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Previdenza

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Vivere in armonia

Vivere in armonia

PENSIONI: AGIRE ANCHE SE ORA VIENE SENTITO DAI GIOVANI COME UN PROBLEMA + a cura di Luca Giustinelli OGGI PER IL FUTURO DEI GIOVANI N NELLE SCORSE SETTIMANE SI È CONTINUATO A FARE UN GRAN PARLARE DI QUOTA 100, tra chi (pochissimi, in verità) ne caldeggia una proroga e chi (la quasi totalità), invece, non vede l’ora di mandarla in soffitta. E, invero, il suo destino pare ormai segnato, se anche molti dei suoi più convinti sostenitori della prima ora adesso ne hanno preso le distanze, sostenendo che questa misura non ha risolto alcun problema strutturale e, anzi, ha contribuito ad aggravare l’iniquità tra generazioni e ad ingessare il sistema previdenziale. Quindi, fine di Quota 100 sia, senza rimpianti! E, ovviamente, tutti gli attori coinvolti - Governo, forze politiche, Parti sociali, INPS - sono al lavoro per tentare di evitare lo “scalone” che si verrà a creare da gennaio 2022: da 62 anni, l’età per il pensionamento passerà di colpo a 67 anni. Le soluzioni fin qui proposte per evitare questo stacco vanno dall’introduzione di altre “Quote” (Quota 102; Quota 62, intesa come anni di età; Quota 41, da intendersi come anni di contributi) Nel riprogettare la previdenza dopo la fine di Quota 100, sarà necessario definire misure previdenziali più flessibili e maggiormente attente a chi svolge carriere discontinue, come i giovani LONTANO, L’ANDAMENTO fino a proposte più innovative (e un po’ estemporanee) come DELL’OCCUPAZIONE E DEL MERCATO DEL LAVORO PROVOCHERÀ EFFETTI quella formulata dal Presidente INPS di una pensione divisa in due quote: una quota contributiva da percepire già a partire dai ANCHE DAL PUNTO 62 anni di età e una quota retributiva da pagarsi solo al compiDI VISTA PREVIDENZIALE mento del 67° anno di età (proposta, questa, che ha trovato la ferma opposizione dei sindacati). In tutta questa appassionata discussione, tuttavia, ci si preoccupa molto - legittimamente - di chi dovrà subire lo scalone per il 2022 e per gli anni a venire, ma - un po’ meno legittimamente - troppo poco dei giovani. Già, i giovani. Che pensione potranno aspettarsi gli attuali trentenni? Con l’introduzione - dapprima per chi è entrato nel mondo del lavoro a partire dal 1996 e poi, dal 2012, per tutti - del sistema di calcolo contributivo, la pensione è determinata dalla somma dei

contributi versati nel corso della vita lavorativa (cosiddetto “montante contributivo”), rivalutati in base alla variazione quinquennale del Prodotto Interno Lordo e trasformati in base ad un “coefficiente di trasformazione” soggetto a revisioni periodiche (come è immaginabile, al ribasso) legate all’aspettativa di vita: se l’aspettativa di vita cresce, quel montante servirà a pagare più annualità/mensilità di pensione e pertanto, a parità di età di accesso alla pensione, il coefficiente di trasformazione si abbassa. Ma non basta. Se l’assegno così determinato non raggiunge una soglia minima di importo (1,5 volte o 2,8 volte l’importo dell’Assegno Sociale, a seconda della tipologia di pensione: di vecchiaia o anticipata), il diritto al pensionamento non scatta e bisogna attendere il momento in cui l’ulteriore contribuzione versata consentirà di raggiungere questo importo minimo; oppure si dovranno aspettare i 70 anni di età (limite, peraltro, anch’esso soggetto all’incremento dell’aspettativa di vita che, per questo, già oggi è salito a 71 anni, e che i trentenni di oggi si vedranno probabilmente spostato a 72 o 73 anni), data in cui si potrà percepire l’agognata pensione indipendentemente da qualsiasi vincolo di importo minimo. Uno scenario preoccupante. Ovviamente, non bisogna generalizzare. Tutti noi ci auguriamo che la situazione economica e produttiva migliori, che il PIL cresca in maniera significativa e che molti - speriamo la maggior parte - di coloro che sono entrati da poco nel mondo del lavoro possano godere di una vita lavorativa regolare e con retribuzioni o redditi medio-alti, che consentiranno loro di non avere troppi problemi al momento del pensionamento. Ma è evidente che, negli ultimi anni, l’andamento dei fattori che influiscono sull’ammontare della pensione obbligatoria non induce all’ottimismo. Anche se adesso viene sentito come un problema lontano (oggi i giovani hanno problemi ben più stringenti: l’impossibilità di fornire le garanzie richieste per accendere un mutuo per acquistare casa o la difficoltà di trovare la solidità economica per mettere su famiglia), l’andamento dell’occupazione e del mercato del lavoro, che costringono molti giovani ad una serie di lavori precari, saltuari, discontinui o a “collaborazioni occasionali”, provocheranno effetti anche dal punto di vista previdenziale. Infatti, poiché la pensione sarà costituita dai contributi versati da ciascun lavoratore, rivalutati in base all’andamento del PIL, un’occupazione prolungatamente precaria o saltuaria, redditi bassi - a cui corrisponde un modesto livello di contribuzione -, un PIL negativo - con conseguente mancata rivalutazione dei montanti contributivi - e la periodica revisione al ribasso dei coefficienti di trasformazione del montante in pensione, non delineano uno scenario favorevole. Che fare, quindi? Per prima cosa, è necessario diffondere anche nelle giovani generazioni una “cultura previdenziale” (Scuola, dove sei?): la pensione non è un traguardo da conquistare allo sprint, ma è una maratona in cui il ritmo va tenuto alto fin dal primo chilometro. Purtroppo, quando i giovani vogliono capire cosa significa “in soldoni” la pensione, hanno come loro parametro di riferimento la pensione dei loro nonni o padri (tutti al maschile non per mancato riguardo alle donne, ma perché le pensioni di nonne e madri erano già, comunque, mediamente inferiori), i cui assegni erano però calcolati con il sistema interamente retributivo o, al massimo, con il “misto”; ne possono trarre l’errata convinzione che, in fondo, la situazione non sarà poi così brutta. Ma non sarà così: il “tasso di sostituzione” (cioè la percentuale dell’ultimo reddito percepito dal lavoratore prima del pensionamento che la pensione riesce a coprire) che il sistema contributivo garantirà loro sarà nettamente inferiore. Dobbiamo quindi migliorare in informazione e in consapevolezza - primo passo per poter costruire una strada alternativa -, cominciando a parlare pubblicamente di questi scenari, senza nascondere la polvere sotto al tappeto; altrimenti, tra qualche anno dovremo fronteggiare una vera e propria “emergenza sociale”. Se vogliamo evitarla, dobbiamo trovare una soluzione adesso, per senso di responsabilità verso i nostri figli e nipoti. Andranno costruiti strumenti alternativi o integrativi, favorendo ad esempio una più ampia adesione dei giovani alla previdenza complementare. Ma anche in questo caso, vanno studiate forme di incentivo, perché non si può pensare realisticamente che giovani con lavori precari e retribuzioni con cui faticano a soddisfare le loro esigenze primarie e con cui hanno difficoltà a costruire un progetto di vita, possano anche autonomamente contribuire volontariamente ai Fondi di previdenza complementare in misura necessaria a produrre effetti significativi sulla futura pensione. Fortunatamente, stanno cominciando a circolare idee e proposte in questo senso; non sappiamo se andranno in porto, ma intanto se ne parla e questo è il primo passo per creare una consapevolezza del problema. Certo, non dobbiamo drammatizzare. Ma la questione va affrontata in maniera seria e con tempestività e, possibilmente, con uno sforzo di fantasia che ci consenta di progettare strumenti nuovi, andando al di là degli schemi ormai consueti che finora non hanno prodotto risultati apprezzabili. Quel che è certo è che nel dibattito sulla previdenza e sulle riforme pensionistiche serve introdurre una progettualità anche per misure che guardino ai giovani. È arrivato il momento di “pensare a lungo termine” puntando a risultati strutturali, piuttosto che continuare a mirare solamente a obiettivi di breve periodo - Quota 100 docet - spinti spesso solo da interessi elettorali o di bottega.

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