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La forma delle nuvole Gianrico e Giorgia Carofiglio

ALLE RADICI DELL’ODIO

di

La ricerca - talvolta persino la creazione - di un “nemico”, sia esso di etnia o colore diverso, viene spesso utilizzata per generare coesione in un gruppo sociale povero o disagiato. Conconseguenze disastrose che hanno segnato molte pagine di Storia

Daryl Davis è un musicista e compositore afroamericano. Nel 1983 stava suonando in un bar frequentato soprattutto da bianchi, nel Maryland, quando a un certo punto gli si avvicinò un tizio, un bianco. Costui gli disse che era la prima volta che gli capitava di sentire un nero suonare bene come Jerry Lee Lewis, un musicista bianco della Louisiana, fra i massimi esponenti del rock and roll e del rockabilly. Davis rispose che in realtà Jerry Lee aveva imparato a suonare dai pianisti blues neri, e che era un suo amico. Il bianco era scettico, ma i due continuarono a chiacchiera serata il bianco ammise di essere un membro del Ku Klux Klan, la terribile associazione razzista nordamericana. Fu quell’incontro che tornò in mente a Davis, anni dopo, quando decise di scrivere un libro sul Ku Klux Klan. Spiegandone le ragioni disse di aver avuto in testa una domanda sin dall’età di dieci anni: «Per quale motivo mi odi se non mi conosci e non sai nulla di me?». Quello che Davis non sapeva è che l’odio svolge un ruolo spesso fonda tà di un gruppo, di una società o di un’intera nazione. La percezione - o la creazione - di un nemico esterno società soprattutto in situazioni di crisi, di povertà materiale o culturale, di sottosviluppo sociale. Proprio la seconda fondazione del Ku Klux Klan (l’associazione criminale nella sua prima versione era stata sgominata negli anni Settanta del diciannovesimo secolo), avvenuta nel 1915 ad opera di tale Simmons, sfrut bianchi poveri, che i loro problemi economici dipendessero dai neri, dai banchieri ebrei, da altre minoranze. Appena il caso di evidenziare l’analogia fra quanto accadde poco dopo in da nazista. Per cominciare la sua ricerca, Davis decise di incontrare il Mago Imperiale - il capo supremo - del Ku Klux Klan in Maryland, Roger Kelly. Fece chiamare dalla sua segretaria che chiese un appuntamento dicendo la verità, e cioè che Davis voleva parlargli perché intendeva scrivere un libro sul Klan; semplicemente omise riferimenti al colore della pelle, né Kelly fece domande. Quando il Mago Imperiale arrivò all’incontro vi furono sorpresa e momenti di tensione, ma poi i due cominciarono a parlare. E continuarono anche dopo quel primo incontro: diventarono amici, e addirittura Kelly, il Mago Imperiale del Klan, sostenitore della superiorità della razza bianca, chiese a Davis, il musicista nero che

voleva capire perché gli uomini del Klan lo odiassero, di fare da padrino Klan e, in un gesto simbolico, regalò all’amico la sua sinistra tunica di Mago Imperiale. Davis trovò il modo di parlare con numerosi altri membri del Ku Klux Klan. Decine e decine, dopo gli incontri e le conversazioni, abbandonarono l’associazione razzista. Davis raccontò la sua storia in un libro, Klan-Destine Relationships: A Black Man’s Odyssey in the Ku Klux Klan. L’idea di fondo del libro è semplice: tutti i membri del Klan incontrati da Davis erano imbottiti di pregiudizi assurdi e spesso ridicoli. Parlare consentiva loro di vedere, all’improvviso, la vera natura di quei pregiudizi e, spesso, di sbarazzarsene. Davis racconta vari episodi rivelatori. Per esempio: una volta un membro del Klan gli disse, serio e convinto, che tutti i neri avrebbero uno speci sero studi sulla popolazione afroame inclinazione. Però non era in grado di indicarle. Davis non fece obiezioni. Replicò solo che anche i bianchi han potenziali serial killer. «Anche tu hai il gene. È latente, ma potrebbe venir fuori da un momento all’altro. È una cosa tipica dei bianchi. Del resto, saresti capace di indicare tre serial killer di pelle nera?». «Ma questa è una stupidaggine», ri incapace di indicare serial killer non bianchi. Era una stupidaggine, sì. Una generalizzazione stupida e infondata, concluse Davis, lasciando il concetto sospeso. L’uomo del Klan non trovò nulla da replicare. Per la prima volta parve pensare alla possibilità di un punto di vista diverso da quello in cui aveva creduto senza incertezza per tanto tempo. Per la prima volta il dubbio si fece strada nel groviglio di pregiudizi su cui aveva impostato la sua esistenza e il suo senso di sé. La straordinaria esperienza di Davis gli consentì di toccare con mano, nella più improbabile delle situazioni (dialoghi di un uomo nero con bianchi razzisti), un concetto fondamentale: l’ignoranza alimenta la paura, la paura alimenta l’odio, l’odio alimenta la distruzione della convivenza e, in de Un concetto ben chiaro a Nelson Mandela che lo enunciò in una frase indimenticabile: «Praticare l’odio è come bere un veleno nella speranza che a morirne sia il nostro nemico».

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