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Periodico comunista di politica e cultura n. 5/2018 - anno XXVII
Il fascismo abbandona il popolo alla crudeltà degli elementi venali più corrotti, ma si presenta al popolo con la rivendicazione di un «potere onesto ed incorruttibile». Il fascismo specula sul profondo sentimento di delusione suscitato nelle masse dai governi della democrazia borghese e si mostra ipocritamente indignato contro la corruzione George Dimitrov
La fascistizzazione è sempre più evidente
Andare oltre l’attività sindacale per diventare protagonisti della politica che costruisca un futuro con un sistema sociale socialista, cioè solidale e non per ingrassare i capitalisti Agosto è stato un mese caldo non solo dal punto di vista climatico. E non è stato di riposo per molti lavoratori. È stato invece caratterizzato da numerose morti sul lavoro; da presidi operai come alla Bakaert di Figline Valdarno - dove 318 operai spremuti come limoni con contratti sempre più al ribasso che hanno permesso all’azienda di realizzare grandi profitti - hanno ricevuto la lettera di licenziamento perché la multinazionale belga, ex Pirelli, ha deciso di delocalizzare in Repubblica ceca dove i profitti aumenteranno ulteriormente. È continuato il presidio a Piombino degli operai ex Lucchini con il Camping 1 Cig - che insieme ai dipendenti Bekaert - hanno portato un buon contributo alla Festa di “Partigiani sempre” che si tiene ogni anno a Viareggio. I ferrovieri si sono mobilitati contro la firma dello scandaloso contratto che tende a dividere l’unità dei lavoratori tra FS e Italo. In molti hanno passato i mesi estivi con l’incubo della disoccupazione in seguito allo stallo di varie trattative, Ilva in primis. La caduta del ponte Morandi a Genova - che ha aumentato la lista dei morti sul lavoro - ci riporta ad altre circostanze. Nel 1999, l’anno del governo D’Alema, quando crollavano i ponti serbi sotto i bombardamenti da aerei decollati dall’Italia veniva ceduta ad un gruppo di azionisti privati la proprietà pubblica della Società Autostrade che gestiva anche il ponte Morandi. Ovvero come agevolare gli interessi dei privati alla continua ricerca del massimo profitto. Il Morandi non è il primo ponte a crollare. Negli ultimi 3-4 anni sono decine i ponti ceduti e, per logica, non sarà l’ultimo però sono eventi che permettono ai politici di ogni risma di piangere lacrime... di coccodrillo e affermare la loro propaganda demagogica. È morto Marchionne, il nemico degli sfruttati di tutto il mondo, colui che ha incassato i soldi degli ammortizzatori sociali per poi portare le fabbriche in altri paesi, ciononostante è stato, in men che non si dica, sostituito dai suoi amici con l’a.d. Manley che sposterà FCA sempre più verso gli USA. I mezzi di informazione lo hanno santificato, ma gli operai non hanno pianto. Il modello industriale Marchionne ha fatto carta straccia dei diritti dei lavoratori, del CCNL e del principio di rappresentanza sindacale all’interno delle fabbriche, esteso sul piano nazionale. La cosiddetta “newco” Fabbrica Italia è andata rovinosamente in cassa integrazione e poi è miseramente fallita dopo appena 7 mesi dall’avvio. L’arroganza padronale di Marchionne ha in gran parte colpito i delegati e i lavoratori più combattivi con l’arma del licenziamento, della cassa integrazione, dei reparti-confino o delle sanzioni disciplinari. Ha licenziato 5 operai alla Fiat di Pomigliano per avere inscenato davanti all’azienda il suo suicidio in contrapposizione ai lavoratori che si erano tolti la vita in seguito alle difficoltà provocate dal loro licenziamento, Operai oppressi in fabbrica e costretti a condizioni materiali e psicologiche di indigenza, impossibilitati a mantenere la propria famiglia. Il reazionario Salvini ha mostrato i muscoli contro gli sbarchi degli immigrati, sequestrandoli e respingendoli in quella Libia distrutta dall’imperialismo dove sono torturati e le donne stuprate, monopolizzando l’attenzione sul “prima gli italiani” - che non vale per gli italiani sgomberati dall’occupazione delle case - incanalando l’odio verso gli stranieri - compresi quelli che sono supersfruttati da padroni e caporali nelle campagne del Sud e che muoiono come nell’incidente del 4 agosto -. Alimentando tensioni sociali, in combutta con il nazista ungherese Orban incontrato a Milano. Salvini, tra le varie elucubrazioni sulla famiglia, si è lanciato sull’”esplosione di aggressioni” da parte di pazienti psichiatrici. Altre notizie false perché il 95% dei reati violenti commessi è attribuibile a persone “normali”, tace, invece, sullo sfascio progressivo del sistema assistenziale che conta su circa il 3,5% della spesa sanitaria mentre altri paesi - Francia, Spagna,
ti, i disoccupati a pagare la crisi insanabile della borghesia. La borghesia promette progresso e benessere che non trova riscontro nella relatà perché nel capitalismo non c’è alcuna possibilità di una esistenza degna di questo nome. Anche questo governo - asservito agli USA, alla UE, ai sionisti e al Vaticano - non migliorerà né cambierà la difficile situazione del proletariato e delle masse popolari perché prima di tutti non ci sono gli italiani, ma gli imprenditori e il loro capitale. Ci sono gli interessi del complesso militare industriale (che sta modernizzando le armi nucleari), che impone l’acquisto di armi da guerra e l’aumento del Pil al 2% per l’appartenenza alla Nato, alla quale anche questo governo “del cambiamento” ha confermato la fiducia. È il sistema ad essere fallimentare per la stragrande maggioranza della popolazione, per la classe lavoratrice, un sistema che non si può riformare tantomeno abbellire. C’è un’unica possibilità per liberarci da tutti i pericoli, dall’oppressione, dalla repressione, dalla guerra che ci riguarda sempre più da vicino a causa delle contraddizioni tra le potenze imperialiste nel contesto della crisi mondiale. È la lotta di classe. Una lotta di unità: fabbrica-territorio, di unità di classe tra tutti gli operai delle numerose fabbriche in lotta che mettano fine all’odiosa delega che ha portato al distacco dei vertici sindacali dalle esigenze dei lavoratori. Unità di classe contro le divisioni che indeboliscono il movimento operaio come quelle in occasione degli “scioperi nazionali” indetti dai vertici dei sindacati di base per soddisfare la propria autoferenzialità, limitati perché non in grado di bloccare il paese, ai quali aderiscono solo i militanti (e non sempre tutti) ma che non coinvolgono l’insieme della classe lavoratrice. Scelte che demotivano lo sciopero stesso e che invece di restituire fiducia nella lotta producono disorientamento e demoralizzazione. È indispensabile andare oltre l’attività sindacale e le rivendicazioni immediate, comunque necessarie, e dotarsi di strumenti adeguati per diventare protagonisti della politica - quella vera, non istituzionale - che liberi dalle catene dello sfruttamento capitalistico e costruisca un futuro basato su un sistema sociale socialista, cioè solidale e non per ingrassare i capitalisti.
Germania, Gran Bretagna - vi investono il 10/15%. La politica del governo Conte-Salvini-Di Maio distrugge le libertà e i diritti conquistati con la Resistenza e le lotte operaie, e si dibatte tra decisioni populiste, ondeggianti e superficiali, retromarce, correzioni delle dichiarazioni, annunci demagogici, proposte palliative volte a frenare le situazioni di difficoltà delle masse, lasciando la disgregazione in cui ci troviamo nell’ambito dello Stato borghese. C’è una particolare attenzione verso le forze di polizia, che aumenteranno di numero e di stipendio e saranno munite di nuove armi - armi che non saranno “innocue” e utili per la sicurezza come vogliono farci credere -, ma che saranno utilizzate contro le inevitabili manifestazioni di protesta: politiche, sindacali, studentesche. Contro quei settori che la borghesia condanna ad una vita di sempre maggiori problemi: di lavoro, di salute, di casa ecc. E il processo di fascistizzazione si fa ogni più evidente e avanza verso un ulteriore salto qualitativo che aprirà le porte al fasciRiflessione sul decreto dignità e sulle prime misure smo. Sono ridicoli i patetici “considel Governo gli” di un riesumato Veltroni o la finta opposizione del PD che, nel suo governo - ha remato Morti sul lavoro e organizzazione operaia contro il proletariato a favore del grande capitale e degli intePonte Morandi a Genova: Non ci sono fatalità ressi dell’Ue, degli Usa, di Israele e della Nato -, né i tentativi di fusione tra i pezzi sparsi della Contratto di governo, contratto di classe “sinistra”. La crisi c’è. C’è il costante auCiao SUGO! mento del costo della vita: dagli alimentari alle bollette, dai 21 agosto: dal 1968 di Praga al 1991 di Mosca servizi ai trasporti, dai carburanti alle tasse. Eppure non se al 2018 del PRC ne sente più parlare, di conseguenza non si sente più parlare Nicaragua di gente dolce... neppure della parola d’ordine basata sul fatto che non devono essere gli operai, i cassintegra-
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lavoro
Decreto dignità: ora è legge Il testo della legge di conversione del DL n. 87/2018 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale dell’11 agosto 2018 ed in vigore dal 12 agosto 2018 Le nuove norme: dai contratti ai licenziamenti illegittimi alle scommesse, ecco le misure Il Decreto Dignità - dopo aver ottenuto il via libera definitivo dell’Aula del Senato con 155 sì, 125 no e 1 astenuto - è diventato legge in un clima di rissa. Urla, cartelli, appelli alla calma, con cori da stadio che ripetevano più volte la parola `Di-gni-tà´, hanno accompagnato a Palazzo Madama il voto definitivo. Il decreto dignità, su cui il viceministro 5Stelle Di Maio si era speso parecchio, aveva creato molte aspettative negli elettori del governo del “cambiamento” Lega-5 Stelle ma, una volta definitivamente approvato, delude tutte le aspettative non solo di chi si aspettava la definitiva abrogazione del Job acts, ma anche di imprese, professionisti e soprattutto lavoratori. Nella legge, infatti, non si parla di flat tax, e non è stato abrogato lo spesometro (di fatto neanche una proroga), solo un ritocco (peraltro ancora non pienamente definito) del redditometro. Anche per chi ci aveva creduto, il risultato è abbastanza deludente, o quantomeno inferiore alle aspettative. Non viene ripristinato l’art. 18, non è abolito il job acts, ma solo riformate le norme sui licenziamenti e sui contratti a termine; ed è introdotto un vincolo sulle delocalizzazioni. Quindi per i padroni rimane la libertà di licenziare come e quando vogliono: pagheranno qualche mensilità in più, un’elemosina che non cambia la sostanza del potere padronale sulla forza lavoro. Eppure la questione lavoro è stato il cavallo di battaglia su cui il vice premier e ministro del lavoro Luigi Di Maio aveva molto insistito in campagna elettorale. Ma vediamo i punti del decreto dove sono riformate le norme sui licenziamenti e sui contratti a termine; e viene introdotto un vincolo sulle delocalizzazioni.
1 - Le novità sul lavoro
a) I contratti a termine avranno una durata massima di 24 mesi rispetto ai 36 della vecchia legge. Per i nuovi contratti ci sarà l’obbligo di motivare i rinnovi. Se il contratto a termine supera i 12 mesi e non sono indicate le causali, il contratto si trasforma automaticamente a tempo indeterminato. I contratti a tempo determinato, compresi quelli in somministrazione, non possono superare il 30% dei contratti a tempo indeterminato nella stessa azienda. Previste anche multe di 20 euro al giorno per la somministrazione fraudolenta e l’esclusione delle agenzie di somministrazione dall’obbligo di indicare le causali per il rinnovo dei contratti a termine. I costi aggiuntivi applicati ai rinnovi (0,5%) si applicheranno anche ai contratti a termine in somministrazione. Da questo provvedimento è però escluso il lavoro domestico, che non rientra nelle penalizzazioni stabilite per i rinnovi dei contratti a termine. La maggiorazione contributiva dello 0,5 per cento non varrà per collaboratori domestici e badanti. b) Bonus Istituito un bonus del 50% dei contributi per le assunzioni di under 35, che dal prossimo anno sarebbe scattato solo per assunzioni di under 30; esso sarà esteso anche al 2019 e al 2020. L’esonero del 50% dei contributi previdenziali a carico dei padroni è riconosciuto per massimo 3 anni e con un tetto di 3mila euro su base annua. Le coperture arriveranno dall’aumento del prelievo erariale unico sugli appa-
28 febbraio 2019. Per il primo semestre la scadenza rimane al 1° ottobre, mentre quello del secondo semestre rimane sempre al 28 febbraio.
Quindi tanto rumore per nulla... Altra delusione è quella del redditometro. Anche questo adempimento non è stato abrogato, come promesso da diversi esponenti della maggioranza di Governo. Il decreto prevede solo la sospensione dei controlli sugli anni 2016 e seguenti, in attesa che un ulteriore provvedimento introduca un nuovo strumento. Viene, infine, limitato il beneficio fiscale dell’iper-ammortamento, che potrà essere ripreso a tassazione qualora i beni agevolabili siano stati destinati a strutture con sede all’estero. L’unica promessa pienamente mantenuta è quindi essere quella sul divieto della pubblicità de gioco d’azzardo. recchi da gioco a partire dal 2019. c) Licenziamenti illegittimi È innalzata l’indennità massima che passa da 24 a 36 mensilità, mentre la minima passa da 4 a 6 mensilità.
2 - Voucher
I nuovi voucher potranno essere utilizzati dalle aziende agricole, e anche dagli alberghi con un massimo di 8 dipendenti (per gli altri settori è 5 il limite di dipendenti). I voucher diventano una forma di pagamento per pensionati, disoccupati, studenti under 25 con durata massima di 10 giorni di contratto. I lavoratori dovranno essere pagati entro il termine di 15 giorni dallo svolgimento della prestazione lavorativa.
3 – Delocalizzazioni e contrasto alla delocalizzazione Multe a chi delocalizza: le aziende che hanno ottenuto aiuti dallo Stato per impiantare, ampliare e sostenere le proprie attività economiche in Italia e che spostano la sede al di fuori dell’Unione Europea prima che siano trascorsi 5 anni dalla fine delle agevolazioni subiranno una sanzione da 2 a 4 volte il beneficio ricevuto. Sulla scia del nazionalismo, dello slogan “prima gli italiani” e per la “protezione del lavoro italiano”, è introdotto un vincolo alle delocalizzazioni: chi riceve aiuti statali per investimenti produttivi non potrà spostare la sede aziendale all’estero per i successivi cinque anni.
4 - Gioco d’azzardo
Fine della pubblicità del gioco per limitare le ‘ludopatie’ . Il famoso “nuoce alla salute”, dopo i pacchetti di sigarette, varrà anche per i “gratta e vinci”. I tagliandi per tentare la fortuna dovranno avere note esplicative (che coprano almeno il 20 per cento della superficie del biglietto su entrambi i lati) sui rischi del gioco d’azzardo, come succede per i pacchetti di sigarette. Chi viola il divieto di pubblicità del gioco d’azzardo sarà sanzionato con multe fino al 20% della sponsorizzazione (minimo 50mila euro). Per giocare alle slot e per tutelare i minori sarà obbligatorio, come avviene per le macchinette che distribuiscono tabacco, la tessera sanitaria. Ma anche qui fatta la legge ecco subito l’inganno e l’ipocrisia: l’unica eccezione al divieto è rappresentata dalle lotterie nazionali.
5 - Maestre
Proroga dei contratti fino a 30 giugno 2019 e un concorso straordinario per
risolvere il problema delle maestre diplomate prima del 2001/2002. Saranno prorogati tutti i contratti fino al 2019, trasformando quelli a tempo indeterminato in contratti a termine fino al 30 giugno 2019 e prorogando chi aveva già il contratto a tempo determinato.
Queste in sintesi le misure del Decreto Dignità Come sempre qualcuno pensa “piuttosto di niente, anche se poco meglio questo rispetto a quanto fatto dai governi di “centrosinistra”, anche se il “piuttosto” è poca casa rispetto alle promesse elettorali. In ogni caso sui contratti a tempo determinato vengono introdotte, rispetto a prima, due importanti novità: la durata massima scende da 36 a 24 mesi; tornano le causali, che devono essere inserite per giustificare i rinnovi (la norma parla di inserimento dopo i primi dodici mesi. In caso di violazione dell’obbligo di indicare la causale in caso di rinnovo dopo dodici mesi, il contratto si trasforma automaticamente in assunzione stabile. Aumenta poi l’indennità massima per i licenziamenti illegittimi che passa da 24 a 36 mensilità, mentre la minima sale da 4 a 6 mensilità. Ma le delusioni più grandi per la classe media sono state prodotte dalla parte fiscale: erano attesi provvedimenti ampiamente pubblicizzati come quelli su spesometro, redditometro, studi di settore e split payment. L’unico di questi provvedimenti realmente concretizzatosi è l’abolizione dello split payment per i soli professionisti. Con il Decreto Dignità, d’ora in poi ai professionisti, l’IVA non si applicherà più alle prestazioni di servizi assoggettate a ritenuta Irpef. Ciò significa che i professionisti (ingegneri, architetti, avvocati e altri a partita Iva) torneranno a riscuotere l’imposta sui compensi fatturati alle amministrazioni pubbliche, con loro grande soddisfazione. Per il resto, chi si era illuso che con la Lega al governo sarebbe cominciata la pacchia ha dovuto subire una serie di delusioni cocenti. Quella più clamorosa riguarda lo spesometro, che non solo non viene abrogato ma che non sarà nemmeno oggetto di proroga. Il decreto legge in oggetto, non fa altro che statuire una situazione già prevista. L’invio telematico dello spesometro potrà essere trimestrale o semestrale. L’unica novità rispetto a prima è che l’invio del terzo trimestre potrà essere effettuata sino al prossimo
Riflessione sul decreto dignità e sulle prime misure del Governo
Michele Michelino
A distanza di pochi mesi, le promesse elettorali dei rappresentanti della piccola e media borghesia che promettevano agli italiani di trasformare il paese come nella fiaba di “Alice nel paese delle meraviglie” si sono infrante davanti alla cruda realtà che nella società capitalista chi governa lo fa salvaguardando gli interessi dei poteri forti, quello delle multinazionali e del grande capitale. Vediamo cosa promettevano Lega e 5 Stelle nei primi cento giorni del loro governo. Salvini diceva: «Via le accise sulla benzina al primo Consiglio dei ministri». «Al primo Consiglio dei Ministri punteremo a cancellare le sette accise sulla benzina perché pare che la guerra con l’Etiopia sia finita». Così annunciava lo scorso febbraio Matteo Salvini. E ancora «Più della metà del costo della benzina se ne va in tasse. Cosa faccio se vado al governo? Non ho bacchette magiche, ma faccio giustizia e le taglio. Non possiamo avere la benzina più cara d’Europa perché significa avere il costo della vita più caro d’Europa. Se sarò al governo eliminerò ognuna di queste accise riducendo il costo della benzina di 0,72 centesimi. Lasceremo euro in più nelle tasche degli italiani. Con me una tassa di 80 anni fa non esisterà più». A tre mesi dal giuramento di Lega/5Stelle, e dal primo Consiglio dei Ministri, della cancellazione delle accise sulla benzina non c’è traccia. Anzi, secondo fonti del Corriere della Sera e dal Fatto Quotidiano, il governo starebbe valutando la proposta di un aumento del prezzo del diesel che verrebbe, di fatto, parificato a quello della benzina. Luigi Di Maio, a inizio dicembre durante una tappa lombarda della sua campagna elettorale, aveva assicurato sul Job acts: «Lo vogliamo abolire». E, sull’articolo 18 aveva aggiunto: «Crediamo che sotto i 15 dipendenti non serva alle imprese, perché in quel caso sono a conduzione familiare. Per il resto, vogliamo ripristinarlo». E ancora, a poche ore dalla chiusura della campagna elettorale, il Movimento 5Stelle affermava: via la riforma del lavoro di Matteo Renzi, sì al ripristino delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori a favore dei contratti a tempo indeterminato. Anche di questo nel “Decreto dignità” non c’e traccia. Nel paese del gattopardo cambiare tutto per non cambiare niente è da sempre il programma dei governi borghesi. Promettere la torta per tutti per poi dare le briciole ad alcuni, governando nell’interesse delle multinazionali e di chi ha finanziato la campagna elettorale, è una costante di tutti i partiti al servizio del capitale. Usare la campagna contro i migranti come arma di distrazione di massa per aumentare consensi serve al governo per dividere ulteriormente i proletari e per distogliere i vari settori delle classi sociali che hanno creduto alle loro promesse elettorali dai risultati che riescono a realizzare concretamente. In ogni caso le bugie hanno le gambe corte e, com’è già successo al precedente capo del governo Renzi, più si vola alto nel consenso degli elettori e più male ci si fa quando si cade.
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lavoro
Morti sul lavoro e organizzazione operaia Bisogna partire dalle cose concrete che interessano la nostra classe, dai suoi bisogni, organizzandoci insieme ai nostri compagni, partecipando in prima persona a tutte le lotte e iniziative di chi si muove sul terreno degli interessi generali della classe Michele Michelino Anche nel mese di agosto, quello in cui la maggioranza delle fabbriche e dei luoghi di lavoro sono chiusi per ferie, i morti sul lavoro hanno raggiunto cifre record. Nocività, salute, lavoro sempre più sfruttato e precario sono diventati la normalità cui ci siamo ormai assuefatti. Che il capitalismo sia un sistema ingiusto, basato sulla sopraffazione di pochi detentori della proprietà privata del capitale ai danni di proletari, operai e lavoratori salariati, è evidente. Da sempre i padroni ci dicono che, nonostante alcune storture, questo è il migliore dei mondi possibili. Lo sfruttamento capitalista si manifesta in vari modi, ma il più violento è rappresentato dagli infortuni e dai morti sul lavoro: frutto della continua lotta di classe, guerra che i borghesi, gli sfruttatori, conducono contro gli sfruttati. Un’organizzazione sociale divisa in classi in cui predominio e potere sono nelle mani di chi possiede il capitale, in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione appartiene ad una minoranza di persone: in sintesi il “modo di produzione capitalistico”. Perciò la causa dei morti sul lavoro, oltre che dei singoli padroni, è del sistema economico cioè della società borghese nella quale i mezzi di produzione appartengono ai capitalisti privati o pubblici, a gruppi economici e persone cui interessa solo realizzare il massimo profitto.
Ruolo dei sostenitori del capitalismo: sindacati confederali e PCI La ricerca del massimo profitto inevitabilmente acuisce i contrasti di classe e si scontra con la resistenza degli operai in lotta contro il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro.
I sindacati confederali Cgil-CislUil-Ugl, ma anche altri sindacati corporativi falsamente “autonomi”, riconoscendo come legittimo il profitto e sostenendo le rivendicazioni sindacali “compatibili“ con il sistema, sono diventati negli anni i pilastri del sistema e i paladini dell’ideologia borghese fra i proletari, il principale puntello al sistema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. In passato un aiuto importante ai padroni è venuto, oltre che dai sindacati, dal PCI che, negli anni 70’ ma anche prima, giovandosi del suo passato di partito operaio, ha sostenuto una politica filo-padronale (oggi sostenuta dal PD e da Rifondazione Comunista) e, attraverso i suoi uomini nel sindacato, ha cercato e cerca di impedire e controllare le lotte autonome e indipendenti basate sui reali interessi dei lavoratori. Separare la lotta economica da quella politica per la presa del potere è da sempre l’obiettivo della borghesia, aiutata in que-
sto dai sindacati collaborazionisti e dai partiti borghesi. La lotta sindacale – economica contro lo sfruttamento e quella contro gli infortuni e i morti sul lavoro è un aspetto della lotta tra le classi. Esprime un conflitto di interessi fra borghesia e proletariato ma, per quanto necessaria per limitare lo sfruttamento capitalistico, da sola non basta – e non è mai bastata - perché è una lotta contro gli effetti e non contro le cause dello sfruttamento. Con la lotta, imponendo misure di sicurezza adeguate, possiamo ridurre i morti, ma senza il potere in mano alla classe operaia, senza una società socialista in cui lo sfruttamento sia considerato un crimine contro l’umanità, gli operai continueranno a patire e morire.
La frammentazione della classe operaia La borghesia da anni - tramite i suoi pennivendoli salariati e i
mass media - ha condotto un’opera sistematica di distruzione della memoria storica, aiutata in questo dagli ex dirigenti “comunisti”, passati armi e bagagli al carro del vincitore, privando così il proletariato della sua avanguardia operaia comunista, ridotta ormai a mera testimonianza. L’amnesia storica e politica ha avuto il risultato di portare molti operai e proletari a una crisi d’identità, a non rendersi neppure più conto di far parte di una stessa classe sottomessa. Solo quando sono toccati personalmente, quando un compagno di lavoro muore per infortunio, solo allora - toccando con mano la dura realtà della guerra di classe in atto e della giustizia borghese - ci si rende conto che le istituzioni, la legge e gli stessi giudici assicurano prima di tutto la continuità degli interessi della proprietà privata dei mezzi di produzione, lasciando impuniti i colpevoli di questi omicidi. Dove si sono organizzate lotte
contro lo sfruttamento, in particolare contro i morti di lavoro, queste esperienze si sono dimostrate vere scuole politiche rivoluzionarie, facendo toccare con mano ai partecipanti la differenza fra chiacchiere e realtà. L’esperienza e la partecipazione alla lotta dimostrano, più di tante parole, che la democrazia e la giustizia sono al servizio della classe dominante.
Le divisioni sindacali e politiche La condizione di peggioramento continuo della condizione operaia, l’aumento dello sfruttamento e dei morti sul lavoro, dimostrano la brutalità del sistema capitalista che, nella ricerca del massimo profitto, distrugge gli esseri umani e la natura inarrestabilmente, lasciando sul campo delle forze proletarie i morti e i feriti. I morti sul lavoro e di malattie professionali sono assassinii compiuti dalla classe capitalista
nella guerra quotidiana contro la classe operaia, che però oggi non trovano da parte degli operai momenti di lotta unitari e organizzati sui loro interessi di classe. Davanti all’attacco della classe capitalista la risposta operaia e proletaria è frammentaria e divisa in piccole lotte di resistenza isolate. Oggi, come classe operaia, come lavoratori, siamo divisi in una miriade di lotte di resistenza sparse sul territorio nazionale (ma anche a livello internazionale) e non esiste una risposta adeguata. La mancanza di una risposta unitaria è particolarmente evidente davanti ai morti sul lavoro. Ognuno lotta, protesta e piange i suoi morti nella propria situazione e territorio, spesso non riconoscendoli neanche come morti di tutta la classe, rivendicando solo l’appartenenza al proprio sindacato o all’organizzazione politica di cui fa parte. La concorrenza fra sigle sindacali e politiche a volte arriva all’assurdo: in particolare davanti ai morti sul lavoro dove abbiamo assistito al misero spettacolo di scioperi e manifestazioni contrapposte che, spesso, hanno costretto lavoratori della stessa fabbrica a protestare o manifestare in momenti diversi. La coscienza che la divisione della classe operaia, la concorrenza, il suo frazionamento indeboliscono la classe anche nella sua resistenza è ormai chiara a molti. Bisogna partire dalle cose concrete che interessano la nostra classe, dai suoi bisogni, organizzandoci insieme ai nostri compagni, partecipando in prima persona a tutte le lotte e iniziative di chi si muove sul terreno degli interessi generali della classe, criticando aspramente l’abitudine di delegare ad altri i propri problemi e la loro soluzione. LA CLASSE È UNA CON UN UNICO INTERESSE.
In morte di Sergio Marchionne, rottamato Il suo entourage non sapeva che fosse ammalato (???) ma ha nominato il suo sostituto (uno yankee) prima ancora che avesse tirato le cuoia Luciano Orio Ei fu - verrebbe da dire, data l’importanza del personaggio, ma anche per lo stupore che la sua improvvisa scomparsa ha lasciato. È così per le grandi figure pubbliche, gli eroi borghesi che muoiono. Fiumi di lacrime per Steve Jobs, fiumi di lacrime per SM. Ma noi siamo di un’altra classe e così, superato lo stupore iniziale, siamo sbottati in un ma allora capita anche a loro, che è un modo di dire ancora innocente, tanto più per l’ancora “giovane“ età e poi, osservato che, tralasciando di inchinarsi al massimo fattore, la razza padrona FIAT (FCA) ha già trovato come rimpiazzarlo in due e due quattro, quando ancora non era morto, ci siamo chiesti attoniti: “ma di che malattia è morto SM? Perché, anche dopo giorni, la curiosità resta. Lo so, si dice che non si dovrebbe parlare così dei morti. Ce lo ricorda puntualmente la stampa borghese di tutti i tipi che definisce “agghiaccianti” i commenti non proprio benevoli rilasciati da chi certo non condivideva le scelte di SM nell’ambito lavorativo; quelli di migliaia di operai costretti a sottostare alle sue “ricette”: l’aumento del lavoro, il taglio dei tempi, i licenziamenti, cassa integrazione e trasferimenti a pioggia, i reparti confino… Succede così, quando ci assale il sovvenir, per dirla col poeta. A distanza di giorni però ancora niente. La clinica di Zurigo dov’era
in cura dice di aver fatto il possibile, la famiglia si trincera dietro la privacy, i padroni FIAT dicono che non ne sapevano niente e che però non lo dimenticheranno mai e che mai nessuno sarà come lui. I soliti compagni beninformati accennano ad un’operazione alla spalla, prodromo di un tumore polmonare, e poi che SM fumava cicche in quantità industriale (sette pacchetti al giorno). Sarà vero? E poi fumare cicche non è ancora una malattia. Io, per conto mio, guardo un’intervista di qualche tempo prima in cui SM appare esausto, ma poi anche altri siti. La confusione regna sovrana: chi parla di emorragia cerebrale, chi fa trapelare l’idea di un qualche errore seguito all’operazione. Poi la famiglia dichiara che era in cura già da un anno. Boh! Alla fine arriva l’illuminazione: un amico operaio mi rivela che Marchionne è morto di un tumore e che il silenzio sulle sue condizioni di salute era volontà dello stesso SM, onde evitare il crollo in borsa e le successive speculazioni finanziarie sui titoli di FCA, cosa puntualmente avvenuta e però abbastanza ben contenuta. Che dire? SM è morto di lavoro, di malattia professionale contratta a causa del lavoro e dello stress che egli stesso si era imposto. SM è morto di autosfruttamento! Tutto lo stress per far fronte alla concorrenza mondiale con gli altri produttori di auto, alla necessità di reperire capitali per rilanciare il marchio FIAT, la preoccupazione per quel colore rosso che, così bello nelle sue
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Ferrari, diventava disgustoso nelle bandiere che gli operai reggevano nel corso di proteste e cortei interni. Fatti, questi ultimi, che allontanavano irrimediabilmente gli investitori statunitensi, che non capivano, e lui più volte lo aveva detto a Camusso, Landini... E poi l’ansia per il risultato, cioè l’incremento del dividendo per gli azionisti. Il capitalismo fa male anche ai padroni, non lo diceva Marx? SM lavorava 16/17 ore al giorno e fumava, fumava, fumava per la tensione ed il logorio continui. Alla fine non ha retto ed è morto di autosfruttamento capitalista. Si è coscientemente immolato per la causa, chiuso nel suo silenzio, senza far trapelare alcunché potenzialmente dannoso per i suoi padroni. Loro lo hanno ringraziato, hanno detto che non sapevano fosse ammalato (???) e nominato il suo sostituto (uno yankee) prima ancora che avesse tirato le cuoia. Nel giro di dieci giorni il dio mercato ha sfornato un libro ad memoriam tutto sulle sue gesta, le umili origini ecc. ecc. Ma si sa, il mercato vuole la sua parte e non si può certo star lì a sottilizzare. E la morte di SM, celebrata da tutti, ma proprio tutti, alla fine è passata in secondo piano, complice anche un’altra azienda del gruppo, che tiene banco: la Juve ha comprato un calciatore, Cristiano Ronaldo 7, il migliore del mondo. Lo pagherà come 1680 operai di Pomigliano. In fondo Marchionne ne valeva solo 450. E così FIAT!
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genova
Non ci sono fatalità
Un concorso di colpa tra intralci burocratici e ricerca criminale del massimo profitto da parte del capitalismo, pubblico o privato che sia, ha messo a rischio deliberatamente le nostre vite giocando d’azzardo sui tempi di tenuta del ponte Eraldo Mattarocci Il crollo del ponte Morandi, a quanto pare, è giunto inaspettato solo per chi lo utilizzava mentre chi lo gestiva, tutte le gestioni pubbliche o private che si sono succedute, erano al corrente del suo degrado sin dall’inizio degli anni ottanta. Per noi liguri il suo collasso è stato un trauma ed a rimarcarne la gravità non è soltanto il numero delle vittime che, pur elevato, avrebbe potuto triplicare se il disastro fosse avvenuto, anziché nella settimana di Ferragosto, in un normale giorno lavorativo e neppure il numero degli sfollati quanto il fatto stesso che sia accaduto, che un’opera così imponente che nell’immaginario delle persone avrebbe dovuto durare per sempre sia crollata miseramente. Il suo collasso ha reso evidente come tutto il sistema di sviluppo su cui si è basata la nostra economia, e di conseguenza la nostra vita, sia precario ed irrazionale tant’è vero che la perdita di un’arteria, sia pure importante come il tronco di autostrada che univa Cornigliano con Sampierdarena - era il collegamento principale sia con il porto e con Genova centro, sia con il Levante - è bastata a mettere in ginocchio non solo il capoluogo ma tutta la Liguria ed in particolare il savonese, già piegato da una crisi industriale molto dura. A rendere più pesante il clima hanno provveduto, con la conta dei morti ancora aperta, i rappresentanti del Governo e quelli di una sedicente quanto sterile opposizione entrambi più impegnati ad addebitarsi vicendevolmente le responsabilità piuttosto che intervenire immediatamente sulle conseguenze del crollo del ponte e sulle decisioni da prendere per limitare i danni. Ovviamente non è che le responsabilità non debbano essere individuate e perseguite, anzi uno dei problemi che ci troveremo di fronte è quello che nel nostro paese, più si sale nella scala gerarchica e sociale, meno si risponde dei propri errori o, come in questo caso, delle proprie scelte criminali e di complicità come quello tra lo Stato e la multinazionale Benetton con la concessione di 3mila chilometri di autostrade che rendono 6 miliardi di euro (qui non c’è crisi!), l’aeroporto di Roma e altri piccoli scali, famiglia che per i propri profitti, non disdegna neppure lo sfruttamento coloniale contro i nativi Mapuche. C’è da dire che queste scelte, fatte a metà degli anni Sessanta del secolo scorso, furono avallate da tutte le forze politiche dell’epoca dal PCI alla DC, passando per tutti i partiti minori, e furono condivise persino dai proprietari delle case sottostanti che furono compensati, con parecchi milioni di lire, per la perdita di valore dei loro appartamenti. E coloro che li hanno comprati in seguito si trovano sfollati, privati di recuperare gli effetti personali e... dovranno continuare a pagare il mutuo. Al momento in cui scriviamo sono state collocate solo 21 persone su 229 famiglie. Che, giustamente, protestano anche per il divieto di partecipare alla seduta del Consiglio regionale straordinario. I politicanti di turno preferiscono rinchiudere tra le loro mura dorate le proprie decisioni che finora privilegiano le imprese, non certo con l’intento di mantenere l’occupazione,
ma per salvaguardare i profitti degli imprenditori. Il tutto in una sorta di delirio, comprensibile anche se non giustificabile solo se pensiamo alle di-
Comunicato di Medicina democratica Il crollo del viadotto Morandi a Genova, al di là delle responsabilità penali, fa emergere lo stato critico delle infrastrutture (ex pubbliche) italiane. Se vi è una urgenza in termini di “grandi opere” è quella di garantire il controllo, la manutenzione e l’adeguamento delle opere (in particolare di quelle realizzate con sistemi obsoleti), intendiamo con questo riferirci sia alle infrastrutture (stradali, ferroviarie, portuali) ma anche alle peculiarità e criticità del nostro territorio (protezioni dai rischi idrogeologici e sismici) come pure dell’inversione della tendenza di continuo consumo di territorio anziché del “riciclo” dell’esistente. A queste grandi opere vanno garantite le risorse anziché dissiparle in iniziative come la TAV Torino-Lione o Brescia-Verona, opere sostituibili con interventi di minore entità e di pari utilità. Sono iniziative per le quali non bastano programmi “calati dall’alto” (il piano di investimenti oggi promesso dal governo oppure il preesistente “Piano Juncker” europeo) ma vanno fondati sulla partecipazione attiva ed organizzata dei diretti interessati, le popolazioni esposte, per individuare le priorità e i bisogni territoriali (di mobilità, di sicurezza del territorio, di salubrità ambientale) da porre quali obiettivi, in luogo dei profitti di altri soggetti (concessionari, grandi imprese, lo Stato con i canoni: se, sull’evento genovese emergerà una specifica responsabilità della concessionaria, tale responsabilità non potrà che riguardare anche lo Stato per i mancati controlli sull’azione del gestore). Senza un controllo diretto della popolazione
struzioni della guerra, come se lo sviluppo fosse avulso dalle regole del mercato capitalistico: una concezione che mostrava i suoi limiti già allora
alle tragedie seguono la speculazione, la privazione dei diritti, l’appropriazione nelle mani di pochi delle risorse destinate a tutti (TAV docet !). Per questi motivi, e proprio sulla base delle esperienze passate, riteniamo che sia indispensabile da subito attivare le seguenti iniziative: – Costituire comitati autorganizzati per gruppo di soggetti che hanno subito danni di ogni tipo dal crollo del viadotto (familiari dei deceduti e dei feriti, danneggiati psicologicamente, sfollati, pendolari eccetera). – Pretendere tutti insieme che rappresentanti liberamente scelti di queste associazioni possano partecipare a pieno titolo a qualunque iniziativa che li riguardi, sia sotto il profilo penale che amministrativo che politico. – Raccogliere da subito ogni elemento utile a comprendere le ragioni del crollo, chiedendo l’apporto di tecnici competenti e indipendenti (senza conflitti di interessi con tutte le parti economiche e politiche coinvolte) e inserendosi come parte civile nel procedimento penale che verrà avviato, richiedendo di essere presenti quali parti offese con propri rappresentanti anche nella fase delle indagini (es. incidente probatorio). – Definire obiettivi immediati e a più lunga scadenza, esigendo che società autostrade, regione e stato mettano da subito a disposizione ingenti risorse a favore di coloro che hanno subito o subiranno i pesanti disagi di questa tragedia. Medicina Democratica, per quanto le sarà possibile, si mette da subito a disposizione delle famiglie delle vittime, dei feriti e dei danneggiati, con i propri tecnici e i propri legali, per sostenerli nel tutelare i loro diritti. Sezione di Medicina Democratica di Savona Consiglio Direttivo
visto che la durata dell’opera, nonostante i costi talmente alti da poter essere coperti solo con denaro pubblico, fosse assicurata per soli cinquant’anni. Dopo poco più di vent’anni dalla costruzione, nel 1981, uno studio commissionato allo stesso progettista del ponte rivelò che vi era un deterioramento anomalo ed importante del cemento e degli stralli, dovuto secondo i tecnici “all’aerosol marino” come se non fosse prevedibile che un’opera costruita a poche centinaia di metri dal mare ne fosse esposta agli agenti atmosferici tra cui la salinità dell’aria. Ognuna delle tante verifiche che sono state fatte negli anni a seguire, compresa quella recentissima del 2017, segnalava un peggioramento costante della struttura tanto che ogni gestione, pubblica o privata che fosse, lo teneva sotto una manutenzione ed un controllo costante. Il problema è che gli interventi fatti sono sempre stati superficiali (la manutenzione costa!) e, solo nell’ultimo periodo, cioè nell’anno in corso era in programma una ristrutturazione radicale a fronte del rischio reale che il ponte non reggesse più. Molti dei lavori fatti o in via di realizzazione, tipo l’allargamento a sei corsie di viale Canepa (per chi non conosce Genova, è il viale di Sampierdarena che fiancheggia il porto commerciale) preludevano ad un intervento radicale sul ponte, previa la chiusura al traffico dello stesso per un periodo indefinito. Il crollo è avvenuto prima, nonostante che gli addetti ai lavori ne avvertissero l’urgenza e che ora Autostrade e Ministero si rimpallano la responsabilità del ritardo e quindi del disastro. Non si è trattato, quindi, di niente di imponderabile, ma di un concorso di colpa tra gli intralci burocratici e la ricerca criminale del massimo profitto da parte del capitalismo, pubblico o privato che sia, che ha messo a rischio deliberatamente le nostre vite giocando d’azzardo sui tempi di tenuta del ponte. Ma guardando al futuro se mettiamo da parte la sparata propagandistica fatta da Di Maio sulla rinazionalizzazione di Autostrade (dopo aver sostenuto che il ponte avrebbe resistito 100 anni), la demagogia sulla richiesta di dimissioni dei vertici, della revoca delle concessioni, ed il progetto della Gronda che porrebbe più problemi di quanti ne potrebbe risolvere, con tempi oltretutto non rispondenti alle esigenze odierne, quali sono oggi le proposte realisticamente sul tappeto? A parte l’offerta di Renzo Piano, architetto di fama mondiale, di progettare gratuitamente il nuovo ponte praticamente non esiste nulla ed anche questa proposta, al di là della bellezza estetica del progetto il cui plastico è già stato presentato, si limita a riportare la viabilità alla situazione precedente al crollo cioè ripropone una viabilità che era già assolutamente insufficiente alle esigenze della città con il ponte Morandi in funzione. Di sicuro è necessario che il ponte venga ricostruito in tempi veloci ma altrettanto di sicuro è necessario che venga ripensato tutto il sistema dei trasporti, sia commerciale che individuale, progetto impensabile in un sistema capitalistico come il nostro afflitto per di più da un ceto politico di rara ignoranza e miopia. Ma il cambiamento lo si può imporre solo con la lotta e l’organizzazione!
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attualità
Contratto di governo, contratto di classe Le forze reazionarie Lega e M5S sono state percepite come alternative. Una percezione stimolata dai mezzi di informazione ma anche da forze di “sinistra” e da settori sindacali
Emiliano L’insediamento del nuovo governo Di Maio-Salvini ha una sua originalità sia sul come Lega-M5S siano arrivati al risultato elettorale, sia su com’è stato definito il cosiddetto contratto tra Lega (nord) e Movimento 5 stelle. Un risultato che ha visto la partecipazione al voto di poco più del 50% degli aventi diritto con la Lega di Salvini che ha portato via voti soprattutto ai suoi alleati di centro-destra arrivando ad un risultato del 16% contro un M5S che invece ha superato il 34%. Ma, buon viso a cattiva sorte, è andato bene al M5S per riuscire a formare un governo che hanno definito di cambiamento. Abbiamo assistito alle manovre del Presidente Mattarella per dare a tutti i costi un governo al paese, tanto che è stata rifiutata la nomina a ministro dell’economia di Savona perchè poteva rappresentare un pericolo per l’economia, di far fluttuare i mercati finanziari, di spaventare i grandi investitori stranieri, far aumentare lo spread mentre è stato accettato Salvini a ministro degli Interni. Evidentemente secondo la Presidenza della Repubblica sarebbe meno pericoloso!! Invece quanto sia pericoloso lo abbiamo visto fin dai suoi primi giorni del suo insediamento. Salvini spaventa gli immigrati, è ben accetto dai settori economicamente dominanti perché piace al grande capitale chi è forte con i deboli e debole con forti. Una formula nuova di governo, quella di un contratto privatistico tra due parti apparentemente diverse, ma che trovano un comune interesse nel Programma del fare e nella spartizione delle poltrone di governo e del sotto-governo. Un contratto che consente ad ognuna delle parti di fare e dire quello che elettoralmente ritengono più
conveniente in vista di prossime elezioni. Un governo di propaganda reazionaria urlata, ma che nella sostanza rappresenta una continuità con i governi borghesi che lo hanno preceduto, altro che cambiamento! E non poteva che essere così. Il loro stare insieme è possibile perché hanno un blocco sociale cui fanno riferimento entrambi, una comune base elettorale divisa tra Nord (la lega) e Sud (M5S). La borghesia come classe sociale è stratificata in settori e interessi diversi e anche contrapposti. Nel suo sviluppo moderno - quella delle grandi aziende, dei monopoli e delle multinazionali, della grande finanza - il grande capitale è costretto, per la sua sopravvivenza, a gettare sul lastrico settori interi della sua classe . “I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare l’esistenza loro di ceti medi dalla rovina. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancor più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all’indietro la ruota della storia”. (Manifesto Marx-Engels) La crisi generale, in particolare nel nostro paese, ha acutizzato questa contraddizione: da un lato nel periodo di sviluppo o di minor crisi è stato incrementato lo sviluppo della piccola e media borghesia utile sia a frammentare la lotta del proletariato, sia a creare quella sovrastruttura tecnologica, intellettuale e infrastrutturale necessaria a mantenere il paese nelle prime file degli Stati imperialisti. Dall’altro lo sviluppo ineguale e la concorrenza - che caratterizzano la società capitalista - hanno distrutto gran parte delle strutture produttive piccole e medie e intaccano anche quei settori della pubblica amministrazione che fino ad ora sono stati la base elettorale dei vari partiti
borghesi dalla DC al PSI e al PCI poi PD. Il grande capitale deve risparmiare sulle spese di gestione del proprio Stato borghese per poter dirottare maggiori soldi alle grandi imprese che si trovano in competizione sullo scenario internazionale. La massa enorme di piccola borghesia rivendica il suo “posto al sole”: “Oggi la piccola borghesia si è trasformata nella truppa scelta della reazione, vigila sui castelli, altari e troni dai quali spera la salvezza contro la miseria, in cui è stata spinta dallo sviluppo economico...” (Kautsky-1906) L’approccio a queste contraddizioni divide la politica dei vari schieramenti politici che, come espressione del grande capitale, promette ricchezze a tutto il popolo. Se il paese è tra i primi posti dello schieramento imperialista, sarà maggiormente sensibile all’esportazione di merci e capitali e appoggerà politiche estere adeguate a stare in Europa ecc. Chi è maggiormente legato ai settori in sofferenza a causa della stasi del mercato interno, della difficoltà di ottenere credito bancario senza possibilità di fare investimenti produttivi o è maggiormente
colpito dalla concorrenza dei capitalisti italiani ed esteri più competitivi, tenderà a legarsi alle proposte nazionaliste, ai dazi protezionistici alle parole d’ordine del “prima gli italiani”. Ma nessuna delle varie fazioni della borghesia mette in discussione il capitalismo, anzi tutti lo prospettano come la società migliore per l’umanità. Il comune denominatore rimane quello di dare aiuti alle imprese: chi vuole aiutare le grandi ad essere competitive sui mercati internazionali e chi vuole aiutare le piccole per essere all’altezza delle richieste qualitative delle grandi. Una frattura che nella descrizione appare schematica e netta, ma che nella realtà non è. Le posizioni politiche della piccola borghesia oscillano e si contraddicono contemporaneamente ma sono univoche contro il proletariato che lotta per la sua emancipazione dallo sfruttamento. Sono con la Russia di Putin e con gli Usa di Trump; tutti sono con Israele e la NATO; sono contro l’Europa ma sono tutti per l’Unione Europea; sono contro gli immigrati: chi li vuole accogliere e chi no, ma sono tutti pronti a pagare le bande di miliziani (Libia) o paesi
Ciao SUGO!
Il 22 luglio Firenze ha perso Marcello Citano. Sugo, da partigiano nella lotta di Resistenza contro il nazifascismo - è entrato a 18 anni nella 22° bis Brigata “Vittorio Sinigaglia” -, è stato coerente tutta la vita scegliendo la militanza antifascista. E non solo. La sua preoccupazione e la sua sollecitudine verso i giovani - con i quali riusciva ad instaurare un rapporto speciale - è sempre stata quella di cambiare il sistema sociale, abbattendo il capitalismo. Come costante è stata la sua denuncia contro coloro che, portando avanti la politica revisionista, riformista e pacifista hanno svenduto il vero significato della Resistenza. È stato il partigiano che si è battuto e ha spronato tutti a impegnarsi per celebrare il 25 Aprile in maniera coerente come momento di lotta, di festa e di denuncia antifascista e anticapitalista in alternativa alle celebrazioni ufficiali con i nemici di classe. Il suo impegno ha spaziato anche sul piano culturale con la diffusione delle canzoni di lotta. In ogni occasione insisteva per affermare la canzone partigiana “Insorgiamo” rispetto alla più nota e abusata “Bella ciao”. Con Sugo abbiamo passato momenti di impegno e di lotta ma anche ludici, come le cene sociali di solidarietà, le giornate antifasciste a Fontesanta (l’appuntamento di quest’anno segna la sua prima assenza), o i suoi compleanni organizzati al CPA-Fi sud. È mancato il partigiano, ma soprattutto un comunista che non ha chinato la testa. L’emozione evidente trapelata negli interventi di molti compagni durante la manifestazione di saluto conferma che ci mancheranno la sua presenza e i suoi “appelli”. Noi comunisti porteremo avanti la sua battaglia senza esitazioni contro il fascismo e il capitalismo che lo alimenta e contro tutti i falsi comunisti e falsi antifascisti. Lo ricordiamo sul nostro giornale ripor-
tando significativi passi di un’intervista sulla sua esperienza pubblicata sul libro “Quelli del Playa Giron, il filo rosso delle Resistenze”. (...)”La Brigata Sinigaglia”, ma non solo, tutta la Resistenza, non
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come la Turchia di Erdogan per fare il lavoro sporco. Tutti sono d’accordo per un’immigrazione programmata in base alle esigenze dell’economia nazionale e possibilmente di alta qualità professionale. E c’è chi propone un piano Marshall europeo per l’Africa al fine di poter partecipare al bottino da contendere con altre potenze imperialiste già presenti nel Continente. Sono gli esponenti della stessa classe sociale che oltre un secolo fa ha deportato e reso schiavi, per incrementare le proprie ricchezze, milioni di uomini. Nella mobilitazione reazionaria della borghesia le sue frazioni piccolo-medie sono le “truppe scelte”, sono quella parte più vicina al popolo che possono fare da trade-union con esso. Quando sbraitano contro le banche, contro la legge Fornero o per il reddito di cittadinanza, contro i privilegi della casta ecc. - in un paese dove la disoccupazione arriva a superare il 40% della popolazione attiva e dove non esistono case popolari -, lo slogan “prima di tutto gli italiani” convince o illude anche settori popolari. Inventare poi un finto nemico (l’immigrato) da combattere è sempre stato un buon metodo usato dai padroni al potere per nascondere la verità e orientare la rabbia contro falsi obiettivi. Le forze reazionarie Lega e M5S sono state percepite come alternative (a cosa?) come forze capaci di andare contro lo stato di cose presenti. Una percezione stimolata dai mezzi di informazione e anche da quelle forze di “sinistra” e da settori sindacali che le hanno indicate come cambiamento sia prima che dopo le ultime elezioni. Da quando D’Alema definiva la Lega Nord di Bossi una “costola della sinistra” alle ultime elucubrazioni sinistre di chi pensava che il M5S potesse essere uno strumento di indeboli-
mento e destabilizzazione dello schieramento e del potere borghese, o che votare M5S fosse il male minore, il voto utile (a cosa?) di fronte allo sfascio della sinistra borghese e riformista. Anche ora si intravedono esitazioni nell’attaccare il governo DiMaio-Salvini, differenziano tra le parti più reazionarie apertamente razziste e fasciste di Salvini -, diventano cauti e possibilisti con la parte rappresentata dal M5S e sperano sempre nello sviluppo di contraddizioni tra i componenti del governo invece che puntare sulla mobilitazione e l’organizzazione dei lavoratori per abbattere questo governo, nel suo insieme, antipopolare, fascista e razzista. Queste posizioni derivano dal fatto che una parte consistente della piccola borghesia è scaraventata nelle fila del proletariato e questi strati declassati portano il proprio punto di vista nel proletariato stesso. Esprime le sue oscillazioni di classe intermedia e in via di estinzione attraverso opinioni e atteggiamenti politici e, naturalmente, entra in contatto con partiti e organizzazioni varie, anche quelle proletarie. Anzi fa di tutto per creare Partiti e organizzazioni, per porsi alla testa del proletariato e tentare di dirigerlo. Organizzazioni che oscillano da posizioni super-rivoluzionarie e parole d’ordine altisonanti, a posizioni riformiste e conciliatrici con il potere borghese e imperialista. Questa piccola borghesia rappresenta uno dei tanti pericoli per la classe operaia in quanto strumento diretto o indiretto della penetrazione dell’ideologia borghese nella classe. È lo strumento della frammentazione, del frazionismo, è il freno per l’organizzazione autonoma e indipendente della classe in partito politico, nel Partito Comunista.
combatteva solo per la liberazione dell’Italia, ma anche per la liberazione di ognuno, in ogni città e villaggio del nostro paese. Questo era il punto di partenza. La lotta della Resistenza, dei partigiani era per cambiare la società. Noi si pensava di realizzare una società socialista, comunista diciamo la verità. A questa decisione siamo arrivati attraverso le discussioni che sistematicamente tenevamo con i nostri Commissari politici. I Commissari erano persone che nella loro maggioranza avevano patito il carcere essendo stati condannati per motivi politici dal tribunale fascista. Nel 1944 tutta la società, ma soprattutto i contadini, erano in condizioni disastrose. Le prime lotte sociali erano già iniziate nel 1944. Dopo la Liberazione, la Resistenza vuole porre all’ordine del giorno la costruzione di una società socialista, ma dal 1944 al 1949/50 la “ricostruzione” è stata la parola d’ordine che abbiamo dovuto accettare. Non era certo il solo obiettivo che si era prefissato la Resistenza. (...) (...) “Quando siamo venuti giù a Firenze dalla montagna io ero insieme al mio Commissario politico. Siamo passati da San Polo, è stata una cosa indimenticabile! Noi eravamo l’esercito del popolo. Rappresentavamo il senso della ribellione. I contadini non si levavano più il cappello davanti al padrone. C’era una rivoluzione in corso anche se poi non è stata ultimata, ma la rivoluzione c’era. “ (...) (...) Certo, il comunismo fa paura. Fa paura alle persone che godono dei privilegi e per questo sono proprio queste che si riempono la bocca con la parola democrazia. Ma che democrazia può essere quella di una società fatta sulla disuguaglianza sociale? La nostra lotta voleva garantire a tutti la libertà! E ora, mi chiedo, un precario è un uomo libero? Un cassintegrato è un uomo libero? Un disoccupato è un uomo libero? Un operaio che per mantenere il proprio lavoro è costretto a votare un referendum fascista che gli nega ogni dignità e diritto nella fabbrica dove produce ricchezza, è un uomo libero?”.
Ciao SUGO! 5
anniversari
Mai dimenticare la domanda: per quale classe? 21 agosto: dal 1968 di Praga al 1991 di Mosca al 2018 del PRC
Fabrizio Poggi Cinquant’anni fa, il 21 agosto 1968, le forze di cinque paesi del Patto di Varsavia penetravano nella Repubblica socialista cecoslovacca (ČSSR) per “schiacciare la controrivoluzione, su richiesta dei compagni cecoslovacchi”. Si arrestavano la “primavera di Praga” e il “socialismo dal volto umano” che, soprattutto in occidente, assunsero allora le sembianze del redentore Alexander Dubček, con Ota Šik quale profeta della “libertà economica” e Zdeněk Mlynář, l’illustratore sindonico del “socialismo dal volto umano” che, amico personale di Mikhail Gorbaciov, avrebbe influenzato anche le idee della perestrojka. In Italia, la sinistra, quantomeno quella che (ancora) parlava di socialismo, si divise tra fautori della “primavera” - ramificati a loro volta fra la “nuova sinistra” de il manifesto, che chiedeva di inasprire la condanna per i fatti di Praga, e il grosso del PCI, critico con l’intervento, dato che la svolta cecoslovacca “è conforme a quel processo di rinnovamento che fu avviato dal XX Congresso del PCUS” - e tifosi della “necessità dell’intervento” (i sedicenti “stalinisti”, che però avevano anche pienamente accettato la destalinizzazione khruscioviana) passando per gli accusatori dell’una e dell’altro, sulle linee cinesi e albanesi circa il “socialimperialismo sovietico”. Diversamente dalle attese, il 50° anniversario di quel 21 agosto non ha visto plateali campagne di demonizzazione del socialismo, comunque si voglia interpretare l’intera vicenda cecoslovacca, con i relativi prologhi ed epiloghi: pareva una ghiotta occasione per ribadire i biechi argomenti sui “crimini stalinisti”, perenne ritornello a dispetto di dati anagrafici e consequenzialità storica. Sicuramente, il battage “antipopulista” a uso e consumo del Ministro degli interni ha influito non poco sulla scelta massmediatica di orientare la “battaglia democratica” contro l’obiettivo del momento, servito secondo i gusti dell’oligarchia finanziaria.
Le rievocazioni
Tra coloro che si sono soffermati sul tema, abbiamo scelto due linee opposte. Alcuni comunisti tedeschi ricordavano, sul settimanale del DKP, Unsere Zeit del 17 agosto, come nella Repubblica federale buona parte della “opposizione extraparlamentare esprimesse all’epoca solidarietà ai critici del socialismo in Cecoslovacchia, con la <sinistra chic> a meditare su <terze vie> e fughe dal campo socialista”. Anton Latzo riassume la cronaca delle attività – da Churchill a Dulles, ai presidenti Truman ed Eisenhower – per il “contenimento forte e vigile” del comunismo, teso al “collasso del potere sovietico”. Ecco quindi il 1953 nella DDR e il 1956 in Ungheria e Polonia, cui seguiva poi una diversa opzione nei confronti della ČSSR: erosione dei partiti comunisti dell’Est dall’interno, attraverso la “inclusione pacifica” della presidenza Kennedy e il “Bridge to Eastern Europe” di Lyndon Johnson. Secondo la linea Kissinger-Brzezinski, di mantenere l’opzione militare, agendo però con mezzi non militari, si sviluppano “ampi contatti con l’intellighenzia socialista, per influenzare le loro convinzioni ideologiche”. All’interno, Manfred Idler accusa “il piccolo gruppo che ora dominava l’opinione pubblica attraverso il giornale del partito Rudé Právo”, che aveva il potere di definire “cosa fossero libertà e socialismo, cosa significasse democrazia”. Alcune riviste chiedevano la neutralità del paese, o addirittura l’adesione alla NATO. In Italia, la pagina facebook del PRC, sotto l’occhiello “Chi non rinuncia alla Rifondazione Comunista, non può che considerare quel tentativo di rinnovamento del socialismo un punto di riferimento imprescindibile”, ha riproposto alcune testimonianze, più o meno recenti. Quella dello storico Miloš Hájek, presentato quale “protagonista della primavera di Praga”: a chi in Italia, scrive PRC, “lanciava campagne strumentali contro lo stalinista Togliatti, lo storico cecoslovacco, allora portavoce di Charta77, ricordava la profonda influenza che esercitò sui comunisti
che con Dubček avviarono l’esperimento del “socialismo dal volto umano”. Oggi ricorre anche” continua PRC in linea con la propria affinità alle rimasticature borghesi e quasi a voler accreditare un “volto umano” del trotskismo, “il 75° anniversario della morte di Lev Trotski, assassinato in Messico nel 1940 da un sicario di Stalin”. Lo stesso Hájek – che, per inciso, in ogni suo studio sulla III Internazionale, sembra vedere nella storia del Komintern solo una continua rincorsa verso l’unità con la socialdemocrazia - parla qui della “grande importanza delle idee di Togliatti” e della “influenza della <Primavera di Praga> su quella tappa definita eurocomunismo; alla stessa maniera bisogna ricordare l’ispirazione che i pionieri del 1968 cecoslovacco trovarono nelle idee dei comunisti italiani”. Amen. La seconda testimonianza è del prof. Guido Liguori, che ricorda come Enrico Berlinguer “nel 1977 a Mosca, davanti ai rappresentanti di quasi tutti i partiti comunisti del mondo, ebbe a dichiarare che <la democrazia è la via al socialismo>. La via, non una possibile via accanto ad altre: la sola via che i comunisti italiani approvavano... l’appoggio a Dubček aveva significato una scelta senza ritorno”. I mille e passa commenti facebook sono da spasso; solo alcuni: “Professate quello che volete. Ma cambiate simbolo e nome”; “Non mi sorprendo più di tanto. Del resto, da un partito il cui exsegretario difendeva Solidarnoš, non mi aspetto analisi corrette”; “Oltre ad essere finti comunisti promuovete pure le finzioni storiche?”; “Voi di Marx e Gramsci non avete nulla. Siete l’ultima scoria radioattiva prodotta dal post modernismo di Derrida, Guattari e Deleuze”; “da rifondazione comunista siete passati a Riesumazione anticomunista”.
Da Kautsky a Berlinguer
A proposito della berlingueriana democrazia quale “sola via al socialismo”, ci limitiamo a rimandare al Lenin della replica a “La dittatura del proletariato” di Kautsky: “... dittatura non significa obbligatoriamente eliminazione della democrazia per la classe che esercita questa dittatura su altre classi, ma significa obbligatoriamente eliminazione (o sostanziale limitazione, che è anche una sorta di eliminazione) della democrazia per quella classe su cui o contro cui si esercita la dittatura... E notate come egli [Kautsky] mostri inavvertitamente le proprie orecchie d’asino; scrive: «pacificamente, e quindi per via democratica »!! (…) Nella definizione di dittatura, Kautsky tenta con tutte le forze di nascondere il tratto fondamentale di questo concetto: la violenza rivoluzionaria. Ma ora la verità spunta fuori: il discorso verte sulla contrapposizione tra rivolgimento pacifico e violento”. Se Berlinguer, al XII congresso del PCI, nel febbraio 1969, affermava che “Le sorti della libertà, la loro estensione fino ai confini estremi in cui la democrazia supera ogni limite di classe per trasformarsi in democrazia socialista”, non possiamo che rimandare ancora a Lenin: “la grande scoperta fatta da Kautsky: il <contrasto fondamentale> tra <il metodo democratico e il metodo dittato-
riale>. (…) La questione della dittatura del proletariato è la questione dell’atteggiamento dello Stato proletario verso lo Stato borghese; della democrazia proletaria verso la democrazia borghese”, mentre Kautsky pone “la questione della democrazia dal punto di vista di un liberale, cioè come una questione di democrazia in generale e non di democrazia borghese (…) Kautsky non può non sapere che la formula <dittatura del proletariato> è soltanto la definizione storicamente più concreta e scientificamente più esatta del compito del proletariato di <spezzare> la macchina statale borghese (...) È naturale che un liberale parli di <democrazia> in generale. Ma un marxista non deve mai dimenticare di porre la domanda: <per quale classe?>”. Quella “scelta senza ritorno” del PCI, citata da Liguori, era stata intrapresa almeno da oltre due decenni e, per lo specifico della Cecoslovacchia, già nel 1964 Rinascita aveva pubblicato una lunga intervista a Ota Šik, in cui l’autogestione jugoslava di autonomia delle imprese era posta a modello del “nuovo metodo di pianificazione, tenendo conto dei particolari rapporti del mercato socialista”.
Altre valutazioni
In un’intervista di due anni fa al ceco Parlamentni Listy, il segretario del PCFR Gennadij Zjuganov diceva che “in Cecoslovacchia si verificò in sostanza il primo tentativo di <rivoluzione di velluto>. Gli altri paesi socialisti vedevano in quanto avveniva nella ČSSR una seria minaccia al socialismo e alla sicurezza comune. Pare che gli USA esaminassero la possibilità di un intervento: la NATO si sarebbe ritrovata d’un colpo alle frontiere dell’URSS; poi sarebbero esplose sommosse in Polonia, Ungheria, nei Paesi baltici e quindi nel Caucaso: è andata a finire così, ma solo 20 anni dopo”. Dunque: “Praga ‘68” come ouverture della “rivoluzione di velluto” del 1989, o persino come crocevia tra il 1956 e il 1991? Un anno fa, nel centenario della nascita di Vasiľ Biľak, Sergej Bagotskij scriveva su ROT Front che “Il compagno Biľak e alcuni altri leader del partito cecoslovacco, giudicarono che l’inevitabile epilogo di quanto stava avvenendo sarebbe stato un colpo di stato controrivoluzionario e la fine del socialismo. Inviarono dunque una lettera alla leadership sovietica con la richiesta di ristabilire l’ordine con ogni mezzo possibile. In sostanza, fecero la stessa cosa che fece 23 anni dopo il GKČP in URSS. Agirono correttamente? Penso di no. Imperniarono la repressione del movimento controrivoluzionario con le armi straniere, contro la parte politicamente attiva della popolazione. Prima della richiesta di aiuto militare, avrebbero dovuto rivolgersi alla classe operaia cecoslovacca, molto critica nei confronti di ciò che stava avvenendo: li avrebbe certamente appoggiati; solo a quel punto, si sarebbe potuto richiedere l’aiuto militare all’URSS”.
Le ragioni dell’intervento
Quali furono dunque i motivi che portarono all’intervento armato? Difficile pensare alla sola rifor-
ma economica proposta da Ota Šik, che proseguiva il decentramento della gestione iniziato nel 1958, riducendo il numero di standard centrali da soddisfare. Inoltre, più o meno lo stesso percorso delineato da Dubček e Šik, era stato avviato da Aleksej Kosygin nel 1965 in URSS, seguendo le linee di Evsej Liberman per la liberalizzazione dell’economia sovietica, con le imprese poste a principale unità economica e la riduzione degli indicatori di piano. Nel 1978, nel decimo anniversario dei fatti, nuova unità scriveva che “noi abbiamo condannato l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, perché dietro non c’era la difesa dello Stato socialista, della classe operaia al potere, ma una politica imperialistica per mantenere subordinati i popoli dell’est europeo per i propri fini di sfruttamento economico. Il movimento della primavera di Praga, il socialismo dal volto umano di Dubček, le libertà democratico-borghesi che venivano ripristinate, erano il risultato di una restaurazione già attuata nel campo dell’economia che, mentre apriva i mercati ai monopoli americani e tedeschi, tendeva a stabilizzare il potere di una nuova borghesia, meno legata agli interessi economici dell’URSS”. In effetti, a partire da fine anni ‘50 e dalle prime “riforme” economiche, fino alla Liberman-Kosygin, l’URSS, con lo slogan della “divisione internazionale del lavoro”, cercava di imporre ai paesi esteuropei una “specializzazione” esclusiva su alcuni prodotti o sulla fornitura di alcune materie prime. Nel caso della Cecoslovacchia, Mosca controllava il 35% delle sue esportazioni dell’industria pesante, mentre Praga importava dall’URSS, ad esempio, insieme al 90% del petrolio o il 50% di rame, anche il 90% di grano, con la conseguenza di veder enormemente ridotta la propria produzione agricola. In tale quadro, Mosca aveva deciso l’intervento armato, allorché la borghesia cecoslovacca, in base alle stesse linee della restaurazione capitalistica in URSS, rivendicava la propria libertà di orientarsi verso occidente. Cresceva inoltre il malcontento tra le masse. Nel 1967, con la riforma in funzione a pieno regime, al forte aumento dei prezzi non corrispose la crescita dei salari; ne soffrirono particolarmente le famiglie numerose, cui lo Stato aveva tagliato i sussidi. Come in Unione Sovietica venti anni dopo, anche in Cecoslovacchia i riformatori cercarono di indirizzare le inquietudini sociali verso la sfera politica; Ota Šik dichiarò che le riforme economiche non davano il successo atteso, perché la burocrazia di partito reprimeva l‘indipendenza delle imprese. Lo sbocco pratico non poteva che essere quindi la richiesta di maggiori libertà formali, per dare alla nuova borghesia al potere più possibilità di organizzarsi anche sul piano della sovrastruttura. Dunque, non erano “le riforme economiche a impensierire la leadership sovietica. Preoccupava di più la prospettiva dell‘uscita del paese dal Patto di Varsavia, il suo orientamento occidentale e l‘esempio che la Cecoslovacchia avrebbe potuto dare agli altri paesi dell‘Europa orientale”, scrive ROT Front e continua: “Tra la sinistra democratica, è diffusa l’opinione che la primavera di Praga rappresentasse la lotta delle masse popolari per un “socialismo dal volto umano”, contro le distorsioni burocratiche. Tuttavia, questi compagni restano muti di fronte a due semplici domande: cosa differenzia la primavera di Praga dalla perestrojka gorbacioviana? Si può pensare che la primavera di Praga potesse concludersi con qualcosa di più dignitoso della perestrojka? Si dice che i leader della primavera di Praga non si esprimessero contro il socialismo: è effettivamente così. Ma anche Mikhail Gorbaciov chiedeva sempre <più socialismo!>. USA e NATO sostenevano la primavera di Praga, perché ne comprendevano il senso - un movimento controrivoluzionario antisocialista, per restaurare il capitalismo, sostituire l’economia di piano con un “socialismo di mercato” e la “indipendenza delle imprese, tutte tese al profitto”. Come anche in URSS, in tale movimento intervenne una parte significativa della nomenclatura comunista, ma la forza d’attacco era costituita dalla classe media”.
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antimperialismo
Nicaragua di gente dolce... Il fatto che il governo sandinista – nonostante i suoi errori - mantenga relazioni di cooperazioni con i paesi dell’ALBA, con Cuba e con il Venezuela, con Cina e Russia, è per Washington un motivo sufficiente per provocare un “cambio di regime” Daniela Trollio (*) … Così definiva il paese di Sandino lo scrittore Salman Rushdie dopo un viaggio di mesi - appena dopo la rivoluzione - tra le genti del Nicaragua appena liberatosi di una dittatura tra le più sanguinarie del continente latino-americano, quella di Anastasio Somoza di cui Franklin D.Roosevelt diceva: “Sarà anche un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana”.. Ora, a quasi trent’anni dalla presa del potere del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, la gente dolce del Nicaragua torna alle cronache, dal mese di aprile. Rivolte, scontri, repressione governativa, crisi “umanitaria” secondo i giornali borghesi di tutto il mondo. Gli stessi ingredienti che hanno scosso il Venezuela per più di un anno. Una “rivoluzione colorata” che, nel paese del Comandante Chàvez, sembra essere fallita, almeno per il momento. Questo fa pensare che, prima di parlare del paese di Sandino, sia il caso di dare un’occhiata alla situazione generale, non solo in America Latina ma anche nel suo potente vicino, gli Stati Uniti. Perché non ha senso parlare del Nicaragua senza parlare di tutto il continente. Tanto per cominciare, gli USA non hanno mai dimenticato il loro “cortile posteriore”, l’America Latina. Se per anni, con la scusa della “guerra al terrorismo”, sono stati impegnati su altri fronti, oggi – seminato il caos in Medio Oriente, persa la battaglia contro la Cina che è diventata la maggiore potenza economica, rimasti con le pive nel sacco in Siria – tornano al loro vecchio sogno. Un continente di paesi vassalli da utilizzare, spremere e buttare via. Sotto le ali dell’impero non crescono frutti, ma cadaveri, fame e miseria per le grandi maggioranze, territori da spogliare fino all’osso per trasformarsi in numeri sugli schermi delle Borse, profitti astronomici per le multinazionali imperialiste. Del sogno fa anche parte la speranza di liberarsi di quei paesi della zona che decisero, nel secolo scorso, di non giocare più secondo le regole imposte dal potente vicino – alcuni tramite rivoluzioni armate, altri per vie diverse - a cominciare da Cuba rivoluzionaria, dal Venezuela, dalla Bolivia e dal Nicaragua, per arrivare, in altre latitudini, alla Corea del Nord e alla Siria. La strategia, collaudata e affinata in un decennio di guerre in Medio Oriente, è isolare i ribelli, spezzare ogni forma di autonomia, di aspirazione alla sovranità nazionale, di solidarietà e integrazione, il “divide et impera” dei romani riscritto dai cervelloni al servizio dell’imperialismo comunque li si voglia chiamare, CIA ed altre agenzie del Dipartimento di Stato USA. E lo fanno non più ricorrendo, come in altri anni, all’instaurazione di sanguinarie dittature rivelatesi, nel corso del tempo, troppo costose economicamente e politicamente da sostenere, ma con una guerra di 4° generazione, a bassa intensità, con golpe parlamentari come in Brasile, e con “ribellioni” violente della cosiddetta “società civile” come in Venezuela, solo per fare due esempi.
Un canale, due canali...
Dal 2015, secondo il Fondo Monetario Internazionale, la Cina occupa il primo posto tra le economie mondiali. All’economia cinese seguono quelle di USA, India, Giappone, Germania, Russia, Brasile, Indonesia, Inghilterra e
Francia, al decimo posto. Cioè delle 10 maggiori economie del pianeta, 5 appartengono a paesi del Sud del mondo, che hanno ormai un ruolo fondamentale nella ridefinizione dei rapporti internazionali... Che c’entra in questo il Nicaragua? Ah, c’entra, c’entra… dato che il governo sandinista aveva da poco annunciato un mega-progetto per lo scavo, sul suo territorio, di un altro canale interoceanico – che avrebbe fatto concorrenza a quello di Panama. Facciamo un passo indietro: la costruzione del canale di Panama, fondamentale per collegare l’Atlantico col Pacifico, cominciò con l’autorizzazione del governo colombiano (all’epoca Panama faceva parte della Grande Colombia) nel 1901 agli Stati Uniti perché lo costruissero. Due anni dopo il governo colombiano decise di non ratificare l’accordo. Gli USA organizzarono allora una sommossa a Panama, minacciando l’intervento dell’esercito. Risultato: Panama divenne una repubblica “indipendente” e gli USA ottennero la concessione perpetua della Zona del Canale. E chi finanzierebbe il nuovo canale nicaraguense? sorpresa… la Cina.
La rotta del petrolio
Il petrolio, lo sappiamo, è l’ingrediente fondamentale delle economie moderne. Nel periodo della “autosufficienza energetica”, che corrisponde più o meno alla presidenza di Barak Obama, gli USA non solo continuarono – beneficiando anche della caduta, indotta, del prezzo del petrolio – ad importare petrolio, ma aumentarono considerevolmente le loro riserve strategiche grazie all’utilizzo all’interno della tecnica del fracking (frattura idraulica, l’immissione di getti ad altissima potenza in formazioni rocciose contenenti idrocarburi). Ma il fracking, che pareva la soluzione, portava con sé molti problemi, tra cui la formazione di terremoti e venne lentamente abbandonato. A questo punto tornava ad essere fondamentale il dominio sui paesi produttori. Non è un caso infatti che nel 2015 Obama dichiari che il Venezuela, paese che detiene la prima riserva mondiale di petrolio, è una “minaccia inusuale straordinaria” alla sua sicurezza nazionale. E non è un caso se la crisi brasiliana conclusasi con la defenestrazione della presidente eletta Dilma
Roussef comincia con Petrobràs (l’industria statale del petrolio brasiliana) e che uno dei primi decreti della destra, che articolò e condusse il colpo di Stato parlamentare, abbia proposto la sospensione del regime giuridico di cui godeva Petrobràs, che permetteva la gestione esclusiva delle riserve di petrolio off shore. Così è stata velocemente affidata la concessione dei lotti di petrolio a multinazionali principalmente di capitale statunitense e sono stati de-industrializzati sia Petrobràs che l’intero settore, tanto che il Brasile oggi, con gravi conseguenze per il paese, è diventato un importatore di diesel. E così torniamo alla Cina. Per Pechino avere una presenza in Centroamerica significa cercare di bilanciare la presenza di Washington nel Pacifico, dove gli USA hanno spostato la maggior parte della propria flotta con la chiara intenzione di contenere l’espansione commerciale politica cinese. Avere una base cinese di operazioni, commerciali e chissà forse anche militari, nella terra di Sandino è qualcosa che Washington non può sopportare, soprattutto davanti soprattutto in vista di un nuovo periodo di recessione della sua economia. E l’imperialismo nord-americano non dimentica neanche le lezioni storiche impartitegli dal popolo nicaraguense per ben tre volte nello scorso secolo: quando sconfisse il mercenario Willliam Walker, quando Sandino e il suo Esercito di Uomini Liberi gli fece mordere la polvere ed espulse le sue truppe dal territorio e quando, infine, fece cadere il dittatore Somoza.
Errori
Certo è ovvio che una protesta non nasce dal nulla, al di là di quelle che possono essere le responsabilità reali, e la storia degli ultimi anni ce lo dimostra. Vediamone alcune, sempre con la chiara coscienza che per noi, lontani a casa nostra, è facile giudicare. Il governo sandinista ha fatto ricorso, negli anni passati, a patti “tattici” con i suoi nemici storici: gli industriali cui ha concesso una via preferenziale e la Chiesa cattolica, che lo hanno assai mal ripagato. I primi hanno dato il via alle proteste dopo che il governo Ortega aveva annunciato un aumento dei contributi previdenziali ai fondi pensione del 3,5% a loro carico. Da notare che l’aumento
per i lavoratori era solo dello 0,75% e andava contro le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale di rialzare drasticamente l’età pensionabile. La Chiesa è stata in prima linea nell’organizzare le proteste degli “studenti”. Certo, tale riforma - che dopo i primi scontri il governo ha ritirato - era stata decisa senza alcuna consultazione né con la base sandinista né con la cittadinanza. E questo si è rivelato un grosso errore, aprendo la via alle proteste, non solo a quelle legittime. Altro grosso problema, storico, dei sandinista è la corruzione diffusa a tutti i livelli, fin dall’ascesa della rivoluzione. E infine un potere rivoluzionario concentrato nelle mani della coppia Ortega/Murillo, sempre più auto-isolatasi dalla propria base e dalle grandi maggioranze del popolo, che ha fatto ricorso troppo spesso a soluzioni autoritarie. Ma... c’è un ma. Il fatto che il governo sandinista – nonostante i suoi errori - mantenga relazioni di cooperazioni con i paesi dell’ALBA, con Cuba e con il Venezuela, con Cina e Russia, è per Washington un motivo sufficiente per provocare un “cambio di regime”, eufemismo utilizzato per non parlare di colpi di Stato e del successivo bagno di sangue (Libia docet) necessario per restaurare il vecchio ordine. Per questo la Casa Bianca ha cercato in tutti i modi di intromettersi nella politica nicaraguense finanziando con generosità i partiti di opposizione, un variopinto ventaglio di ONG e organizzazioni della “società civile”, il cavallo di Troia delle guerre di 4° generazione, preparando così le condizioni per un’eventuale “invasione umanitaria” coordinata dal Comando Sud statunitense con la complicità servile dei governi che compongono il Gruppo di Lima. Basti dire che il riferimento principale degli “studenti” è l’imprenditore Piero Coen de Montealegre, l’uomo più ricco del Nicaragua. Il modus operandi è sempre lo stesso, quello raccomandato dai manuali della CIA: paramilitari e mercenari mascherati da studenti universitari, ben organizzati e ben armati con mortai, pistole e fucili, incendi, saccheggi, caos nelle città dove vengono distrutti, prima degli edifici governativi, ospedali, scuole, e date alle fiamme le ambulanze. L’abbiamo già visto, non ultimo in Venezuela tra il 2014 e il 2017, in Libia con i “combattenti per la libertà nel 2011 e l’azione delle bande neonaziste in Ucraina nel 2013. Ogni somiglianza NON è una coincidenza, è la stessa strategia, solo applicata in luoghi differenti. Il poco detto sopra ci porta ad una conclusione. A fronte dell’espansione dei governi popolari antimperialisti del secolo XXI, i rappresentanti del grande capitale hanno deciso di impegnarsi a fondo per restaurare il progetto neoliberista: va mantenuta l’egemonia degli USA sul sistema mondiale per frenare l’espansione economica, politica e ideologica che sorga nelle regioni cosiddette periferiche; va preservato il ruolo del cosiddetto “libero mercato” proteggendo i profitti dei monopoli privati ai quali devono inchinarsi i governi e gli Stati. Imperialismo, non c’è altra parola per definirlo. Speriamo però che – com’è successo nel caso dell’Iraq, della Libia, del Venezuela - non debbano passare decenni per capirlo e riconoscerlo. (*) CIP “G.Tagarelli” via Magenta, 88 Sesto S.Giovanni
Epilogo Se nel 1978 nuova unità osservava che “Non è un caso che i borghesi levino un coro di osanna e di approvazione; non è un caso che Berlinguer, Marchais e Carrillo scoprano una convergenza fra l’eurocomunismo e il socialismo di Dubček”, ecco che, nel 2012, la rivista teorica del PCFR, Političeskoe prosveščenie, lamentava che le “critiche del PCUS all’eurocomunismo fossero state molto caute. Fu così, che le metastasi dell’eurocomunismo penetrarono nell’élite del partito sovietico, contribuendo al tradimento dei principi leninisti”. Senza nulla togliere a questa analisi (e osservando come il PCFR sia l’erede diretto di quel PCUS), ci sembra che l’accento dovrebbe esser posto sull’intreccio di “contributi” reciproci che da parecchio tempo avevano portato PCI e PCUS a “tradire i principi leninisti”. In effetti, la rivista del PCFR ripercorreva la china, dai togliattiani “marxismo non ortodosso” e “Stato della democrazia progressiva”, alla “svolta a destra sotto i nomi di terza via, compromesso storico ed eurocomunismo”, per concludere che non “è casuale che i postulati di base dell’eurocomunismo risuonassero nel “nuovo pensiero” di Gorbaciov e dei suoi compagni di rinnegamento”, che aprirono la strada al golpe di Boris Eltsin.
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Nel 1972, nella premessa al suo “Marxismo-leninismo e società industriale”, Ota Šik scriveva: “Anche se è stato sconfitto con la forza, il movimento riformatore cecoslovacco ha esercitato una funzione storica. La cognizione … che esiste la possibilità di uscire dalla tirannide comunista senza tornare al vecchio sistema capitalista... L’idea seguirà il suo corso e un giorno, in condizioni più favorevoli, diventerà realtà”. Quel giorno, le linee di riforma di Kosygin in URSS e di Šik in Cecoslovacchia avrebbero costituito la base per le riforme gorbacioviane del 1987-1988. E un altro 21 agosto, 23 anni dopo Praga, i carri armati di Boris Eltsin a Mosca dovevano avere la meglio sui quattro blindati del GKČP, che tentava di salvare - apparentemente senza crederci nemmeno tanto e ancora una volta appellandosi al “popolo“ a giochi già fatti - quel che rimaneva dell’Unione Sovietica. Il “contributo“ reciproco ad affossare i principi leninisti e il potere sovietico, partito da Mosca o da Roma e passato anche per Praga, è approdato con successo al PRC.
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La rubrica delle lettere è un punto fisso di quasi tutti i giornali. Noi chiediamo che in questa rubrica siano presenti le vostre lettere, anche quelle che spediteai vari quotidiani e rivisteche non vengono pubblicate. Il sommerso a volte
lettere
è molto indicativo
Neo-schiavismo e omicidi di lavoro Ricordando Soumaila Sacko Di lavoro si può morire, questo lo sapevamo. Più corretto sarebbe dire di sfruttamento. Capita il grave incidente nel quale l’operaio rimane schiacciato in tutto o in parte dalla pressa o cade da un’impalcatura o…. È capitato innumerevoli volte. Oppure si può morire a distanza di anni, magari quando sei da poco in pensione e meno te lo aspetti, a causa di una malattia professionale, contratta in un luogo di lavoro insalubre, esposti a fibre di amianto, cromo esavalente, cvm…Anche questo è successo innumerevoli volte. Più raramente può capitare di morire ammazzati. Non capita tutti i santi giorni, per tre o quattro volte il giorno, come nei casi precedenti, ma è successo, anche di recente. Si può finire ammazzati non perché si è contro il lavoro, ma perché si è contro lo sfruttamento, perché ci si ribella alle infami condizioni di vita e di lavoro volute dal padrone. Qui vorremmo ricordare Soumaila Sacko, operaio bracciante, che non è morto “sparato” per sbaglio, ma perché, per migliorare condizioni di vita e di lavoro impossibili sue e di tutta la comunità di immigrati con cui vive era diventato un attivista sindacale di base, sempre pronto a indicare, anche con l’impegno pratico, la via della lotta per migliorare le condizioni dei lavoratori migranti. Soumaila era sindacalista e si prodigava per difendere la sua comunità, fatta di immigrati che attraversano il Mediterraneo, provenendo da lontani Paesi africani (il Mali), per guadagnare 3 euro al giorno come lavoratori stagionali nella raccolta di frutta e ortaggi, in condizioni di neo-schiavismo, costretti alle dure imposizioni del caporalato. Con lui ricordiamo anche Abdel Salam, operaio tunisino della logistica, ammazzato dalle ruote di un TIR deciso a forzare il picchetto che i facchini (e lui tra questi) avevano organizzato per protesta contro le feroci condizioni di sfruttamento sue e dei propri colleghi. Sono aspetti evidenti della barbarie del sistema capitalista: neo-schiavismo e omicidi politici per continuare a intascare quel maledetto profitto che è alla base della nostra vita di sfruttati. E anche, in molti casi, della nostra morte. Denunciamo l’omicidio di Soumaila così come denunciamo gli omicidi sul lavoro e di lavoro. Quale che sia la modalità con cui avvengono, essi costituiscono per la nostra classe un esempio di quanto ci si può aspettare da questa società. Forse più di qualcuno campa sull’illusione che, per quanto ci riguarda, non può capitare. Così per il licenziamento o il provvedimento punitivo, il trasferimento o chissà che altro. Sono convinzioni presunte, basate sul privilegio della nostra inarrivabile professionalità o insostituibilità, o, peggio ancora, della nostra nazionalità, utili strumenti per i ricatti del padrone. Sono illusioni pericolose che sacrificano il patrimonio collettivo di diritti e conquiste frutto della lotta di classe. Ancor più pericolose quando si pensi che solo la compattezza e l’unità della classe operaia in lotta porteranno alla fine di questa marcia società borghese. Per ora ciò che serve è la piena comprensione dei semplici slogan che hanno accompagnato le manifestazioni dei braccianti in questi giorni: “SCHIAVI MAI!”, “TOCCA UNO, TOCCA TUTTI!”. Luciano Orio Pubblicato su “Voci operaie”, giornale dei lavoratori e lavoratrici di Schio
Camerati a 5 stelle Abbiamo sentito più volte sui vari canali televisivi gli ‘’esperti’’ commentatori della politica italiana affermare che in Italia non c’è un pericolo di destra, perchè nel nostro paese esiste ‘’un argine’’ nei confronti della destra e questo argine è rappresentato dal movimento 5 Stelle. Adesso però i 5 stelle sono al governo con i fascioleghisti, con un ministro dell’interno eletto con i voti di Casa Pound. E non solo. A Roma tutti i consiglieri 5 stelle, con una sola eccezione, hanno votato insieme a ‘’Fratelli d’Italia’’ per dedicare una via al boia Almirante, fucilatore di partigiani, segretario di redazione della rivista ‘’Difesa della razza’’, uno dei massimi gerarchi del regime mussoliniano che doveva finire i suoi giorni a Piazzale Loreto, ma è stato recuperato dalla dittatura borghese grazie anche all’amnistia di Togliatti. Altro che ‘’argine’’ contro l’avanzata del fascismo! D’altra parte Di Maio l’aveva detto chiaramente che nel suo movimento ci sono molti che si richiamano alle ‘’idee’’ di Almirante. Adesso risulta che ‘’i camerati a 5 stelle’’ sono in netta maggioranza. Quelli del PD che oggi protestano dovrebbero soltanto stare zitti. In diverse città e paesi giunte e sindaci del PD hanno dedicato strade e piazze a esponenti fascisti. È evidente che nessun partito della borghesia o della piccola borghesia può rappresentare un argine contro il fascismo. In Italia il governo clerico-fascista di Tambroni nel luglio1960 venne spazzato via dalla mobilitazione dei proletari e dei lavoratori. È questo l’unico argine che può fermare la canaglia fascista e i suoi mandanti.
Non meravigliamoci
Mi è arrivato un comunicato demenziale dei CARC che dice ‘’non lasciate che la repubblica pontificia distrugga il movimento 5 Stelle’’. Dopo avere esaltato ‘’i fondatori’’ Grillo e Casaleggio, i CARC esprimono la preoccupazione che la preziosa creatura possa essere distrutta dai ‘’cattivi’’ Salvini e Berlusconi. L’ignoranza di questa gente è veramente impressionante. Possibile che non hanno neanche letto le dichiarazioni di Gigino Di Maio che si prostra di fronte a imperialismo USA e Unione Europea e giura fedeltà eterna alla NATO? Ma forse non è il caso di meravigliarsi più di tanto. Questi hanno scritto anche che ‘’Gramsci avrebbe votato per De Magistris’’! Aldo Calcidese Milano
LA PERLA
Quella bandiera non è nazista Nel numero 3 di “nu” ci interrogavamo sul silenzio caduto in seguito al ritrovamento nella camera di un carabiniere della caserma Baldissera di Firenze di una bandiera tedesca della Kaiserliche Marine risalente al periodo del Secondo Reich affissa al muro. Il carabiniere era stato sanzionato con soli tre giorni di consegna semplice e l’informazione si è fermata. Ma il militare ha fatto ricorso al comando del Quinto reggimento carabinieri Emilia Romagna, che ha rilevato che non è una bandiera nazista, annullando così la sanzione. Nelle motivazioni si legge ... “Il comportamento tenuto ha causato l’esposizione mediatica dell’Istituzione e del Reparto di appartenenza, con grave lesione dell’immagine dell’Arma in relazione alla sua estraneità alle competizioni politiche”. Ciò, secondo i legali, nonostante la memoria difensiva il militare avesse chiarito che “sconosceva l’utilizzo distorto (e storicamente errato) della bandiera in questione operato da alcuni gruppi estremisti e antidemocratici tedeschi o europei, di cui il sottoscritto non condivide minimamente le ideologie o le idee politiche e dei quali, tanto meno, fa parte”. E noi dovremmo crederci!!!
In Palestina si continua ad uccidere Nell’articolo di Paolo Lepri (Corsera) di ieri (12/8) su Corbyn e Israele, Lepri definisce “terroristi” i palestinesi che uccisero gli atleti israeliani a Monaco nel 1972. Non intendo discutere in questa sede la correttezza o meno della definizione e mi limito a una domanda: come definisce Lepri i cecchini israeliani che dal 30 marzo continuano ad uccidere a sangue freddo donne, vecchi, bambini, invalidi, medici, paramedici e suoi colleghi giornalisti? Se non li definisce terroristi potrebbe spiegarne le ragioni? E a proposito di omaggi, sa Lepri che una moltitudine di ebrei va a Hebron a rendere omaggio a Baruch Goldstein che nel 1994 uccise 29 palestinesi in preghiera e ne ferì 125? La sua lapide è meta di pellegrinaggi e l’epitaffio definisce Goldstein “martire con le mani pulite e il cuore puro”. Credo che l’indifferenza della comunità internazionale verso i diritti dei palestinesi ed in particolare ora verso la mattanza di Gaza sia un punto di non ritorno della umanità tutta. Ugo Giannangeli Veniano (CO)
Allarme per i lavoratori delle Poste Italiane Il Televideo Rai di venerdì venti luglio informa che è stato firmato il Decreto Legge che stabilisce che le multe stradali e gli atti giudiziari potranno essere consegnati da soggetti diversi da Poste Italiane in possesso di licenze speciali. Il ministro dello Sviluppo Economico, il pentastellato Luigi Di Maio, definisce questo provvedimento «un passo decisivo per l’effettiva apertura del mercato ad altri operatori», continuando così nell’opera di smantellamento del fondamentale servizio offerto da Poste Italiane. Negli ultimi anni si è assistito ad un continuo ridimensionamento del ruolo degli uffici postali: un po’ a causa dell’imperversare della posta elettronica, ma molto per il drastico calo del numero di dipendenti e della contestuale chiusura, parziale o totale, di molti presidi, soprattutto nei piccoli centri. Questa decisione presa dal Governo gialloverde va anch’essa nella direzione dell’ostacolo dell’attività delle Poste Italiane, e produrrà un ulteriore certo dimagrimento del numero degli impiegati; si preparano nuove ondate di licenziamenti: anche in questo caso, alla faccia del supposto “governo del cambiamento”, niente di nuovo rispetto agli esecutivi precedenti. Stefano Ghio Slai cobas per il sindacato di classe Alessandria/Genova
nuova unità Rivista comunista di politica e cultura (nuova serie) anno XXVII n. 5/2018 - Reg, Tribunale di Firenze nr. 4231 del 22/06/1992 Redazione: via R. Giuliani, 160r - 50141 Firenze - tel. 0554252129 e-mail nuovaunita.firenze@tin.it redazione@nuovaunita.info www.nuovaunità.info Direttore Responsabile: Carla Francone Hanno collaborato a questo numero: Emiliano, Michele Michelino, Eraldo Mattarocci, Luciano Orio, Fabrizio Poggi, Daniela Trollio abbonamento annuo Italia euro 26,00 abbonamento annuo sostenitore euro 104,00 abbonamento Europa euro 42,00 abbonamento altri paesi euro 93,00 arretrato euro 5,20 I versamenti vanno effettuati sul c/c postale nr. 1031575507 intestato a: nuova unità - Firenze
Chiuso in redazione: 20/08/2018
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