso di radioattività 70 volte maggiore dei valori normali. Resta inoltre quasi insolubile il problema dell’evacuazione del cuore (corium) dei tre reattori: TEPCO, la società che gestisce la centrale, prevede di poterla realizzare solo verso il 2025 con l’uso di robots e di attrezzature ancora da progettare perché l’intervento umano diretto è impossibile.

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Campagna i t n e m a n o b Ab stiamo per entrare in un altro anno aiutaci a mantenere viva questa voce comunista anche per il 2015

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