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Rivista lasalliana Direzione: 00149 Roma - Via dell’Imbrecciato, 181 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56 Sito web: www.lasalliana.com
2012
Rivista lasalliana
RL
Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
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ISSN 1826-2155
Rivista lasalliana
trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti La “novità cristiana” del laicato a 50 anni dal Concilio Vaticano II Emilio Butturini Il Concilio di Giovanni e Paolo Francesco Trisoglio La spiritualità secolare in S. Giovanni Crisostomo Edgar Genuino Nicodem La asociación a la luz de la eclesiología del pueblo de Dios-Comunión Dario Antiseri Fare un tema significa risolvere un problema Bruno Bordignon La libertà di scelta educativa Raimondo Murano Cultura classica e cultura tecnica Gaetano Dammacco I giovani e i media digitali: il problema educativo Philippe Moulis - Francis Ricousse Le Bienheureux Salomon et le Père Pierre-Joseph de Clorivière Carmelo Raspa La relazione maestro-discepolo tra Nuovo Testamento e tradizione rabbinica Alessandro Cacciotti Collegio “S. Giuseppe” (Roma) - Laboratorio teatrale “Il Quadriportico” OTTOBRE - DICEMBRE 2012 • ANNO 79 – 4 (316)
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RIVISTA LASALLIANA Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondata nel 1934 Anno 79 • numero 4 • ottobre-dicembre 2012 Direttore DONATO PETTI
Comitato scientifico DARIO ANTISERI (Metodologia delle Scienze Sociali)
ITALO FIORIN (Pedagogia speciale)
PAOLO ASOLAN (Teologia pastorale)
REMO L. GUIDI (Questioni umanistico-rinascimentali)
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MARCO PAOLANTONIO (Studi lasalliani)
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LORENZO TÉBAR BELMONTE (Pedagogia Lasalliana)
FLAVIO FELICE (Dottrine Economiche e Politiche)
ENRICO TRISOGLIO (Storia e Letteratura Patristica)
Collaboratori Edwin Arteaga Tobòn, Bruno Bordignon, Graziella Bussoni, Emilio Butturini, Marco Camerini, Angelo Piero Cappello, Italo Carugno, Umberto Casale, Robert Comte, Sergio De Carli, Paulo Dullius, Andrea Forzoni, Oreste Gianfrancesco, Antonio Gentile, Pedro Gil, Mariachiara Giorda, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Antonio Iannaccone, Léon Lauraire, Lino Lauri, Herman Lombaerts, Anna Lucchiari, Matteo Mennini, Vito Moccia, Patrizia Moretti, Philippe Moulis, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Laura Pappone, Francesco Pesce, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Bérnard Pitaud, Gerard Rummery, Marica Spalletta, Antonella Susanna, Giuseppe Tacconi, Biancamarta Tammaro, Roberto Zappalà.
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Rivista lasalliana 79 (2012) 4
SOMMARIO EDITORIALE 441 Donato Petti
La “novità cristiana” del laicato a 50 anni dal Concilio Vaticano II A 50 anni dal Concilio Vaticano II e a 25 anni dalla pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Christifideles Laici di Giovanni Paolo II, l’essere e l’agire dei laici nel mondo diventano una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche e specificatamente teologica ed ecclesiale. Soprattutto Papa Wojtyla presenta la “condizione ecclesiale” dei laici come una vera «novità cristiana», alla luce dell’ecclesiologia di comunione. L’educazione cristiana, dunque, è chiamata ad organizzare il proprio futuro sulla missione condivisa di persone consacrate e fedeli laici nella diversità e nella complementarietà di vocazioni e condizioni di vita, di carismi e di responsabilità. The “Christian Innovation” of the Laity, 50 years after Vatican II 50 years after the Vatican II Dogmatic Constitution on the Church Lumen Gentium and 25 years after the publication of the Apostolic Exhortation Christifideles Laici of John-Paul II, the presence and activity of lay people in the world have become a reality, not only anthropologically and sociologically but also in a specifically theological and ecclesial sense. Pope John-Paul II in particular presented the “ecclesial status” of the laity as a true «Christian innovation», in the light of an ecclesiology of comunion. Christian education, therefore, is called upon to organise its future as a shared mission of education by consecrated persons and lay people in diversity and complementarity of vocations and states of life, of charism and of shared responsibilities.
STUDI 447 Emilio Butturini
Il Concilio di Giovanni e Paolo
Viene anzitutto rievocata l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962), voluto da Papa Giovanni XXIII a meno di tre mesi dalla
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sua elezione. Egli parlò di “aggiornamento” e di “nuovi orientamenti pastorali”, ma poi si giunse a “Costituzioni dogmatiche” e a “Decreti” e “Dichiarazioni”, talora di profonda innovazione. Vengono, quindi, definite le diverse personalità dei due Papi del Concilio e la decisione di entrambi di dare vita e portare a compimento l’opera intrapresa, così da segnare una svolta storica della realtà ecclesiale. Di qui significative innovazioni nel rapporto dei “fedeli” con la Parola di Dio, con la vita della Chiesa e con rilevanti problemi personali e sociali. Si conclude con l’invito a “riaccogliere” il “dono del Concilio”, a “raccontarlo” ai giovani, confrontandolo con la realtà odierna, in fedeltà alle sue istanze rinnovatrici. The Council of John and Paul The essay recalls the opening of the Second Vatican Ecumenical Council (October 11th, 1962), called by Pope John XXIII less than three months after his election. He talked about “updating” and “new pastoral orientations”, but then Dogmatic Constitutions, Decrees, Statements, sometimes deeply innovative, were passed. Then we, define, the different personalities of Pope John and Pope Paul and the strong-mindedness of both of them of starting and carrying out the Council’s work, in order to mark an historic turning point in Church’s life. Important innovations derived by the Council about the relationship of the believers with the Word of God, the life of Church and significant personal and social issues. Eventually, we invite to welcome again the gift of the Council, to tell it to young people, comparing it with the current situation, coherently with its innovative spirit.
461 Francesco Trisoglio
La spiritualità dei secolari nei tre libri di S. Giovanni Crisostomo in difesa del monachesimo Giovanni partì monaco, divenne vescovo, ma conservò nel ministero episcopale lo spirito del monaco, che era diventato il suo respiro vitale. Come vescovo, irradiò sui fedeli una linea morale che li riconosceva secolari mentre li animava di un ascetismo monastico, per cui la vita nel laicato acquisì una dignità parallela a quella monastica. Entrambe avevano la chiamata alla salvezza propria, della quale esistevano vari gradi, e di quella del prossimo; specifico era l’impegno formativo dei padri di famiglia. Attraverso ad una puntuale rassegna, Giovanni dimostra che identica era per entrambi (monaci e laici) la precettistica morale. The spirituality of lay people in the three works of St John Chrisostom in defence of monasticism John started out as a monk and ended up as a bishop, but in his ministry as bish-
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op he retained the monastic ‘spirit’, which had become his life-breath. As bishop he imparted to his flock a moral orientation which recognised their status as lay people while inspiring them with the monastic spirit of asceticism. In this way, their lives as laity attained a dignity parallel with that of the monastic life. Each way of life had its own call to salvation with its various grades. In the case of the laity, the specific grade was that of the pater familias (father of a family). Through a point by point survey, John demonstrated how monks and lay people were subject to the same moral teachings and precepts. 473
Edgar Genuino Nicodem La Asociación a la luz de la eclesiología del Pueblo de Dios–Comunión La Asociación constituye un gran desafío y una gran oportunidad para el carisma lasallista. Más que una cuestión de orden práctico es una cuestión de principios. El nuevo contexto cultural, religioso, eclesial e institucional requiere nuevos dinamismos apostólicos. Trabajamos con la hipótesis de que la noción de eclesiología que habitualmente utilizamos incide en la posibilidad de configurar o no nuevos horizontes para el carisma. El Concilio Vaticano II ha renovado profundamente el rostro de la Iglesia. Las discusiones sobre la Iglesia Pueblo de Dios e Iglesia de Comunión, mantenidas durante el periodo postconciliar, han enriquecido la vida y la reflexión teológica de la Iglesia. Con matices diversos, pero no excluyentes, posibilitan una participación activa en la Iglesia como sacramento histórico- salvífico al servicio del Reino de Dios. A partir de este horizonte, se pueden configurar nuevos y significativos itinerarios para la Familia Lasallista y Asociación. Association in the Light of the Ecclesiology of the People of God and of Communion Association is a big challenge and a big opportunity for the Lasallian charism. It is more a question of principle than a question of practice. Today’s cultural, religious, ecclesial and institutional contexts call for the development of new forms of apostolate. Here we work on the hypothesis that the notion of ecclesiology that we habitually use provides scope to shape new horizons for the charism, or not to do so. Vatican II profoundly changed the face of the Church. The discussions on the Church as the People of God and the Church as Communion which continued in the post-conciliar period enriched the life of the Church and theological reflection on it. With shades of meaning that are different but not mutually exclusive, these discussions facilitate an active participation in the Church as a sacrament of salvation history at the service of the Kingdom of God. Starting from this viewpoint, we can develop significant, new itineraries for the Lasallian Family and Association.
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PROPOSTE 489
Dario Antiseri Fare un tema significa risolvere un problema Ci sono ragazzi che, al termine della Scuola Media Superiore, non sanno scrivere neppure una lettera. E non sono pochi i laureandi per i quali la stesura della tesi rappresenta un ostacolo a volte insuperabile. E ciò non perché questi giovani non siano intelligenti o non conoscano i problemi e gli argomenti su cui scrivere, ma semplicemente perché non sanno più scrivere. E non sanno più scrivere perché disabituati a produrre testi argomentativi. La messa in secondo ordine o addirittura il sostanziale abbandono nelle nostre scuole del tema argomentativo è stato ed è l’equivalente di un furto formativo. È fondamentale comprendere che fare un tema significa risolvere un problema. Writing disputations as a means of resolving a problem There are students who , at the end of the Scuola Media Superiore, do not even know how to write a letter. For not a few university students, the writing of a thesis is an obstacle which at times is insuperable, not because they are unintelligent or do not know what topic or problem to write on, but because they simply do not know how to write. They cannot write because they are not accustomed to producing discursive texts. The reduced importance, or even abandonment in our schools of the tema argomentativo (disputation essay)has been and still is the equivalent of educational robbery. It is essential that we understand that writing essays is a way to solve the problem.
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Bruno Bordignon La libertà di scelta educativa La statizzazione del diritto, emersa con la visione moderna di Stato, ha portato allo Stato educatore e maestro, la forma più pericolosa di Stato etico. Dobbiamo ritornare alla persona, alla morale e al diritto sussistenti. Sulla libertà di scelta educativa è da superare un presupposto purtroppo comunemente accolto: la statizzazione del diritto, che significa confusione tra legge e diritto, l’assegnazione di questo allo Stato e il riconoscimento dello Stato quale fonte del diritto. Il diritto sgorga dalla persona umana. Le relazioni umane sono fondate e vivono di valori. La legge dello Stato deve garantire il diritto delle persone, secondo il principio di sussidiarietà. Freedom of Choice in Education The modern vision of the State makes it the source of all rights, and to the view
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of the State as educator and teacher there is now added the idea of the State as ethical guide. We need to return to the idea of the person as the basis of morality and rights. In terms of the freedom of educational choice, we need to overcome the presupposition, unfortunately too often accepted, of the ‘nationalisation’ of rights, which confuses rights and law and gives the State recognition as the source of rights. Rights are based in the human person. Human relationships are founded on and live by values. The laws of the State should guarantee the rights of the individual according to the principle of subsidarity. 513
Raimondo Murano Cultura classica e cultura tecnica In Italia è dominante un vecchio modello culturale che contrappone il sapere al saper fare, la conoscenza teorica alle competenze tecniche e pratiche, con il risultato che molti giovani non incontrano il lavoro e il lavoro non incontra i giovani. È tempo di ristabilire pari dignità tra cultura classica e cultura tecnica, scientifica, imprenditoriale; bisogna creare un rapporto più stretto tra scuola e aziende, rilanciare la formazione professionale e l’apprendistato, orientare i giovani nella scelta della scuola in base alle richieste del mercato del lavoro, abbandonare vecchi schemi di presunta “aziendalizzazione” della scuola. Classical Culture and Technical Culture In Italy, an old model of culture is still dominant, one which sets up an opposition between knowing and ‘knowing how’, between theoretical knowledge and practical, technical competence. The result is that many young people cannot find employment and employers cannot find the young people they need. It is time to establish parity of honour between classical culture and a technical, scientific, enterprising culture. We need to establish closer ties between schools and businesses, giving a new impetus to professional training and apprenticeship, advising young people on their choice of schools in relation to the needs of the employment market, abandoning the old ideas about the alleged commercialisation of the school.
RICERCHE 517
Gaetano Dammacco I giovani e i media digitali: il problema educativo Nell’uso dei media digitali, la posizione dei giovani assume una cruciale valenza e impone alcune sfide educative. Nel campo del digitale si
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osservano cambiamenti nei comportamenti individuali e nelle relazioni intersoggettive che mettono in crisi i tentativi di orientare lo sforzo educativo. Inoltre, l’uso diffuso dei media digitali influenza la rete dei rapporti sociali e delle relazioni quotidiane, incidendo anche nella struttura organizzativa e istituzionale. La relazione tra i giovani e gli strumenti digitali presenta ambiti di positività e di negatività, come ogni ambito dell’esperienza personale, per questo non è solo una questione tecnologica, ma è un problema che appartiene alla ricerca del senso della vita. In ogni caso, si tratta della sfida di un nuovo umanesimo digitale come necessaria espressione della dignità della persona umana. Young People and the Digital Media: the educational problem In the use of the digital media, young people have a crucial importance and they also present some educational challenges. In this digital world, we see certain changes in people’s behaviour and in their interpersonl relationships, changes which create critical problems for any attempts to control the educational potential of the media. In addition, the use of digital media has an influence on the network of social links and every-day relationships, and it affects organisational and institutional structures. The relationship of young people to digital gadgets has its positive and negative aspects, and is linked to their search for meaning, like every aspect of personal experience. In any event, we are faced with the challenge of a new digital humanism as a necessary expression of the dignity of the human person. 525
Philippe Moulis – Francis Ricousse Il Beato Salomone, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, e il Padre Pietro-Giuseppe de Clorivière. Una collaborazione durante la Rivoluzione (1791-1792). Nel luglio 1790 Pietro-Giuseppe Clorivière decide di fondare due Società religiose. Il 2 febbraio 1791 fonda la Società del Cuore di Gesù per soli uomini, mentre lo stesso giorno Adelaide Champion de Cicé crea per le donne la Società delle Figlie di Maria. Il Beato Salomone è invitato a collaborare ai progetti di Padre Clorivière. Il presente studio tratta le relazioni intercorse tra questi due personaggi durante gli anni 1791 e 1792, cioè quando l’organizzazione e le regole delle due Società religiose diventano operative. The Blessed Solomon, Brother of the Christian Schools, and Father PeterJoseph de Clorivière. A collaboration during the Revolution (1791-1792). In July 1790, Pierre-Joseph de Clorivière decided to found two religious societies. On 2nd February 1791, he founded the Society of the Heart of Jesus,
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composed of men only, and on the same day Adélaïde Champion de Cicé created the Society of the Daughters of Mary for women. Blessed Brother Salomon was led to collaborate in these projects of Father de Clorivière. This study looks at the relationships which brought together these two emblematic figures during the years 1791 and 1792, in other words at the time when the organisation and the rules of the two societies were being put in place. 539
Carmelo Raspa La relazione maestro-discepolo tra Nuovo Testamento e Tradizione rabbinica L’Autore affronta il tema della relazione maestro-discepolo nel NT, con un riferimento precipuo alla persona ed all’opera di Gesù. Del suo movimento si delineano i tratti che caratterizzano la sua sequela, i contenuti del suo insegnamento, la sua autorevolezza di maestro. Gesù, in tal senso, si presenta fedele alla tradizione ebraica che continuerà a svilupparsi nel rabbinismo dopo il 70 d. C. The teacher-disciple relationship between the New Testament and the Rabbinical Tradition The author takes on the theme of the teacher- disciple relationship in the New Testament, with a main reference to the person and work of Jesus. From his movement are delineated the traits which characterize his sequel, the contents of his teaching, his authority as teacher. Jesus, in this sense, is presented as faithful to the Hebrew tradition which will continue to develop in rabbinism after A. D. 70.
ESPERIENZE 545
Alessandro Cacciotti Collegio “S. Giuseppe” – Istituto “de Merode” (Roma) Laboratorio teatrale “Il Quadriportico” Nato nel 1990, il Laboratorio teatrale “Il Quadriportico” del Collegio “S. Giuseppe” - Istituto “de Merode” (Roma) ha messo in scena, in 21 anni di vita, quasi 40 spettacoli e ha visto passare sul suo palcoscenico più di 1500 giovani, tra attori e staff tecnico. Il laboratorio è un luogo dove tutto si costruisce insieme: si redige il testo, si sceglie il cast degli attori, si costruiscono le scene, si suonano e si cantano le canzoni, si assumono ruoli differenti (attori, attrici, tecnici, attrezzisti, truccatrici e costumiste), si cura la regìa. Dal 2004 “Il Quadriportico” ha aperto un’esperienza di integrazione tra gli studenti del Liceo “de Merode” e
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l’Istituto “Leonarda Vaccari” in Roma che è impegnato nel campo della riabilitazione di persone con disabilità. College “S. Joseph“ - Institute “de Merode” (Roma) Theatre Laboratory “Il Quadriportico” Begun in 1990, the Theatre Laboratory “Il Quadriportico” of the Collegio “S. Giuseppe” - Istituto “de Merode” (Roma) has played for 21 years, producing almost 40 shows, and it has seen more than 1500 young people perform on its stage as actors or technical staff. The Laboratory is a place in which everything is worked at together: drawing up the text, casting the performers, building the scenery, playing the music, singing the songs, taking on various responsibilities (actors, technicians, scene-shifters, make-up artists and dressers), and directing the performance. Since 2004, “Il Quadriportico” has developed a tradition of cooperation between the students of the Liceo “de Merode”and the Istituto “Leonarda Vaccari” in Roma, which is dedicated to the rehabilitation of handicapped persons. 547
Vito Moccia Leonardo Rollino (1922-2012): esemplare Educatore dell’Istituto Secolare “Unione Catechisti” Rollino, dotato di animo generoso e aperto, di mente lucida e trasparente e di temperamento intraprendente e gioviale, formò parte del gruppo che prese i voti quando l’Unione divenne Istituto secolare, il 24 giugno del 1948. La sua formazione di perito industriale gli garantì le competenze necessarie all’insegnamento presso la Casa di Carità “Arti e Mestieri”. Appassionato del Crocifisso e dell’Immacolata, offrì il suo servizio all’Unione e ricoprì diversi incarichi: membro del Consiglio Generale, segretario, economo, presidente generale. Consolidò il ramo femminile dell’Unione, curò l’aggiornamento del testo dell’Adorazione a Gesù Crocifisso, contribuì all’espansione dell’Unione nel mondo. Leonardo Rollino (1922 - 2012): A exemplary Educator of the Secular Institute “Union of Catechists” Rollino, generous and open-minded, with clear and transparent soul, enterprising and jovial temperament, was part of the group that took vows when the Union became secular institute on June 24th, 1948. His training of qualified industrial technician assured him the skills required to teach at the Casa di Carità “Arti e Mestieri”. Fond of the Crucifix and the Immaculate Conception, he offered his services to the Union and held various positions: member of the board, secretary, treasurer, general president. Consolidated the female branch of the Union, oversaw the updating of the text of the
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Adoration of Jesus Crucified, contributed to the expansion of the Union in the world.
NOTE 555
Filippo Sani Anche i “duri” sostano nel conflitto. Quando la contestazione sociale rifiuta la violenza La violenza del linguaggio e degli atti perpetrati nei confronti di vittime innocenti dai nuovi movimenti terroristici (in primis le ‘nuove Brigate Rosse’), sembrano riportare in auge una cultura della violenza, che sembrava definitivamente delegittimata dalla storia, prim’anche che dalla giustizia. Il presente contributo recupera la reazione dei movimenti antagonistici italiani all’attentato del dirigente dell’Ansaldo Adinolfi, per evidenziarne il potenziale educativo, in grado di disinnescare la minaccia violenta. Un’inedita riflessione che tenta di trasformare lo scontro in un’occasione per apprendere dai conflitti. Also the toughs stand in conflict. When the social protest rejects violence The violence of language and the acts perpetrated against innocent victims by the new terrorist movements, first of all the ‘new Red Brigades’, seem to revive a culture of violence, that seemed permanently illegitimate by the history, even before by justice. This paper recovers the reaction of the Italian radical movements about the assassination of the Ansaldo Adinolfi’s manager, to highlight the educational potential of this response, able to defuse the violent threat. An unpublished reflection that attempts to transform the conflict into an opportunity to learn from the conflicts.
RECENSIONI 561
AA.VV., Rileggere un discusso Risorgimento?, Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti (Firenze) 2012, pp. 192. e 19,00 (Francesco Pistoia). U. CASALE, Il Concilio Vaticano II. Eventi, documenti, attualità, Lindau, Torino 2012, pp. 206. e 18,00 (B.P.). DONATO PETTI, Dialogo sulla Vita Consacrata con Papa Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, 2012, pp. 168. e 14,00 ( Joseph Tobin).
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SEGNALAZIONE LIBRI 567
QUADERNI DELLA MISSIONE EDUCATIVA LASALLIANA (M.E.L.)
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INDICE ANNATA 2012
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 441-446
EDITORIALE
LA “NOVITÀ CRISTIANA” DEL LAICATO A 50 ANNI DAL CONCILIO VATICANO II DI
DONATO PETTI
L’ecclesiologia di comunione
A
50 anni dal Concilio Vaticano II, a 25 anni dalla pubblicazione dell’Esortazione Apostolica Christifideles Laici di Giovanni Paolo II e a 20 dal Catechismo della Chiesa Cattolica è possibile fare il punto sul tema della vocazione e della missione dei laici nella Chiesa. L’essere e l’agire dei credenti laici nella Chiesa e nella società diventano una realtà non solo antropologica e sociologica, ma anche e specificatamente teologica ed ecclesiale. Soprattutto Papa Wojtyla espone, in maniera organica e sistematica, la splendida “dottrina” sul laicato, espressa dal Concilio, presentando la “condizione ecclesiale” dei laici come una vera «novità cristiana».1 Il primato della vocazione alla santità, l’impegno e la testimonianza cristiana sulle frontiere della storia2 sono i criteri ecclesiologici enunciati per la partecipazione dei fedeli laici alla diffusione del Regno di Dio. L’ecclesiologia di comunione, idea centrale nei documenti del Concilio Vaticano II3 e della Christifideles Laici, costituisce il fondamento della teologia del laicato cattolico. La centralità del concetto cristiano di “comunione” poggia sul noto testo della Prima Lettera di Giovanni: “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo
GIOVANNI PAOLO II, Christifideles Laici, n. 15. GIOVANNI PAOLO II, Idem, n. 30. 3 Cfr. CONCILIO VATICANO II, Lumen gentium, nn. 4, 8, 13-15, 18, 21, 24-25; Dei Verbum, n. 10; Gaudium et spes, n. 32; Unitatis redintegratio, nn. 2-4, 14-15, 17-19, 22. 1 2
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EDITORIALE
Donato Petti
annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta”.4 Il punto di partenza della “comunione”, dunque, è l’incontro con Gesù Cristo, che ci introduce alla comunione con il Padre, nello Spirito Santo e, a partire di qui, unisce gli uomini fra di loro. I vincoli che uniscono i credenti tra loro - e prima ancora con Cristo - non sono, pertanto, quelli della «carne» e del «sangue», bensì quelli dello Spirito Santo, che tutti ricevono nel Battesimo.5 Le immagini bibliche con le quali il Concilio Vaticano II ha voluto introdurci a contemplare il mistero della Chiesa-Comunione sono quelle dell’ovile,6 del gregge,7 della vite,8 del podere o campo di Dio,9 dell’edificio spirituale,10 della casa di Dio,11 nella quale cioè abita la sua famiglia, della dimora di Dio nello Spirito12 e con gli uomini,13 della città santa,14 della nuova Gerusalemme15 e, soprattutto, del corpo.16 Inoltre, il Concilio Vaticano II riprende dall’intera storia della salvezza e ripropone l’immagine della Chiesa come Popolo di Dio.17 La Chiesa-Comunione è il popolo «nuovo», il popolo «messianico», il popolo che ha per Capo Cristo, per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati, per fine il Regno di Dio, costituito da Cristo in una comunione di vita, di carità e di verità. La parola “comunione” ha, quindi, un carattere teologico, cristologico, storico-salvifico ed ecclesiologico. Porta in sé anche la dimensione sacramentale, che in S. Paolo appare in modo del tutto esplicito: “Il calice della
1 Gv 3,1. Cfr G l3, 1. 6 2 Sam. 7,8; Ez. 25,5; Mic. 2,12; Gv. 10,1,16. 7 Es 2,19; Num 27,17; 1Sam 17,34; Gb 21,11; Sal 74,1, 19; 77,20; 78, 52; 79,13; 80,1; 95,7; 100,3; Is 40,11; 63,11; Ger 10,21; 13,17; 13,20; 23,1. 8 Gn 40,9; Gdc 9,12; 2Re 4,39; Sal 80,8, Ger 8,13; Ez 15,6; 17,6, 7,8;18,4; Os 14,7; Gl 1,12; 2,22; Mic 4,4; Zc 3,10; 8,12; Lc 21,19; Gv 15,1; 15,4; 15,5: 1Ts 2,8; Gc 3,12. 9 Cfr. 1 Cor 3,9. 10 1Cor 3,9; 2Cor 5,1; Ef 2,21,22. 11 Cfr. 1 Tm 3,15. 12 Cfr. Ef 2,19-22. 13 Cfr. Ap 21,3. 14 Is 48,2; 52,1; Dn 9,24; Mt 4,5; 27, 53; Ap 11,2; 21,2, 10; 22,19. 15 Cfr. ORIGENE, In Mt. 16,21: PG 13, 1443C. TERTULLIANO, Adv. Marc. 3, 7: PL 2, 357C; CSEL 47, 3, p. 386. 16 Rm 12,3-8; Ef 4,4-16; 1P 4,10-11; Gal 6, 2; Fil 2,1-4. 17 CONCILIO VATICANO II, Lumen gentium, 9-17. 4 5
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benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo”.18 Perciò l’espressione paolina “la Chiesa è il Corpo di Cristo” significa che l’Eucaristia, nella quale il Signore ci dona il suo Corpo e ci trasforma in un solo Corpo,19 è il luogo dove permanentemente la Chiesa si esprime nella sua forma più essenziale: presente in ogni luogo è, tuttavia, soltanto una, così come uno è Cristo. Il concetto di comunione, come chiave interpretativa dell’ecclesiologia, implica sempre una duplice dimensione: verticale (comunione con Dio) ed orizzontale (comunione tra gli uomini). La comunione ecclesiale è, allo stesso tempo, invisibile e visibile. Nella sua realtà invisibile, essa è comunione di ogni uomo con il Padre, per Cristo, nello Spirito Santo, e con gli altri uomini compartecipi nella natura divina,20 nella passione di Cristo,21 nella stessa fede,22 nello stesso spirito.23 Nella Chiesa sulla terra, tra questa comunione invisibile e la comunione visibile nella dottrina degli Apostoli, nei sacramenti e nell’ordine gerarchico, vi è un intimo rapporto che è costitutivo della Chiesa come Sacramento di salvezza. Da tale sacramentalità deriva che la Chiesa non è una realtà ripiegata su se stessa, bensì permanentemente aperta alla dinamica missionaria ed ecumenica, perché inviata al mondo ad evangelizzare e testimoniare, attualizzare ed espandere il mistero di comunione che la costituisce, a raccogliere tutti e tutto in Cristo,24 ad essere per tutti «sacramento inseparabile di unità».25 Sarebbe improprio e fuorviante ridurre la realtà della Chiesa-Comunione ad un’interpretazione semplicemente sociologica e psicologica delle relazioni all’interno della Chiesa stessa. Infatti, dopo il Sinodo del 1985, il termine diventò uno slogan con una certa enfasi orizzontalista, fino a ridursi a indicare i rapporti tra Chiesa locale e Chiesa universale o ad accendere la discussione sulla divisione dei poteri e delle competenze. Quasi a riproporre la
1 Cor 10, 16s. Cfr. CONCILIO VATICANO II, Lumen gentium, nn. 3 e 11 § 1; S. GIOVANNI CRISOSTOMO, In 1 Cor. hom., 24, 2: PG 61, 200. 20 Cfr 2 Pt 1, 4. 21 Cfr 2 Cor 1, 7. 22 Cfr Ef 4, 13; Filem 6. 23 Cfr Fil 2, 1. 24 CONCILIO VATICANO II, Lumen gentium, n. 7 § 2. 25 S. CIPRIANO, Epist. ad Magnum, 6: PL 3, 1142. 18 19
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disputa dei discepoli di Gesù su chi fosse il più grande,26 trascurando, tuttavia, la risposta del Maestro: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti».27
La spiritualità di comunione Un’autentica ecclesiologia di comunione è capace di generare anche una spiritualità di comunione, alla quale si ispira la vita quotidiana dei seguaci di Gesù, siano essi persone consacrate o fedeli laici. Il Documento “Ripartire da Cristo: un rinnovato impegno della Vita Consacrata nel terzo millennio” indica la “spiritualità di comunione” come la sfida del terzo millennio.28 Ma che cos’è la spiritualità della comunione? Con parole incisive, capaci di rinnovare rapporti e programmi, Giovanni Paolo II insegna: «Spiritualità della comunione significa innanzi tutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto». E ancora: «Spiritualità della comunione significa capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come “uno che mi appartiene”». Da questo principio derivano, con logica stringente, alcune conseguenze del modo di sentire e di agire: condividere le gioie e le sofferenze dei fratelli; intuire i loro desideri e prendersi cura dei loro bisogni; offrire loro una vera e profonda amicizia. Spiritualità di comunione è pure capacità di vedere, innanzitutto, ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio. Senza questo cammino spirituale, a poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione.29 A incoraggiare tale prospettiva è stata anche l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II, Vita Consecrata, con parole inequivocabili: “Uno dei frutti della dottrina della Chiesa come comunione, in questi anni, è stata la presa di coscienza che le sue varie componenti possono e devono unire le loro forze, in atteggiamento di collaborazione e di scambio di doni, per partecipare più efficacemente alla missione ecclesiale. Ciò contribuisce a dare un’immagine più articolata e completa della Chiesa stessa, oltre che a rendere più efficace la risposta alle grandi sfide del nostro tempo, grazie all’apporto corale dei diversi doni. Si può dire che è inizia-
Cfr. Mc 9,33-37 Mc 9,35. Proprio per chiarire questo controverso concetto di communio, la Congregazione per la dottrina della fede pubblicò nel 1992 la Lettera «Communionis notio» su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione. 28 CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, n. 28. 29 Idem, n. 29. 26 27
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to un nuovo capitolo, ricco di speranze, nella storia delle relazioni tra le persone consacrate e il laicato”. 30 In questa linea possiamo constatare che si sta instaurando un nuovo tipo di comunione e di collaborazione all’interno delle diverse vocazioni e stati di vita, e soprattutto tra i consacrati e i laici. La missione dell’educazione cristiana, dunque, è caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà di vocazioni e condizioni di vita, di carismi e di responsabilità condivisi. Come membra dell’unico corpo di Cristo, siamo chiamati a vivere una missione condivisa, nella fraternità e nella gioia di una uguale dignità e nell’impegno a far fruttificare insieme l’immenso tesoro carismatico. Così i carismi, le responsabilità ed i servizi resi esistono nella comunione e per la comunione. Così la vita di comunione diventa un segno per le persone e una forza attrattiva che conduce a credere in Cristo: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato».31 Allora la comunione si apre alla missione, anzi si fa essa stessa missione. E l’ecclesiologia di comunione diventa operante come ecclesiologia di servizio.
Nel cuore del carisma condiviso Emergono, in definitiva, quattro punti fermi che interpellano gli operatori dell’educazione cristiana, per far nascere, crescere e sviluppare la collaborazione, la condivisione e l’alleanza tra persone consacrate e laici credenti: a) il principio che regola la collaborazione è eminentemente evangelico: non sono i laici che aiutano i consacrati o i consacrati che “si servono” del supporto dei laici solo perché non possono fare diversamente, costretti dalla dura necessità (“purtroppo, non possiamo fare altro...”). L’ecclesiologia di comunione insegna che entrambi, invece, guardano nella stessa direzione, insieme sono condiscepoli del medesimo ed unico Maestro, Cristo. b) I carismi delle Famiglie Religiose non sono esclusivo appannaggio dei Religiosi e delle Religiose: lo Spirito Santo ha donato tali carismi alla Chiesa (e, quindi, anche ai laici). c) Nell’attuale situazione storica, i consacrati hanno il dovere di conoscere ed approfondire la teologia del laicato, ascoltare la voce dello Spirito, leggere i segni dei tempi. Inoltre, le persone consacrate hanno un compito
30 31
n. 54. Gv 17, 21.
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importante in questo momento storico: favorire il processo di comunione con i laici cristiani, mediante la loro esperienza di fede e di carità nella verità, dedicando tempo, energie e risorse nell’accompagnare i laici ad approfondire il senso della loro vita cristiana, nell’ottica del carisma specifico. Si tratta di un’opera di autentica evangelizzazione. d) I laici cristiani non possono non conoscere la Vita Consacrata, la sua identità, la radicalità evangelica delle persone che con dedizione totale, incondizionata e appassionata, dedicano tutta la vita ad annunciare e testimoniare l’amore incarnato di Dio. e) La missione educativa condivisa con i laici si fonda, pertanto, sulle direttrici della comunione, della collaborazione e della corresponsabilità. Il futuro lo costruiamo oggi: perciò nessuno deve essere escluso e nessuno si deve escludere dall’impegno per generare futuro; è decisivo, pertanto, vivere in continua formazione: una riqualificazione sul piano biblico-teologico, professionale e della comunione dell’esperienza cristiana, che sia in grado, da una parte, di promuovere la realtà di ogni persona e, dall’altra, di mettere le persone in grado di vivere con pienezza la stessa missione educativa.
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 447-459
STUDI
IL CONCILIO DI GIOVANNI E PAOLO DI EMILIO BUTTURINI Professore Ordinario di Storia della Pedagogia (Università di Verona)
S
iamo ormai arrivati al cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962), voluto da Papa Giovanni XXIII fin dagli inizi del suo pontificato. Il cardinale Angelo Giuseppe Roncalli (1881-1963) infatti, Patriarca di Venezia, era divenuto Papa il 28 ottobre 1958 e già, il 25 gennaio 1959, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, aveva annunciato la sua intenzione «certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito».1 Da quell’annuncio, che sorprese non poco il mondo intero e gran parte degli uomini di Chiesa – nonostante si fossero abbozzati progetti conciliari già durante i pontificati di Pio XI e Pio XII2 – erano trascorsi oltre tre anni di dibattiti e consulta-
Vedi il volume Il Vaticano II nella parola di Giovanni e Paolo, Vallecchi, Firenze 1967, p.56. Per un’ampia sintesi di presentazione del Concilio Vaticano II vedi dell’autorevole storico gesuita (mancato, a 88 anni, il 6 febbraio 2012) GIACOMO MARTINA, Storia della Chiesa, IV, Morcelliana, Brescia 1995, pp. 295-347. Da ricordare anche i testi di “protagonisti” del Concilio, come i due volumi di YVES MARIE CONGAR, Mon journal du Concile, Du Cerf, Paris 2002 e i due, anche in traduzione italiana, di HENRI DE LUBAC, Quaderni del Concilio, Jaka Book, Milano 2009, dopo l’edizione francese del 2007. Vedi poi di LUIGI BETTAZZI, Il Concilio Vaticano II. Pentecoste del nostro tempo, Queriniana, Brescia 2000. E’ giusto ricordare che fu papa Giovanni a indicare per la Commissione teologica preparatoria anche i nomi di teologi «censurati dal Sant’Uffizio» e in «esilio dalle cattedre universitarie», come Congar e De Lubac, secondo recenti dichiarazioni dell’allora suo segretario ed ora novantasettenne arcivescovo Loris Francesco Capovilla rese al giornalista FILIPPO RIZZI, Il “papa buono” in ascolto dell’ispirazione, «Avvenire», 22 giugno 2012, p. 24. 2 Cfr., ad esempio, GIUSEPPE ALBERIGO, Giovanni XXIII e il Vaticano II nel volume a cura delle stesso, Papa Giovanni, Laterza. Roma-Bari 1987, p. 212 e p. 215, dove ricorda che già nel luglio 1959, il papa comunicò al card. Domenico Tardini che il Concilio si sarebbe chiamato «Vaticano II», non intendendo muoversi sulla linea dei predecessori, più o meno orientati a fare una continuazione del Vaticano I. Per qualche particolare in più sulle iniziative di Pio XI e Pio XII vedi nel volume sopra citato Il Vaticano II nella parola di Giovanni e Paolo, pp. 5-8 della Introduzione. 1
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zioni, di lavori nelle commissioni preparatorie, sulla base di un’idea di Concilio non tanto da prese di posizione dottrinali, quanto da nuovi orientamenti pastorali. La parola chiave usata da Papa Giovanni fu quella di “aggiornamento”, ripresa tale e quale anche dalla stampa internazionale, per esprimere il bisogno di un rinnovamento diffuso sul piano pastorale, culturale, liturgico, di conoscenza dei testi biblici, di rapporto tra Chiesa e mondo, ecc. Dopo il primo annuncio del gennaio 1959 vi era stata, nel Natale 1961, la bolla di indizione (Humanae Salutis) e poi il radiomessaggio dell’11 settembre 1962 (Ecclesia Christi lumen gentium), con cui Papa Giovanni indicava il significato del Concilio nella promozione di un nuovo incontro con Cristo di tutti gli uomini, attraverso la riconsiderazione della Chiesa ad intra, «nella sua struttura interiore», e nella sua «vitalità ad extra […] di fronte alle esigenze e ai bisogni dei popoli», specie dei paesi sottosviluppati, per i quali intendeva presentarsi come «la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri». Si invitava ogni uomo e, ancor più, ogni cristiano a «considerare il superfluo con la misura delle necessità altrui»,3 ponendosi a servizio l’uno dell’altro, con l’impegno di costruire la pace, respingendo così – per dirla con Carlo Azeglio Ciampi - «la barbarie delle guerre e la violenza dei totalitarismi».4 Tale indirizzo pastorale veniva ribadito nell’annuncio, “pieno di gioia”, del discorso inaugurale del Concilio dell’11 ottobre 1962 (Gaudet Mater Ecclesia), davanti ad oltre duemila vescovi di tutte le lingue e culture, con i loro consulenti (fra cui il giovane Joseph Ratzinger, al seguito del card. Joseph Frings di Colonia). In quel discorso Papa Giovanni indicava la via d’un magistero «a carattere prevalentemente pastorale», capace di «venire incontro ai bisogni di oggi, mostrando più ampiamente la validità della dottrina, piuttosto che rinnovando condanne», in dissenso con i «profeti di sventura», che oggi «non vedono altro che prevaricazione e rovina»,5 incapaci come sono di leggere i «segni dei tempi». Quest’ultima espressione, colta dal Vangelo di Matteo (16, 3-4), è intesa da Roncalli con valore positivo come indicazione della presenza e dell’azione di Dio nella storia.6 Tali “segni” sareb-
Vedi nel volume citato Il Vaticano II nella parola di Giovanni e Paolo, il Radiomessaggio della sera dell’11 settembre 1962, p. 71. 4 CIAMPI CARLO AZEGLIO, A un giovane italiano, Rizzoli, Milano 2012, p. 54. 5 Vedi ancora il volume citato Il Vaticano II nella parola, pp. 87-88. Ricorda GIUSEPPE ALBERIGO, Giovanni XXIII e il Vaticano II, nel suo contributo al volume a sua cura sopra citato, p. 214, che già nella «Costituzione apostolica di convocazione del Concilio» (Humanae salutis) del Natale 1961 papa Giovanni aveva invitato a fare «nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i “segni dei tempi” […] e scorgere in mezzo a tante tenebre indizi non pochi che fanno bene sperare». 6 L’espressione si trova già in ANGELO GIUSEPPE RONCALLI, Il giornale dell’anima. Soliloqui, note e diari spirituali, a cura di ALBERTO MELLONI, Istituto per le scienze religiose, Bolo3
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bero poi stati esemplificati, nella enciclica Pacem in terris dell’11 aprile 1963, nell’ascesa socio-economica, culturale e politica dei lavoratori, nell’ingresso, sempre più consapevole e deciso della donna nella vita pubblica e nel riscatto storico dei popoli detti «in via di sviluppo». Sempre in questa enciclica, al n. 84, Papa Giovanni invitava a distinguere tra «false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo e movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione».7 Nel discorso inaugurale del Concilio, già con la partecipazione di “osservatori” appartenenti alle Chiese ortodosse e protestanti e la presenza di un gran numero di cronisti (ben presto oltre 1500), il Papa aveva invitato i fedeli a dedicarsi, «intrepidamente» ad «opportuni aggiornamenti» della vita della Chiesa, «per un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze, in corrispondenza più perfetta di fedeltà all’autentica dottrina studiata ed esposta secondo le forme del pensiero moderno».8 Ritornava anche il motivo della pace per superare «asprezza di umani rapporti e persistenti pericoli di guerre sanguinose», ammonendo ad apprendere dalla propria esperienza che «la potenza delle armi, il predominio politico non giovano affatto per una felice soluzione dei problemi».9 Sembrava di sentire l’eco della parola d’un teologo proprio allora “riabilitato” come perito conciliare, Karl Rahner, il quale, piuttosto che al rischio di deviazioni dottrinali, era sensibile al «pericolo che la Parola di Dio passasse in proposizioni di eterna monotonia da un libro di dogmatica all’altro, senza incontrare vitalmente l’uomo concreto, penetrare nel suo spirito, nel suo cuore, tramutarsi in sangue delle sue vene».10 Si è parlato più volte del «mistero Roncalli», come se il «Papa buono», che si compiaceva amabilmente delle sue origini contadine, non avesse mai gna 2002, p. 193, nota del 29 aprile 1903 e nei Diari, nota del 17 febbraio 1907. Per questa seconda nota vedi il volume a cura di LUCIA BUTTURINI, Nelle mani di Dio a servizio dell’uomo. I diari di don Roncalli, 1905-1925, Istituto per le scienze religiose, Bologna 2008, pp. 78-79. 7 Può essere interessante ricordare che, in qualche misura, Aldo Moro, nel congresso di Napoli della DC (27-31 gennaio 1962) aveva anticipato la distinzione giovannea fra «dottrine filosofiche e movimenti storici» con il suo invito a tenere presente il «salto qualitativo esistente fra i dati della coscienza morale e religiosa» e i fatti economici e sociali, da affrontare con «strumenti e modi propri della lotta politica». Cfr. ALFONSO PRANDI, Chiesa e politica. La gerarchia e l’impegno politico dei cattolici italiani, Il Mulino, Bologna 1968, p. 67. Più in generale vedi SERGIO LARICCIA, Stato e Chiesa in Italia. 1948-1980, Queriniana, Brescia 1981, pp. 2833 e PIETRO SCOPPOLA, La «nuova cristianità» perduta, Studium, Roma 1985, pp. 103-110. 8 Cfr. il volume citato, Il Vaticano II nella parola, p. 90. 9 Vedi sempre il volume citato, Il Vaticano II nella parola, p. 86 e p. 91. 10 Cfr. KARL RAHNER, Che cos’è l’eresia, Queriniana, Brescia 1963.
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superato la soglia dell’onesto “parroco di campagna” e non fosse stato anche uomo di cultura, impegnato in esperienze ecclesiali di rilievo, sia sul piano diplomatico che su quello pastorale. Certo, la “cultura contadina”, con i suoi valori di essenzialità, sobrietà e continuità nell’impegno, era ben presente in Roncalli, che, scrivendo ai genitori nel 1930, ammetteva di aver letto tanti libri e imparato cose nuove, aggiungendo però che quelle imparate da loro erano «le più preziose e importanti», capaci di «sorreggere e dare calore alle molte apprese in seguito, in tanti e tanti anni di insegnamento».11 Da quell’origine derivavano – per dirla con Alberto Melloni - l’«agilità intellettuale di Roncalli: la sua capacità di emanciparsi e la sua naturalezza nel reimmergersi da ed entro giacimenti o patrimoni culturali», la sostanziale estraneità rispetto al «mito della cristianità portato avanti dalla borghesia cattolica», con la conseguente relativizzazione d’ogni progettualità, specie di carattere politico, la tendenza a forme di «sapienzialità e autodidattismo», in chiave di fede e di spiritualità,12 che a me ricordano il motto dell’Aut aut di Sören Kierkegaard, per il quale il soggetto che apprende «non è meno autodidatta che teodidatta». «La parola “cristianità” – aveva osservato Kierkegaard in Gli atti dell’amore – quale denominazione generale per un intero popolo, è un titolo che facilmente dice troppo e […] induce il singolo a confidare troppo in sè».13 Molto influì sulla formazione del futuro Papa l’esperienza di lavoro intellettuale, che lo portò ad insegnare nel liceo e nel corso teologico di Bergamo, oltre che, per breve tempo, all’Università lateranense, e a fare ricerche storiche per oltre mezzo secolo (dal 1906 al 1958) . In quest’ultimo settore egli pubblicò testi significativi su protagonisti della “Riforma e Controriforma” cattolica, su Carlo Borromeo, sul filippino Cesare Baronio, su Gregorio Barbarigo vescovo di Padova, nonché sul “primo patriarca” di Venezia, Lorenzo Giustiniani. Storicamente accurato è anche il volume sul vescovo di Bergamo, Giacomo Maria Radini Tedeschi (1857-1914), di cui il giovane don Angelo fu segretario particolare per tutto il periodo dell’episcopato (1905–1914), prima di essere richiamato alle armi, dal maggio 1915 al settembre 1918.14
11 Cfr. LORIS FRANCESCO CAPOVILLA, Papa Giovanni: un secolo, Grafica e arte, Bergamo 1981, p. 28. 12 Vedi ALBERTO MELLONI, Formazione e sviluppo della cultura di Roncalli nel volume citato a cura di GIUSEPPE ALBERIGO, Papa Giovanni, p. 18. Vedi anche pp. 19-20. 13 SOEREN KIERKEGAARD, Gli atti dell’amore, a cura di UMBERTO REGINA, Morcelliana, Brescia 2009, p. 69. 14 Per queste e altre notizie, oltre al volume citato a cura di LUCIA BUTTURINI, Nelle mani di Dio a servizio dell’uomo, almeno pp. 3-366, vedi anche il volume, sempre relativo a Roncalli, a cura di MASSIMO FAGGIOLI, Tener da conto. Agendine di Bulgaria, 1925-1934. Istituto per le scienze religiose, Bologna 2008.
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Notevole su di lui fu l’influsso del vescovo Radini Tedeschi, con il quale attraversò il periodo modernista, conoscendone dall’interno l’opprimente clima di sospetti e di denunce (da lui non certo condiviso), e il periodo delle grandi lotte sociali dei cattolici, di cui fece propria l’ansia di rinnovamento, pronto a sostenere con decisione il suo vescovo – anche come principale estensore della rivista «La vita diocesana» - ad esempio, nel coinvolgimento nello sciopero del 1909 di Ranica (nei pressi di Bergamo). La sua forte personalità culturale gli permise, fra l’altro, di apprezzare a fondo - una volta ritornato in Italia, dopo i vent’anni passati nella diplomazia pontificia in Bulgaria e Turchia e i nove anni di nunzio a Parigi - quella singolare figura di prete e di uomo di cultura che fu don Giuseppe De Luca (1898-1962), eccezionale promotore di iniziative culturali, a partire dall’«Archivio italiano per la storia della pietà», oltre che amico di uomini politici di ogni orientamento, da Bottai a Sturzo, da De Gasperi a Togliatti, da Colombo a Rodano, Ossicini, ecc..15 Un preciso influsso di De Luca si può riscontrare nello stesso discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962, anche solo scorrendo l’elenco dei «Suggerimenti […] in vista del Concilio», che De Luca preparò due mesi prima della morte.16 Raccomandava il prete lucano di presentare il Concilio non solo come un fatto ecclesiale, ma come un evento «che riguardava tutti gli uomini, la loro vita, la loro storia […], il più grande fatto umano di questi anni», essendo «la prima volta che tanta e tale parte della umanità si aduna non ai fini dell’ambizione, della potenza, del lucro, del turismo ecc.; bensì ai fini dell’uomo, come creatura da salvare, anzi salvata, soltanto smarrita». Si trattava di porre con il Concilio, nella maniera più estesa e più profonda possibile, il problema dell’unità di tutti gli uomini, facendo della Chiesa cattolica «non una forza centrifuga, ma centripeta dell’umanità», grazie alla fede nella paternità universale di Dio e nella conseguente fraternità fra gli uomini, come si sarebbe detto nel cap. I della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium. L’eco dei suggerimenti è ben presente nell’insistenza sulla «medicina della misericordia» piuttosto che su «l’arma della severità» del discorso inaugurale e nella conversazione della sera di quello stesso giorno, con la luna che si era «affrettata», quasi a salutare la conclusione di quella «grande
Cfr. ROMANA GUARNIERI, Don Giuseppe De Luca, Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1991. Vedi anche della stessa, Una singolare amicizia. Ricordando don Giuseppe De Luca, Marietti, Genova 1998. 16 Cfr. GABRIELE DE ROSA, L’esperienza di A. Roncalli a Venezia nel volume più volte citato a cura di GIUSEPPE ALBERIGO, Papa Giovanni, pp. 97-103, p. 102 in particolare. 15
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giornata di pace», con l’invito a portare ai bambini «la carezza del Papa» e «per chi soffre una parola di conforto».17 La stessa Lumen gentium avrebbe detto anzitutto che la Chiesa è «segno e strumento dell’intima unione con Dio», ma per aggiungere subito «e dell’unità di tutto il genere umano». Coerentemente, l’idea di Chiesa come “Popolo di Dio”, “realtà di servizio, non di potere”– su suggerimento del cardinale belga Suenens - sarebbe stata posta prima della sua “Costituzione gerarchica”. In questo e altri documenti si sarebbe affermata una nuova “autocoscienza della Chiesa come comunione”, motivo dominante di un’opera famosa del futuro vescovo e cardinale Jean Jérome Hamer (La Chiesa è una comunione, diffuso in Italia dalla Morcelliana), che poi sarebbe stato ripreso decisamente da Papa Giovanni Paolo II nella “Lettera Apostolica” Novo millennio ineunte (nn. 42-43) dell’Epifania del 2001, dove parla della «comunione che incarna e manifesta l’essenza stessa del mistero della Chiesa», divenuta «casa e scuola di comunione». Karol Woityla, sulla scia del predecessore Albino Luciani, Papa per soli 33 giorni, scelse di portare i due nomi di chi aveva indetto il Concilio e di chi l’aveva concluso, anche per ribadirne il grande significato per la Chiesa e per il mondo. In particolare nel cap. II (punto 9) della Lumen gentium sul “Popolo di Dio” si sarebbe parlato del «popolo messianico che ha per capo Cristo [...] per condizione la dignità e libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come Cristo ci ha amati [...] per fine il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio [...] finché alla fine dei secoli sia da Lui portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra». Un cenno anche alla «Costituzione dogmatica su la Divina Rivelazione» (Dei Verbum), approvata il 18 novembre 1965, per la quale si modificò il primitivo schema curiale «Delle due fonti della Rivelazione», anche per l’intervento personale di Giovanni XXIII, favorevole alla posizione della minoranza (di oltre, però, ottocento vescovi), che preferiva la formula «Della divina rivelazione», superando l’impasse dell’assemblea conciliare, dove era impossibile raggiungere i due terzi di voti, che, per regolamento, avrebbero consentito di accantonare lo schema predisposto dalla Curia romana.18
Vedi il discorso della sera dell’11 ottobre 1962 nel volume più volte citato Il Vaticano II nella parola, pp. 95-97. 18 Cfr. Il card. Lercaro fa il bilancio della prima sessione, «Il Regno», gennaio 1963, pp. 3-4. 17
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Il Concilio di Paolo VI e il nuovo cammino indicato per la Chiesa e per il mondo Seguirono tre nuove sessioni conciliari guidate dal successore di Papa Giovanni, il cardinale Giovanni Battista Montini, eletto a mezzogiorno del 21 giugno 1963 col il nome di Paolo VI. Questi confidò a Mons. Capovilla di aver accettato la nomina per continuare l’opera iniziata dal suo predecessore.19 Provvide, fra l’altro, a nominare quattro “moderatori” nelle persone dei cardinali Julius August Döpfner di Monaco, Giacomo Lercaro di Bologna, Léon-Joseph Suenens di Malines-Bruxelles e del patriarca Gregorio Pietro Agagianian di Propaganda Fide, confermando come “segretario generale” il vescovo Pericle Felici, che sarebbe stato successivamente elevato alla dignità cardinalizia. Egli decise, inoltre, di ammettere varie donne al Concilio come “uditrici”.20 In una delle riunioni conclusive, quella del 7 dicembre 1965, avrebbe di nuovo sottolineato il valore religioso e pastorale del Concilio e la forte dimensione umanistica, in nome della quale si sarebbe potuto parlare della Chiesa quasi come «l’ancella dell’umanità», pure ricordando, per chi temesse relativismi e «orizzontalismi» che «se nel volto di ogni uomo, specialmente se reso trasparente dalle sue lacrime e dai suoi dolori, possiamo e dobbiamo ravvisare il volto di Cristo [...] e se nel volto di Cristo possiamo e dobbiamo ravvisare il volto del Padre celeste [...] il nostro umanesimo si fa cristianesimo e il nostro cristianesimo si fa teocentrico». Sarebbe stato così possibile dire ad un tempo che «per conoscere l’uomo [...] bisogna conoscere Dio» e che «per conoscere Dio bisogna conoscere l’uomo».21 Il Concilio rappresentò, secondo quasi tutti gli studiosi, una svolta storica, che segnò la fine dell’epoca post-tridentina e introdusse prima nella dot-
19 Vedi la conclusione dell’intervista già sopra ricordata di FILIPPO RIZZI all’ arcivescovo Capovilla in «Avvenire», 22 giugno 2012, p. 24. 20 Cfr. ADRIANA VALERIO, Madri del Concilio. Ventitré donne al Vaticano II, Carocci, Roma 2012. 21 Vedi il discorso di Paolo VI del 7 dicembre 1965 nel volume cit., Il Vaticano II nella parola, specie pp. 257-258. Non erano mancati nel nuovo papa “accenti giovannei”, come quando, in un discorso del 6 gennaio 1964 egli aveva detto «Noi guardiamo al mondo con immensa simpatia. Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo» o quando, nello stesso discorso del 7 dicembre (vol. cit. p. 255) aveva indicato nell’ «antica storia del Samaritano» «il paradigma della spiritualità del Concilio». Vedi anche, nel discorso di chiusura dell’8 dicembre 1965 (sempre in Il Vaticano II nella parola, p. 262) – forse ripensando a qualche resistenza per la nuova indicazione di “Maria, madre della Chiesa” – il riferimento a Lei come alla «Donna, la vera Donna ideale e reale insieme; la creatura nella quale l’immagine di Dio si rispecchia con limpidezza assoluta, senza alcun turbamento, come avviene invece in ogni creatura umana».
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trina e poi anche nella prassi — non senza lentezze, contraddizioni, «fughe in avanti» e regressioni — importanti innovazioni nei modi di porsi dei cristiani di fronte alla Parola di Dio, alla stessa Chiesa e alla vita di fede e di fronte all’uomo e al mondo. Possiamo, sulla scia di un altro testo del già citato storico gesuita Giacomo Martina,22 indicarle schematicamente così: a) la rivelazione, non più intesa come trasmissione di verità astratte, ma come manifestazione di Dio in modo vivo e personale, attraverso la storia del popolo d’Israele e della Chiesa di ieri e di oggi, che deve essere attenta ai «segni dei tempi», grazie soprattutto alla «Costituzione dogmatica su la Divina Rivelazione» (Dei Verbum), definita dal card. Alexandre Renard «senza dubbio il capolavoro del Concilio per la sua profondità e concisione».23 b) la Chiesa intesa come mistero e come popolo di Dio nel quale «vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo» e come «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano», piuttosto che come società perfetta, gerarchicamente costituita, dimensioni che pure sussistono anche se ridimensionate.24 Vi è stato così l’avvio di un cammino da una “Chiesa piramidale” ad una “Chiesa sinodale” (l’antico termine “sinodo” indica un “camminare insieme”), che ricorda la Chiesa delle origini, magari fino a tornare all’elezione popolare dei vescovi o a forme di “protagonismo laicale” in esperienze di predicazione o anche di guida di comunità.25 Cfr. GIACOMO MARTINA, La Chiesa in Italia da Pio XII a Paolo VI. Tentativo di sintesi in GIACOMO MARTINA, ELISEO RUFFINI, La Chiesa in Italia tra fede e storia, specie pp. 56-60. Vedi anche la proposta di sintesi del Priore della Comunità di Bose ENZO BIANCHI, A quarant’anni dalla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, Abbazia di S. Zeno, Verona 2005, articolata in quattro punti: 1. La centralità della Parola di Dio. 2. La liturgia, «culmine e fonte della vita della Chiesa». 3. La Chiesa «casa e scuola di comunione». 4. I cristiani nella compagnia degli uomini. 23 Cfr. ALEXANDRE RENARD, 10 ans après le Concile, où va l’èglise, «La Documentation Catholique», 4 avril 1976, p. 322. «Documento d’importanza capitale» definisce la «Dei verbum» anche il card. Albert Vanhoye in una precedente intervista di FILIPPO RIZZI, Vaticano II, l’evento che “aprì” la Bibbia, «Avvenire», 12 giugno 2012, p. 25. Vanhoye ama anche ricordare le “aperture” del magistero di Pio XII, specie con la Divino afflante Spiritu del 30 settembre 1943, riguardo all’utilizzo del “metodo storico-critico” e dei “generi letterari”. 24 Vedi in particolare la «Costituzione dogmatica su la Chiesa» (Lumen Gentium), nn. 1 e 32. Cfr. anche il volumetto di MICHELE PELLEGRINO, L’«idea centrale» del Vaticano II, LDC, Torino-Leumann 1976, dove si afferma che a tutte le principali e più significative prese di posizione del Concilio è sottesa l’idea di comunione. 25 Cfr. , ad esempio, ENRICO PEYRETTI, Ri-apriamo il Concilio, «il foglio», giugno-luglio 2012, p. 2 e GIORGIO CAMPANINI, Quale voce per i laici nella Chiesa? Un bilancio a cinquant’anni dal Concilio, «aggiornamenti sociali», maggio 2012, p. 409 e pp. 411- 412. 22
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c) la vita di fede e di preghiera, meno individualistica, meno «clericale», più aperta alla Parola di Dio e alla vita degli uomini, meno velata da misteri supplementari, che invece di rafforzare i grandi misteri della fede, rischiano di far perdere loro vigore e significato. In particolare attraverso la Sacrosanctum Concilium - la «Costituzione sulla Sacra Liturgia» - il primo documento conciliare approvato già il 4 dicembre 1963 - tutte le lingue degli uomini sono state ammesse, per dirla col il discorso di Paolo VI del 7 dicembre 1965, ad «esprimere liturgicamente la parola degli uomini a Dio e di Dio agli uomini».26 d) la dignità personale dell’uomo, concepita in modo più aperto e fiducioso, superando la vecchia dottrina della tesi e dell’ipotesi, che portava a tollerare come un male inevitabile la libertà, ora invece considerata presupposto fondamentale della dignità personale, per cui il diritto all’immunità da qualsiasi coercizione «perdura anche in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa», come si dice nella «Dichiarazione sulla libertà religiosa» (Dignitatis humanae, 2). Si rivendica, inoltre, per tutti e per tutte le comunità religiose il diritto alla libertà con un atteggiamento di Chiesa preoccupata più di difendere l’uomo che sé stessa. La «Dichiarazione sulla Libertà religiosa», già allora riconosciuta dal futuro Papa Giovanni Paolo II uno dei più importanti documenti del Concilio, fu sostenuta da una petizione di centinaia di vescovi, per iniziativa del cardinale canadese Paul-Emile Léger, che ne chiedevano «instanter, instantius... instantissime» l’approvazione, come sarebbe avvenuto il 7 dicembre 1965, anche per un “monito” di Paolo VI: «Nessuno sia impedito o costretto a credere». e) i rapporti Chiesa-mondo, rinnovati in nome di una Chiesa solidale col il mondo, con le sue sofferenze e conquiste, pronta a riconoscere l’autonomia delle realtà terrene, della cultura e della libera ricerca scientifica e pure l’opportunità di una stretta collaborazione fra scienze sacre e profane e pronta a sollecitare «in ogni popolo la capacità di esprimere secondo il modo proprio il messaggio di Cristo», promuovendo al tempo stesso «uno scambio vitale tra la Chiesa e le diverse culture dei popoli». Essa è disposta anche a rinunciare «all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza».27
Vedi Il Vaticano II nella parola, p. 256. Vedi la «Costituzione pastorale su la Chiesa nel Mondo contemporaneo» (Gaudium et Spes, nn. 1, 36, 44, 62 e 76). Si riporta qui almeno l’incipit famoso del documento: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». 26 27
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Se è vero poi che solo in parte nei documenti conciliari si è realizzata una felice mediazione pedagogica, adeguata a livello di tante importanti affermazioni, è anche vero, da un lato, che occorre cercare nello spirito di tutto il Concilio la comprensione più profonda di singole prese di posizione e, dall’altro, che non mancano anche nei documenti considerati più conservatori indicazioni ricche di sapienza pedagogica. Così la «Dichiarazione sull’educazione cristiana» (Gravissimum educationis) riafferma certo con forza il primato educativo della famiglia (e può essere utile anche come richiamo ai Sacerdoti, Religiosi e Religiose a non sostituirsi nella formazione morale e religiosa dei figli ai genitori, falsandone la coscienza con l’indurli a facili deleghe), così come ribadisce il principio di sussidiarietà contro ogni monopolio statale della scuola, privilegiando ancora lo strumento delle scuole cattoliche, non però fino al punto da renderlo esclusivo, se è vero che l’originario «Decreto sulle scuole cattoliche» si è appunto trasformato nella «Dichiarazione sull’educazione cristiana». La Chiesa dunque continua ad offrire il suo servizio per annunciare la via della salvezza e promuovere anche «la perfezione integrale della persona umana (...), il bene della società terrena e l’edificazione di un mondo più umano», ma riconosce ad un tempo che la scuola «costituisce come un centro, alla cui attività ed al cui progresso devono insieme partecipare le famiglie, gli insegnanti, i vari tipi di associazione a finalità culturali, civiche e religiose, la società civile e tutta la comunità umana» (Gravissimum educationis, 5). Viene così affermato il principio della «comunità educante» che sarebbe stato ripreso qualche anno dopo, come uno dei suoi principali motivi ispiratori, dal famoso Rapporto sulle strategie dell’educazione dell’Unesco.28 Del resto, la rivendicazione di una libertà effettiva (quindi anche economica) nella scelta della scuola da parte della famiglia e dell’educazione morale e religiosa in tutte le scuole, oltre che nella «Dichiarazione sull’Educazione cristiana» (Gravissimum educationis) si legge in un documento considerato aperto come la «Dichiarazione sulla libertà religiosa» (Dignitatis humanae), in particolare là dove si afferma che «i diritti dei genitori sono violati se i figli sono costretti a frequentare lezioni scolastiche che non corrispondono alla persuasione religiosa dei genitori o se viene imposta un’unica forma di educazione dalla quale sia esclusa ogni formazione religiosa».29
28 Il primo Rapporto dell’Unesco è stato pubblicato in Italia dall’Ed. Armando, Roma 1973. La medesima casa editrice ha poi pubblicato i successivi Rapporti del 1996 ( ed. italiana del 1997) e del 2000 (questa volta mantenendo lo stesso anno). 29 Cfr. Gravissimum educationis, nn. 3, 4, 5 e 7 e Dignitatis humanae, n. 5.
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Alcune osservazioni sui primi anni del postconcilio Difficilissima da gestire l’eredità conciliare, anche se «provvidenzialmente» al «Papa Giovanni, impulsivo e semplice» deciso ad iniziare il Concilio, era succeduto Papa Paolo, impegnato certo «a condurre in porto l’opera iniziata, per salvarne lo spirito ed impedirne le deviazioni [...] con una paziente opera di persuasione e di attesa, frenando intemperanze e rinunziando a decisioni drastiche e controproducenti».30 Non sono mancate significative aperture nel senso indicato dal Concilio del nuovo pontefice, specie in relazione alle tematiche della Gaudium et Spes: la pace, la cooperazione tra i popoli, la giustizia per i Paesi del Terzo Mondo (Enciclica Populorum Progressio della Pasqua 1967), ma anche relativamente all’ecumenismo e al rinnovamento liturgico e dello stile di vita della Chiesa.31 Sembra però che la preoccupazione principale di Paolo VI sia stata quella di realizzare una saldatura tra il Vaticano II e la precedente dottrina, insistendo sulla dimensione pastorale dei documenti conciliari e sulla necessità della conversione interiore più che sulla riforma dottrinale o istituzionale.32 Un esempio noto è la travagliata deliberazione di Paolo VI di non seguire per il problema della procreazione responsabile il parere della maggioranza della commissione di esperti da lui stesso nominata, che contrastava con l’insegnamento tradizionale della Chiesa, a costo di un certo isolamento rispetto ai vari episcopati che pure cercarono di unire la fedeltà alle direttive del Papa con un’interpretazione «elastica» della sua enciclica del 1968 Humanae vitae.33 Si può dire che il pontificato di Paolo VI fin dai primi anni si sia svolto sullo sfondo della «contestazione» anche religiosa e diretta, talora, contro lui stesso da parte di ambienti conservatori ma anche di quelli dei «cattolici del dissenso» o dei «cristiani critici».34 Quando però la contestazione giovanile esplose con il massimo della sua forza Montini fu, tra gli adulti investiti di autorità, uno dei più pronti a individuarne le dimensioni «apparentemente inesplicabili» di «reazione (...) contro il benessere, contro Cfr. GIACOMO MARTINA, La Chiesa in Italia, cit., specie pp. 61-62. Vedi sempre GIACOMO MARTINA, La Chiesa in Italia, cit., pp. 118-119, con la ripresa, in un discorso di Paolo VI del 24 giugno 1970, dell’intervento in Concilio del card. Lercaro sulla “povertà della Chiesa”, vista non solo nel suo aspetto morale (“lo spirito di povertà”), ma anche in quello sociale di «scelta preferenziale per i poveri» di una Chiesa che deve manifestarsi «quale deve essere, non certo una potenza economica, non rivestita di apparenze agiate, non dedita a speculazioni finanziarie, non insensibile ai bisogni delle persone, delle categorie, delle nazioni». 32 Cfr. BORIS ULIANICH, Concilio e Magistero di Paolo VI, «Il Regno Documenti», 1 marzo 1976, pp. 136-140. 33 Cfr. LUIGI SANDRI (a cura), Humanae Vitae e magistero episcopale, Dehoniane, Bologna 1969. 34 Vedi, ad esempio, PIETRO SCOPPOLA, La «nuova cristianità» perduta, cit., pp. 123-124. 30 31
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l’ordine burocratico e tecnologico», e dei più disponibili a coglierne le dimensioni di «autenticità» di «ribellione alle ipocrisie convenzionali», di «insofferenza verso la mediocrità psicologica, morale e spirituale» e verso «l’uniformità impersonale dell’ambiente che la società moderna va formando».35 Se alla base della contestazione, almeno per il nostro Paese, vi era anche una prima consapevolezza delle contraddizioni di un sistema formativo che prometteva promozione culturale e ascesa sociale, mentre era di fatto funzionale all’assorbimento delle tensioni e della sempre più crescente disoccupazione giovanile da «parcheggiare» nella scuola, non mancavano da noi (sia pure in misura minore rispetto, ad esempio, agli USA) atteggiamenti di opposizione al neo-illuminismo scientifico e tecnologico e al produttivismo e consumismo esasperati dei nostri sistemi socio-economici, in nome di una diversa qualità della vita e della partecipazione diretta al potere, di una società senza repressione e senza sfruttamento, dove ognuno si potesse esprimere al massimo delle proprie potenzialità. Ora in queste rivendicazioni, accanto a motivi propri della cultura radical-libertaria, talora confusamente mescolati con forme di neomarxismo, vi erano, con maggiore o minore consapevolezza, motivi della tradizione personalistico-comunitaria cristiana, sia sulla linea politica della «scelta per i poveri» e della polemica contro le strutture clericali conniventi con il potere (linea dominante specie in Italia, Francia e Germania), sia sulla linea antropologica (prevalente in Inghilterra e negli USA) del cambiamento di modi di pensare, di sentire o di vivere piuttosto che degli ordinamenti e delle strutture. Non è un caso che Lettera a una professoressa della scuola di don Milani del 1967 sia stata una delle opere che maggiormente ha influito sul movimento studentesco del ’68 – non solo in Italia – per la pungente denuncia dei conflitti nascosti sotto l’apparente neutralità dell’attività scolastica (selezione classista, omologazione culturale, ecc.), in nome, spesso, dei valori cristiani della responsabilità personale e della solidarietà sociale. Concludo questa mia rievocazione con alcune parole del discorso tenuto dal teologo e arcivescovo di Chieti, Bruno Forte, in occasione della laurea honoris causa, conferitagli il 9 luglio 2012 a Melbourne dall’Australian Catholic University.36 «La riflessione della fede del terzo millennio si giocherà intorno alla martyrìa, alla koinonìa e alla diakonìa vissute dai cristiani [...]. L’alternativa della fede all’astrattezza dell’ideologia sta nella possibilità di spe-
Vedi a questo riguardo il volume di MARIO CUMINETTI, Il dissenso cattolico in Italia. 19651980, Rizzoli, Milano 1983. 36 Cfr. «Avvenire», 10 luglio 2012, p. 24. 35
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rimentare un rapporto personale con la Verità, nutrito di ascolto e dialogo con il Dio vivo. La verità non è qualcosa che si possiede, ma Qualcuno da cui lasciarsi possedere». La via poi della koinonìa «corrisponde alla nostalgia di unità che si affaccia nella “globalizzazione” del pianeta. In particolare in Europa – culla delle divisioni fra i cristiani – la disgregazione seguita al crollo del muro di Berlino e l’emergere violento di regionalismi e nazionalismi sfidano le Chiese a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra loro e al servizio dei loro popoli». Tale via «esprime non solo un’esigenza di ripensamento sulla struttura e vita interna delle Chiese, ma anche un’attenzione alla sfida che il bisogno di unità emergente dalle nuove divisioni pone alle comunità cristiane». Importante è anche, per Forte, il modello della «itineranza apostolica», caratteristico degli ultimi pontificati, specie tenendo presenti i cambiamenti storico-politici in atto, a partire dalla crisi dei Paesi del “socialismo reale”. Sottolinea egli, infine, «la testimonianza evangelica della carità come diakonìa, nell’impegno per la giustizia, la pace, la salvaguardia del creato [...], terzo grande campo di azione per il cristianesimo degli inizi del Terzo Millennio in tutte le sue espressioni confessionali». Con l’enciclica Caritas in veritate del 29 giugno 2009 – chiaramente allusiva alla prima enciclica Deus caritas est del Natale 2005 – Papa Benedetto indicava nella testimonianza del primato della carità «l’attuale forma in cui si presenta la questione sociale», con l’invito rivolto a tutte le Chiese a «far propria la denuncia del sistema di dipendenza che regge i rapporti specie fra il Nord e il Sud», contribuendo a «individuare una via economico-politica che superi la rigidità del collettivismo e dei suoi fallimenti storici e gli egoismi miopi di un capitalismo assolutista e accentratore». Sulla scia anche di questo significativo intervento dell’arcivescovo di Chieti, non resta che riaccogliere il dono del Concilio, raccontarlo alle giovani generazioni, rinnovando tutti l’impegno a riesaminare la realtà odierna della vita delle nostre Chiese e a realizzare sempre più ampiamente e profondamente le istanze conciliari, a partire dalla riscoperta e riappropriazione, anche da parte dei laici, della Parola di Dio, presente e viva nel primo e nel nuovo Testamento.
JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE
OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA
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2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione. Presentazione di J. JOHNSTON, pp. 1194.
3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana. Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI, pp. 480.
4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio. Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO, pp. 862.
5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali, Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO. Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA, pp. 470.
6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA. Introduzione di R. L. GUIDI, pp. 560. CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 461-471
LA SPIRITUALITÀ DEI SECOLARI NEI TRE LIBRI DI S. GIOVANNI CRISOSTOMO IN DIFESA DEL MONACHESIMO DI FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino)
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iovanni Crisostomo (Antiochia di Siria ca 349 - Comana nel Ponto 14 settembre 407) il monachesimo non lo trattò, lo visse; lo pose a culmine della sua formazione spirituale. Dopo un’accurata preparazione letteraria, probabilmente alla scuola del celebre retore Libanio, si perfezionò asceticamente frequentando Melezio, vescovo di Antiochia, Diodoro, più tardi vescovo di Tarso, e Flaviano, futuro successore di Melezio; partecipò quindi al circolo ascetico-esegetico di Diodoro e di Carterio. Aveva così gettato i fondamenti della sua formazione umana e religiosa; si trattava ora di erigere l’edificio; a disegnarne ed a realizzarne la struttura, pose sei anni di austera vita monastica, quattro sotto la direzione di un vecchio monaco e due come eremita in una grotta. La severità penitenziale ne aveva però messo a repentaglio la salute; per questo motivo e per un’intima aspirazione all’impegno pastorale, ritornò ad Antiochia, dove Flaviano, all’inizio del 386, lo ordinò presbitero. In antecedenza, come diacono, aveva composto i tre libri “Contro quelli che combattono coloro che inducono alla vita monastica”, PG 47,319-385. Il suo ambiente psicologico, e quindi il suo interesse, non era il decorso della vita religiosa ma il suo ingresso; alle norme per un cammino ascensionale in essa avrebbero provveduto altri, S. Basilio, Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano, Palladio di Elenopoli, Giovanni Climaco, gli estensori degli Apophtegmata Patrum, delle Vitae Patrum e delle Regole monastiche. Giovanni qui è introduttivo: non come vivere la vita monastica ma perché sceglierla; il nemico non era il cedimento psicologico o la tentazione diabolica, era la reazione emotiva di chi abbandona, o vede abbandonare, il proprio ambiente, nel quale era nato e cresciuto, aveva sviluppato sentimenti e con-
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vinzioni, intrecciato innumerevoli relazioni, assorbito predisposizioni, con una fuga in un’aspra solitudine, che si configurava come acre ripudio, come condanna, come verdetto di un destino di perdizione. Si trattava di lacerare una rete impalpabile e tenacemente avvolgente. Stare o partire era una scelta drammatica; appariva una contrapposizione radicale. Giovanni si propone di disavvelenare l’alternativa con una duplice dichiarazione assiomatica: la vita secolare non è inferiore, per obblighi morali e per garanzia di salvezza, a quella monastica; la vita monastica offre una maggiore sicurezza di riuscita. L’opposizione si pacificava in una gradazione.
1. La vita secolare non è inferiore a quella monastica. Le asserzioni sono occasionalmente disseminate in vari luoghi con diverse angolature specifiche, ma hanno un loro categorico centro di coagulo in III,14, che ne costituisce la magna charta. Giovanni vi pone la proclamazione ufficiale in replica ad un obiettore: «Ti inganni fortemente e sbagli se pensi che sia diverso quello che si richiede ad un secolare e quello che si richiede ad un monaco; la loro diversità sta infatti nello sposarsi o no; riguardo a tutto il resto sono soggetti a rendere il medesimo conto» ed esemplifica richiamando l’identico obbligo della carità verso il prossimo, della continenza sessuale, dell’astensione dal giuramento, della pratica delle beatitudini. Qui la distanza tra secolari e monaci è ignota alla Scrittura «è stata introdotta dalla mente degli uomini». L’uguaglianza delle due categorie viene anche rilevata da una sorta di consacrazione di quella secolare: «Le Scritture vogliono che tutti conducano la vita dei monaci, anche se capita loro di avere la moglie»; identiche sono le imposizioni sul controllo della lingua, sulla soppressione del rancore e sull’obbligo della carità; ne risulta che «Cristo richiede le medesime prestazioni a secolari ed a monaci». Giovanni insiste con vigore sul carattere monastico della moralità secolare: «Quello che ha sconvolto tutto il mondo è proprio che noi crediamo che soltanto il monaco debba attenersi ad una maggiore severità; agli altri invece pensiamo che sia lecito vivere in maniera rilassata; invece non è così, non è così, ma a tutti noi si richiede la medesima austerità di vita». L’identità degli obblighi comporta quella delle punizioni, qualora essi vengano infranti: «Quello che adesso mi interessa di dimostrare, non è che la vita dei monaci si procuri delle punizioni più gravi, ma che anche i secolari sono soggetti alle medesime pene, se commettono i loro medesimi peccati». L’uguaglianza non si riscontra soltanto nelle punizioni, ma anche negli ammonimenti; quando il Signore dice: «Venite a me voi tutti, che siete affaticati ed oppressi ed io vi darò ristoro; prendete su di voi il mio giogo ed imparate da me, che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le
La spiritualità dei secolari nei tre libri di S. Giovanni Crisostomo in difesa del Monachesimo
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vostre anime» (Mt 11,28), non parla soltanto a monaci ma a tutto il genere umano. Quando invece non parla a tutti né promulga una legge per tutti, ce lo rende chiaro; così, quando volle parlare della verginità, aggiunse: «Chi può capire, capisca» (Mt 19,12), non aggiunse «’e ciascuno’ e non lo presentò nella forma di precetto». Giovanni conclude la questione con un sentore di sfida che suona definitivo: «Penso che ormai questo non lo contraddica più nessuno, neppure chi ha una gran voglia di intrecciare dispute, mosso da impudenza».
2. L’opposizione è sovente dovuta ad ignoranza. Giovanni dichiara infatti (III,19) che quando raccontiamo il modo di vivere dei monaci, gli oppositori non hanno nulla da controbattere, sembrano invece lamentare vivamente che siano troppo pochi quelli che vivono così; se invece questa virtù venisse trasportata in città, dicono, il buon ordine riceverebbe una legge; se insegnassimo ai nostri figli ad essere amici di Dio e li istruissimo nelle conoscenze spirituali prima che nelle altre, tutti i motivi di dolore balzerebbero via; la vita presente verrebbe liberata da innumerevoli mali ed attuerebbe quello che si dice della vita futura. I mondani pensano che questo sia impossibile, non ci credono, perché non sono mai entrati in dimestichezza con quelli che stanno nel deserto. Giovanni rileva con facilità la contraddizione che esiste tra il loro auspicio astratto e la loro ostilità effettiva. La coerenza comporta che sia benemerito chi interviene per incrementare questo stato di vita.
3. Merito di quanti incentivano la vita monastica. Giovanni (I,7) nota quanto sia comune la constatazione del disordine morale che imperversa nelle città, ne auspica ovviamente l’eliminazione e si prospetta la situazione ideale nella quale i monasteri non sarebbero più necessari, in quanto si praticherebbe nelle città, con rigore, la retta moralità; osserva però che tutto è ormai sottosopra, che le città sono piene di trasgressioni e di ingiustizie, mentre nella solitudine monastica germogliano abbondanti frutti di nobiltà spirituale e ne deduce la conseguenza pratica: «Voi non avete nessun diritto di incolpare coloro che conducono fuori quelli che vogliono salvarsi da questa tempesta e da questo scompiglio e li guidano al porto della tranquillità». La riflessione personale si anima subito in una scena drammatica che sfocia in un dialogo coinvolgente: «Dimmi, se uno a mezzanotte impugnasse una face ed incendiasse una grande casa nella quale ci sono molte persone, mettendo a repentaglio quelli che dentro dormono, diremo che sia un malvagio colui che sveglia i dormienti e li conduce fuori da quella casa, oppure che malvagio lo sia colui che inizialmen-
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te appiccò il fuoco obbligandoli ad uscire?» Ancora: «Se uno, vedendo una città dominata dalla tirannide, in preda al malessere e perturbata dalle sedizioni, persuadesse quelli che può a correre alle vette dei monti e che li aiutasse in questa salita, chi accuseresti? Colui che ha trasferito gli uomini che si trovavano al centro della tempesta da questo scompiglio a quella tranquillità o colui che ha provocato i naufragi?» Giovanni è persuasivo perché è convinto che è in palio il sommo valore della salvezza. E si pone il terribile quesito:
4. I secolari possono salvarsi? Si fa, e raccoglie, l’obiezione (I,8): «Allora tutti quelli che abitano le città sono bell’e perduti, bisogna abbandonare le città, lasciarle deserte ed abitare le cime dei monti? È questo che tu promulghi come legge?» Giovanni ribatte con impeto: «Alla larga! Questo è proprio il contrario di quello che voglio e faccio voti che noi godiamo di una pace così grande e che venga abolita la tirannide dei mali al punto che, non soltanto quelli che abitano nelle città non abbiano nessuna necessità di raggiungere i monti, ma che anche quelli che abitano le solitudini debbano scendere alle proprie città». La possibilità di salvezza è dunque analoga nei due gruppi. Però i secolari a salvarsi incontrano maggiori difficoltà? Giovanni (III,15) dichiara che qui intende aprire un’inchiesta: «La continenza infatti la pratica più facilmente chi ha la moglie, in quanto usufruisce di un grande lenimento; però anche qui possiamo vedere che sono più numerosi gli sposati che cadono di quanto lo siano i monaci». Se qui avviene così, negli altri settori è ancora più naturale la superiorità dei monaci. Giovanni porta anche sul terreno della cupidigia, nella quale vincerà più agevolmente chi risiede sui monti nei confronti di chi si aggira in mezzo agli interessi terrestri.
5. Esistono vari gradi di salvezza. Tende sempre a riemergere la bruciante questione: ma insomma, chi abita in città ed ha moglie non ha probabilità di salvezza? Giovanni (III,5) non se ne lascia inquietare e risponde con pacata sicurezza: «Certamente non c’è un solo modo di salvezza; ce ne sono molti e diversi». Si prende a fondamento la parola di Cristo, il quale dichiara che nella casa del Padre ci sono molte dimore (Gv 14,2); situazione che viene rincalzata da Paolo: «Altro è lo splendore del sole; altro è lo splendore della luna; altro è lo splendore delle stelle; una stella differisce da un’altra stella nello splendore» (1 Cor 15,41). E Giovanni interpreta: «Alcuni risplenderanno come il sole, altri come la luna, altri come le stelle, ma la diversità non si riferisce a questo; Paolo vuole invece mostrare che tra di loro c’è una grande differenza e così
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grande quanto è ovvio che ci sia in un numero così grande». Per Giovanni questa diversità significa che presso Dio ci sono vari stati di collocazione.
6. Noi siamo responsabili anche della salvezza del prossimo. La salvezza è un valore così assoluto che non ammette disinteresse verso nessuno; carità basilare è impegnarci anche per quella degli altri. «ll giudice ci chiederà conto della nostra salvezza con il medesimo rigore di quella del prossimo» (III,2). Giovanni ritrae con sdegno il cinismo di chi dicesse: «Ma che cosa c’entro io con la cura degli altri? Chi perisce perisca, chi si salva si salvi; non mi riguarda; io sono obbligato a badare ai miei interessi»; lo definisce pensiero belluino e disumano. A saldo fondamento di questo suo disdegno egli si prende la decisione di Gesù, il quale punisce colui che non aveva investito il talento ricevuto, «non perché avesse trascurato qualche cosa di sua proprietà, ma perché non si era curato della salvezza del prossimo; pertanto, anche se noi eseguiamo alla perfezione tutto quello che concerne la nostra vita, non ci guadagniamo nulla, in quanto basta questo peccato ad affondarci nell’abisso della geenna». Giovanni ricorda quindi Paolo (Fil 2,15), il quale chiama i fedeli lampade, mostrando che debbono essere utili anche agli altri, in quanto «una lampada, finché illumina soltanto se stessa, non potrebbe più essere una lampada».
7. Urgenza della missione educativa del padre. Quello dei padri verso i figli è la più sacra forma di amore, prima ancora che promulgata da Dio, imposta dalla natura. «Al di là di tutti i peccati, c’è la trascuratezza dei figli, la quale giunge al culmine della malvagità» (III,3). In una scala a nove gradini di iniquità Giovanni pone all’ottavo il respingere quelli che vogliono educare i ragazzi ed al nono quelli che li combattono. Egli documenta l’estrema gravità dell’abbandonare i giovani agli impulsi sregolati delle passioni, argomentando in ragione del tempo: se nell’Antico Testamento, povero di grazia e di dottrina, Eli fu così duramente punito per la sua fiacca irresolutezza (1 Sam 2,12-17), c’è da immaginarsi la gravità che sarà applicata nel Nuovo. Dio era tanto interessato all’educazione dei figli, che non si limitò a formularne un precetto, ma «inserì nella natura un desiderio così grande, che quasi pose i genitori in una sorta di necessità inevitabile di provvedere a coloro che essi hanno generati» (III,4). Sono i padri che debbono conoscere e spiegare ai figli le azioni e le parole di Dio; se Dio punì Eli per la sua trascuratezza, lodò Abramo per la sua sollecitudine; «Dio non sopporterà con calma che vengano trascurati coloro ai quali tiene tanto». Eppure i genitori sono, non di rado, inadempienti. «E
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di grave (III,7) non c’è soltanto che voi esortate i vostri figli a comportamenti contrari ai precetti di Cristo, c’è anche che rivestite il vizio con denominazioni encomiastiche, chiamando l’assistere continuamente agli ippodromi ed ai teatri raffinatezza, l’essere ricco libertà, l’amore della gloria magnanimità... e poi, come se questo inganno non bastasse, chiamate la virtù con nomi contrari; chiamate rozzezza la sobrietà, timidezza la moderazione... come se aveste paura che i vostri figli fuggano la sozzura». La condanna si fa rammarico accorato: «Come mi si potrà dunque persuadere che i vostri figli si salvino, quando vedo che sono esortati a compiere quelle opere che quelli che le compiono andranno inesorabilmente in rovina?» Giovanni riscontra uno scetticismo sulla necessità di attendere alla formazione intellettuale e morale dei figli (III,9) e dichiara con sdegno: «È proprio questo, questo, che ha rovinato tutto». Osserva che, se uno vedesse il figlio ammalato, si affaccenderebbe in tutti i modi per guarirlo; quando è malata l’anima, dicono che i figli non hanno bisogno di cure ed a conclusione commenta con sprezzante commiserazione «e dopo queste parole hanno ancora il coraggio di chiamarsi padri». Sull’essenza genuina della paternità pronuncia un assioma che ha dell’ammonimento, non senza una venatura di minaccia: «Non è certamente il generare che rende padre» (III,16). Perfetto modello di paternità genuina (III,20) fu il padre di Ezechia, il quale con le sue virtù attirò sul figlio la protezione di Dio (2 Re 19,34), come lo fu Giobbe. Giovanni riporta la testimonianza biblica: «Quando i figli avevano terminato il loro banchetto, egli li mandava a chiamare per purificarli; alzandosi di buon mattino offriva sacrifici per ognuno di loro ed un vitello per il peccato per le loro anime. Giobbe diceva in cuor suo: forse i miei figli nel loro pensiero hanno offeso Dio» (Gb 1,5). Giovanni non commenta; il fatto era in se stesso così eloquente, aveva una voce così immediata che qualsiasi chiosa l’avrebbe sfocata. La tenerezza paterna può però anche ridursi ad un’emotività istintiva, per cui va guidata da ragioni superiori; abbandonata alla cecità dell’impulso, conduce a falsificazioni che sono tanto dolorose quanto immotivate.
8. Strazio di padri alla partenza dei figli. Erano lacerazioni interiori che sorgevano spontanee, per forza di natura; Giovanni stesso le aveva sperimentate nella madre Antusa, pure spiritualmente così fine ed elevata. Non si trattava di negare questa riluttanza o di ignorarla o di respingerla meccanicamente. Per superarla bisognava illuminarla. Giovanni si pone la domanda fondamentale «Come dunque risulterà chiaro e da dove potremo sapere chi sia colui che vede davvero ciò che è utile, chi invece sembra che lo veda, mentre non lo vede per nulla?» (II,2) E
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continua ipotizzando un padre pagano, ricchissimo, potente, ammirato, che alleva un figlio di eccellenti speranze, con prospettive di carriera superiori a quelle stesse del padre e che, in questo ambiente, arrivi uno che gli parla della disciplina ascetica, lo persuada ad abbandonare la città ed a fuggire sul monte, dove eserciterà le rudimentali attività della vita pratica e si estenuerà in un’aspra penitenza. Giovanni immagina che il padre ricorra a tutti gli espedienti per dissuadere il figlio, ma invano; lo sente sfogarsi negli accenti più patetici: «L’ho generato; l’ho allevato; ho tribolato per tutta la vita, tutto facendo e tutto soffrendo... avevo eccellenti speranze, mi sono intrattenuto con gli educatori... ho speso soldi, ho sovente vegliato preoccupandomi del suo decoro... affinché non risultasse inferiore a nessuno dei suoi antenati... mi sono aspettato che egli contribuisse a sostenere la mia vecchiaia... ma all’improvviso, come un colpo di fulmine o una bufera abbattutasi, chissà da dove, sulla nave, che aveva attraversato un ampio mare navigando col vento in poppa, quando si trovava ormai vicina al porto, poco prima della sua imboccatura, l’ha affondata». È un pezzo di intensa eloquenza, che, se non dimentica la scuola, tuttavia la supera nella sua sincerità di disperazione. Se non detto così, furono certamente molti quelli che sentirono così. E Giovanni continua nell’affranto sbalordimento paterno: «I maledetti corruttori, ingannatori, mi hanno rapito colui che sosteneva la mia vecchiaia; a guisa di briganti lo hanno condotto via alle loro dimore e con i loro incantesimi lo hanno ammaliato al punto da preferire di ergersi contro il ferro ed il fuoco... che ritornare al perduto benessere». Con il dolore che arriva allo strazio, brucia anche il risentimento: «Quello che è poi più difficile da sopportare è che, dopo che gli hanno messo in testa queste idee, si arrogano di vedere meglio di noi quello che conviene». E lo sfogo esacerbato continua raffigurandosi il figlio «che è diventato un prigioniero e vive da schiavo, in una schiavitù più amara di ogni morte, presso barbari selvaggi»... «Perdonatemi... ma ormai mi dà fastidio anche la luce». È la tragedia dello strappo immotivato che non ha trovato soluzione; l’anima si tortura dinanzi ad un ‘pervertimento’ senza perché. Si può qui misurare al vivo contro quali resistenze Giovanni si era proposto di combattere in questa sua opera, che gli era imposta dalla realtà dei tempi. In I,3 egli confida che, dinanzi a quelle recriminazioni «che lo lasciavano senza fiato», aveva trovato che l’unico rimedio era di parlare a gente che «dominata dall’ira, piange e geme» discorrendo «nel tono blando e piacevole che usano le madri coi bambini». Era la motivazione di questo libro e l’indicazione della disposizione d’animo dell’autore. In II,3 egli spiega: «Ho espresso fino al culmine tutte le accuse, nell’intento che, dopo avere così rappresentato l’accusatore, quando, con la grazia di Dio, io lo abbia vinto, non vi sia ormai più nulla da dire». Giovanni dichiara che «è davvero meritevo-
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le di compassione quel vecchio che non può vedere il benessere del figlio, ma è tanto lontano dal vederlo, che lo compiange come posto nei mali più gravi». Smonta l’aspra contrapposizione tra legittimo godimento dei beni terreni e rinuncia al loro godimento dimostrando che non c’è rinuncia ma continuità nel progresso. Il monaco gode di quegli stessi beni che sono a disposizione dei secolari, ma ad un grado più pieno e più puro. Le due vite poggiano su una base comune.
9. Identità di doveri. L’identità di doveri costituisce identità di stato e di dignità. Secolari e monaci poggiano su un’identica piattaforma. Hanno base di partenza comune ed uguaglianza di percorso; particolare è soltanto lo stile di marcia. Sotto il punto di vista degli impegni c’è concomitanza; appello al cammino e meta sono comuni. È realtà sovente fraintesa, per cui Giovanni la ribadisce da un capo all’altro della sua opera. Spigolando, oltre a passi già riferiti, troviamo quindi l’esigenza comune che la purezza della fede sia accompagnata da quella della vita (I,6), che si resista alle insinuazioni del demonio (I,7), che si evitino insulti, sguardi impudichi, risentimenti, avarizia (I,8) che ci si attenga alla semplicità del vestito ed al superamento dell’ambizione di potere e della brama della vanagloria (II,6). Valgono poi per tutti i grandi ammonimenti che sono voce di un’esperienza universale: nessuno vuole danneggiare colui che è estraneo agli interessi terreni; chi sta loro al disopra e vola alto come l’aquila non può essere catturato nelle trappole per passerotti (II,7); il cristianesimo raggiunge il suo più alto splendore, non perché sostenuto dal potere politico, ma quando è da esso più duramente combattuto (II,9). Giovanni proclama con un’insofferenza nella quale ferve il dispetto che «è inevitabile che gli avari siano invidiosi, maligni, abbondanti nei giuramenti, temerari, oltraggiosi» (III,6) e, subito dopo, scendendo nell’intimo dinamismo psicologico, mette in guardia che «l’abitudine è una cosa terribile, terribile nel dominare e conquistare l’anima, soprattutto quando abbia a collaboratore il piacere (III,6). Denuncia quanto grande male sia la malvagità, quando si aggiunge la perizia del dire, riporta a modello il Socrate dell’Apologia, il quale promise ai giudici, non discorsi agghindati, ma la verità espressa in semplicità (III,11) e reca la controprova che i santi, i quali non ebbero cultura letteraria, nella virtù raggiunsero la preminenza su coloro che la possedevano (III,12). Dà come principio pedagogico - psicologico che alla virtù bisogna armare il giovane fin dalla prima età, quando è ancora immune da ferite e da abitudini aberranti; è invece stolto aspettare a correggersi nella vecchiaia, esaurendosi allora in sterili ripensamenti, che, del resto, lasciano infruttuosa tutta la vita prece-
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dente (III,18). A conforto di tutte le fatiche e ad antidoto di ogni possibile scoramento sentenzia: «La ricchezza della virtù è tanto grande, tanto più gradevole, tanto più desiderabile di quanto voi pensiate, che quelli che la posseggono non vorrebbero scambiarla con tutta la terra, anche se questa diventasse oro» (II,4). Giovanni rimuove possibili complessi d’inferiorità nei secolari ed eventuali compiacenze orgogliose nei monaci. Riscontra che la grande maggioranza degli uomini vive nelle città e nello stato coniugale, occupandosi nell’amministrazione delle realtà terrestri; sa che questa rientra nel piano creativo di Dio e che pertanto è bene, anche se, oltre, si distendono più alte prospettive. A tutti offre una rassicurazione di fiducia e cerca di comunicarla in un linguaggio vivo, che scuota l’attenzione e penetri nella coscienza. Si propone perciò di non far sentire solo la sua voce, ma di raccogliere anche quella che proviene dagli altri. Apre quindi un dialogo che stringe il rapporto.
10. Le obiezioni Giovanni si protegge dall’uggia della ‘lezione’ con la spontaneità della conversazione; l’obiezione, raccolta dal vero o suggerita ad introduzione di un tema che non andava ignorato, emerge regolare, talora in serie. Ad esemplificazione: in III,16 rileva un’aspirazione naturale: voi, dice, desiderate vedere i figli dei figli; alla constatazione oppone però una replica immediata: «Ma come, se non siete ancora diventati padri [autentici], in quanto dei figli non provvedete alla salute spirituale? Osserva che molti, ammirando la purezza di vita dei monaci, auspicherebbero che essa si trapiantasse nelle città, così si eviterebbero molti guai, lamentano che i monaci siano pochi, ma poi si oppongono alla scelta di vita monastica, col pretesto che sono pochi quelli che vi raggiungono un’alta perfezione» (III,19). Giovanni nota che molti padri spingono i figli all’acquisizione della perizia letteraria, dove il raggiungimento dell’eccellenza è però aleatorio e conta molti fallimenti: «Ma ammettiamo che egli riesca ed arrivi alla vetta», allora perché si trattiene l’aspirante al monachesimo nella paura che possa non riuscire? (III,13) C’era chi, traccheggiando, tentava di cloroformizzare la propria coscienza cercando una composizione in una via di mezzo: non è lecito, chiedono, dedicarsi alla vita spirituale dopo il matrimonio, nella vecchiaia? Giovanni replica, tanto netto quanto pacato: «Per prima cosa, chi ci garantirà che arriveremo all’estrema vecchiaia? In secondo luogo, che, anche se ci arrivassimo, conserveremmo la medesima idea?» (III,17) Talora, come in II,3, questo gioco dialettico si fa scherma serrata. Siccome la brama delle ricchezze è la passione più folle, che può apportare il dolore più grande, stimola: «Dimmi dunque, tu piangi tuo figlio perché si è liberato da una così grave follia, da una malattia disperata... perché sta fuori da que-
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sta guerra?» Tu dirai: «Ma lui non sarebbe stato soggetto a questa passione; non avrebbe amato di possedere di più...». Replica: «Ammettiamo che le cose stiano così e che egli non avrebbe mai desiderato aggiunte a quanto aveva; ma io dimostrerò che nella rinuncia avrebbe goduto di un piacere più grande. Ammettiamo pure che egli non avrebbe desiderato altri gravami, ma è molto meglio non angustiarsi dei gravami già imposti». Ulteriore replica dialettica: «Se si è tutti d’accordo che il non aver bisogno di più di quello che si ha è il massimo bene, allora l’essere superiore al bisogno di quello che si ha costituisce un benessere maggiore». Ripresa: «Ti interrogherò di nuovo: Se ti fosse possibile superare tutti nella ricchezza ed essere esente dai mali che essa comporta, non lo sceglieresti? Se dunque dimostrerò che tuo figlio possiede tutto questo e che adesso si trova in un’abbondanza molto maggiore, cesserai, una buona volta, dal lamentarti e dal piangere così amaramente?». È la sfida conclusiva: più che al conforto di un dolore, arriva alla soppressione del dolore, che viene consolidata da una ritorsione: «Ti dimostrerò che sei tu stesso a subire proprio quello che tu pensi che subisca lui nella sua povertà». Giovanni parla coinvolgendo; si mette sul piano dei suoi interlocutori, che cerca di convincere con ogni prova, ricorrendo ad ogni sussidio; all’autorità centrale delle Scritture affianca quindi le argomentazioni della logica, le dimostrazioni della dialettica, l’immediatezza dell’esperienza, le lezioni della storia. È tanto lontano dal sottovalutare la dignità del laico cristiano che pone a suoi modelli dei laici pagani. È infatti frequentissima in Giovanni, come del resto in moltissimi altri Padri, l’esortazione ad investire le proprie ricchezze in sostegno dei bisognosi; lo danno come atto generoso ed umano in sé, ma sempre richiamano nel povero la presenza di Cristo, come da sua dichiarazione (Mt 25,40) e ricordano il premio promesso. Giovanni qui pone un gesto di magnanima disponibilità per l’altro, quando non era ancora sbocciato questo clima animatore. Il dono era esborso; non aveva contropartita. In II,4 ricorda come, nell’opportunità di salvare Socrate, Critone gli mettesse a disposizione le sue ricchezze e come ad un’uguale offerta fossero pronti Simmia e Cebete. Il gesto era circondato da un corroborante alone di incoraggiamento: in Tessaglia Critone aveva degli ospiti «che ti terranno in gran conto e ti forniranno sicurezza, per cui non ti mancherà nulla». Spira una virile tenerezza che anima la beneficenza. A rincalzo Giovanni rammenta che Platone si accontentava di «una mensa parsimoniosa», che Socrate possedeva un solo vestito «che si metteva addosso in tutte le stagioni dell’anno»; rievoca il disdegno di Diogene dinanzi alle profferte di Alessandro, il rigore morale di Aristide, la povertà di Epaminonda, che «quando fu chiamato all’assemblea, non ci poté andare, perché stava lavando il suo abito e non ne aveva un altro da indossare» (II,5).
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Giovanni, ad ogni svolta del ragionamento, si rassicura riferendo passi biblici, ma non si perita di citare anche Pindaro, il quale afferma che, anche nelle disavventure, «i buoni hanno una speranza alimentatrice, che non permette loro di percepire i mali presenti» (II,10). È significativo che Giovanni concluda la sua opera con un’esortazione ai genitori perché «preparino a Dio dei servitori e dei ministri validi» nella prospettiva di grandi ricompense (III,21). «Facciamo di tutto per lasciare ai figli la ricchezza della pietà religiosa»; su questa base stringe la sintesi del suo messaggio: se è possibile, anche rimanendo nel mondo, «raggiungere almeno l’ultima fila della salvezza, non potremo più sfuggire al castigo, se impediamo quelli che hanno fretta di camminare verso una vita più perfetta». Giovanni si muove lungo un sottile ma preciso filo discriminante: salvare la sicura capacità di salvezza per la vita secolare ed affermare la superiorità di quella monastica; risolve escludendo ogni contrapposizione ed affermando una continuità: c’è differenza di grado non di sostanza. Così agevolava il trapasso, dimostrando l’inconsistenza emotiva di quanti «combattono i promotori della vita monastica».
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 473-488
LA ASOCIACIÓN A LA LUZ DE LA ECLESIOLOGÍA DEL PUEBLO DE DIOS–COMUNIÓN DI EDGAR GENUINO NICODEM Consigliere Generale della Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane
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n los últimos años, el tema de la asociación ha asumido una relevancia cada vez mayor en la vida de los lasallistas, tanto para los Hermanos como para los seglares. Para los Hermanos uno de los elementos más significativos fue la recuperación del voto de asociación como elemento característico de la consagración del Hermano. Para los seglares, la posibilidad de compartir el carisma abre nuevos horizontes para participar de la misión educativa lasallista. El tema de la asociación para el servicio educativo de los pobres ha sido recurrente desde las últimas asambleas de la Región. Fueron innumerables las iniciativas emprendidas por los Distritos, particularmente en el área de la formación. Hay una gran diversidad de experiencias. Vamos desde experiencias consolidadas hasta las más inusitadas formas de resistencia. La hipótesis que vamos plantear es que la concepción de Iglesia, que habitualmente vehiculamos, incide en el modo como comprendemos al seglar y tiene importantes implicaciones en los procesos de asociación desarrollados por los distritos de la Región. Inicialmente vamos a destacar algunos elementos de la Eclesiología del Concilio Vaticano II, sin olvidar desarrollos postconciliares importantes, particularmente el desafío del compartir los carismas con los seglares. A través de la reflexión que vamos a desarrollar, queremos identificar algunas implicaciones para la asociación en los distritos de la Región. La Eclesiología del Vaticano II El Concilio Vaticano II1 cambió profundamente el rostro de la Iglesia. La
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Cfr. NICODEM, EDGAR, La Eclesiología del Vaticano II, www.relal.org.co.
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Iglesia venía de un largo período de conflicto con la modernidad. Quizás el “Syllabus” de Pio IX es la manifestación más inequívoca de esta tensión, particularmente con el mundo de las ciencias y de las ideologías emergentes. Otro elemento importante del contexto son las dos guerras mundiales que han generado destrucción e interrogantes sin precedentes en la historia reciente de la humanidad. Eric Hobsbaum,2 considera el siglo XX como el más sangriento de la historia. El holocausto es la manifestación más hedionda de esta violencia. Un contexto tan difícil, conflictivo y con interrogantes éticos sin precedentes pone en entredicho muchas cuestiones secundarias, con una clara invitación para volver a lo esencial. Si el contexto “ad extra” es fundamental para comprender el Vaticano II, no menos importante es la dinámica interna de la Iglesia. El movimiento bíblico, litúrgico, ecuménico y la vuelta a las fuentes3 requieren un replanteamiento profundo de la identidad y misión de la Iglesia. El nuevo rostro eclesial desarrollado por el Vaticano II puede ser caracterizado por: a) la apertura al mundo; b) el reconocimiento de la autonomía de las realidades terrestres; c) el establecimiento de una nueva relación con las ciencias; d) la vuelta a las fuentes carismáticas y evangélicas; d) el decreto sobre la libertad religiosa; e) el movimiento ecuménico; f) el diálogo interreligioso; g) la renovación de la liturgia; e) la centralidad de la Palabra de Dios; y f) la Eclesiología del Pueblo de Dios. En síntesis, el camino delineado por Juan XXIII es de una Iglesia profundamente renovada e insertada en el mundo para compartir sus alegrías, esperanzas y sufrimientos como signo del Reino de Dios. La Constitución dogmática Lumen Gentium presenta la Eclesiología del Vaticano II. Son ocho capítulos4 que reconfiguran profundamente la identi-
Cfr. IGNAZIO SANNA, L’antropologia Cristiana tra modernità e postmodernità. Queriniana, Brescia 2001, p. 258-267. 3 Cfr. ROUSSEAU, La Constitución en el cuadro de los movimientos renovadores de técnica y pastoral de las últimas décadas, in AA.VV. (Guillermo Baraúna, coordinada por). La Iglesia del Vaticano II, Juan Flores, Barcelona, 1986, p. 126. 4 La Constitución dogmática Lumen Gentium está divida en 8 capítulos: 1º - El misterio de la Iglesia; 2º - El Pueblo de Dios; 3º - De la Constitución Jerárquica de la Iglesia y en particular sobre el Episcopado; 4º - Los laicos; 5º - La vocación universal a la santidad en la Iglesia; 6º Los religiosos; 7º - Índole escatológica de la Iglesia peregrinante y su unión con la Iglesia celestial; y, 8º - La bienaventurada Virgen María, Madre de Dios, en el Misterio de Cristo y de la Iglesia. Es importante destacar el capítulo primero de la Lumen Gentium. La Iglesia, según el capítulo 1º de la Lumen Gentium es obra de la Santísima Trinidad, prefigurada desde el origen del mundo, preparada admirablemente en la historia del pueblo de Israel, constituida en los últimos tiempos, por el Espíritu Santo, y tiene como misión anunciar el Reino de Dios. Es la presencia del amor de Dios en la humanidad. Otro elemento importante a destacar es la relación entre el capítulo segundo y el tercero. Después de haber tratado del Pueblo de Dios, 2
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dad y la misión de la Iglesia. De toda la riqueza de la Lumen Gentium vamos centrar nuestra atención en la Eclesiología del Pueblo de Dios y en la Eclesiología de Comunión. Los demás elementos serán referidos solamente cuando estén relacionados con esas perspectivas eclesiológicas.
Eclesiología del Pueblo de Dios La Eclesiología del Pueblo de Dios ha tenido significativa repercusión en el período inmediatamente posterior al Concilio Vaticano II. La Constitución Lumen Gentium utilizó la noción Pueblo de Dios5 con la riqueza de los elementos del Antiguo y del Nuevo Testamento. Esta noción expresa la elección divina y la alianza de Dios con su pueblo: “Yo seré vuestro Dios y vosotros seréis mi pueblo” (Lev 26, 11-13). Es un pueblo que procede de lo alto, del designio salvífico de Dios. Dios es su principio unificador. Israel es la viña del Señor (Is 5, 1-7). La Eclesiología del Pueblo de Dios destaca la relación entre el pueblo de Israel y la Iglesia –nuevo Pueblo de Dios–. Revela el carácter histórico de la Iglesia, contribuye a superar el individualismo y el sujetivismo, o ayuda a comprender los diversos modos de pertenencia a la Iglesia. La noción de Pueblo de Dios tuvo el mérito indudable de ayudar a los cristianos a madurar una nueva conciencia de su dignidad, identidad y misión eclesial. En el Pueblo de Dios, los cristianos no solamente son destinarios de la misión sino protagonistas. Son sujetos activos configurados por la dinámica del bautismo en la construcción del Reino de Dios. Quizás una de las más innovadoras expresiones de este nuevo dinamismo eclesiológico en América Latina y el Caribe fueron las comunidades eclesiales de base. El texto fundamental de la Eclesiología del Pueblo de Dios en el Nuevo Testamento es 1 Pe 2, 9-10. “Pero ustedes son linaje escogido, real sacerdocio, nación santa, pueblo que pertenece a Dios, para que proclamen las obras maravillosas de aquel que los llamó de las tinieblas a su luz admirable. Ustedes antes ni siquiera eran pueblo, pero ahora son pueblo de Dios; antes no habían recibido misericordia, pero ahora ya la han recibido”. La 1ª Carta de Pedro destaca el origen divino del Pueblo de Dios y su misión de proclamar las maravillas del Señor. Todo es don y gracia de Dios que ha transformado profundamente a su pueblo.
el Concilio presenta la misión de la Jerarquía que es estar al servicio del Pueblo de Dios. De la misma forma son relevantes los capítulos dedicados a los laicos, a la vocación universal a la santidad y a los religiosos. 5 Es interesante observar aquí el uso del genitivo – Pueblo de Dios (Populus Dei).
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Eclesiología de Comunión Es a partir del Sínodo extraordinario de 1985 cuando se empieza a hablar de “Eclesiología de Comunión”. El sínodo extraordinario tenía la tarea de hacer un balance de los veinte años del período posconciliar. A través de la “Eclesiología de Comunión” se querría resumir el conjunto de la eclesiología conciliar en un concepto básico. El Cardenal Ratzinger expresa así esta tentativa: “Me alegró esta nueva forma de centrar la eclesiología y, en la medida de mis posibilidades, también traté de prepararla. Por lo demás, ante todo es preciso reconocer que la palabra comunión no ocupa en el Concilio un lugar central. A pesar de ello, si se entiende correctamente, puede servir de síntesis para los elementos esenciales del concepto cristiano de la eclesiología conciliar”.6 Para comprender mejor esta nueva tentativa es importante situarla en el contexto posconciliar. En el período inmediatamente posterior al Concilio Vaticano II el concepto de Iglesia Pueblo de Dios fue predominante. Con el tiempo fueron apareciendo diversos reduccionismos eclesiológicos, según el Cardenal Ratzinger. El relativismo eclesiológico7 fue considerado una amenaza a la singularidad de la Iglesia, proveniente de concepciones ideológicas incompatibles con la fe cristiana. El Sínodo extraordinario de 1985, al proponer la Eclesiología de Comunión, tenía por objetivo superar el relativismo eclesiológico. Por esto, consideró fundamental insertar y subordinar el discurso sobre la Iglesia al discurso de Dios, proponiendo una eclesiología propiamente teológica. Además de un marco bíblico, la palabra comunión tiene un carácter teológico, cristológico, histórico-salvífico, eclesiológico y sacramental. El discurso sobre la Iglesia es en primer lugar un discurso sobre Dios, y como discurso teológico transciende la realidad misma de la Iglesia para irrumpir en la realidad del Reino de Dios. El Cardenal Ratzinger afirma que “el objetivo intrínseco de la Iglesia, lo que es más esencial a su existencia: se trata de la santidad, de cumplir la voluntad de Dios, de que en el mundo exista espacio para Dios, de que pueda Dios habitar en él y así el mundo se convierta en su reino”.8 La Eclesiología de Comunión recuerda constantemente que en la Iglesia no hay extranjeros, cada uno en cualquier lugar está en su casa, no hay huéspedes.
Cfr. RATZINGER, JOSEPH, Conferencia del Cardenal Joseph Ratzinger sobre la Eclesiología de la “Lumen Gentium” pronunciada en el Congreso Internacional sobre la aplicación del Concilio Vaticano, p. 3, in http://multimedios.org/docs/d001073/. 7 Sobre este punto es importante observar el conflicto de interpretación entre Leonardo Boff y la Congregación de la Doctrina de Fe en relación a las implicaciones del “subsistit” en los textos conciliares. 8 Cfr. RATZINGER, p. 11. 6
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Eclesiología del Pueblo de Dios–Comunión La Eclesiología del Pueblo de Dios y la Eclesiología de Comunión son representativas de la Eclesiología del Concilio Vaticano II. A la Eclesiología del Pueblo de Dios está dedicado el según capítulo de la Lumen Gentium. La Eclesiología de Comunión es una relectura de la Lumen Gentium que empieza a difundirse a partir del Sínodo Extraordinario de 1985. En gran parte la Eclesiología de Comunión es una reacción a los reduccionismos eclesiológicos identificados en algunas lecturas de la Eclesiología del Pueblo de Dios. La Lumen Gentium no habla explícitamente de Eclesiología de Comunión, pero los elementos teológicos de esta perspectiva eclesiológica están claramente presentes en esta Constitución dogmática del Concilio Vaticano II. El Cardenal Ratzinger reconoce que “ninguna palabra está exenta de malentendidos, ni siquiera la mejor o la más profunda”.9 Lo que había pasado con la Eclesiología del Pueblo de Dios también pasó con la Eclesiología de Comunión. Con el tiempo se transformó en un eslogan fácil y fue perdiendo su densidad teológica. Más que hacer contraposiciones inútiles entre Eclesiología del Pueblo de Dios y Eclesiología de Comunión puede ser interesante hablar de Eclesiología del Pueblo de Dios-Comunión. Para evitar lecturas reduccionistas será fundamental volver a la Lumen Gentium considerando su perspectiva bíblica y teológica, sin olvidar que la Iglesia como Misterio de la Trinidad está al servicio del Reino de Dios. La Constitución dogmática Lumen Gentium nos recuerda que la Iglesia es Misterio de Dios y está al servicio del Reino de Dios. Para Ignacio de Ellacuría “la Iglesia realiza su sacramentalidad histórico-salvífica anunciando y realizando el Reino de Dios en la historia. Así se comprende Eclesiología del Pueblo Eclesiología del Pueblo –digámoslo una vez más– que la Iglesia no es en absoluto un fin en sí misma, sino que toda ella está para cumplir el objetivo por el cual se fundó: el servicio al Reino de Dios. Es evidente que una Iglesia que está centrada en sí misma no será jamás sacramento de salvación. En todo caso, será un poder histórico más”.10 Según Ellacuría, la Iglesia es esencial a la fe cristiana en la medida en que está al servicio del Reino de Dios. Como presencia de Dios realiza su sacramentalidad histórico-salvífica anunciando y realizando el Reino en la historia. Tanto la noción de Eclesiología del Pueblo de Dios como la noción de
Cfr. RATZINGER, p. 4. Cfr. BENÍTEZ, JOSÉ ANTONIO, El legado eclesiológico de Ignacio Ellacuría, p. 4, in. http://www.servicioskoinonia.org/relat/198.htm. 9
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Reino de Dios revelan la historicidad de la relación de Dios con el hombre y del hombre con Dios. En la medida en que está al servicio del Reino de Dios, la Iglesia nunca se constituye en absoluto. Una Iglesia centrada sobre sí misma pierde su carácter histórico-salvífico y probablemente no pasará de ser un poder político o económico más. El institucionalismo y el secularismo son amenazas constantes a la vida de la Iglesia. Tanto el primero como el segundo, la hacen perder su horizonte específico: el Reino de Dios. El riesgo es transformarse en una estructura que se rige por criterios mundanos perdiendo su eficacia evangélica. Sin una referencia constante al Reino de Dios es imposible evitar este peligro. El Reino de Dios propone valores y principios innegociables. Para ser un signo creíble para el mundo de hoy la Iglesia necesita indudablemente pautar su praxis por los valores y principios del Reino de Dios.
Los carismas según el Concilio Vaticano II El Concilio Vaticano II ha definido el contenido semántico y las fronteras que separan los carismas de los oficios y ministerios.11 Ha afirmado el carácter constitutivo tanto los carismas cuanto de los ministerios en la Iglesia. Ambos son dones que no se excluyen recíprocamente sino que se enriquecen y se complementan. Según los textos conciliares todos los cristianos son portadores de carismas. Durante el Concilio Vaticano II había dos tesis antagónicas sobre el uso del lexema carisma. Una del Cardenal Suenens que afirmaba el carácter constitutivo de los carismas en la vida de la Iglesia. Y otra del Cardenal Ruffini que rechazaba la idea de que todo cristiano pudiese ser portador de carismas, ya que los carismas serían manifestaciones excepcionales del poder de Dios, concedidas solo a personas santas y en situaciones muy particulares. El Concilio, al optar por la tesis del Cardenal Suenens, rompe decididamente con el uso restringido del lexema carisma y con esto abre nuevos horizontes para la vida de la Iglesia.
Los carismas según San Pablo Pablo no hace del lexema carisma un uso técnico en el sentido actual, sino que lo coloca en un horizonte semántico abierto tanto a nivel teológico
11 Tanto al hablar de la noción de carismas según el Concilio Vaticano II como de los carismas según San Pablo estamos utilizando el excelente trabajo de Álvarez Verdes sobre la ética paulina. Cfr. Álvarez Verdes, Lorenzo, C.Ss.R., Caminar en el Espíritu – El pensamiento ético de S. Pablo, EDELCAF, Roma, 2000, 544p.
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como existencial.12 Los carismas, según San Pablo, están en función de la comunidad. La novedad paulina consiste en insertar el tema de los carismas en el discurso sobre el cuerpo de Cristo.13 La imagen del cuerpo, referida a Cristo, por Pablo, tiene un carácter antropológico, sacramental y ético. La dimensión sacramental aplicada a la imagen del cuerpo de Cristo pone en destaque la inserción vertical en Cristo a través del bautismo (dinamismo vertical) y el dinamismo horizontal del servicio mutuo que estructura y edifica la comunidad. Pablo introduce el discurso de los carismas con el tema del ágape. El ágape es la plataforma vital de la cual deben brotar y sobre la cual deben actuar siempre los carismas. Sin el amor los carismas se inflan. El ágape edifica con su dinamismo vertical y horizontal. Los carismas son siempre carismas de Dios, plasmaciones de su gracia. Pablo contempla los carismas a partir del dinamismo trinitario, donde Dios Padre es la fuente última, que ha constituido a Cristo resucitado fuente inmediata de la gracia, y el Espíritu, que es el Espíritu de Cristo resucitado, es el administrador de todo ese dinamismo. Según Álvarez Verdes,14 la visión de los carismas como fruto de la gracia redentora al servicio del cuerpo de Cristo está destinada a abrir nuevos y fecundos horizontes en la vida de la Iglesia. Esto lo podemos reconocer tanto en La Salle, aun sin utilizar el lexema carisma, como en teología actual cuando habla del compartir los carismas, donde la dimensión de comunión emerge con inusitada fuerza dinámica.
Los carismas según La Salle En repetidas ocasiones, según Michel Sauvage y Miguel Campos, el Fundador “utiliza la enseñanza de san Pablo sobre los carismas”.15 Es interesante notar que en la Teología del siglo XVII y XVIII no se utilizaba el lexema carisma. Esto no impide que La Salle proponga una rica enseñanza sobre los carismas según San Pablo, utilizando los lexemas “don” o “gracia”. La vocación del Hermano, según La Salle, es un don de Dios. En las Meditaciones para el Tiempo del Retiro, el Fundador afirma textualmente: “No deben dudar de que la gracia que les ha concedido al encargarlos de la instrucción de los niños, anunciarles el Evangelio y educarles en el espíritu de la Religión,
Cfr. ÁLVAREZ VERDES, p. 544. Cfr. Rom 12,4ss y 1Cor 12,7-11. 14 Cfr. ÁLVAREZ VERDES, p. 311. 15 Cfr. SAUVAGE MICHEL Y CAMPOS, MIGUEL CAMPOS, Anunciar el Evangelio a los Pobres, Editorial Bruño, Lima – Perú, 1980, p. 61. 12 13
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es un gran don de Dios”.16 Es por gracia por lo que los Hermanos participan del ministerio de los Santos Apóstoles y de los principales Obispos y Pastores de la Iglesia. Por obra y gracia de Dios son llamados para una misión y participan del designio salvífico de Dios a través de su ministerio. Considerando la vocación del Hermano, en una perspectiva trinitaria, el Santo Fundador afirma que es el Espíritu quien lo introduce en el Misterio del amor de Dios, le hace percibir las necesidades más urgentes de los hijos de los artesanos y de los pobres, lo envía a hacer historia con ellos a través del ministerio apostólico de la educación y a asumir la dinámica exodal, lo gratifica de dones para ejercer con eficiencia y eficacia su misión, y le posibilita descubrir nuevos caminos para educar y evangelizar a los pobres. En medio de todas las limitaciones y dificultades, el Hermano es llamado a vivir el espíritu evangélico con esperanza porque su vocación es don y gracia de Dios. La consagración no es nada más que una respuesta a la deferencia gratuita de Dios. Por esto el Hermano, según el Santo Fundador, puede decir “envía tu Espíritu Santo para darnos nueva vida, y renovarás la faz de la tierra“.17
Compartir el Carisma Cuando presentábamos la perspectiva paulina sobre los carismas afirmábamos que ella estaba destinada a abrir nuevos y proficuos caminos en la vida de la Iglesia. Esta realidad la podemos reconocer actualmente tanto en la teología como en los movimientos de las congregaciones religiosas con los seglares. A partir de la Eclesiología del Pueblo de Dios–Comunión emerge la conciencia cada vez más clara de que “los carismas de los fundadores y de las fundadoras, habiendo surgido para el bien de todos, deben ser de nuevo puestos en el centro de la misma Iglesia, abiertos a la comunión y a la participación de todos los miembros del Pueblo de Dios”.18 Según San Pablo, los carismas están al servicio del Cuerpo de Cristo. Este nuevo dinamismo posibilita encontrar alternativas de comunión y participación hasta hace bien poco tiempo impensables. Un elemento fundamental aquí es la unidad en la diversidad. Miembros del único Pueblo de Dios colocan sus carismas al servicio de la comunidad a partir de sus identidades específicas. En la misma perspectiva del documento Caminar desde Cristo podemos Cfr. LA SALLE, Meditaciones para el Tiempo del Retiro, 201, 2. Cfr. LA SALLE, SAN JUAN BAUTISTA DE, Meditaciones para Domingos y Fiestas, 42,3. 18 Cfr. Caminar desde Cristo, n. 31, in www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccscrlife/docu. 16 17
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situar Vita Consecrata. No es raro, afirma la Exhortación Apostólica, “que la participación de los laicos lleve a descubrir inesperadas y fecundas implicaciones de algunos aspectos del carisma, suscitando una interpretación más espiritual, e impulsando a encontrar válidas indicaciones para nuevos dinamismos apostólicos”.19 Los nuevos caminos abiertos por la Eclesiología del Pueblo de Dios–Comunión son una gran oportunidad para configurar el nuevo rostro de la Iglesia, donde Religiosos y laicos, a partir de su identidad específica, se comprometen a trabajar según los principios y valores del Reino de Dios. El contexto actual, profundamente transformado por los cambios culturales, exige nuevos dinamismos apostólicos. Parece evidente que las estructuras tradicionales de la Iglesia y de las Congregaciones Religiosas requieren transformaciones profundas para que sean efectivas en el anuncio del Reino. Seguidamente hablamos de nuevas pobrezas y tampoco podemos olvidar las pobrezas históricas. La inequidad social sigue siendo un flagelo que afecta a la mayor parte de los continentes y particularmente a América Latina y el Caribe. Necesitamos, y urgentemente, de nuevas estructuras de animación para responder a las nuevas realidades educativas y evangelizadoras.
Implicaciones de la Eclesiología del Pueblo de Dios-Comunión para la Asociación Vino nuevo en odres nuevos La Asamblea Internacional de 2006, en las Orientaciones Fundamentales y Áreas prioritarias, convocó a los Hermanos y seglares a buscar nuevas respuestas a las nuevas realidades. Hace 50 años el Concilio Vaticano II invitaba a la Iglesia a descubrir en los signos de los tiempos la presencia viva y vivificadora del Dios de Jesucristo. Tanto la Iglesia como el Instituto convocan a los lasallistas a poner vino nuevo en odres nuevos. El contexto latinoamericano y caribeño está en rápidas y profundas transformaciones. Hay avances, pero persisten cuestiones de fondo que tocan directamente grandes contingentes de la población. Continuamos siendo el continente de mayor desigualdad social y somos conocedores del impacto de la inequidad social en el desarrollo humano sostenible y en la educación. Aun con el significativo avance en cobertura escolar, el acceso a las nuevas tecnologías y a una educación de calidad sigue siendo un desafío para la mayoría de los países de la región. El carisma lasallista no está exento del peligro del institucionalismo y del
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Cfr. Vita Consecrata n. 55, in www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/apost_exhortatio.
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secularismo. Tanto el uno como el otro le hacen perder la referencia vinculante al dinamismo del Reino de Dios. La apertura a las fuerzas instituyentes es fundamental para la eficacia evangélica. La posibilidad de compartir el carisma ofrece nuevos horizontes para la presencia en el continente. Es una importante fuerza instituyente que necesitamos considerar para responder con fidelidad creativa a las urgencias educativas y evangelizadoras de la región.
Los pobres como “lugar teológico” Según Ignacio Ellacuría, los pobres son el lugar privilegiado de encuentro con Jesús. En la apertura de la V Conferencia del Episcopado Latinoamericano en Aparecida, el Papa Benedicto XVI20 afirmaba que la opción preferencial por los pobres está implícito en la fe cristológica de aquel Dios que se hizo pobre por nosotros para enriquecernos con su pobreza. Los pobres fueron el lugar teológico por antonomasia del Santo Fundador y de los primeros Hermanos. La asociación expresa bien esta opción: asociados para el servicio educativo de los pobres. Al leer la realidad con los ojos de la fe, el Fundador y los primeros Hermanos han reconocido en el rostro de “los hijos de los artesanos y de los pobres” una necesidad del Reino de Dios. Reconocer a los pobres como “lugar teológico” significa considerarlos no solamente como destinatarios privilegiados, sino también como protagonistas o sujetos del proceso educativo y evangelizador. Entre otros aspectos, esto significa privilegiar los procesos participativos que favorecen la formación de la ciudadanía y de cristianos comprometidos con los valores evangélicos. Además de los elementos estrictamente académicos o técnicos, formar las nuevas generaciones, significa priorizar los valores evangélicos de fe, justicia, fraternidad, servicio y solidaridad. Son fundamentales para configurar nuevos horizontes de ser lasallista y participar con otros movimientos sociales y políticos en la transformación de la realidad. Tradicionalmente la educación fue considerado un servicio prestado por los gobiernos, Iglesia y hasta grupos privados. Hoy los organismos regionales e internacionales consideran la educación como un derecho fundamental de la persona. Desde nuestros orígenes hemos estado comprometidos en tornar la educación accesible a los pobres. Esta es quizás una de las páginas más bellas de la historia del Instituto. El documento de Aparecida nos recuerda que una educación de calidad es un derecho de todos los pueblos.
20 Cfr. Discurso Inaugural de Su Santidad Benedicto XVI, in Documento conclusivo de la V Conferencia General del Episcopado Latinoamericano y del Caribe, Centro de Publicaciones del CELAM, Bogotá, 2007, p. 259.
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Como lasallistas, somos llamados a sumar fuerzas con los movimientos sociales y de Iglesia para que este derecho se convierta en una praxis común y corriente de nuestros pueblos.
Nuevos dinamismos apostólicos La Iglesia se encuentra actualmente en un momento histórico peculiar. Muchos de los dinamismos renovadores del Concilio Vaticano II fueron perdiendo su fuerza transformadora. Inmersa en contradicciones internas y fuertes cuestionamientos externos el escenario no parece ser el más alentador. Pero, mirando esta realidad con los ojos de la fe, podemos considerarla también como una gran oportunidad para la renovación de la Iglesia. Semejante al período de Concilio Vaticano II la Iglesia necesita una gran renovación interna y conectarse otra vez con las grandes cuestiones hodiernas. Para esto, será fundamental recuperar el espíritu de apertura evangélica de Juan XXIII. En el tiempo del Santo Fundador la Iglesia pasaba por un momento extremamente difícil dilapidada por contradicciones y tensiones internas. Fue en este contexto en el que el Santo Fundador y los primeros Hermanos construyeron en la Iglesia una nueva familia religiosa. Impresionado por la situación de abandono de los “hijos de los artesanos y de los pobres”, Juan Bautista de La Salle descubrió, a la luz de fe, la misión del Instituto (Regla 11). Con los primeros Hermanos el Fundador logró construir una alternativa consistente de educación y evangelización. Hoy vivimos en un contexto cultural y social profundamente cambiado. Por un lado, persiste una enorme desigualdad social en la mayoría de los países de la región. Por otro, las nuevas tecnologías van cambiando el panorama educativo con gran velocidad. Las exigencias de calidad educativa son cada vez más imperiosas. Un gran desafío será atender las víctimas de la inequidad social y con calidad educativa. Incluso el tradicional panorama religioso del continente está cambiando rápidamente. Mientras disminuye el porcentual de católicos, vemos la multiplicación de otros grupos religiosos y el emerger de las religiones de los pueblos originarios. Hoy hablase de la emergencia del paradigma post-religional. ¿En este nuevo contexto religioso qué significa proclamar la buena nueva del Evangelio de Jesucristo?
Una experiencia mística y profética En las Reglas comunes de 1718, el Fundador con los primeros Hermanos afirma que “lo más importante, y a lo que debe atenderse con mayor cuidado en una Comunidad, es que todos los que la componen tengan el espíritu (Fe y Celo) que les
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es peculiar… Porque este espíritu es el que debe animar todas sus obras y ser el móvil de toda su conducta”. Es fundamental que es espíritu del Instituto se traduzca en una experiencia mística y profética. La CLAR (Confederación Latinoamericana de Religiosos) propone la mística y la profecía como uno de los elementos identificadores de la Vida Religiosa del continente. Entendemos que esta perspectiva, profundamente evangélica, es para todos los cristianos. Sin mística la profecía corre el riesgo de reducirse a una opción ideológica, y sin la profecía la mística corre el riesgo de transformarse en un espiritualismo vacío. Si los pobres son el lugar teológico por excelencia de la región necesitamos articular de forma coherente mística y profecía para ser evangélicamente significativos. Sin la experiencia mística y profecía la asociación pierde el horizonte del Reino de Dios y su eficacia evangélica. La mística es fundamental para configurar el sentido de ser lasallista. Y la dimensión profética nos recuerda que existen valores evangélicos innegociables que deben ser transformados en compromisos vinculantes con el proyecto del Reino de Dios.
Itinerario Formativo de los Lasallistas Si queremos avanzar en el proceso de asociación en la Región será fundamental diseñar Itinerarios Formativos que nos hagan superar la linealidad de los proyectos actuales. Los Itinerarios Formativos son una apuesta fundamental de la Conferencia de Aparecida para la formación de discípulos y misioneros de Jesucristo. Necesitamos de itinerarios, por un lado flexibles, por otro, que respeten la identidad específica de la vocación de cada lasallista. Trayectorias formativas que contemplen más y mejor la diversidad, integralidad, progresividad y complejidad de la persona humana. Experiencias que sean progresivas, integradoras, desafiadoras y acompañadas. Para evitar que Hermanos y seglares caminen en direcciones opuestas o a velocidades distintas será importante organizar experiencias formativas conjuntas.
Una actuación en red El contexto actual exige una nueva forma de actuar. Tradicionalmente hemos sido identificados por nuestras comunidades y distritos. Hemos privilegiado el local sobre lo regional e internacional. Hoy las políticas de desarrollo y de educación son regionales o internacionales. Sin duda tenemos muchas y excelentes prácticas educativas y evangelizadoras a nivel local. Sin descalificarlas, tenemos que preguntarnos sobre el impacto de nuestra acción educativa y evangelizadora en la sociedad y en la Iglesia más allá de
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las fronteras de nuestro distrito o país. El trabajo en red sigue siendo un gran desafío. Un mundo cada vez más globalizado exige mirar hacia horizontes más amplios y actuar en red. Además del mundo lasallista, necesitamos establecer sinergias y estrategias con los organismos de la Iglesia y de la sociedad que comparten con nosotros los mismos valores y proyectos. Hay un enorme potencial a descubrir y desarrollar. No se trata de quitar las autonomías locales sino articularlas con horizontes más amplios.
Estructuras de la Misión Educativa La Asamblea Internacional 2006 ha propuesto una revisión general de las estructuras de la Misión y de la Asociación lasallista. Hemos avanzado significativamente en la Región en las estructuras de misión. Hoy las Asambleas y los Consejos de Misión Educativa son una realidad tanto a nivel regional cuanto distrital. Son nuevos espacios para compartir la misión y juntos definir el rostro de la Misión Educativa en la Región y en los Distritos. El desafío para los próximos años será consolidar las estructuras de la Misión Educativa. Esto significa, entre otras cosas, hacerlas más representativas (Hermanos y seglares) y definir mejor sus funciones y relaciones con los demás organismos de animación distritales y regionales. A través del Consejo Regional de la MEL, podemos desarrollar mayor sinergia con los distritos propiciando mayor unidad en la diversidad.
El futuro del carisma Hoy la responsabilidad por el futuro del carisma es de todos los lasallistas. Según la Eclesiología del Pueblo de Dios–Comunión todos somos llamados a ser protagonistas en la Iglesia. Mutatis mutandis, podemos afirmar lo mismo en relación con el tema de la asociación. Ya es hora de abandonar tradicionales formas de paternalismo. En determinados casos, esto significa para los Hermanos reconfigurar modos de pensar y de actuar con relación a los seglares. Y para los seglares puede significar pasar de una actitud pasiva para asumir decididamente el protagonismo en la construcción de la asociación. Ser corazón, memoria y garantía del carisma es actualmente tarea de todos los integrantes de la Familia Lasallista. Las experiencias de asociación en la Región son muy diversificadas. En primer lugar es importante reconocer la riqueza de esta diversidad. Esto nos posibilita aprender con las buenas prácticas. Por otro lado, hay que reconocer e identificar las resistencias, muchas veces ligadas a cuestiones de género y poder. La Eclesiología del Pueblo de Dios-Comunión propone un nuevo modo de ser Iglesia que incide en el modo de vivir la asociación. Compartir
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el carisma significa asumir la mística, la misión y participar activamente en las nuevas estructuras de animación de la misión educativa.
Conclusión Al finalizar estas reflexiones, les invito a mirar hacia el futuro con esperanza y confianza en el Señor que conduce todas las cosas con suavidad y sabiduría. Si analizamos el escenario actual, fácilmente lo podemos caracterizar como extremamente negativo. Pero si lo miramos con los ojos de la fe, según nuestra tradición espiritual, podemos reconocer muchos espacios donde el carisma lasallista sigue siendo una valiosa oportunidad para los niños, jóvenes y adultos que el Señor pone en nuestras vidas. El mundo de los pobres: Desde la Conferencia de Medellín los pobres están en el centro de las preocupaciones de la Iglesia latinoamericana. Son el “lugar teológico” por excelencia de la Teología y de la Vida Religiosa del continente. También fueron el “lugar teológico” del Instituto naciente. Continuamos siendo el continente de la mayor desigualdad social. Somos llamados, como lasallistas, a reconocer en el rostro de los pobres el criterio fundamental para nuestra fidelidad al Evangelio del Reino de Dios. Los nuevos dinamismos apostólicos: En fidelidad a nuestro “lugar teológico” por excelencia somos llamados a desarrollar nuevos dinamismos apostólicos. Los cambios culturales que estamos viviendo nos deben impulsar a descubrir inesperadas y fecundas implicaciones del carisma lasallista. El compartir del carisma: La Iglesia nos recuerda que los carismas, habiendo surgido para el bien de todos, deben estar abiertos a la comunión y a la participación de todos los miembros del Pueblo de Dios. Compartir la espiritualidad, itinerarios formativos, misión y la animación de las obras abre nuevos horizontes para el carisma lasallista en nuestro continente. Eclesiología del Pueblo de Dios–Comunión: La Eclesiología del Concilio Vaticano II establece un nuevo modo ser Iglesia. Ya no es más una Iglesia como sociedad perfecta, sino una Iglesia como misterio de la Santísima Trinidad al servicio del Reino de Dios, donde todos son llamados a ser protagonistas a partir de la especificidad de su vocación. La Asociación y Familia Lasallista es una forma de ser Iglesia Pueblo de Dios-Comunión. Será importante reconocer la dignidad, identidad y misión de cada lasallista en la reconfiguración del carisma.
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L’ASSOCIAZIONE ALLA LUCE DELLA CHIESA “POPOLO DI DIO-COMUNIONE”1 (Sintesi) Negli ultimi anni, il tema dell’Associazione ha acquistato maggiore rilievo nel mondo lasalliano: per i Fratelli, lo si può constatare dal recupero del “voto di associazione” come elemento caratteristico della consacrazione religiosa; per i laici, la possibilità di condividere il carisma ha aperto nuovi orizzonti sull’essere lasalliano in un nuovo contesto ecclesiale. L’Associazione costituisce, allo stesso tempo, una grande opportunità ed un grande stimolo per la Famiglia Lasalliana. Nella nostra riflessione vogliamo presentare la tesi che il concetto di Chiesa abitualmente utilizzato, incide sul modo di comprendere l’Associazione con le inevitabili conseguenze pratiche a livello personale, comunitario ed istituzionale. Nel nostro percorso di riflessione cerchiamo di riprendere la ricchezza teologica della ecclesiologia del Vaticano II, senza dimenticare il contributo di San Paolo e del Santo Fondatore sul tema dei carismi. Tutto questo con lo scopo di vedere come mettere “vino nuovo in otri nuovi” e scoprire i dinamismi apostolici che la situazione attuale richiede. Il Concilio Vaticano II ha cambiato profondamente il volto della Chiesa. Il ritorno alle fonti evangeliche ha reso possibile la riedificazione dell’identità e della missione della Chiesa. La Chiesa, secondo il Vaticano II, è sacramento storico-salvifico al servizio del Regno di Dio. Tra le numerose immagini e concezioni che il Concilio utilizza per presentare il mistero della Chiesa, mettiamo in particolare evidenza quelle di “Chiesa Popolo di Dio” e di “Chiesa-Comunione”. Il concetto di “Chiesa-Popolo di Dio” sottolinea la relazione tra il popolo di Israele e la Chiesa-nuovo Popolo di Dio. Rivela il carattere storico della Chiesa. Riconosce la dignità, l’identità e la missione ecclesiale dei suoi membri e li convoca tutti ad essere protagonisti nella costruzione del Regno di Dio. La nozione di Ecclesiologia di Comunione rivela il carattere, cristologico, storico-salvifico, ecclesiologico e sacramentale della Chiesa. Ricorda costantemente che nella Chiesa non ci sono stranieri né ospiti, ma che tutti sono membri del Popolo di Dio. Non volendo tralasciare le difficoltà dei dibattiti in seno alla Chiesa posteriori al Vaticano II, possiamo affermare che i due concetti possono facilmente ricondurci alla Costituzione conciliare Lumen gentium e sono complementari. Il Concilio Vaticano II ha definito il carattere costitutivo dei carismi e dei ministeri nella Chiesa, affermando che si completano e si arricchiscono reciprocamente. Nel confronto fra le varie tesi durante il Concilio prevalse quella del Cardinale Léon-Joseph Suenens che riconosce il carattere costitutivo
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Traduzione dalla lingua spagnola di Giovanni Decina.
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dei carismi nella Chiesa. Con questo si aprirono nuovi orizzonti alla partecipazione dei cristiani secondo la propria specificità. In San Paolo i carismi sono al servizio della comunità. Per chiarire questo pensiero l’Apostolo dei gentili si avvale del discorso sul “Corpo di Cristo” che ha un carattere antropologico, sacramentale ed etico. Inserito in Cristo con il Battesimo (dinamismo verticale) il cristiano mette i suoi doni al servizio della comunità (dinamismo orizzontale). In San Paolo, l’amore è la base indispensabile per i carismi. Senza di esso i carismi si dilatano e perdono il loro significato ecclesiale. L’amore edifica con il suo dinamismo verticale ed orizzontale. Secondo Álvarez Verdes, l’accezione paolina dei carismi è destinata ad aprire nuovi e fecondi orizzonti nella vita della Chiesa. S. Giovanni Battista de La Salle, in conformità con la teologia del suo tempo, non utilizza il termine carisma. Per parlare del tema ricorre alle espressioni paoline di “dono” e “grazia”. La vocazione del Fratello delle Scuole Cristiane, secondo La Salle, è dono di Dio. Egli afferma, nelle Meditazioni per il Tempo del Ritiro, che i Fratelli sono chiamati a partecipare al disegno salvifico di Dio attraverso il loro ministero. Consacrati al Dio Uno e Trino sono introdotti nel mistero dell’amore di Dio che fa loro scoprire le necessità dei figli degli artigiani e dei poveri ed agisce attraverso loro. Per cui sarà indispensabile far proprio il percorso esodale per poter vivere con fedeltà creativa lo spirito evangelico. Uno dei temi ricorrenti nei documenti ecclesiali degli ultimi decenni è quello della “condivisione dei carismi”. La maggior parte dei documenti del magistero riflettono una realtà viva e dinamica che cerca di trasfigurare il volto delle Congregazioni Religiose. In sintonia con l’ecclesiologia “Popolo di Dio-Comunione”, i carismi, nati per il bene di tutti, sono posti ancora una volta al centro della Chiesa stessa, aperti alla comunione ed alla partecipazione di tutti i membri del Popolo di Dio. Questo nuovo orizzonte carismatico è una risposta dello Spirito ai cambiamenti culturali ed ecclesiali che richiedono nuovi dinamismi apostolici. Avvicinare il tema dell’Associazione lasalliana in chiave di ecclesiologia “Popolo di Dio-Comunione” significa porre “vino nuovo in otri nuovi”. Sarà necessario pertanto non dimenticare che i poveri sono il luogo teologico per eccellenza, che bisogna generare nuovi dinamismi apostolici, approfondire l’esperienza mistica e profetica, costruire piani di formazione per realizzare nuovi itinerari formativi, lavorando in rete e adeguando strutture di impegno sempre più partecipative ed aggreganti. Il Signore che guida tutte le cose con calma e sapienza ci offre la grande opportunità di vivere con fedeltà creativa il carisma come una forma privilegiata di essere Chiesa e di partecipare alla costruzione del Regno di Dio. Nella Chiesa “Popolo di Dio-Comunione” tutti sono chiamati ad essere protagonisti. Nel riconoscere che il carisma lasalliano è stato posto ancora una volta al centro della Chiesa, aperto alla comunione ed alla partecipazione di tutti, siamo chiamati a scoprire provvidenziali e fecondi sviluppi del carisma, atti a stimolare nuovi dinamismi apostolici.
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 489-499
PROPOSTE
FARE UN TEMA SIGNIFICA RISOLVERE UN PROBLEMA DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali DI
«Per noi prima virtù sia la chiarezza, la proprietà dei termini, il giusto ordine, il periodare non troppo lungo, dove nulla manchi e nulla sia superfluo: così il discorso sarà accettabile per le persone colte e accessibile a quelle che non lo sono. Queste sono le norme stilistiche da seguire» Marco Fabio Quintiliano «Uno scrittore scrupoloso, per ogni frase che scriva, dovrebbe porsi almeno quattro domande di questo tenore: che cosa sto cercando di dire? Quali parole potranno esprimere meglio il mio pensiero? Quale immagine o frase idiomatica potrà renderlo più chiaro? È questa immagine tanto viva da avere un qualche effetto? [...] Scrivo perchè c’è qualche menzogna che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio richiamare l’attenzione» George Orwell
1. Perché l’eliminazione del “tema argomentativo” equivale ad un furto formativo
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i sono ragazzi che, al termine della Scuola Media Superiore, non sanno scrivere neppure una lettera. E non sono pochi i laureandi per i quali la stesura della tesi rappresenta un ostacolo a volte insuperabile. E ciò non perché questi giovani non siano intelligenti o non conoscano
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PROPOSTE
Dario Antiseri
i problemi e gli argomenti su cui scrivere, ma semplicemente perché non sanno più scrivere. E non sanno più scrivere perché disabituati a produrre testi argomentativi. La messa in secondo ordine o addirittura il sostanziale abbandono nelle nostre scuole del tema argomentativo è stato ed è l’equivalente di un furto formativo. È fondamentale comprendere che fare un tema significa risolvere un problema. È questa una premessa da cui discendono conseguenze come queste: 1) il tema a sorpresa va eliminato perché comunque diseducativo; 2) il tema in classe va mantenuto; 3) va mantenuto, ma deve venir adeguatamente preparato; 4) la composizione è uno dei momenti più formativi della scuola; 5) può coinvolgere più insegnanti in un serio e basilare lavoro interdisciplinare sia nel momento della preparazione che nel momento della “valutazione”; 6) il tema libero, come vedremo, ha la sua rilevanza. Dunque: il tema a sorpresa va eliminato. E su questo argomento non è il caso di spendere troppe parole. A che serve un tema a sorpresa? Serve ad accentuare il distacco tra insegnante e alunni, stimola una poco precisata creatività, spinge gli alunni alla retorica («dove mancano i concetti – diceva Goethe – lì vengono fuori le parole») e li manda alla ricerca di quei libri dal titolo “Temi svolti”. Il tema a sorpresa è inutile, non serve cioè alla formazione dell’alunno; anzi è diseducativo. Provoca il disgusto della scuola. Ma tutto ciò non implica l’abolizione del tema. L’abolizione del tema è un tradimento che si perpetra nei confronti dell’alunno, rubandogli uno strumento essenziale di crescita. E rubandoglielo facendogli credere che questo è per lui un bene. L’abolizione del tema è un inganno di più. Il tema va mantenuto. Argomentare su di un “tema” è una delle cose che ci fa umani. Si ha civiltà perché alla guerra delle spade abbiamo saputo via via sostituire la guerra delle parole. E mentre il linguaggio espressivo e quello segnaletico sono comuni agli animali e agli uomini, il linguaggio descrittivo e quello argomentativo sono sostanzialmente ed essenzialmente tipici dell’uomo. La vita è continua soluzione di problemi. Argomentare pro o contro una tesi, discutere un argomento, sviscerarlo, tentarne una soluzione, dimostrare l’infondatezza di altre tesi (proprie e altrui) è compito che ci si ripresenta senza sosta. Ecco perché occorre allenare i giovani a fare il tema: significa attrezzarli non solo di contenuti ma soprattutto di una metodologia adeguata a risolvere problemi. Significa scaltrirli e al medesimo tempo renderli consapevoli di quell’oceano di ignoranza dinanzi al quale siamo tutti uguali (perché essa è infinita). Significa renderli spiritualmente più autonomi e non passivi davanti all’autorità dell’esperto; vuol dire renderli più capaci di vagliarne l’eventuale autorevolezza. Quindi il tema va mantenuto. Non va dato a sorpresa. E va preparato.
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Ma va preparato adeguatamente. E per una preparazione adeguata del tema non basta annunciarne il titolo in anticipo. Fare male una cosa porta acqua o a chi questa cosa vuol abolire o a chi propone di farla peggio. In breve: sostenere che la preparazione del tema si riduce al solo annunciarne il titolo in anticipo non fa altro che portar acqua al mulino di quanti irresponsabilmente sostengono o che occorre abolire il tema ovvero che bisogna ancora darlo a sorpresa. Il tema non va abolito; il tema non va dato a sorpresa; il tema va preparato; ma adeguatamente preparato perché fare un tema significa risolvere un problema. E per risolvere un problema occorre essere adeguatamente attrezzati. E questi attrezzi occorre costruirli e imparare ad usarli. Dunque: svolgere un tema equivale a difendere una tesi; ad argomentare per una tesi contro altre tesi e proposte. E di problemi è pieno il mondo. Talché la scelta dei problemi da trattare in una scolaresca (come altrove) sarà sempre guidata da determinati valori e non si potrà mai evitare un atto di convenzionalità, diciamo di arbitrarietà. Tuttavia, un criterio per la scelta dei temi da trattare può essere quello di far responsabilmente e umanamente inciampare i ragazzi in problemi rilevanti, rilevanti per la loro formazione umana. E rilevanti in due sensi: nel senso che si scelgono temi la cui discussione e articolazione costituiscano delle buone «grammatiche» di lettura del mondo in cui si vive e della tradizione di cui si è eredi. Rilevanti quindi dalla prospettiva del contenuto (non evasivi, non retorici). Ma rilevanti anche dal punto di vista del metodo, in quanto impostati (bibliograficamente, storicamente, teoricamente) con tutte quelle cautele e quel corredo di regole procedurali utilizzabili nella soluzione di altri problemi.
2. Il tema va scrupolosamente e sistematicamente preparato Impostare, quindi, un tema significa innanzi tutto situarlo storicamente e insieme articolarlo teoricamente. C’è, dunque, un problema che abbiamo deciso di affrontare. Abbiamo situato l’argomento storicamente, abbiamo cioè cercato di vedere quando, come e perché è sorto. Ma le cose non si fermano qui. Anzi è qui che si fanno interessanti. Quali sono, infatti, le idee o teorie oggi in competizione per la soluzione di tale problema? Quali i valori che stanno dietro questi diversi tentativi di soluzione? E, soprattutto, con quali prove i sostenitori delle diverse teorie cercano di supportare le loro proposte? Qual è la forza argomentativa del materiale probatorio a disposizione? Quale ipotesi spiega meglio di altre documenti e fatti oggi a disposizione? Il materiale probatorio è ben vagliato? Non può darsi il caso che, al di là delle apparenze e magari della propaganda, nessuna soluzione sia oggi soddisfacente? Non si può forse dimostrare che la base empirica di certe teorie si riveli, ad un esame riavvicinato, meno solida di quanto si credeva? E
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forse è impossibile vedere, magari con nostra stessa sorpresa, che la tesi che sembrava più debole si assesti, nello sviluppo della ricerca, come la più forte tra quelle a disposizione? Quindi: se fare un tema significa risolvere un problema, questo problema va allora impostato, va cioè situato storicamente. E va articolato teoricamente: si debbono enucleare le idee o teorie avanzate come tentativi di soluzione del problema, e si dovranno analizzare le prove di queste ipotesi, vagliarne la forza probante; si dovrà cercare materiale (magari appositamente occultato) che confuta o conferma la nostra o l’altrui tesi. In breve: si dovranno enucleare e mettere alla prova le teorie proposte per risolvere il problema che si è deciso di affrontare. Questo è quel che si intende quando si parla di articolazione teorica di un problema. (Ed è soprattutto lavorando su di essa che si capisce la rilevanza del metodo). Un tema è un problema che va situato storicamente e articolato teoricamente. Di conseguenza, né temi a sorpresa, né temi soltanto annunciati in anticipo. Temi scrupolosamente e sistematicamente preparati. Ma come? Innanzi tutto occorre distinguere tra i temi che, in un modo o nell’altro, sono vicini al programma svolto o che addirittura fanno parte dei programmi, e i temi invece che sono più lontani dagli argomenti del programma ma che sono però magari più pressanti per la loro attualità, come è, per esempio, per la questione della droga o dei mass-media. In ogni caso, la preparazione del tema può ben cominciare con una introduzione della problematica da parte dell’insegnante e una discussione in aula. Qui ognuno manifesterà le proprie opinioni, la propria sapienza e la propria ignoranza. Il lavoro potrà poi proseguire, da parte degli studenti, con informazioni tratte, a seconda dei casi, da Internet o con letture di saggi e articoli di riviste e di giornali. Si potrà discutere ancora una volta in classe l’intero argomento magari con il contributo di qualche altro insegnante in grado di arricchire la discussione illuminando aspetti della problematica che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra. Quindi: come si prepara un tema? Si prepara con una prima discussione in classe, con ricerche su Internet e, per lo meno, nella biblioteca d’Istituto, e successive letture; la preparazione prosegue con una discussione allargata a quegli insegnanti che, per professione o comunque per competenza, sono ad esso interessati. E quando sia le tesi storiche che le differenti interpretazioni teoriche con i loro tipi di prove sono abbastanza ben delineate, allora si stabilisce il giorno del compito in classe. Ed è qui che l’alunno mostrerà le sue capacità sia per quanto riguarda la sua abilità di organizzazione mentale, sia per la sua forza argomentativa nel vaglio del peso delle diverse prove, sia per la sua abilità di critico nei confronti delle tesi che non condivide. Insomma: le discussioni e le letture precedenti avranno fornito al ragazzo quel materiale attorno al quale egli potrà esercitare le sue doti costruttive di consistenti argomentazioni da una parte e critiche dall’altra.
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3. Criteri oggettivi per la valutazione del tema argomentativo A questo punto, i criteri di valutazione degli elaborati vengono sempre di più ad assumere la configurazione di metri significativamente oggettivi. La comunità scolastica, dopo tutto il lavoro precedente, avrà una idea delle informazioni disponibili (o almeno delle informazioni che si sono potute acquisire) sull’argomento; si saprà quali sono le teorie in competizione per la soluzione del problema; di questo si conoscerà un po’ di storia, e così via. E, allora, su di un simile sfondo, la presenza o l’assenza di rigore logico, la maggiore o minore ricchezza di informazioni rilevanti, la forza critica (nei confronti di altre teorie non accettate dall’alunno), o spunti di una effettiva originalità, non saranno più fantasmi che si sa che esistono ma che nessuno sa mai individuare ed applicare con relativa sicurezza. Un tema sarà originale se, in rapporto alle informazioni disponibili o alle teorie in discussione, aggiunge qualcosa di nuovo. Un tema sarà critico ed insieme originale, se l’alunno saprà piazzare al posto giusto qualche colpo di più contro una tesi non condivisa. Un tema sarà rigoroso, o metodologicamente corretto, se appunto non si andrà fuori tema, se cioè le informazioni (vagliate) saranno sistemate all’interno di un’impalcatura teorica al fine di corroborare o smentire le tesi in contrapposizione. Un tema sarà letterariamente più efficace di un altro se non si perderà in sbavature, se non conterrà frasi in eccedenza, se una metafora è in grado di ottenere (meglio che un’altra) l’effetto “retorico” – cioè persuasivo – per cui viene proposta. E così di seguito. In sostanza, si possono discutere e valutare (sempre relativamente ai criteri così stabiliti) non solo il rigore logico, l’esattezza terminologica, la forza critica, l’organicità, la ricchezza di informazione, o l’originalità di un componimento, ma anche la sua stringatezza, la sua efficacia linguistica, in riferimento all’«uditorio» che il ragazzo avrà presente componendo il suo tema. E la valutazione, preferibilmente pubblica, cioè in classe, dei singoli risultati ottenuti costituirà per i nostri studenti un ulteriore e prezioso momento formativo, intellettuale e morale. Qua giunti, qualcuno probabilmente si ribellerà di fronte a questa concezione del tema visto come un problema da risolvere. E si ribellerà in nome della spontaneità, della creatività, della fantasia e così via. Indubbiamente, non ci sono obiezioni da addurre contro la stesura del diario, o contro il tema di fantasia, o contro i tentativi di poesia, e val la pena sottolineare che il tema libero è, tra l’altro, importante per conoscere meglio interessi, cultura, capacità degli allievi, è cioè importante per conoscere meglio i nostri allievi e, quindi, per poterli aiutare di più nella cura dei loro interessi e nello sviluppo delle loro capacità; ma va anche ribadito che tra la creatività (di idee nuove e buone per risolvere problemi) da una parte e l’indisciplina mentale e la vuota retorica dall’altra c’è davvero di mezzo il mare. E resta il fatto che
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non educare alla ragione, alla argomentazione razionale, è un autentico furto formativo nei confronti di ogni ragazzo – un furto carico di disumane prevedibili conseguenze sociali. Educare alla ragione significa puntare alla formazione di menti aperte. E solo “menti aperte” costituiscono il più solido presidio di una “società aperta”.
4. Gli ammonimenti di Francesco De Sanctis e di Giovanni Vailati sui danni “morali” degli “esercizi retorici” Già nel 1856 Francesco De Sanctis si lamentava del fatto che “i lavori di scuola” oscillano tra le declamazioni retoriche da una parte e l’inaridimento del cuore e della fantasia dall’altra.1 E quasi cinquant’anni più tardi, nel 1905, Giovanni Vailati, recensendo – sulla «Rivista di psicologia applicata alla pedagogia e alla psicopatologia» – il libro di G. Fraccaroli, La questione della scuola, scrive: «Non so astenermi dal riportare qui ciò che egli [Fraccaroli] dice, in un capitolo che porta il titolo Dell’immoralità degli esercizi retorici, sui danni pedagogici dei così detti componimenti».2 Ed ecco il brano del Fraccaroli: «Con molto piacere vado notando che la persuasione dell’inutilità, anzi del danno di far molti compiti di lingua italiana cominci a far strada nella parte eletta dei nostri insegnanti secondari, e, se ripenso all’accoglienza di commiserazione, quando non era di scandalo, che vi ebbero le mie prime osservazioni, timidamente arrischiate, contro questa insana abitudine, comincio a sperare che la verità e la ragionevolezza a lungo andare non siano poi sempre inaccessibili alle orecchie umane. Del resto, l’assurdità e il danno di questi esercizi, negli effetti dell’educazione letteraria, sono un nonnulla in confronto del disastro che essi producono nel campo morale. Essi, infatti, sono veri e propri esercizi di immoralità: e non si inarchino le ciglia. Nessuno vorrà negare che la base morale non sia o debba essere il vero, e che l’abito più indiscutibilmente immorale non sia quello della menzogna; e i compiti insegnano a mentire appunto perché insegnano ad esprimere sentimenti, idee, persuasioni che non si hanno o non si sentono».3
5. La diagnosi di De Mauro sulla “nefasta pratica” del tema è esatta. Ma qual è la giusta terapia? In uno dei suoi tanti interessanti saggi, Tullio De Mauro, a proposito del tema, scriveva, tempo addietro, che il tema – così come praticato – «rispon-
1 F. DE SANCTIS, Lavori di scuola, in «Piemonte», II, 26, 1856; rist. in Saggi critici, a cura di L. Russo, Laterza, Bari, 1979, p. 313 e ss. 2 G. VAILATI, Recensione a G. Fraccaroli: La questione della scuola [Bocca, Torino, 1905], in «Rivista di psicologia applicata alla pedagogia e alla psicopatologia», I, 3, maggio-giugno 1905; rist. in G. VAILATI, Scritti, a cura di M. Quaranta, Arnoldo Forni Editore, Bologna, 1987, vol. III, p. 284. 3 G. FRACCAROLI, La questione della scuola, cit., pp. 94-95; cit. da G. VAILATI, Recensione, cit., pp. 284-285.
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de alla logica del “devi dire così”,4 mentre «le società d’oggi e le moderne scienze del linguaggio suggeriscono un’altra logica, un’altra pedagogia: la logica e la pedagogia del “puoi dire così e così, e ancora in quest’altro modo, e in un altro modo ancora; ciascun modo ha il suo proprio raggio di opportunità e utilizzabilità”».5 In realtà, «una parola non è soltanto un’etichetta apposta a un’idea o a una categoria di cose o di emozioni, senza incidenza sulla consistenza cognitiva ed emotiva del contenuto: una parola è un nucleo di condensazione delle nostre esperienze conoscitive ed emotive, è il punto di riferimento simbolico intorno a cui esperienze individuali e sociali si organizzano; sapere più parole non è una cosa che interessi i letterati ai fini di un presunto bello stile, ma interessa ogni essere umano ai fini di una migliore organizzazione e di un migliore controllo delle esperienze individuali e sociali».6 E ancora: «Ars longa, vita brevis: le possibilità di una lingua sono infinite, e nessuno di noi le domina tutte e le sfrutta tutte di continuo. Ci sono certe frasi che ci capita di usare di più e certe frasi che tendiamo a non usare mai. Certe parole le usiamo ogni giorno e certe parole le usiamo solo a volte in un dato ambiente: sono comuni per il contadino e non per l’operaio metalmeccanico, sono comuni per la casalinga e non per l’ingegnere, sono comuni per una certa categoria di ingegneri e non per un’altra, ecc. Insomma, data la enorme potenzialità di una lingua accade che ogni gruppo (regionale, professionale, economico, ecc.) ne sfrutti e ne privilegi una parte piuttosto che un’altra».7 Le parole e le frasi hanno usi diversi. L’uso, come diceva Wittgenstein, è il loro significato. Le parole vivono nell’uso: l’uso è il loro respiro. Prosegue De Mauro: «Una cosa che si voglia dire, un certo “senso”, può essere trasmesso da frasi diverse (è questa una caratteristica che accomuna ai calcoli il linguaggio verbale naturale), che non divergono perché sono più o meno eleganti ed aggraziate, ma perché analizzano secondo formule diverse lo stesso senso, e con un diverso raggio di comprensibilità e utilizzabilità; posso dire altrettanto bene a seconda dei fini e delle opportunità, “dammi quel pacchetto”; “per favore, passami il pacchetto del sale”; “mi dai un adeguato quantitativo di cloruro sodico, opportunamente miscelato con piccole percentuali di altri sali?”, ecc.: non c’è tra queste la “forma giusta”, ognuna è giusta a suo modo: l’ultima, se l’usate mentre state cucinando, vi farà prendere per pazzi, anche se è la “più scientifica”».8 Parole e frasi vivono nell’uso, operano sempre in contesti determina-
T. DE MAURO, Che cosa fare del tema d’italiano?, in Scuola e linguaggio, Editori Riuniti, Roma, 1977, p. 71. Ibidem. 6 Op. cit., pp. 69-70. 7 Op. cit., pp. 70-71. 8 Op. cit., p. 70. 4 5
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ti, risolvono specifici problemi, sono attrezzi messi in opera per finalità diverse, si indirizzano sempre a interlocutori definiti. Ecco perché, a mio avviso, esistono anche criteri di valutazione linguistica del tema. De Mauro ha ben messo in evidenza i difetti o, meglio ancora, i danni di quella “pratica nefasta”9 che è il tema così come si effettua in genere nelle nostre scuole: 1) «la pratica del tema impone un’amplificazione. Ciò che un classico o un acuto studioso ha saputo dir brevemente, con evangelica, vichiana e scientifica concisione, si tratta di ripeterlo con un’ampiezza indeterminata, ma tale da soddisfare, comunque, le brame (mai ben dichiarate) di un insegnante [...]»;10 2) «la pratica di svolgere i temi non abitua ad avere dinanzi interlocutori definiti ai quali comunicare certi contenuti per certi dati scopi. Diciamo di più: la pratica dei temi non solo non abitua a ciò, ma abitua (che è ben peggio!) all’esatto contrario, allo scrivere come se si fosse soli [...]»;11 3) «un carattere fondamentale dello scritto, rispetto al parlato, è la possibilità di meditati ritorni su quel che altri hanno scritto sull’argomento e, quindi, la possibilità di documentare con dati e argomenti altrui, depositati in scritti anteriori, ciò che veniamo scrivendo. La pratica del tema, nella sua realizzazione abituale, non solo non consente ciò, ma anzi spinge a ritenere ciò poco meno che peccaminoso: guai a farsi sorprendere mentre si legge o si consulta qualcosa o si discute con un compagno [...]»;12 4) «poiché, in definitiva, l’unico scopo del tema risulta compiacere un professore, senza cura per l’argomento, per i propri eventuali sentimenti e pensieri, per altri reali interlocutori, il tema finisce con l’esercitare una sottile opera di diseducazione morale [...]»;13 5) «in conseguenza di tutto quanto si è detto, i temi non spingono a capire che esistono linguaggi differenziati utilizzabili per trattare lo stesso argomento, a seconda delle sedi e degli interlocutori diversi. Dinanzi alla multiforme varietà dei linguaggi tecnici e settoriali che incalzano da ogni parte la vita di ogni giorno, la pratica dei temi ci manda in giro senza capacità di reazione e di controllo, anzi con la falsa idea che il linguaggio sia un’unica realtà indifferenziata in cui tutte le vacche sono bige alla stessa maniera. Così siamo pronti al punto giusto per cedere alle lusinghe di qualunque venditore di vetrini colorati».14 Diagnosi più giusta forse non poteva essere fatta. Ma qual è la terapia che De Mauro propone? Eccola: «Che ne facciamo del tema di italiano? Nel quadro che ho abbozzato e che propongo alla comune attenzione critica e alla
Op. cit., p. 78. T. DE MAURO, Ancora una volta in tema di tema, in «Nuova Secondaria», 7, 15 marzo, 1984, p. 46. 11 Ibidem. 12 Op. cit., p. 47. 13 Ibidem. 14 Ibidem. 9
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discussione, è perfino possibile continuare a fare qualcosa che, per fare contenti presidi pedanti e ispettori superciliosi, potremmo chiamare “tema”. È possibile cioè fare (anzi, chiedo scusa, eseguire) delle esercitazioni scritte di trasformazione di un discorso parlato improvvisato in un testo scritto da comunicare a largo raggio, ad altri assenti alla prima improvvisazione; oppure esercitazioni scritte di sintesi di un dibattito reale sui temi reali di interesse reale per gli allievi e i docenti reali, di carne e ossa, di una scuola; e via esemplificando».15 Ebbene, a me pare che queste «esercitazioni scritte di sintesi di un dibattito reale sui temi reali di interesse reale per gli allievi e i docenti reali, di carne e ossa, di una scuola» corrispondano o, più esattamente, siano la stessa cosa dei temi su problemi umanamente rilevanti di cui ho parlato nelle pagine precedenti. E se è così, allora, e qui mi perdoni l’amico De Mauro, queste esercitazioni scritte, queste sintesi argomentate, meritano, a mio avviso, maggiore attenzione. E lo meritano perché, se fare temi significa risolvere problemi, la pratica del tema diventa allora uno strumento per trasformare la scuola della “retorica” nella scuola della “ricerca”. Non si tratta, quindi, di compiacere “presidi pedanti” e “ispettori superciliosi”: si tratta, piuttosto, di non abolire una pratica che, non di rado dannosa moralmente e intellettualmente, può diventare domani, opportunamente trasformata, una pratica utile o addirittura necessaria per l’“informazione” e la “formazione” degli allievi.
6. Perché la didattica non si ammali di “dogmatismo” e di “nozionismo” Il dogmatismo e il nozionismo sono, in effetti, due “malattie dell’intelletto”, che talvolta isolatamente, ma più spesso combinate, dilagano all’interno delle aule scolastiche. Il dogmatismo è una malattia grave della mente: i dogmatici, infatti, sono fissati, essi hanno idee fisse. E queste idee fisse, come ebbe a dire il grande fisiologo francese Claude Bernard, non fanno altro che «lusingare il loro orgoglio [...] e nascondere la loro ignoranza».16 Ma l’uomo di scienza, l’uomo che possiede una corretta mentalità scientifica, è veramente socratico: sa che tutto quello che lui sa può esser sbagliato, sa di non avere certezze. «Nella clinica, come nella vita – ha scritto il clinico bolognese Augusto Murri – bisogna dunque avere un preconcetto, uno solo, ma inalienabile – il preconcetto che tutto ciò che si afferma e che par vero, può essere falso: bisogna farsi una regola costante di criticar tutto e tutti, prima di credere; bisogna domandarsi sempre come primo dovere: “Perché devo io credere questo?”».17 T. DE MAURO, Che cosa fare del tema d’italiano?, cit. p. 73. C. BERNARD, La science esperimentale, Paris, 1972, p. 65. 17 A. MURRI, Quattro lezioni e una perizia. Il problema del metodo in medicina e in biologia, rist., Zanichelli, Bologna, 1972, p. 19. 15 16
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D’altro canto, si potrebbe pensare che il dogmatismo nella nostra scuola sia ormai una malattia sotto controllo, se non addirittura del tutto debellata. E questo per il fatto che da noi, nelle nostre scuole, così si dice e di continuo si ripete, non si fa altro che fare ricerche. Sennonché, le cose non stanno così: da noi spesso (quindi: non sempre) non si fanno ricerche, ma si sguazza nel ricerchismo. E il ricerchismo è un tonico del dogmatismo: si cercano, su enciclopedie (a volte scopiazzate) risposte prefabbricate a domande che lo scolaro non si pone, che non lo interessano – risposte irrilevanti per problemi ininteressanti, le quali confluiscono ed alimentano la palude del nozionismo. Dovendo individuare l’idea di nozionismo, possiamo dire che il nozionismo non è se non la formulazione, la trasmissione e la memorizzazione (con successiva rapida amnesia) di nozioni irrilevanti, di nozioni o informazioni cioè che non importano, che non interessano. In effetti, le nozioni, le informazioni, le possibili osservazioni sono infinite. E sono infinite anche le nozioni o informazioni irrilevanti, non interessanti, non importanti. Se noi ci mettessimo a contare, pesare tutti i granelli di sabbia delle spiagge del Mare Adriatico, noi avremmo delle informazioni. Se misurassimo la distanza di ogni granello di sabbia del deserto del Sahara dal centro della Luna, avremmo effettuato delle osservazioni. Ed anche i fatti del passato sono infiniti, eppure solo alcuni di essi, pochissimi tra essi, diventano fatti storici. E, allora, cosa fare, in quale direzione muoversi per avere chiara la distinzione tra nozioni irrilevanti e nozioni rilevanti e significative? Che cos’è, insomma, che ha la forza di strappare dal grigio limbo degli infiniti fatti qualsiasi uno di questi fatti per farlo diventare un fatto importante, una informazione rilevante? La risposta a questo interrogativo non è difficile: i meccanismi che operano questo “strappo”, e che rendono rilevanti o importanti delle nozioni o informazioni qualsiasi, sono le teorie. Una nozione o informazione, infatti, è rilevante solo in relazione ad una teoria, nel senso che sono le teorie a comandare di guardare questo fatto, un preciso aspetto di una cosa, o un certo evento, al fine di ricevere una smentita o una conferma. In breve: una “nozione” qualsiasi si trasforma immediatamente in una “informazione” rilevante, se tale nozione corrobora o smentisce le congetture (o ipotesi o teorie) inventate per risolvere i problemi che ci stanno a cuore e in cui, data la nostra tradizione o «memoria» culturale, abbiamo inciampato. Un uomo affamato divide il mondo in cose che si possono mangiare e cose che non si possono mangiare. Per un uomo braccato sono “rilevanti” solo nascondigli e posti che non sono nascondigli. Nel 1847 muore a Vienna il professore Kolletschka, e muore perché uno studente sbadato gli aveva fatto un taglio con il bisturi su un dito: ebbene, questo fatto non aveva detto niente all’intera Facoltà medica di Vienna; per quegli illustri medici esso era un fatto “irrile-
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vante”, ma così non fu per Semmelweis, il quale, tormentato dal problema della febbre puerperale, partì proprio dalla morte del suo collega per effettuare la sua grande scoperta.18 Una muffa in un brodo di coltura è un fatto irrilevante per un inserviente addetto alla pulizia di un laboratorio, eppure una muffa fu un evento “rilevantissimo” per Fleming. È l’interesse che cattura le informazioni. E senza problemi non ci sono “informazioni”, ma solo nozioni – nozioni “irrilevanti”. Sono quindi le teorie a indirizzare, di volta in volta, lo sguardo su che cosa osservare e, quindi, a selezionare osservazioni ed informazioni. Dunque, nella scuola dobbiamo avere teorie se vogliamo che i ragazzi osservino, che «facciano ricerche», che vadano a spulciare negli archivi cittadini, che entrino in una biblioteca, che sfoglino le annate di un giornale, o che alzino gli occhi verso un arco di un vicolo della città, oppure che prendano un registratore per incidere canti e storie paesane. Bisogna avere ipotesi, cioè teorie, per decidere tra informazioni “nozionistiche” e nozioni “rilevanti”. E le teorie, da parte loro, si propongono o si studiano solo se insorgono i problemi. Ecco, dunque, una cura contro il nozionismo: partire dai problemi dei ragazzi e farli inciampare progressivamente in problemi più importanti, più profondi, per i quali saranno rilevanti le teorie fisiche, biologiche, linguistiche, ecc. E le teorie vengono sempre giudicate in base ai “fatti”: sono i fatti il tribunale dell’immaginazione teorica. Quindi: problemi-teorie-controlli in base ai fatti, vale a dire in base ad informazioni ben vagliate. E questo è quanto si fa, appunto, anche nella pratica del tema argomentativo. Le nozioni sono rilevanti per le teorie, nel senso che le giudicano. E le teorie, da parte loro, sono in funzione dei problemi: non si risponde infatti a domande non poste. Ma non capita spesso che noi insegnanti, nella scuola, siamo stati o stiamo lì a rispondere a domande che nessuno ci ha posto, o a interrogativi che non abbiamo saputo suscitare.
I.PH. SEMMELWEIS, Die Aetiologie, der Begriff und die Prophylaxis des Kindbettfiebers, C.A. Hartlebens Verlag-Expedition, Pest-Wien-Leipzig, 1861; trad. parz. It. di D. Antiseri: Come lavora uno scienziato, Armando, Roma, 1977.
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LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.
FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.
ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.
MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••
Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 501-511
LA LIBERTÀ DI SCELTA EDUCATIVA BRUNO BORDIGNON Docente invitato all’Università Pontificia Salesiana DI
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a statizzazione del diritto, emersa con la visione moderna di Stato, ha portato allo Stato educatore e maestro, la forma più pericolosa di Stato etico. Dobbiamo ritornare alla persona, morale e diritto sussistenti.
Statizzazione del diritto Sulla libertà di scelta educativa è da superare un presupposto purtroppo comunemente accolto: la statizzazione del diritto, che significa confusione tra legge e diritto, l’assegnazione di questo allo Stato e il riconoscimento dello Stato quale fonte del diritto. Wojchiech Cebulski entra così nel discorso: «A livello politico si delinea poi il limite di fondo del sistema democratico, che vorrebbe separare nettamente l’ambito della coscienza privata da quello del comportamento pubblico. […] In questo modo la responsabilità della persona viene delegata alla legge civile, con un’abdicazione alla propria coscienza morale almeno nell’ambito dell’azione pubblica».1 In una parola, la morale (pubblica) è soggetta al voto della maggioranza. Mentre è strumento di garanzia della morale e del diritto, ma non crea né fa crescere né l’una né l’altro, la legge è divenuta morale e diritto. E Giovanni Paolo II: «In realtà la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immortalità. Fondamentalmente, essa è un “ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere “morale” non è automatico, ma dipende dalla
1 Giovanni Paolo II e la Nuova Evangelizzazione in ANNA MARIA TRIPODI – WOJCIECH CEBULSKI, Carità intellettuale e nuova evangelizzazione. L’inno alla Verità di Antonio Rosmini e Giovanni Paolo II, Prefazione di S.Em. Stanislaw Card. Dziwisz, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2011, Parte II, p. 142.
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conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi a cui serve».2 Statizzando il diritto, è stato assolutizzato lo Stato, il quale si è collocato al posto della persona, che è il diritto sussistente (Rosmini): invece di essere lo Stato a servire le persone, sono state le persone ad essere sottomesse ed a servire lo Stato. Impossessandosi del diritto sussistente, lo Stato – si fa per dire, coloro che l’hanno teorizzato, voluto e realizzato – si è impadronito delle persone, che sono state svuotate della loro identità: svuotando le persone della loro realtà di diritto sussistente, ad esse è stata tolta ogni difesa e progressivamente, ma inesorabilmente, sono state espropriate pure della morale, attraverso il voto della maggioranza. È sufficiente fare la storia del cosiddetto diritto (statale) di famiglia e del diritto di generare i figli per rendersi conto di quanto sto sostenendo. Come unico riferimento, ricordo che il presidente dell’Argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, «martedì 3 luglio ha consegnato i primi documenti di riconoscimento emessi in seguito alla nuova legge sulla identità di genere, approvata lo scorso maggio (55 voti a favore, un astenuto e nessun contrario). La novità legislativa, vera avanguardia internazionale, riconosce a tutti i cittadini della Naciòn Argentina il diritto a mutare il sesso con cui si è stati registrati alla nascita, senza alcuna previa autorizzazione medica o giudiziale; inoltre, tutti gli operatori del sistema sanitario pubblico, sia statali che privati, dovranno garantire su base continuativa tutti i diritti che la legge riconosce. L’articolo 1 della legge, consacrando definitivamente l’esistenza del diritto all’identità di genere, afferma infatti che: “ognuno ha diritto ad essere trattato in conformità con la propria identità di genere e, in particolare, ad essere identificato in questo modo attraverso gli strumenti che dimostrano la propria identità rispetto al nome usato, immagine e sesso con cui si è registrato”».3 La statizzazione del diritto e il cosiddetto libero pensiero, cioè libero dalla coscienza – precisazione che resta sempre coperta -, con una morale stabilita dalla maggioranza, sono fondamentali per comprendere la situazione attuale: entrambi affermati quali «principi» e concepiti come segno e forma del progresso (basti pensare al cosiddetto «Risorgimento» italiano). «Il diritto internazionale cosiddetto “nuovo” (in realtà ha già oltre cinquant’anni) lo è rispetto a quello che fino a poco tempo fa veniva insegnato come l’unico diritto internazionale, che aveva preso forma ufficiale, espres-
GIOVANNI PAOLO II, Evangelium vitae, n. 70. VINCENZO LORUBBIO, Argentina, così la falsa libertà minaccia uomo e donna, in il sussidiario.net 9 luglio 2012. 2 3
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sione istituzionale a partire dalla Carta Convenzionale del 1648 (la cosiddetta Pace di Westfalia). Il diritto internazionale è stato inteso come quel complesso di principi e di norme interessate a regolare i rapporti tra gli Stati, ciascuno sovrano (quindi superiorem non recognoscens), assumendo come esclusivo soggetto di diritto, appunto, lo Stato. Per la persona umana non c’era spazio né rilevanza. Le comunità umane erano parte integrante della persona giuridica “Stato”, e quindi patrimonio dello stesso».4 Vittorio Possenti conferma: «La questione del positivismo giuridico e della sua concezione nichilistica della legge e del diritto non può essere isolata in vitro e studiata separatamente dal versante politico e dunque dalla formazione dello Stato moderno e dalla concezione westphaliana e postwestphaliana della sovranità, quale suprema potestas che pone e impone la legge, e che non riconosce alcunché sopra e accanto a sé».5 Pertanto è soppressa ogni forma di sussidiarietà. Per questo motivo le persone e le associazioni intermedie tra persone e Stato vengono escluse dall’origine del diritto: possono venire riconosciute dallo Stato. Di conseguenza anche la Chiesa possiede dei diritti unicamente se riconosciuta dallo Stato.
Lo Stato educatore In questo modo nell’epoca moderna, e quale conseguenza della visione di Lutero, lo Stato si è impadronito dell’educazione e dell’istruzione (in Italia dobbiamo usare i due termini), attraverso l’obbligo dell’alfabetizzazione. Giampaolo Rossi ci ricorda che «a partire dal XVII secolo, con la formazione dello Stato moderno, incominciano a rientrare nella sfera dell’autorità pubblica [sic!] le questioni relative al “benessere” della collettività e, fra queste, quelle dell’istruzione».6 Nasceva immediatamente il problema delle competenze delle Chiese: «In una prima fase l’intervento statale sulla scuola mantenne carattere indistinto rispetto a quello della Chiesa: le disposizioni emanate dall’autorità statale disciplinavano alcuni aspetti di una attività che continuava ad essere svolta, jure proprio, dagli organi centrali e periferici della Chiesa».7
ANTONIO PAPISCA, Diritto, pace e guerra preventiva, Intervento tenuto in occasione dell’Assemblea Nazionale di Pax Christi Italia (Santuario di Oropa, Biella, 30 aprile-2 maggio 2004) http://www.conflittidimenticati.it/cd/a/14899.html (17 aprile 2012). 5 VITTORIO POSSENTI, Nichilismo giuridico. L’ultima parola?, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2012, p. 107, nota 2. 6 GIAMPAOLO ROSSI, La scuola di Stato. Problemi storici e giuridici nella prospettiva di riordinamento dei pubblici poteri, Roma, Coines Edizioni, 1974, p. 6. 7 Ibidem. 4
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È da precisare, come rileva in nota Giampaolo Rossi, che nell’ambiente protestante, seguendo Lutero, «gli stessi prìncipi agivano in qualità di amministratori della Chiesa. Questo fenomeno si verificò nei paesi protestanti, nei quali ai prìncipi era attribuito, come è noto, lo status summi episcopi e lo jus reformandi in materia religiosa […] Risalgono, per l’appunto, alla prima metà del XVI secolo i primi regolamenti dei prìncipi protestanti in materia di istruzione».8 Il punto fondamentale è l’invisibilità della chiesa secondo Lutero: «Purtroppo la prova che richiedeva, l’aveva resa impossibile lui stesso, dal momento in cui, detronizzando il magistero vivente della chiesa e la sua tradizione, s’era affidato alla sua sola interpretazione della Scrittura. L’antico concetto di “Chiesa” ne usciva distrutto mentre si consacrava l’invisibilità, in senso luterano, della Chiesa stessa».9 Prosegue Giampaolo Rossi: «Nell’aumentare progressivamente di intensità, l’intervento dello Stato consistette dapprima, soprattutto, nel far propria la struttura e le persone fisiche dell’apparato ecclesiastico: il “GeneralLand-School-Reglement”, e cioè il primo regolamento organico sulla scuola nello Stato prussiano, emanato da Federico II il 12 agosto 1763, disciplinava l’ordinamento scolastico sulla base della parrocchie e attribuiva ai pastori la competenza ad esercitare l’ispezione scolastica, sotto il controllo dell’autorità ecclesiastica (Sovrintendente e Concistoro), ma nello stesso tempo disciplinava direttamente i programmi di insegnamento e l’attività ispettiva, prevedendo anche la possibilità di cessazione dall’ufficio per i pastori che non avessero osservato le disposizioni».10 «La Riforma […] costituì la prima grande campagna di alfabetizzazione nella storia dell’Occidente, e lasciò il retaggio della istruzione individuale alla lettura e alla scrittura intesa come una potente forza sociale e morale. La Riforma stabilì inoltre la tradizione pedagogica della istruzione obbligatoria demandata a istituzioni pubbliche, fondate appositamente per indottrinare i giovani in vista di fini esplicitamente sociali. Una delle grandi innovazioni della Riforma tedesca o luterana fu il riconoscimento che la capacità di leggere e scrivere, una capacità potenzialmente pericolosa o addirittura sovversiva, poteva essere usata – se sottoposta a controllo – come un mezzo di istruzione e formazione davvero senza precedenti. La grande riforma non fu un indiscutibile successo ai suoi tempi, ma potrebbe avere contribuito più
GIAMPAOLO ROSSI, La scuola di Stato, p. 6, nota 4. JOSEPH LORTZ, La Riforma. Storia della Riforma in Germania, Milano, Jaca Book, 1971, vol. I Premesse Inizio Primi risultati, pp. 256-257. 10 GIAMPAOLO ROSSI, La scuola di Stato, p. 7. 8 9
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alla causa dell’alfabetizzazione che a quella della devozione o della pratica religiosa. Potremmo aggiungere che dipendeva per il suo successo da una scolastizzazione universale e da una diffusione generalizzata della capacità di leggere; che i profeti illuministici settecenteschi del progresso e delle soluzioni istituzionali individuarono i mezzi per realizzare l’obiettivo della scolarizzazione e che nell’Ottocento i fondatori delle istituzioni di massa e i promotori della scuola e dell’istruzione universale li misero in pratica! Si potrebbe concludere che il Novecento vive di queste eredità e delle loro continuità e contraddizioni»:11 queste affermazioni di Harvey J. Graff, mentre sintetizzano alcuni aspetti della sua monumentale Storia dell’alfabetizzazione occidentale,12 delineano anche il quadro di riferimento, all’interno del quale si sono venute strutturando e definendo come cattoliche le scuole nella Chiesa Cattolica di Roma. La ragione per preferire il governo come educatore è dunque un problema di efficienza? Risponde Charles Leslie Glenn: «Per nulla; un certo numero di studi recenti ha evidenziato come le scuole dirette dal governo possano essere più costose e produrre risultati inferiori di quelle finanziate da fonti alternative. […] In realtà, il vero intento del programma di scuola unica mirava [e mira] al controllo, e non all’alfabetizzazione, all’efficienza o alla necessità di evitare i conflitti. Come ha notato Michael Katz, “solo nel campo dell’educazione, nel campo di una riforma della natura umana piuttosto che di una riforma dei sistemi sociali, i riformatori si sono spinti fino a usare la coercizione o a concepire soluzioni radicalmente nuove”.13 Ciò che è emerso chiaramente dal nostro esame degli argomenti usati dai suoi promotori è confermato dal sistema di istruzione popolare così come è stato effettivamente realizzato più tardi nel diciannovesimo secolo».14 Un problema grave consiste nel legare la nozione dell’alfabetismo come diritto umano e quella dell’alfabetismo come “funzionale”, economico o utilitario e la frequenza della scuola tout court. «A giustificazione di questo fenomeno furono addotti anzitutto motivi di natura sociale: si trattava di garantire la diffusione del servizio e la possibilità di usufruirne indipendentemente dalle condizioni economiche individuali; ma la ragione prevalente
HARVEY J. GRAFF, Alfabetismo di massa. Mito storia realtà, Prefazione di Armando Petrucci, Milano, Edizioni Silvestre Bonnard, 2002, pp. 45-46. 12 Bologna, il Mulino, 1989, vol. I Dalle origini alla fine del Medioevo; vol. II L’età moderna; vol. III Tra presente e futuro. 13 MICHAEL B. KATZ, The Irony of Early School Reform: Educational Innovation in Mid-Nineteenth Century Massachussetts, Boston, Beacon Paperback, 1970, p. 210. 14 CHARLES L. GLENN, Il mito della scuola unica, Edizione italiana a cura di Elisa Buzzi, Genova-Milano, Marietti 1820, 2004, p. 170. 11
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che provocò l’intervento diretto dello Stato fu senza dubbio la volontà di disporre di uno strumento proprio, al fine di garantire la formazione dei cittadini secondo gli orientamenti e gli interessi dell’autorità».15 Lo strumento, per mezzo del quale le autorità sono riuscite a raggiungere il loro scopo, ce lo indica Glenn: «L’istruzione pubblica negli Stati Uniti non è mai stata sottoposta a un controllo statale centralizzato come è avvenuto in Francia, e anzi il Massachusetts di Horace Mann ha una tradizione particolarmente forte di “controllo locale” delle scuole. Queste considerazioni strutturali e formali non ci devono però impedire di cogliere l’abile e risoluto sforzo di Mann e degli altri riformatori di ridefinire l’obiettivo e il contenuto della pubblica istruzione e di farlo in nome di uno stato benevolo e unificante. Nel perseguire questo obiettivo essi hanno presentato la “religione settaria” come l’implacabile nemico del progresso e se stessi come i suoi oppositori sempre perseguitati. In effetti, come aveva chiaramente percepito la maggioranza del Comitato per l’Istruzione, la vera questione non riguardava particolari concezioni religiose ma il problema di chi dovesse detenere il potere di determinare i valori di base dell’istruzione di ciascuna scuola».16 Ecco dunque il problema: «Questa è in effetti l’eterna questione dell’educazione. Se lo Stato abbia il diritto (o il dovere) di imporre che la socializzazione avvenga sulla base di valori che sono in conflitto con quelli dei genitori, o almeno di alcuni di loro, in nome di un più elevato interesse della società. Si combatte sempre per le menti dei bambini».17 «La raccolta e l’interpretazione dei dati statistici sull’istruzione, un’attività del tutto neutrale in apparenza, ebbe e continua ad avere il potere di definire la percezione dei punti di forza e di debolezza salienti delle scuole. La raccomandazione del materiale di lettura - e la messa al bando di altro materiale - ebbe e continua ad avere il potere di definire il campo degli argomenti che possono essere insegnati e discussi e la cornice di riferimento della
GIAMPAOLO ROSSI, La scuola di Stato. Problemi storici e giuridici nella prospettiva di riordinamento dei pubblici poteri, Roma, Coines Edizioni, 1974, pp. 9-10. 16 CHARLES L. GLENN, Il mito della scuola unica, a cura di Elena Buzzi, Genova-Milano, Marietti 1820, 2004, p. 116. 17 CHARLES L. GLENN, Il mito della scuola unica, a cura di Elena Buzzi, Genova-Milano, Marietti 1820, 2004, p. 240. «Forse il commento più interessante, a questo proposito, è stato quello di un funzionario dell’American Library Association ed esponente autorevole della lotta contro la “censura”, Judith Krug, che ha dichiarato alla stampa: “La questione riguarda quali valori vadano insegnanti, quelli dei genitori o quelli dello Stato. Si combatte sempre per le menti dei bambini”» (Ibidem). Per gli interventi di Judith Krug vedi Education Week, 5 novembre 1986; Washington Jewish Week, 13 novembre 1986; Washington Post, 6 ottobre 1986. 15
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loro comprensione. L’addestramento - e infine la certificazione - degli insegnanti ebbe e continua ad avere il potere di determinare cosa accadrà nelle aule molto più efficacemente di quanto potrebbe fare un sistema di norme e prescrizioni. La Scuola Normale [= scuola di formazione dei maestri], in particolare, ebbe un ruolo importante negli sforzi di Mann e degli altri “cristiani liberali”di promuovere una forma di “religione della scuola unica” che si pretendeva scevra da ogni carattere settario, mentre in realtà era coerente con le loro credenze e profondamente sovversiva rispetto a quelle dei loro oppositori ortodossi. Fu nella Scuola Normale, con il forte accento posto sull’insegnamento della moralità e su un’atmosfera di pietà liberale, che vennero formati gli insegnanti su cui si fondavano le speranze dei riformatori dell’istruzione. La formazione degli insegnanti fu, dunque, un modo efficace per evitare i problemi che un assalto diretto contro il controllo locale delle scuole avrebbe causato; questa strategia permise di affermare, in tutta sincerità, che le scuole pubbliche erano sotto la diretta supervisione dei comitati scolastici locali eletti dai genitori e spesso presieduti da un ecclesiastico ortodosso. Il vero contenuto dell’istruzione pubblica sarebbe stato determinato dall’emergente classe professionale di insegnanti, formati nelle Scuole Normali sotto il controllo dei riformatori dell’istruzione, e non dei genitori attraverso i loro rappresentanti locali».18 Nel mondo cattolico lo scontro tra Chiesa e Stato per l’insegnamento si realizzò frontalmente con la Rivoluzione Francese. Carlo Pancera così ricostruisce il discorso sulla riforma scolastica e sull’obbligo di istruzione: «In particolare quella giacobina è infatti una concezione che mira a superare lo spontaneismo,19 privilegiando il momento dell’iniziativa politica; per essa rivoluzionare significa più propriamente forzare una situazione. Con i giacobini del ’93-94 ci troviamo in presenza di una associazione che si struttura e si viene costruendo nella propria organizzazione con un movimento che va dall’alto in basso, dalla dirigenza (inequivocabilmente gli intellettuali) alla base (il popolo). Il club dei giacobini (in cui si individua il progenitore
18 CHARLES L. GLENN, Il mito della scuola unica, a cura di Elena Buzzi, Genova-Milano, Marietti 1820, 2004, pp. 116-117. 19 «Si ritiene necessario che le avanguardie facciano uso eventualmente della costrizione per orientare le masse inerti. “Un popolo assomiglia ad un orologio che non cammina se non per mezzo della chiave che lo ricarica ogni giorno” (da una lettera dell’agente Bô al Comitato di Salute pubblica» (p. 64. Lettera del 14 marzo 1793 citata in D. GUERIN, La lutte des classes sous la première République (1793-1797), Paris, Gallimard, 1946, vol. I, p. 294).
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del partito politico moderno) potrà reggere a tanti attacchi e a tante ondate repressive, grazie alla sua struttura che lo fa muovere con sicurezza, unito. L’unità dei giacobini è ferrea, funzionale all’autorità della dirigenza, nel senso di un rigoroso centralismo interno. Tale concezione politica si riflette anche nel momento in cui i giacobini divengono la fazione “di governo”, si assumono la responsabilità delle leve di potere politico centrale: per essi, in effetti, direzione e dominio sono equivalenti, il nucleo giacobino tende perciò a identificarsi e confondersi nello Stato. Di conseguenza, dovendo saper fare di necessità virtù, i giacobini tendono ad instaurare la propria dittatura rivoluzionaria nel senso di dittatura dei rivoluzionari (che sono necessariamente una minoranza militante). È concepibile, dunque, come con tali premesse si facesse strada, ad esempio, nelle proposte di riforma scolastica il concetto democratico di obbligo, che sino ad allora era sembrato contrastare con uno dei “grandi principi dell’89”, cioè con il principio della libertà dei cittadini. Tra i montagnardi, viceversa, il concetto di obbligo scolastico emerge come momento necessario di forzatura, appunto, di una situazione il cui ristagno è insindacabilmente giudicato allarmante dai dirigenti rivoluzionari, che si assumono la responsabilità di tale iniziativa. Iniziativa tuttavia democratica, poiché tale è il concetto ispiratore, in quanto favorisce il popolo anche nel caso che questi, inconsapevole e ottenebrato dall’ignoranza e dalle superstizioni, avversasse tale decisione. Il popolo va educato, cioè tratto fuori dalla sua condizione abbrutente, sia con i lumi della scienza, sia con una formazione in campo nazionale di una nuova visione morale moderna sganciata dai fideismi irrazionali, con la diffusione cioè di una “morale repubblicana”».20
L’utopia pedagogica rivoluzionaria (1789-99), Prefazione di Bronislaw Baczko, Roma, Editrice Ianua, 1985, pp. 64-65, nota 61. Riporto, dalla p. 235 due domande del Catechismo di La Chabeaussière (in versione italiana) E’ il Catechismo francese o sia Principj Di Filosofia, di Morale, e di Politica repubblicana ad uso delle scuole primarie di Chabeaussière, Tradotto dal Francese in Ferrara, L’Anno Quinto della Repubblica Francese, Per Francesco Pomatelli al Seminario, Veduto dal Capo di Brigata, Comandante del Forte, e della Piazza, B. Yann:
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48. A che serve lo studio? Ammaestra l’infanzia, alla vecchiezza Reca ornamento, più compiuta rende L’altrui felicità, l’alme consola Nello stato d’angustia; e contro i colpi Dell’ignoranza rea tenendo armata La verità, della sua luce oppone La chiarezza agli agguati dell’errore.
49. L’ignoranza è dunque nociva? Fur tutti i malifi onde la terra abbonda Un opra sua: nacque de’ nostri dritti L’abbandono da lui: del fanatismo Ella fu sorgente, essa produsse La schiavitù: l’avvilimento fece Della natura, e profanò le sue leggi.
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La persona umana La persona umana, quale relazione ipostatica, è la morale e il diritto sussistenti. Appunto perché libera e responsabile, dotata delle facoltà naturali di intelligenza e volontà, la persona ha un compito fondamentale di discernimento per realizzare il proprio progetto di vita e il progetto personale professionale. «Nessuno può sostituirsi a questo compito». Ecco perché l’educatore è tale se aiuta la persona in questo, non se si sostituisce ad essa o, peggio, se impone i propri schemi mentali. Ogni persona «deve scoprire attraverso un attento e appassionato esame a che cosa Dio la chiama in ogni concreta situazione e scelta di vita». Il discernimento «rappresenta il modo più normale e quotidiano per non assumere le forme dettate dalla mentalità dominante».21 La libertà di apprendimento comporta un progetto personale di apprendimento, attraverso un libero e critico discernimento interiore, in risposta alla propria coscienza e nell’attivazione dei propri diritti. È indispensabile per ogni persona umana giungere alla conoscenza concreta teorica e pratica delle proprie attitudini e della portata delle proprie aspirazioni, per mezzo di un apprendimento per competenze. E questo avviene nella relazione educativa, a cominciare con i propri genitori, con i docenti. Guai a noi se imponiamo alla crescita dei giovani i nostri schemi mentali: dobbiamo individuare le attitudini dei giovani e far emergere le loro aspirazioni, per accompagnarli nella strutturazione e nella realizzazione di progetti personali. Ora questo avviene strutturalmente attraverso l’apprendimento personale, informale, non formale e formale. Ne consegue che la presenza dei genitori e dei docenti deve portare progressivamente i giovani ad un progetto personale di apprendimento affinché si mettano in grado di realizzare un loro progetto di vita e professionale. «La ricerca della Verità diviene amore per essa; questa è la controrivoluzione tutta cristiana operata da Rosmini: non è la Verità che gira intorno all’uomo, ma l’uomo si muove nella Verità, da cui è, della quale è in lui una scintilla, a cui tende. […] La riscoperta del diritto connaturale alla Verità è l’obiettivo primo della carità intellettuale, amore effusivo e diffusivo, che non teme le domande bensì l’assenza delle stesse. Chi non si pone domande finisce infatti per essere anche incapace di amare – chi può amare, se non conosce nessuno? –, perde il dinamismo inesauribile proprio della tensione alla Verità».22 LIBORIO DI MARCO, L’offerta di sé a Dio. Indagine esegetico-teologica su Rm 12.1-2, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2011, p. 301. 22 ANNA MARIA TRIPODI, Antonio Rosmini e la carità intellettuale in ANNA MARIA TRIPODI – WOJCIECH CEBULSKI, Carità intellettuale e nuova evangelizzazione. L’inno alla Verità di Antonio Rosmini e Giovanni Paolo II, Prefazione di S.Em. Stanislaw Card. Dziwisz, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 2011, Parte I, pp. 38-39. 21
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All’interno delle scuole, i processi di insegnamento e di apprendimento devono essere attivati nel rispetto della ricerca della verità, criticamente: «la verità non è come una circolare con la quale si raccolgono le firme, ma sta nel valore intrinseco dell’interiorità».23 Pertanto l’aiuto fondamentale del docente nell’azione di insegnamento consiste nel condurre con responsabilità lo studente ad aprirsi alla realtà nella verità; in questo modo emergono le capacità e le attitudini dello studente stesso. Il diritto dello studente ad apprendere è diritto costitutivo della persona umana proprio per l’apertura ricettiva alla realtà nella verità: la persona umana è diritto sussistente. La verità non è la corrispondenza impossibile di un’idea con la realtà; infatti, tra l’altro, la conoscenza umana non è limitata alla dimensione teorica di essa. Uno non conosce una persona solamente perché ne ha l’idea! Giungendo all’azione e alla prassi si perviene alla realtà e alla conoscenza formalmente umana: la verità comporta sempre una relazione della persona con la realtà, della persona tutta intera. L’apprendimento umano, costitutivo di ogni persona umana, in quanto essere finito, è teso verso la verità nella libertà: è ciò che fa crescere la persona, l’humus dal quale essa si nutre e si realizza. L’insegnamento è proposta di verità nella libertà ed è questa la sua originaria laicità: nel significato che deve rispettare la libertà di ogni persona di fronte alla verità, senza alcuna imposizione. E la verità va cercata nella libertà. Questo significa che essa non può essere imposta e che vi è un contrasto costitutivo tra verità e imposizione, violenza, sotto qualunque forma essa si manifesti. Ma in noi vi è l’obbligo di cercare la verità senza fine. La libertà significa responsabilità e obbligo morale di fronte alla verità. Da questo punto di vista l’interazione tra insegnamento e apprendimento avviene nella ricerca della verità, con l’obbligo di coscienza di cercarla da parte di tutti gli attori dell’interazione e di accoglierla con libero convincimento interiore. Il progetto personale di apprendimento trova la sua origine proprio nella persona quale relazione ipostatica, creata a immagine e somiglianza di Dio, in relazione con Lui, che è Relazioni sussistenti (Pesone). Da questa origine trascendente, emerge il progetto di vita di una persona, proprio per la sua realizzazione intelligente e responsabile in relazione continuata e in uno scambio senza fine con le altre persone. Questo scambio, quando avviene nei valori, è collaborazione e cooperazione continuata, porta alla realizzazione.
SÖREN KIERKEGAARD, Postilla conclusiva non scientifica alle “Briciole di filosofia”, in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Casale Monferrato, Piemme, 1995, vol. II, p. 372.
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Il progetto professionale personale diviene l’impegno fondamentale di apporto del capitale umano acquisito: è l’investimento di una persona per la realizzazione pure di ogni altra persona. Il progetto personale di apprendimento lungo tutta la vita è il percorso, formalmente umano, di realizzazione sia del progetto professionale che del progetto di vita. La possibilità di un progetto di vita e di un progetto professionale personale di ognuno di noi quale soggetto, con l’origine trascendente, è legata alla coscienza, ai valori vissuti da ciascuno di noi e dalle altre persone. E’ la relazione, con i valori vissuti che comporta e fa crescere, l’habitat di tali progetti. L’apprendere libero, ma impegnato di fronte alla verità, è costitutivo della persona ed è fondamento di ogni relazione e della convivenza civile. La relazione, il rapporto con gli altri richiedono, dunque, reciprocità: emerge il diritto e l’esigenza di chi ne garantisca il riconoscimento e l’esercizio effettivo. La distinzione fondamentale è tra il diritto, che emerge dalla persona, appunto diritto sussistente, nella relazione che la costituisce, e il riconoscimento da parte di terzi di tale diritto e dell’esercizio effettivo di esso. Bruno Leoni precisa: «”tu devi” vuol dire “io pretendo”» con riferimento al diritto; ma il «tu devi» ha origine nell’interiorità, nella coscienza e nella relazione originaria creativa con Dio, che mantiene nell’esistenza. Di conseguenza anche il «tu devi» umano è costituito analogicamente con il «tu devi» della coscienza e da esso origina. E dalla persona umana sgorga, dunque, il diritto. Le relazioni umane sono fondate e vivono dei valori; questi divengono diritto della persona, che è diritto sussistente! E’ la relazione, che costituisce la persona, che è pure la fonte del diritto, perché l’obbligo giuridico «viene e definirsi come giuridico soltanto se ridotto logicamente alla pretesa che gli corrisponde».24 A questo punto ed unicamente in questa situazione relazionale diviene un «tu devi». La legge dello Stato deve garantire il diritto delle persone, secondo il principio di sussidiarietà.
24
BRUNO LEONI, Il diritto come pretesa, Macerata, Liberilibri, 2004, p. 52.
CHARLES LAPIERRE, FSC Giovanni Battista de La Salle - cammina alla mia presenza Città Nuova, Roma 2006, pp. 234 L’autore ricostruisce l’itinerario del La Salle nel realizzare la vita che Dio gli ha chiesto “camminando alla sua presenza” e risponde a quanti desiderano conoscerlo come pedagogista e istitutore di grande attualità, ma anche a genitori ed educatori, che vedono in lui un modello da incarnare e un ideale da trasmettere ai giovani.
TERESIO BOSCO, SDB Giovanni Battista de La Salle – la forza di donare la vita Elledici, Leumann (To) 2004, pp. 44 Tratteggia la figura e l’opera del La Salle, pioniere dell’educazione in un tempo decisamente diverso dalla nostra epoca, specie in ambito scolastico ed educativo. La lettura del breve ritratto rende attuale la passione che il santo ebbe per la gioventù dell’epoca. E che i Fratelli delle scuole cristiane continuano a vivere oggi.
MANUEL OLIVÉ, FSC Giovanni Battista de La Salle – una vita per i giovani Istituto Gonzaga, Milano s.d., pp. 96 Biografia agile, incisiva, essenziale. Ricca di illustrazioni, è quanto mai adatta anche ai preadolescenti per iniziare un percorso di conoscenza di un santo educatore che per dedicarsi alla promozione dei ragazzi più poveri ha lasciato il ceto dei benestanti coinvolgendo nell’avventura altri giovani generosi per istituire le scuole gratuite.
LEO C. BURKHARD, FSC Un birichino di Parigi trad. it. di Camillo Coffano, Editrice A.&C., Milano 1961, pp. 160 Una storia romanzata alla gloria del pioniere e santo protettore delle scuole popolari. Tutte le vicende richiamano dei fatti storici. Al fine di garantire l’unità del racconto, l’autore ha ideato il personaggio del narratore attribuendogli dei fatti accaduti a molti. È lui – questo birichino di Parigi trascinato nella scia dell’eroe – che vi parla.
Giovanni Battista de La Salle Fondatore dei FSC e Patrono degli educatori fumetto di G. Signori e F. Pescador – Prov. Italia FSC, Roma 2008, pp. 207 I disegni, il testo e la sceneggiatura del fumetto, mentre non impediscono l’accostamento degli adulti alla vicenda storica e all’opera del La Salle, favoriscono invece un interessante e attento approccio all’opera del santo anche ai più piccini. •••
Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 513-516
CULTURA CLASSICA E CULTURA TECNICA DI RAIMONDO MURANO (Direttore Generale per l’Istruzione e la Formazione tecnica superiore e per i rapporti con i sistemi formativi delle Regioni)
I
n Italia è dominante un vecchio modello culturale che contrappone il sapere al saper fare, la conoscenza teorica alle competenze tecniche e pratiche, con il risultato che molti giovani non incontrano il lavoro e il lavoro non incontra i giovani. È tempo di ristabilire pari dignità tra cultura classica e cultura tecnica, scientifica, imprenditoriale; bisogna creare un rapporto più stretto tra scuola e aziende, rilanciare la formazione professionale e l’apprendistato, orientare i giovani nella scelta della scuola in base alle richieste del mercato del lavoro, abbandonare vecchi schemi di presunta “aziendalizzazione” della scuola. Nel nostro Paese sopravvivono resistenze ad accettare le regole dell’ “economia della conoscenza”, in cui il lavoro è sempre meno lavoro materiale e sempre più lavoro cognitivo, nel senso che usa le conoscenze acquisite, il sapere, frutto di studio e di applicazione, per produrre competenze portatrici di utilità e servizi. Nel nostro Paese, permane una contrapposizione tra la concezione intellettuale ed astratta di sapere e il saper pratico, tra approccio induttivo e approccio deduttivo, tra studio e lavoro, che disorienta le famiglie – e non solo – nella scelta dell’indirizzo scolastico dopo la terza media. Oggi, invece, il lavoro utilizza sintesi, creatività, saldature tra ciò che un tempo era contrapposto. Oggi il lavoro chiede una grande familiarità con le reti telematiche, con i linguaggi che rendono trasferibili – a distanze un tempo impensabili – conoscenze, competenze, abilità non più rinchiuse in recinti euristici di vecchio conio. Oggi si affermano lavori “flessibili o modulari”, orientati a specializzazioni molto focalizzate, in cui si impara attraverso percorsi brevi, innestati su una base di preparazione generale, per acquisire abilità professionali transitorie o mutevoli.
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Abilità, queste, da utilizzare sempre meno in un lavoro duraturo, per tutta la vita, e sempre più “trasferibili” da un lavoro all’altro, perché i modelli che abbiamo finora vissuto sono ora alle nostre spalle e non saranno vissuti dai nostri figli. Se tutti i lavori sono quindi «cognitivi», se la conoscenza è il fattore decisivo nella produzione e nell’economia, dobbiamo abbandonare la dicotomia tra cultura umanistica e cultura scientifica, tra formazione da un lato e lavoro dall’altro, perché non vi è oggi vera cultura umanistica che non sia intrecciata a conoscenze alte, anche tecnologiche e telematiche. Questa polverosa dicotomia tra mente e mano, tra “posizioni alte” e “posizioni basse” della formazione, va superata e presto, sia in ambito sociale che scolastico. Ne fanno le spese, altrimenti, i nostri giovani e le nostre imprese, che lamentano circa 117 mila posti di lavoro che non trovano risposta, inevasi per mancanza di domanda lavorativa. Dato questo che mette l’Italia di fronte ad una nuova forma di disoccupazione, quella “da rifiuto”, inimmaginabile fino a pochi anni or sono. Dobbiamo fare di più nel convincere e nel convincerci che bisogna costruire un ponte tra la “cultura speculativa” e la “cultura applicativa”. Se la prima è figlia della tradizione crociana e gentiliana, la seconda è prodotto del pragmatismo anglosassone, di stampo prevalentemente Nord americano, come John Dewey ci ha insegnato. Dobbiamo considerare superate, come detto, le antiche diaspore tra la cultura dell’intelletto, che guarda con sussiego alla cultura del fare. In Italia, una delle poche espressioni intellettuali che hanno saputo porre le basi per la costruzione di questo “ponte” è riconducibile all’anconetana Maria Montessori, anche se le sue scuole sono molto più diffuse in America rispetto all’Italia. La nuova responsabilità delle classi dirigenti si alimenta di ragione e passione, di istinto e programmazione, di capacità di visione e di assunzione di rischio sulle cose buone da fare. La nostra visione del mondo, quello specifico che deve caratterizzare la cultura tecnica e professionale dei nostri Istituti, non prevede dualismi e fratture, ma esalta e valorizza integrazione tra mente e mano, tra intelletto e lavoro. In poche parole, i nostri Istituti Tecnici e i nostri Istituti Professionali sono il ponte tra la cultura intellettuale e la cultura pragmatica; ponte questo oggi ineludibile, in quanto caposaldo della cultura contemporanea e delle tecnologie avanzate che ci circondano. Ciò che va superata, in prima battuta, è una tara ideologica del passato, che privilegiava esclusivamente la formazione generalista e liceale. La cultura tecnica dell’Italia, invece, è un patrimonio inestimabile e continua a rap-
Cultura classica e cultura tecnica
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presentare un asset strategico per il nostro Paese. Per troppi anni la si è confinata in secondo piano. Oggi occorre ridarle quella dignità che ha permesso di formare in Italia nei decenni passati professionisti di livello mondiale. È indispensabile un progetto complessivo sulla formazione tecnico-professionale che coinvolga le scuole, le aziende, i sindacati e i territori con le loro singole specificità. Va migliorata la connessione tra scuola e azienda con un lavoro di dettaglio e con al centro la figura dello studente da accompagnare nel suo percorso. Una risposta concreta per saldare e unire ciò che a scuola e nel comune sentire è ancora diviso e distante, è rappresentata dagli Istituti Tecnici Superiori (ITS) avviatisi ora nel nostro Paese. Ed è una novità da tempo attesa che ci mette in linea con l’Europa. Al riguardo dobbiamo, però, condividere alcune idee: gli ITS non rappresentano né il 6°/7° anno della scuola secondaria superiore, né un ulteriore corso universitario, una sorta di laurea super-breve biennale; ma si collocano all’interno di un nuovo settore non esistente in Italia, quale quello del sistema “terziario post-secondario”. Nel nostro Paese solo il 3,1% dei 15 – 24enni (la media europea è del 7,8%) ha una laurea ed è laureato solo il 20,7% dei 25 – 34enni (a fronte di una media europea del 33%). Gli ITS hanno senso solo se si qualificano per la loro specifica collocazione, in rapporto con il mondo della ricerca, con il mondo accademico e soprattutto con il lavoro e le esigenze del mercato del lavoro. Gli ITS vogliono accompagnare e formare i giovani alla valorizzazione dei risultati della ricerca tecnologica più avanzata e vitalizzare le capacità di progettazione di percorsi innovativi, con l’obiettivo di rafforzare e qualificare i percorsi di specializzazione tecnica superiore nelle aree tecnologiche di “Industria 2015”. Come ha stabilito la recente Legge 240 di riforma del sistema universitario con gli artt. 3 e 14, gli ITS rappresentano una concreta proposta formativa, dotata di una propria specificità didattica, votata alla premialità di una costante attività laboratoriale in situazione, il cui riconoscimento di crediti formativi universitari (CFU) è in fase di definizione. Gli ITS sono Fondazioni di partecipazione di diritto privato con apporto pubblico, che si qualificano come “organismi di diritto pubblico” per le scelte negli appalti, lavori servizi e forniture. Negli ITS scuola, struttura formativa accreditata dalla Regione, impresa del settore produttivo, dipartimento universitario ed ente locale esercitano un ruolo nevralgico e paritario di soggetti fondatori, per assicurare standard organizzativi adeguati e assicurare piena occupabilità dei nostri giovani al termine di un percorso selettivo di durata biennale.
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Gli ITS devono essere messi in grado di dare una risposta di sistema tra domanda e offerta di lavoro altamente qualificato, a condizione che sappiano recepire i fabbisogni formativi ed innovativi espressi dal mondo dell’impresa e realizzare una forte azione di orientamento rivolta alle famiglie, agli studenti, agli insegnanti. Gli ITS devono segnare una discontinuità rispetto ai percorsi formativi della scuola secondaria di secondo grado: senza mai rinnegare la scuola, gli ITS sono altro rispetto alla scuola e all’Università. La didattica, su cui si articolano le 1800/2000 ore degli ITS, deve abbandonare schemi e vincoli disciplinaristici per privilegiare metodologie più specificatamente legate alle realtà aziendali e, in generale, al mercato del lavoro. Non interessando alcuna prosecuzione verticalizzata della formazione secondaria, interessa che i percorsi ITS costituiscano un punto essenziale di interazione tra formazione e impresa, abbandonando obsolete dispute tra istruzione e apprendistato. Il Decreto Interministeriale, adottato di concerto con il Ministero del Lavoro ai sensi dell’art. 4 comma 3 del citato D.P.C.M. 25 gennaio 2008, è stato predisposto il 7 settembre 2011 e registrato alla Corte dei Conti il 29 novembre 2011. Vi abbiamo definito le sei Aree Tecnologiche, i 17 ambiti di articolazione delle aree, i 29 profili culturali e professionali dei diplomati degli ITS, descrivendone le figure e le macro competenze in esito. Dobbiamo assolutamente lasciare alla autonomia delle Fondazioni la determinazione del curricolo dei percorsi formativi tecnico-professionali, con quella definizione delle specificità di ciascuna figura centrate sulle applicazioni tecnologiche richieste dalle imprese del settore produttivo di riferimento e dalle relative istituzioni del territorio. Alla struttura centrale è invece rimessa l’azione di monitoraggio e valutazione degli ITS, nell’attuazione piena e convinta dell’art. 14 del DPCM 25 gennaio 2008 che ha dato avvio, anche in Italia, al Terziario post-secondario, al solo scopo di saldare le filiere formative alle filiere produttive. È una risposta anche a quel 35,9% di disoccupazione giovanile che pesa negativamente nelle speranze di un progetto per il futuro dei nostri giovani.
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 517-524
RICERCHE
I GIOVANI E I MEDIA DIGITALI: IL PROBLEMA EDUCATIVO DI GAETANO DAMMACCO Ordinario di Diritto ecclesiastico e Diritto canonico (Università degli studi di Bari)
1.
Nel 2010 la Conferenza Episcopale Italiana organizzò un convegno sulle “Relazioni comunicative e affettive dei giovani nello scenario digitale”, riproponendo con vigore l’attenzione sui problemi dei giovani in un ambito, come quello digitale, che porta con sé un fascino intrinseco valutato sempre (ma non opportunamente) in modo positivo. La ricerca antropologica in questo campo si è sviluppata in una triplice direzione, quella dell’approccio, quella del metodo e quella dell’obiettivo, mostrando la complessità di uno scenario non sempre osservato in modo corretto. Il dibattito e le conclusioni del convegno spingono a indagare verso altri obiettivi, che tengano conto della forte combinazione tra progresso tecnologico, uso dei media digitali e cambiamenti psicosociali. La facilità di accesso, favorita dalla padronanza dei meccanismi, spesso interagisce con la caduta delle inibizioni, specie nell’adolescenza, concepita non solo come evoluzione dell’età, ma anche come maturità personale. Tutto ciò definisce un profilo esistenziale basso e precario, paradossalmente coerente con le tendenze sociali, che mette in evidenza la limitatezza delle prospettive di vita e la scarsa fiducia nel futuro. Nell’uso dei media digitali, la posizione dei giovani assume una cruciale valenza e impone alcune sfide educative, specie in considerazione del fatto che nel tessuto sociale, oggi particolarmente sofferente a causa della crisi dalle molte sfaccettature (finanziaria, economica, culturale, spirituale, sociale) è difficile esercitare il protagonismo richiesto dai ruoli e dalle circostanze. Con riferimento al campo del digitale, si osservano cambiamenti nei comportamenti individuali e nelle relazioni intersoggettive, di forma e di sostanza, che mettono in crisi i tentativi di orientare lo sforzo educativo verso un unico modello culturale e si stenta a individuare la forma di un modello dominante. Il rapporto tra i giovani e il multiforme mondo digitale presenta notevo-
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li connessioni interdisciplinari che ne caratterizzano l’analisi e impongono uno studio più attento ai molteplici aspetti di carattere educativo, giuridico, psicologico per recuperare la funzione orientativa verso valori superiori non contrattabili. Inoltre, l’uso diffuso dei media digitali influenza la rete dei rapporti sociali e delle relazioni quotidiane, incidendo anche nella struttura organizzativa e istituzionale. I giovani (considerando la fascia d’età tra i 18 e i 35 anni, categoria d’età, ad esempio, destinataria delle agevolazioni per l’imprenditoria giovanile) costituiscono il futuro del Paese, pur costituendo il 23% della popolazione (dati di un’indagine dei Ministero del Lavoro e della Pubblica Istruzione dell’anno 2010) in un contesto sociale di continuo invecchiamento. Evidentemente si deve tener conto che la nostra società sta acquisendo sempre più decisamente i caratteri di un sistema multiculturale (e talvolta multietnico) con una presenza giovanile molto significativa, se si considera che il 43,9% della popolazione straniera residente ha un’età compresa tra i 18 e i 39 anni. Ciò induce a considerare la questione del rapporto tra giovani e mass media anche alla luce di variabili multiculturali. 2. La relazione tra i giovani e gli strumenti digitali presenta ambiti di positività e di negatività, come ogni ambito dell’esperienza personale; per questo non è solo una questione tecnologica, ma è un problema che appartiene alla ricerca del senso della vita. L’uso e l’abuso delle tecnologie informatiche e delle opportunità offerte dalla rete web influenza le condizioni psicologiche e modifica quelle sociologiche, poiché ne viene coinvolta la rete delle relazioni personali con partner non visibili e sconosciuti, aumentando rischi e pericoli. Pur non avendone piena consapevolezza, il giovane utente della rete mette in gioco continuamente i valori fondamentali della persona umana senza alcuna forma di controllo. La facilità di accesso e dell’uso dei media digitali da parte delle nuove generazioni contiene in sé elementi di sviluppo (personale e sociale), elementi di rischio e favorisce la diffusione di modelli educativi. Questi modelli, che possono essere intercettati ma non facilmente controllati, presentano un duplice volto: e, infatti, contengono sia reali modalità di sviluppo personale nel consentire l’allargamento delle visioni della vita, sia dinamiche di pervasività psicologica. Inoltre, esiste il pericolo concreto e attuale che gli effetti negativi sopravanzino quelli positivi. Recenti studi (si pensi a quello dell’Università di Palermo e dell’Università Cattolica, all’indagine svolta dall’Osservatorio sui diritti dei minori) hanno verificato l’esistenza di pericoli derivanti dall’abuso di internet e la tendenza giovanile a sviluppare una sorta di rapporto compulsivo, rendendo ancor più problematico il quadro delle nuove paure psicosociali (ad esempio la”’tv babysitter”, la “dipendenza da cellulare”, la “pc-mania”, l’uso a fini di violenza).
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Si tratta di problemi non trascurabili, rimarcati da dati statistici che segnalano, tra gli altri dati, come il 90% dei giovani utilizza i media digitali e soprattutto il web in maniera diffusa e costante. A far preoccupare seriamente gli studiosi è la constatazione che fra questi giovani, 1/5 mostra evidenti segni di tecnodipendenza, una vera e propria patologia, con conseguenti difficoltà di relazionarsi con se stessi e con il prossimo in termini tali da poter addirittura sfociare in vere patologie mentali. Si tratta, tuttavia, di un fenomeno in lieve crescita e distribuito diversamente sul territorio (ad esempio, su 250mila giovani siciliani tra 17 e 21 anni soltanto il 5% sembra essere affetto da Internet-dipendenza). L’abuso di internet costituisce una vera e propria “realtà alternativa” capace di alterare e intaccare l’equilibrio psicologico di un individuo e determinare disturbi della personalità. Si tratta di persone giovani che risultano vittime di una dipendenza subdola, ma non ancora chiaramente classificata come tale. La crescita della loro personalità potrebbe essere profondamente compromessa e disturbata, poiché è dato riscontrare l’esistenza di distorsioni di tale natura da ledere l’autostima e, soprattutto, la stessa dignità di esseri liberi e pensanti. 3. La lettura dei dati, inoltre, dice che il 72% degli adolescenti italiani preferisce il web ai genitori o agli insegnanti quando si tratta di “chiedere consiglio”, dando vita a una sorta di ‘agenzia di socializzazione’ (così viene definita dall’indagine curata dall’Osservatorio sui minori) a cui ci si rivolge per qualunque tipo di suggerimento (alimentare, psicologico, sessuale, ecc). Nondimeno, la situazione delle ragazze risulta ancor più problematica se è vero che a cercare soluzioni e consigli sono in prevalenza giovani di sesso femminile (62%). Si tratta di un processo di socializzazione orizzontale tra soggetti che appartengono allo stesso mondo nel quale si giocano alternativamente ruoli differenziati, essendo di volta in volta ora distributori di consigli ora fruitori. Evidentemente è una forma di protagonismo che contiene in sé elementi di non secondario contrasto, poiché la distribuzione dei consigli poggia solo sulla base di un’esperienza limitata e molto relativa, mentre la fruizione degli stessi è resa, per così dire, “autorevole” solo perché proveniente da un coetaneo riconosciuto come appartenente a uno stesso spaccato sociale. In tal modo viene meno il contenuto pieno di una funzione educativa che poggia su una molteplicità di elementi che definiscono l’autorevolezza dell’educatore (ad esempio, come esperienza, conoscenza, consapevolezza degli obiettivi, presenza di valori assoluti, testimonianza, responsabilità). Questa situazione disegna una funzione educativa di ambiente veicolata attraverso i media, i quali diventano una sorta di mediatore educativo “qualificato”, in quanto non sono semplici strumenti di processi educativi governati da altri.
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Ne deriva che, l’uso degli strumenti massmediali contiene elementi in qualche modo distorsivi dei processi educativi, che presuppongono una relazione interpersonale tra persone, che hanno bisogni differenti e ricoprono ruoli e funzioni differenti, risultando coinvolti negli affetti e nei sentimenti. In una visione classica il processo educativo è una relazione umana verticale che implica la trasmissione e l’acquisizione di modelli, di valori, di conoscenze. Nel mondo massmediale la circolarità si sostituisce alla verticalità e i ruoli si confondono articolandosi in relazione alle funzioni temporanee. Questa circolarità delle azioni e reazioni tra soggetti umani che non si conoscono, ma si danno reciproca fiducia, non è del tutto negativa, poiché potrebbe favorire il senso di partecipazione e di responsabilità, veicolando la reciprocità, elemento essenziale della relazione educativa, secondo una differente dinamica che coinvolge i soggetti in una contestualità, che è anche precarietà di situazioni, poiché le stesse persone sono contemporaneamente soggetti attivi e passivi di un processo educativo, che coinvolge e ricomprende tutti i partecipanti. Ciò significa che i mass media non sono “soggetti” educativi, ma costituiscono un particolare ambiente educativo dotato, tuttavia, di valori propri, poiché i luoghi di trasmissione dei valori educativi in qualche modo ne influenzano i contenuti, sovente modificandoli o deformandoli. Ciò significa che i media, per il fascino intrinseco di cui sono dotati, possono creare disagio o disorientamento, oppure favorire e stimolare i processi educativi. In ogni caso, il valore comunicativo, aggregativo e formativo del web e dei media digitali, in genere, è contrastato da fenomeni di dipendenza che offuscano la libertà di una persona nel momento più delicato della sua crescita umana, intellettuale, affettiva, psicologica, etica, religiosa. Inoltre, si tratta di fenomeni che appartengono a tutti i fruitori del web, indipendentemente dalle diverse tradizioni o culture. Infatti, fenomeni simili si registrano (talvolta con simili modalità, talaltra con varianti differenziate) anche in altri contesti sociali europei, anche in quei Paesi che si sono di recente affacciati a un sistema democratico euro-occidentale, come ad esempio la Polonia, l’Albania, la Slovacchia. 4. In un quadro di fluidità e complessità, non dobbiamo dimenticare che il mondo digitale è anche portatore di un “valore” in sé costituito dalle sue caratteristiche comunicative e diffusive di messaggi ed è anche un trasmettitore di “valori” fondamentali, che, specie attraverso la religione, possono essere veicolati per ridare dignità alla persona umana. Le modalità secondo le quali i giovani gestiscono le proprie “relazioni online”, mettono in evidenza la consistenza di un mondo nel quale obiettivo principale è la ricerca di una relazione. La volontà di utilizzare internet per mantenere una relazione assume, specie per una giovane utenza, la centralità di un valore, che con-
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sente di comprendere l’importanza della comunicazione per lo sviluppo personale. Se rapportiamo la “relazione on line” alle quattro modalità classiche individuate (relazionale-organizzativa, finalizzata all’incontro, relazionale-denotativa, finalizzata al conversare su qualcosa, relazionale-monitorante, per vedere cosa fanno gli altri, e relazionale-fatica, per chiacchierare senza altro scopo che mantenere la relazione) possiamo osservare una evidente divaricazione nell’obiettivo finale, che la relazione massmediale in realtà intende raggiungere, cioè quello del profitto. I giovani, come è stato osservato, preferiscono “stare con”, cioè creare uno spazio comune di scambio, nel quale si incrociano le vite degli utenti. Il grande successo dei social-network, utilizzati per mantenere il contatto con amici che non si frequentano o addirittura non si conoscono, dimostra quanto la cerchia amicale sia centrale nell’ orizzonte affettivo, indipendentemente dalla qualità della relazione o anche dalla sua durata. Questo, tuttavia, sembrerebbe contrastare con la logica dei gestori di rete e dei veri padroni occulti, i quali, in genere, non si pongono obiettivi educativi, ma cercano di utilizzare il massimo profitto, considerando prevalente la dimensione commerciale. In questo senso, l’uso dei media contiene un rischio più generale che tocca direttamente la persona, per le modalità con cui essa è considerata dal sistema che supporta il mondo digitale. Ciò riguarda direttamente la considerazione che nella società digitale viene riservata al capitale umano, spesso “utilizzato” per le sue caratteristiche di consumatore di servizi e di beni, come soggetto terminale di una rete di affari. Inoltre, la ricerca di una comunicazione in rete, pur esprimendo un’esigenza basilare di elevato valore, presenta anche motivi di superficialità, che a lungo andare possono determinare un disimpegno rispetto alla responsabilità personale a fronte della espansione di una affettività individualista. Comunque, la diversità dell’universo dei giovani e del loro rapporto con la rete mette in evidenza polarità differenti rispetto all’uso e all’utilizzo degli strumenti digitali. Si tratta di una non-omogeneità che incide sulla considerazione della persona e sulla autocomprensione della propria dignità personale. Ne consegue che il bisogno soggiacente all’uso delle tecnologie di comunicazione, che contiene elementi di positività nella logica della crescita della personalità, potrebbe essere facilmente soffocato. In tal modo, la comunità relazionale, creata dalla comunicazione massmediale, rischia di organizzare l’esistenza dei componenti, contrastando l’azione educativa e sostituendo ai valori umani fondamentali, un insieme di gusti, di impressioni, di modelli culturali, di stili di vita, di nuovi usi, che non sono sempre compatibili con la promozione della persona umana. Ciò comporta un problema concernente la relazione educativa della persona utente con il mondo dei valori fondamentali (da quello della vita a quello della persona, a quelli
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spirituali, a quelli religiosi), che assumono il carattere della relatività. Il bisogno di sostenere un universo relazionale complesso e ricco è al centro di un conflitto tra il controllo personale della propria vita e la pervasività di soggetti esterni che, anche attraverso l’uso degli strumenti digitali, intendono condizionare la vita personale quotidiana. 5. Nel quadro articolato sopra richiamato, un tema di ricerca è costituito dalla qualità della relazione e della comunicazione, che solo se orientate verso i valori umani e le libertà fondamentali della persona possono contribuire alla crescita della personalità degli utenti dei mass media. Si deve considerare che le scelte di vita compiute tra i 18 e i 30 anni sono fondamentali e possono essere favorite o influenzate dal digitale, al quale i giovani di queste età si avvicinano con facilità e senza filtri. Per questo, un problema centrale, affinché la comunicazione attraverso l’uso della rete possa davvero sostenere i singoli percorsi formativi dei giovani utenti, consiste nell’individuazione dei modi più idonei a creare relazioni comunitarie libere, che possono sviluppare il senso di appartenenza a una comunità più ampia e non di carattere virtuale. In questa direzione non si deve sottovalutare che la maggiore circolarità comunicativa, consentita dalle nuove tecnologie, favorirebbe la responsabilità personale nel partecipare alla vita democratica, contribuendo alla crescita complessiva del Paese. Esistono esempi recenti sull’uso del web nel processo di partecipazione democratica, come ad esempio nell’esperienza della “primavera araba”, nelle recenti elezioni amministrative in Italia, nell’esperienza politica recente degli Stati Uniti d’America, a dimostrazione del peso rilevante che può avere la comunicazione in rete. Tuttavia, i promoter, le aziende, i grandi network non sempre vanno verso la direzione della crescita della persona umana con il rischio che si vengano a instaurare relazioni distorte e inquinate. Il motivo principale che generò la nascita di Internet era quello di favorire lo scambio di informazioni e la comunicazione; pertanto geneticamente non prevedeva sistemi di protezione. Tuttavia, l’evoluzione tecnologica e la diffusione dell’uso del digitale nei più diversi ambienti hanno favorito l’uso deviato di questi strumenti e, quindi emerge un problema di sicurezza informatica insieme con la necessità di una maggiore vigilanza prima di tutto per la protezione della stessa persona-utente. Nonostante i progressi registrati, esistono ancora notevoli carenze normative anche a motivo del ritardo rispetto alla velocità con cui si manifestano i fenomeni. Si rende necessario porre mano a un riordino legislativo per varare una legislazione che sempre più consapevolmente tuteli i giovani non solo come utenti ma come portatori di una dignità propria. Del resto, ogni forma di tutela contribuisce non solo alla sicurezza del digitale, ma anche alla conservazione di quegli elementi di positività che il digitale rappresenta e contiene, in quanto esso costituisce un frutto della umana
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intelligenza e come tale non può che portare benefici. Tuttavia, i benefici e i risultati positivi devono essere conquistati, poiché la distanza delle regole della comunicazione rispetto a un sistema di valori fondamentali e non contrattabili, che riguardano la persona umana e la sua stessa dignità esistenziale, è percepibile. Ma si deve anche osservare che questa distanza (che sovente diventa conflitto) non è dovuta all’esistenza del digitale in sé, bensì alla combinazione degli interessi e alla pervasività dei “poteri”, comunque li si voglia denominare, che traggono vantaggi economici dall’uso del digitale. Un ulteriore elemento positivo è dato anche dall’allargamento della consapevolezza che il mondo virtuale non può essere un mondo “inesistente”. Esiste una forte tendenza alla costruzione di mondi paralleli, ma si può constatare che esso è fortemente contrastato dall’aumento della responsabilità come elemento del mondo online. Si può notare come lo stesso conflitto tra mondo irreale e mondo reale (attraverso il digitale) è di per sé un fatto positivo, anche nel senso che i giovani specialmente (in ciò vi è differenza con il mondo degli adulti) acquistano progressiva consapevolezza che la loro vita non può essere a doppia dimensione, poiché esiste un unico spazio, fatto di tanti frammenti, nel quale essi devono giocarsi la propria esperienza vitale, articolata diversamente e unificata da relazioni e da pratiche. Un secondo elemento di valutazione riguarda il valore della relazione individuale, come forma di identità e di sottrazione alla omologazione di gruppo. La gestione delle proprie identità digitali lascia emergere l’imprescindibilità di un bisogno di continuare a essere persona anche entrando in uno spazio non completamente libero, pur apparendo tale. Si può osservare che l’esigenza identitaria cerca di dare forma a una sostanza relazionale. Tuttavia, si corre anche il rischio di enfatizzare la propria individualità caratteriale piuttosto che identitaria, dando spazio a sbocchi di chiusura e non di apertura. La comunicazione diffusiva e interattiva dei valori fondamentali costituisce un luogo decisivo per lo sviluppo della personalità umana in una direzione armonica. Si tratta di una sfida posta alle agenzie culturali e soprattutto alle religioni, che non sempre si presentano nella rete in modo da favorire un approccio di desiderio e conoscenza. Si avverte il bisogno di porre maggior attenzione alla persona e ai suoi valori, affinché essa possa introitare quei valori, anche dottrinali, che ne sostengono l’esistenza e che, in quanto tali, non contrastano con la ragione e i sentimenti umani. Le religioni devono parlare di sé e con i “giovani utenti digitali”, devono ispirare fiducia e dialogare comunicando speranza, affinché la dimensione personale si presenti come il vero bene da mettere in comune. Si deve prendere maggior consapevolezza che il digitale è uno strumento di comunicazione con persone e tra persone e non il luogo della elaborazione teologica o della conservazione dei contenuti teologici. Non ci si può nascondere il rischio che
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l’enfatizzazione dell’armonia personale possa sminuire la comunicazione dei valori fondamentali e banalizzarne i contenuti. Non che questa cura sia assente nei siti delle religioni, ma sembra talvolta un obiettivo nascosto, risultando prevalente l’esigenza di “farsi conoscere”. Secondo una certa indagine negli Stati Uniti (Barna Research Group, centro californiano specializzato in indagini statistiche su internet), il 12 % della popolazione americana usa internet per scopi religiosi. Ma ancor più interessante è il dato relativo agli adolescenti, dei quali uno su sei dichiara di usare internet come sostituto o alternativa alle attività religiose tradizionali. Quest’uso alternativo d’internet rispetto ai luoghi tradizionali di culto, per esigenze specificamente religiose e non solo di ampia dimensione spirituale, è una verità di grande interesse, che dovrebbe essere intercettata dalle religioni. L’uso alternativo del cyberspazio per scopi religiosi deve porre alle religioni una serie d’interrogativi per comprendere se assistiamo a un nuovo modo di intendere la religione oppure quanto di questa tendenza appartenga alla mercificazione o alla moda e quanto appartenga ad una reale esigenza di fede, alla ricerca di nuove espressioni del senso religioso. In ogni caso si tratta di una sfida che va nella direzione, più o meno consapevole, di una sorta di umanesimo digitale come necessaria espressione della dignità della persona umana.
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LE BIENHEUREUX SALOMON, DES FRÈRES DES ÉCOLES CHRÉTIENNES ET LE PÈRE PIERRE-JOSEPH DE CLORIVIÈRE UNE COLLABORATION EN TEMPS DE RÉVOLUTION (1791-1792) PAR
PHILIPPE MOULIS1 ET FR FRANCIS RICOUSSE2
P
ierre-Joseph de Clorivière est né à Saint-Malo en 1735 dans une famille d’armateurs. En 1756, il entre dans la Compagnie de Jésus. Avec l’expulsion des jésuites de France, le jeune disciple d’Ignace de Loyola s’exile dans les Pays-Bas autrichiens, puis en Angleterre. En 1772, il est ordonné prêtre. La suppression de la Compagnie de Jésus par le pape Clément XIV, en 1773, contraint le père de Clorivière à regagner la France où il exerce diverses charges pastorales et éducatives. Survient la Révolution française. La nuit du 4 août 1789 supprime la dîme et les droits seigneuriaux. Les clercs sont considérés comme des citoyens ordinaires. Cette décision enlève au système bénéficial, une partie de ses moyens de survie. La religion catholique devient religion d’État en février 1790, tandis que les ordres religieux sont supprimés.3 Les biens du
Université de Paris 13, Sorbonne Paris Cité, CRESC (E.A. 2356). Directeur des archives des Frères des Écoles chrétiennes à Rome. 3 La bibliographie sur ce sujet est immense. Sur l’évolution de l’histoire religieuse en France voir: Jacques-Olivier BOUDON, «L’histoire religieuse en France depuis le milieu des années 1970», Histoire, économie & société, 2012/2, 31e année, p. 71-86; Philippe BOURDIN et Philippe BOUTRY, «L’Église catholique en Révolution: l’historiographie récente», Annales historiques de la Révolution française, n°355, janvier-mars 2009, p. 3-23 et Pierre VALLIN, «Ecclésiologie et histoire de l’église», Recherches de Science Religieuse, 2008/3, t. 96, p. 427-458. Pour une première approche, on se reportera aux ouvrages suivants: Bernard COUSIN, Monique CUBELLS et René MOULINAS, La pique et la croix. Histoire religieuse de la Révolution française, Paris, Centurion, 1989; Yves KRUMENACKER [dir.], Religieux et religieuses pendant la Révolution (1770-1820), Lyon, Profac, 1995; Bernard PLONGERON, Paule LEROU et Raymond DARTEVELLE [dir.], Pratiques religieuses dans l’Europe révolutionnaire (1770-1820), Paris, CNRS-Bre1 2
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Philippe Moulis et fr Francis Ricousse
clergé sont mis à la disposition de la Nation. Le 12 juillet 1790, la Constitution civile du clergé ne maintient comme fonctionnaires publics rémunérés par l’État que les ministres utiles pour la population. Pierre-Joseph projette de partir pour les missions aux États-Unis d’Amérique.4 Supérieur du collège de Dinan, il quitte, en juin, le diocèse de SaintMalo. En juillet, il décide de fonder deux sociétés religieuses, l’une masculine et la seconde féminine. Le projet est approuvé et encouragé par Mgr de Pressigny.5 Afin de mener à bien son projet Clorivière part à Paris. Du 30 septembre 1790 au 20 mars 1791, une chambre lui est réservée au séminaire des Missions étrangères.6 Martin Hody,7 Supérieur de l’établissement, l’aide au
pols, 1988, Timothy TACKETT, La Révolution, l’église, la France, Paris, Cerf, 1986 ; Jean-Clément MARTIN, La Révolution française, 1789-1799: une histoire socio-politique, Paris, Belin, 2004 et Michel BIARD, Philippe BOURDIN, Silvia MARZAGALLI, Révolution, Consulat, Empire (1789-1815), Paris, Belin, 2010. 4 Sur la vie de Pierre-Joseph de Clorivière, on consultera René BAZIN: Pierre de Clorivière, contemporain et juge de la Révolution, Paris, 1926; M.-E. F. de BELLEVUE, Le père de Clorivière et sa mission, Watteren, 1933; Danièle HERVIEU-LÉGER, «Un fondateur dans la tourmente révolutionnaire. Pierre de Clorivière (1735-1820)», Archives des sciences sociales des religions, Année 1989, Volume 67, n°2, p. 267-268; Henri MONIER-VINARD: Article Clorivière dans le Dictionnaire de Spiritualité, Vol. II, colonnes 974-979; François MORLOT, Pierre de Clorivière (17351820), Paris, Desclée de Brouwer, 1990; Chantal REYNIER, fcm, Pierre Joseph de Clorivière - un maître spirituel pour aujourd’hui, Editions, Parole et Silence, 2001; Une pensée par jour, PierreJoseph Clorivière, jésuite, Paris, Éditions Médiaspaul, 2012. 5 Gabriel Cortois de Pressigny, né à Dijon en 1745, mort à Paris en 1823 est nommé évêque de Saint-Malo en 1785. Il refuse de prêter serment à la Constitution civile du clergé et part en exil. 6 François Morlot, «Le Père de Clorivière et ses fondations vus par le Bienheureux Frère Salomon» supplément à Cor Unum, n° 85, p. 3. 7 Nous remercions Brigitte APPAVOU pour les informations transmises sur cet ecclésiastique: Martin HODY ou de HODY est né à Saint-Jean-de-Luz (Basses-Pyrénées) le 12 juillet 1714. Son acte de naissance précise qu’il est le fils de: «Jean de Hody, conseiller du roi et lieutenant général au bailliage de Labourd, et de Marie-Martine de Lasson». Il devient archidiacre dans le diocèse d’Aix, puis supérieur du séminaire d’Arles. Le 17 août 1751, il prend rang parmi les directeurs du Séminaire des Missions Étrangères et voici par ordre de dates sa nomination aux fonctions qu’il remplit: 5 juin 1752, procureur des missions; 19 mai 1756 et 24 janvier 1760, supérieur du Séminaire des Missions Étrangères; 31 janvier 1763 et 20 février 1766, procureur des missions; 23 avril 1769, économe du Séminaire; 13 janvier 1772, supérieur de la maison. Le supériorat de Hody cesse le 17 mai 1775. Le 28 juillet 1779, il est nommé procureur du Séminaire; le 24 janvier 1783 et le 17 juillet 1786, assistant; de nouveau supérieur le 15 janvier 1790 (et non 1789) jusqu’en 1792, ou plus exactement peut-être jusqu’à sa mort, puisque aucun autre supérieur n’est élu jusqu’en 1805. Ce dernier supériorat est agité par les troubles de la Révolution française et Hody est questionné à plusieurs reprises par les commissaires venus perquisitionner dans le Séminaire. Il refuse de prêter le serment à la Constitution civile du clergé. En septembre 1792, il se réfugie à Amiens. Il revient à Paris, sans doute vers la fin de 1795, et loge d’abord dans une maison de la rue de Sèvres. Il meurt le 11 octobre 1796, soit au Séminaire, soit dans une demeure voisine.
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recrutement. Pierre-Joseph de Clorivière fonde, le 2 février 1791, la Société du Cœur de Jésus, destinée aux hommes seulement, tandis que, le même jour, Adélaïde Champion de Cicé8 crée pour les femmes la Société des Filles de Marie.9 C’est pendant cette période que Frère Salomon alias Nicolas Le Clercq (1745-1792) est amené à collaborer aux projets du père de Clorivière.10 Il a principalement contribué à la naissance de la société religieuse féminine et sa correspondance, conservée à la Maison généralice des Frères des Écoles chrétiennes à Rome et aux archives Lasalliennes à Lyon, apporte de nombreuses informations. Nous voudrions dans cette étude aborder les relations que nouèrent ces deux personnes emblématiques au cours des années 1791 et 1792, c’est-à-dire au moment où l’organisation et les règles des deux sociétés religieuses sont mises en place.11
Un conseiller discret et efficace du père de Clorivière Frère Salomon réside à Melun depuis 1782, comme professeur de mathématiques au scolasticat supérieur jusqu’en 1787, puis en tant que Secrétaire général de l’Institut des Frères et collaborateur immédiat du F. Agathon, Supérieur général. Dans cette fonction, il est appelé à séjourner de plus en plus régulièrement à Paris et à y fréquenter, dès le début de la Révolution,
8 Sur la vie d’Adélaïde de Cicé voir: Marielle de CHAIGNON, Vie d’Adélaïde de Cicé 1749-1818, Réédition Nouvelles cités, 1990; Chantal REYNIER, Adélaïde de Cicé dans le contexte historique de la Révolution Française, Hors série n° 1 de la revue Traces, 1999 et Marie-Louise BARTHÉLEMY, Pierre-J. de Clorivière et Adélaïde de Cicé. Correspondance, 1787-1804, Paris, Beauchesne, 1993. 9 François MORLOT, Eva GENOS, Fondations Nouvelles - Pierre de Clorivière. Naissance de la Société des Filles du Cœur de Marie et de la Société du Cœur de Jésus. Paris-Montréal, Desclée de Brouwer; Bellarmin, 1985; André RAYEZ, Formes modernes de vie consacrée: Adélaide de Cicé et P. de Clorivière, Paris, Beauchesne, 1966; «Clorivière et ses fondations (1790-1792)», Revue d’histoire de l’Église de France, t. 54, n°153, 1968, p. 253-279 et Étienne CATTA, «André Rayez. Formes modernes de vie consacrée. Ad. de Cicé et P. de Clorivière», Revue d’histoire de l’Église de France, 1967, Volume 53, n°150, p. 97-99. 10 Nicolas Le Clercq est le fils de Marie-Barbe Dupont et François Leclercq, marchands à Boulogne-sur-Mer. Notons que les deux personnes de cette étude sont nées dans une ville portuaire. 11 Les lettres de frère Salomon relatives à Pierre-Joseph de Clorivière ont suscité l’intérêt de plusieurs historiens: Hyacinthe CHASSAGNON, Frère Salomon, de l’Institut des Frères des Écoles Chrétiennes, Paris, 2e édition, 1926, p. 389-392; Georges RIGAULT, Un disciple de Saint Jean-Baptiste de La Salle, le Bienheureux Salomon, Procure générale, 1926, p. 158-159; François MORLOT, «Le Père de Clorivière et ses fondations vus par le Bienheureux Frère Salomon» supplément à Cor Unum, n° 85, p. 2-13 et Marcel GUILHEM, Nicolas Le Clercq, Frère Salomon, Martyr de la Révolution française (1745-1792) Médiaspaul, Paris, 1990, p. 188-192.
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des lieux de cultes parisiens où la messe est célébrée par des prêtres opposés à la Constitution civile du clergé. Le père de Clorivière fait part de ses intentions au frère Salomon qui devient temporairement son bras droit. En août 1791, ce dernier entretient sa sœur Rosalie Le Clerq, qui habite à Boulogne-sur-Mer, de son rôle auprès de l’ancien jésuite. Par prudence en ces temps de tumultes révolutionnaires, il ne donne aucun nom et l’identité de cet ecclésiastique reste soigneusement évitée: J’ai eu connaissance de ce pieux projet, qui est un secret pour bien du monde et dont on ne fait part avec discrétion qu’aux personnes qui peuvent aider à son exécution et à celles que l’on prévoit y pouvoir entrer dans le dessein d’y travailler à se sanctifier et à sanctifier le prochain. J’en ai eu connaissance, disje, parce qu’un zélé ecclésiastique, principalement occupé à diriger les règles et instructions nécessaires à cette société, se sert de moi pour faire ces écritures et j’en ai déjà fait bon nombre de pages, qui me font voir que c’est l’ouvrage et l’inspiration de Dieu.12
Après avoir travaillé d’arrache-pied pendant plusieurs mois, frère Salomon s’éloigne de Paris pour effectuer, dans un ermitage de la forêt de Sénart, entre Paris et Melun, une retraite sous la direction de l’abbé de Clorivière. C’est ce qu’il évoque dans une lettre du 25 novembre 1791: Ma très chère sœur, je suis parti de Paris le 12 et ne suis pourtant arrivé à Melun que le 20 de ce mois. Je me suis arrêté pendant tout cet intervalle à la campagne entre Paris et Melun. Eh bien! Qu’en pensez-vous après un séjour d’environ 8 mois dans la capitale, n’avais-je pas bien besoin de respirer un air plus agréable que celui que l’on respire dans cette espèce de Babylone? Vous direz peut-être que nous ne sommes pas en temps de vacances et encore moins dans des circonstances où on doive se procurer le plaisir de la campagne. Patience ne vous scandalisez pas, je vais vous faire le récit de ma bonne aventure. Vous ne serez pas fâchée sûrement que j’eusse pris un peu de récréation après avoir tant écrit depuis plusieurs mois, et en effet j’en avais grand besoin.13
Dans le même courrier, il mentionne pour la première fois l’identité du fondateur et ses projets ambitieux: Le pieux et zélé ecclésiastique dont je vous ai parlé précédemment et qui a le projet de former la congrégation de Marie, laquelle même se propage déjà, a donné depuis peu et successivement trois retraites, la 1e aux Carmélites, la 2e
A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°100, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Paris, le 21 août 1791. 13 A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°102, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Melun, le 25 novembre 1791. 12
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à des ecclésiastiques et la 3e à des ermites ou solitaires habitants d’une forêt à 6 lieues d’ici et c’est là où j’ai été faire ma partie de campagne. Le très C. F. Supérieur se proposant de venir passer quelque temps à Melun a bien voulu m’accorder une dizaine de jours pour faire une retraite, et sous les auspices de M. l’abbé de Clorivière qui devait la donner je suis parti le samedi 12 à 6 heures du matin seul et à pied, ce Monsieur y était allé en voiture, mais je préfère celle de St François, surtout quand il fait beau. Je suis arrivé dans cet ermitage à 11 h 1/4, on allait entrer au réfectoire, après avoir parlé au Supérieur et lui avoir exposé le motif de mon voyage et qui j’étais, il m’admit aussitôt et je dînai de suite avec les bons solitaires. La retraite commença dès le soir même et a fini le dimanche 20.14
Il explique à sa sœur les exercices de la retraite, qui ne sont pas sans rappeler ceux des exercices des ordinands élaborés, au XVIIe siècle, par saint Vincent de Paul et François Perrochel.15 Frère Salomon donne quelques détails intéressants: Voici à peu près quels en étaient les exercices. Il y avait chaque jour trois discours de M. de Clorivière, on assistait au chœur au petit office de la Ste Vierge, lectures, oraisons, exposition du St Sacrement pendant la Ste Messe, bénédiction avant et après, salut le soir et grand silence, même après le repas. M. de Clorivière a été mon directeur pendant la retraite et comme il a reconnu que j’avais besoin de prendre de la force dans ce désert pour revenir dans le train de mes occupations, il m’a porté à m’y nourrir fréquemment de la manne céleste pendant cette heureuse octave. Heureux si j’en ai recueilli le fruit et si je les conserve. Ainsi plusieurs jours de suite, j’ai dit un Pater à votre intention.16
A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°102, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Melun, le 25 novembre 1791. 15 Gérard CARROLL, Un portrait du prêtre. Les retraites de 10 jours pour les ordinands, Paris, Éd. Pierre Téqui, 2004. Plusieurs manuscrits sont conservés à Paris: Archives de la Compagnie de Saint-Sulpice, Ms 157, Entretiens des ordinands sur les matières de dévotion, de la première moitié du XVIIe siècle; Ms 158, Entretiens des ordinands sur les matières de dévotion, année probable 1651; Ms 208, Entretiens des Ordinands pour l’après disnée sur les matières de dévotion, vers 1675 et Ms 191, Entretiens sur l’Ordination, vers 1673. Archives de la Congrégation de la Mission: Ms Mission Bt, Entretiens de théologie morale, faits à Saint-Lazare aux ordinands chez les Pères de la Mission, le 10 février et autres jours suivants, l’an 1655, par L. Bouchet, prêtre, casier 35, Brétaudeau, t. 2, Ordinands; Ms Mission B, copie du manuscrit de Beaune Ms 85, Brétaudeau, t. I, Ordinands, Avertissement, Entretiens du soir sur les Saints Ordres, casier 35 (Ms 13); Ms Mission G, copie du Ms de la Bibliothèque de Sainte-Geneviève ms 2964; Brétaudeau, t. 2, Ordinands, Avertissement, Entretiens du matin pour M.M. les ordinands, 1649, casier 35. 16 A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°102, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Melun, le 25 novembre 1791. 14
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Le père de Clorivière a fortement sollicité, probablement à la demande de M. Hody, frère Salomon dans son projet de fondation de communauté féminine.
Les premiers pas de la Société des Filles de Marie La Société des Filles de Marie est officiellement fondée le 2 février 1791. Le père de Clorivière implique principalement Frère Salomon à la rédaction du Plan de la Société religieuse féminine qu’il souhaite établir. Le 21 août, Frère Salomon propose à sa sœur Rosalie d’intégrer cette nouvelle société: Je me rappelle fort bien et vous ne l’avez pas sûrement oubliée que vous avez eu longtemps le désir de vous faire religieuse, les circonstances ne vous ont pas permis d’exécuter ce pieux dessein, à présent que les difficultés d’alors n’existent plus, outre les années qui se sont accrues, les calamités auxquelles la France, la religion et surtout l’état religieux, sont exposés, vous êtes bien éloignée sans doute de penser à embrasser un si saint état. Cependant le sujet de cette lettre est de vous présenter le moyen d’exécuter votre ancien désir et tout à la fois de rester dans le monde. Voici une idée seulement que je vous donne d’une société naissante de religieuses, qui feront véritablement les vœux de la religion, en rempliront certaines obligations, selon leur état, leur condition, leurs talents, leur âge sans pour cela quitter leur famille ni leurs occupations ordinaires. La Providence toujours attractive aux besoins de ses enfants, et à donner à son Église des secours proportionnés à ces besoins, dans le temps que l’enfer semble déchaîné contre les états où l’on fait profession de suivre les conseils évangéliques, vient d’inspirer depuis peu à de saints ecclésiastiques de former un ordre religieux sous le titre de Filles de Marie, dont la fin serait de procurer la gloire de Dieu par tous les moyens possibles et convenables à leur sexe, de s’occuper aux œuvres de miséricorde, spirituelles et corporelles et de [sic] efficacement à leur propre perfection.17
Le père de Clorivière a donné son accord à l’admission future de Rosalie. Frère Salomon est heureux de cette décision et lui en fait part: Je vous ai proposé à ce digne prêtre (qui vient de faire un sermon dans une bibliothèque de séminaire où il y avait peut-être 2 ou 300 personnes et cela vous sentez à l’insu des intrus) qui m’a permis de vous en écrire un mot. Si donc comme je le crois le désir de la perfection vous anime, et qu’après avoir consulté Dieu vous ayez lieu de croire qu’il vous veut dans cette société naissante où seront admises les veuves et les filles au-dessus de 15 ans.18
A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°100, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Paris, le 21 août 1791. 18 Ibidem. 17
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Ensuite il lui conseille de lui écrire par son intermédiaire: Vous pourrez écrire vos dispositions à ce saint prêtre mettant la lettre dans une que vous m’écrirez, il vous répondrait et vous donnerait tous les renseignements nécessaires pour venir à l’exécution si le Seigneur daignait vous appeler à concourir à une si bonne œuvre, ou si vous êtes embarrassée de lui écrire, quoiqu’il n’y ait point de difficulté en cela, écrivez moi ce que vous pensez de ma proposition.19
Suite au courrier de Rosalie, frère Salomon lui répond le 15 septembre 1791 en lui conseillant de pendre le temps de la réflexion: Vous ne serez pas surprise si je ne vous dis rien ici de la majeure partie de votre lettre qui contient la réponse à ma dernière. Il faut prendre le temps de réfléchir et de demander au Père des lumières celles qui sont nécessaires pour connaître sa volonté.20
Frère Salomon explique à sa sœur les règles et objectifs de la Société. Il précise que ne seront admises que les veuves et les personnes âgées de plus de quinze ans et écrit: Surtout sachez qu’il n’est question de changer ni ses occupations ordinaires, ni son habit, ni de quitter son pays, sa famille &. Pour les vœux ils ne se font qu’après les épreuves de deux ans. Je ne vous en dirais point ici davantage. Si le Seigneur vous appelle vous serez instruite plus au long. Qui sait si Dieu ne vous a pas laissé dans le monde jusqu’ici pour travailler à présent à procurer sa gloire par les moyens que la société des Filles de Marie procurera à celles qui auront le bonheur d’être de ses membres.21
Le 15 septembre 1791, il répond aux interrogations de sa sœur: Point tant de difficultés que vous pourriez l’imaginer, point d’office à réciter seulement chaque [jour] les litanies de la Ste Vierge et le chapelet, point d’heure absolument réglée pour aucun exercice. Pour l’esprit les talents chacun ne peut employer que ceux que la Providence lui a départis. La bonne volonté supplée à bien des choses. Le temps nous instruira vous et moi sur ce que nous aurons à faire. En attendant faisons le bien qui est en notre pouvoir.22
Ibidem. A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°101, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Paris, le 15 septembre 1791. 21 A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°100, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Paris, le 21 août 1791. 22 A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°101, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Paris, le 15 septembre 1791. 19 20
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Pragmatique, frère Salomon songe déjà, dans sa lettre datée du 21 août 1791, à l’essaimage de la communauté et Rosalie pourrait contribuer à une fondation à Boulogne-sur-Mer et surtout en informer discrètement les prêtres réfractaires de la ville: Appelée peut-être une des premières dans votre ville, vous pourriez être un instrument entre les mains du tout puissant pour procurer à d’autres le même bonheur. Vous pourrez de loin jeter les yeux sur celles qui y seraient propres et en dire un mot à 2 ou 3 peut-être des plus saints prêtres que vous connaissez. Car il y aura aussi quelque chose de semblable pour les hommes prêtres ou laïcs. Discrétion surtout.23
Rosalie a longtemps tergiversé mais finalement, elle n’intègre pas la Société des Filles de Marie. Cependant son frère la tient informée et dans sa lettre datée du 22 janvier 1792, il écrit: Il n’y a que quelques jours que j’ai parlé encore de vous à M. de Clorivière. Il ne vous oublie pas, mais il faut attendre les moments favorables, il travaille toujours à l’exécution de son projet. Si une fois les arrangements de famille étaient finis et que je susse aussi à quoi m’en tenir, vous et moi pourrions prendre le parti que nous connaîtrons le mieux et le plus conforme à la volonté de Dieu. Si je perds mon état et que la persécution continue, sans qu’il soit accordé plus de liberté au culte catholique, je ne crois pas que je puisse me déterminer à rester à Boulogne. Il y a bien plus de ressources dans les grandes villes, où d’ailleurs on n’est pas connu ; au lieu que dans les petites tout est remarqué et connu. Pour le moment, je ne forme aucun projet, il faut attendre les événements avec tranquillité, tant qu’on nous en laissera jouir. À Melun, on nous laisse toujours en repos.24
Rosalie reste impliquée et demeure en relation avec l’abbé de Clorivière. Dans l’une des dernières lettres de frère Salomon, celle du 18 mars 1792, il écrit: Quand je vais chez M. de Clorivière, il me demande de vos nouvelles. S’il y avait une occasion sûre il ferait passer à M. Br un imprimé sur la congrégation de M[arie] et vous en auriez au moins communication.25
Très attaché à l’Église primitive mais aussi à la pauvreté évangélique teintée d’ailleurs de traces de prophétisme émanant de l’influence de Clorivière
A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°100, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Paris, le 21 août 1791. 24 A. Maison Généralice de Rome, lettre 112, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Paris, le 22 janvier 1792. 25 A. Maison Généralice de Rome, lettre 113, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Paris, le 18 mars 1792. 23
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mais aussi des tendances jansénistes de son frère Achille, frère Salomon est profondément touché par la vie érémitique.
L’ermitage de la forêt de Sénart En novembre 1791, comme nous l’avons signalé ci-dessus, frère Salomon a effectué une retraite dans l’ermitage de la forêt de Sénart. Dans sa lettre datée du 25 novembre, il décrit à sa sœur les lieux et les conditions d’existences de ces ermites: Je dois vous dire ce que c’est que ces solitaires où j’ai fait une retraite si exacte à l’extérieur. Leur maison est située près d’un village et dans une forêt nommée Sénart. On en attribue l’origine à Saint Louis qui avait une maison dans un petit hameau peu éloigné où il se retirait de temps en temps avec la reine Blanche sa mère. Mais l’ermitage tel qu’il est aujourd’hui ne date que d’environ 70 ans et ils n’ont que deux maisons assez voisines. À Sénart, ils sont environ 24, ils portent un habit blanc avec un scapulaire, outre une large robe blanche pour le chœur. Leur occupation principale est de travailler à des étoffes de soie. Ils sont ensemble et travaillent en silence, de temps en temps, l’un d’eux fait à haute voix une courte lecture pour s’entretenir dans de bons sentiments. Ils se lèvent tous les jours à 4 heures, vont au chœur à 4 h 1/2, font la prière et oraison jusqu’à 5 h 1/2 puis récitent le petit office de la Très Sainte Vierge en différentes heures du jour, de manière que leur journée est partagée de façon qu’ils ont 7 heures de chœur, 7 heures de travail, 7 h de sommeil et 3 h pour les repos et la récréation. Voyez si ce n’est pas là une vie sanctifiante aussi je vous avoue qu’il m’est venu plusieurs fois en pensée que si nous étions supprimés et ces bons solitaires conservés, je pourrais bien me retirer avec eux. Ils sont tous frères. Ils font les vœux simples de religion, dont ils peuvent être relevés par M. l’archevêque de Paris sous la dépendance de qui ils sont pour le spirituel et le temporel.26
Cet ermitage n’est pas sans rappeler ceux situés dans le diocèse de Boulogne-sur-Mer. D’ailleurs, il n’est pas improbable que frère Salomon ait connu ou visité dans son enfance l’un des ermitages de ce diocèse.27 Poursuivant la description de celui de Sénart, frère Salomon rencontre un ermite originaire du Boulonnais:
A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°102, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Melun, le 25 novembre 1791. 27 Sur ce sujet voir P. DOYÈRE, «Ermites et Ermitages du diocèse de Boulogne», Bulletin de la Société académique des Antiquaires de la Morinie, t. XVIII, Saint-Omer, 1957, p. 385-403; «Ermites et Ermitages», Bulletin de la Société académique des Antiquaires de la Morinie, t. XVIII, SaintOmer, 1957, p. 525-534. Philippe MOULIS, Le clergé paroissial du diocèse de Boulogne-sur-Mer de 1627 à 1789, thèse de doctorat d’Histoire, Université d’Artois, 2008, p. 410-414. 26
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J’ai trouvé dans cette maison un de nos pays, c’est M. Quien de Wimille et qui était chez M. Cossart du temps que nos neveux y étaient en pension. Ce jeune homme est chez les ermites depuis 5 ou 6 ans, mais la Révolution l’a empêché d’y faire profession. Il y est fort content, ce serait dommage qu’il perdît son état. Je ne sais si vous vous le rappelez, mais il vous connaît bien et vous fait des compliments.28
Nous avons localisé plusieurs ermitages dans le diocèse de Boulognesur-Mer. Certains ont été fondés au XVIIe siècle notamment celui devenu ferme, situé près de Godincthun, à Bois-l’Abbé, sur la paroisse de Wimille.29 Quant à M. Cossart mentionné dans la lettre citée ci-dessus, il s’agit de Laurent-Joseph, curé de Wimille, qui dans les années 1780, finance au château de Lozembrune une classe réservée aux futurs ecclésiastiques du diocèse de Boulogne-sur-Mer.30 Cette initiative est à l’origine du Petit séminaire dudit diocèse.31
A. Lasalliennes de Lyon, lettre n°102, de frère Salomon à sa sœur Rosalie, datée de Melun, le 25 novembre 1791. 29 Mentionnons deux actes concernant les ermites de Wimille: «Le 7 octobre 1686. Mre Cresson prestre hermite dans l’hermitage du Bois-l’Abbé en cette paroisse décéda en la communion de Ste Eglise ce septiesme jour d’Octobre 1686 après avoir receu les sacremens de penitence, du viatique du Corps de nre Sauveur et d’extreme onction. Et son corps fut inhumé le lendemain dans le cymetière de cette Eglise. Février 1700. Antoine Pichon hermite aagé de quatre vingt ans ou environ deceda en la communion de la Ste Eglise le deuxiesme jour de Février mil sept cent avoir receu les sacrements de penitence, le sacré viatique du corps de nre sauveur et le sacrement d’extreme onction. Et son corps fut inhumé le lendemain dans le cymetiere de cette Eglise. 30 Laurent-Joseph Cossart, maître ès arts, nommé curé de Wimille en 1781, député suppléant aux États généraux en 1789. Il refuse le serment à la Constitution civile du clergé et meurt à Munster en 1802, Arlette PLAYOUST-CHAUSSIS, La vie religieuse dans le diocèse de Boulogne au XVIIIème siècle (1725-1790), Arras, 1976, p. 163. 31 Bâti et ouvert en 1786, «Le séminaire de la Sainte-Famille, dit le petit séminaire, écrit l’abbé Augé, supérieur de cet établissement, était destiné en faveur des jeunes gens du diocèse peu favorisés des biens de la fortune, pour y faire leurs cours d’humanités et de philosophie». Mgr Partz-de-Pressy règle luimême dans ses détails l’admission des élèves, en accusant sa préférence pour les enfants des campagnes: «Comme ils ont été moins exposés au péril de la dissipation, de la licence, de la vanité et de l’insubordination, ils sont d’ordinaire plus studieux, plus sages, plus modestes, plus dociles», cité dans A. DERAMECOURT, Le clergé du diocèse d’Arras, Boulogne-sur-Mer et Saint-Omer pendant la Révolution (1789-1802), Arras, 1884-1886, t.1, p. 276. En octobre 1786, le Petit séminaire ouvre ses portes à une trentaine d’enfants qui, après un concours d’entrée, sont admis à suivre le cours de sixième et de cinquième du collège de l’Oratoire. L’évêque réussit à doter, par divers moyens, le Petit Séminaire d’un revenu annuel 15 013 livres. Cet argent est destiné à la constitution de bourses: «la somme assignée à chaque élève dépendait de ses besoins et de ses dispositions. La pension était sur le pied de 300 livres». Afin d’exciter davantage l’émulation et de faciliter le discernement des bons sujets, l’évêque détermine ensuite que les bourses ne s’obtiendraient que par la voie du concours et seulement pour une année. Ceux qui ne réussissent pas au concours peuvent néaautres aliments. 28
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L’implication et le rôle de frère Salomon dans les débuts des Sociétés religieuses fondées par l’abbé de Clorivière ont été minimisés. Frère Salomon, de par sa fonction, est un membre éminent actif d’un corps religieux qui s’oppose à l’Église constitutionnelle. D’ailleurs, il collabore avec des membres d’un réseau international d’opposants dont plusieurs personnes, parmi lesquelles sa sœur Rosalie, sont établies à Boulogne-sur-Mer. Frère Salomon assure, de la région parisienne, la diffusion des informations, des livres et des lettres avec la province et l’étranger. Vincent Cuvilliers et Matthieu Fontaine reconstituent actuellement ce réseau et devraient publier les premiers résultats prochainement.
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IL BEATO SALOMONE DEI FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE E IL PADRE PIETRO-GIUSEPPE DE CLORIVIERE: UNA COLLABORAZIONE DURANTE LA RIVOLUZIONE (1791-1792) (Sintesi)1 Nel luglio 1790 Pietro-Giuseppe de Clorivière decide di fondare due società religiose. Per condurre felicemente in porto il suo progetto Clorivière si trasferisce a Parigi, dove una camera gli è riservata, dal 3° settembre 1790 al 20 marzo 1791, presso il seminario delle Missioni straniere. Egli fonda, il 2 febbraio 1791 e per soli uomini, la Società del Cuore di Gesù, mentre lo stesso giorno Adelaide Champion de Cicé fonda per le donne la Società delle Figlie di Maria. È durante questo periodo che Fratel Salomone, alias Nicola Le Clercq (1745-1792), è invitato a collaborare ai progetti di Padre de Clorivière. All’inizio contribuì alla nascita della società religiosa femminile, e la sua corrispondenza, conservata presso la Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane in Roma e presso gli archivi lasalliani a Lyon ci offre numerose informazioni. In questo studio noi vorremmo studiare le relazioni che strinsero queste due emblematiche persone durante gli anni 1791 e 1792, cioè nel momento in cui l’organizzazione e le regole delle due società religiose iniziano la loro attività. Fratel Salomone risiede a Melun dal 1782 come professore di matematica allo scolasticato superiore e poi come Segretario Generale dell’Istituto dei Fratelli e collaboratore particolare di Fratel Agathon, Superiore Generale. Quest’ultimo incarico lo obbliga a soggiornare quasi regolarmente a Parigi e a frequentarvi, fin dall’inizio della Rivoluzione, i luoghi di culto parigini dove la Messa vi è celebrata dai sacerdoti che non avevano accettato la Costituzione Civile del Clero. Padre Clorivière fa conoscere i suoi intendimenti a fratel Salomone, che divenne temporaneamente il suo braccio destro. Nell’agosto del 1791 quest’ultimo mette al corrente la sorella Rosalia Le Clercq, che abita a Boulogne-sur-Mer, sul suo ruolo nell’organizzazione del vecchio gesuita. Prudentemente, dati i tumulti rivoluzionari di quei giorni, egli non fa nessun nome e l’identità di quell’ecclesiastico resta gelosamente custodita. Dopo aver lavorato indefessamente per tre
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Traduzione dalla lingua francese di Italo Carugno.
Le bienheureux Salomon, des frères des Écoles Chrétiennes et le Père Pierre-Joseph De Clorivière.
mesi, Fratel Salomone si allontana da Parigi per effettuare, in un eremo della foresta di Sénart tra Parigi e Melun, un ritiro spirituale sotto la direzione di padre Clorivière. In una lettera del 25 novembre 1791, egli rivela par la prima volta l’identità del fondatore e i suoi ambiziosi progetti. E spiega a sua sorella gli esercizi effettuati durante il ritiro, che non sono altro che quelli degli ordinandi, elaborati nel XVII secolo da san Vincenzo dei Paoli e Francesco Perrochel. Fratel Salomone vi inserisce qualche particolare interessante. Padre de Clorivière ha molto spinto, probabilmente su domanda di M. Hody, Fratel Salomone nel suo progetto di fondazione della comunità femminile. La Società delle Figlie di Maria è ufficialmente fondata il 2 febbraio 1791. Padre Clorivière impegna principalmente Fratel Salomone alla realizzazione di un Piano della Società religiosa femminile che egli intende fondare. Il 21 agosto quest’ultimo propone alla sorella Rosalia di integrare questa nuova società e le spiega le regole e gli obiettivi della Società. Precisa pure che non vi saranno ammesse che le vedove e le persone con più di 15 anni, e precisa: “Soprattutto sappi che non c’è obbligo di cambiare né le proprie ordinarie occupazioni, né l’abito, né di lasciare il proprio paese, la famiglia ecc. Quanto ai voti non vengono emessi che dopo la sperimentazione di due anni. Da questo momento non te ne parlerò più. Se il Signore ti chiama riceverai ulteriori chiarimenti. Forse Dio ti ha lasciata finora nel mondo per poter lavorare oggi a procurare la sua gloria con gli strumenti che la “Società delle Figlie di Maria” procurerà a coloro che avranno la fortuna di esserne membri”. Il 15 settembre 1791, egli risponde ad alcuni quesiti della sorella. “Non vi sono le difficoltà che tu puoi immaginare e non c’è ufficio da recitare, ma soltanto ogni (giorno) le litanie della SS. Vergine e il rosario: non c’è nessuna ora legata ad esercizi particolari. Per lo spirito ciascuno può usare i talenti che la Provvidenza gli ha concesso. La buona volontà supplisce a tante cose. Il tempo ci istruirà, te e me, su ciò che dovremo fare. Nell’attesa, facciamo il bene che possiamo fare. Pragmaticamente, Fratel Salomone sogna già, nella sua lettera datata 21 agosto 1791, alla sciamatura della comunità e Rosalia potrebbe contribuire ad una fondazione a Boulogne-sur-Mer e soprattutto ad informare i preti refrattari della città. Rosalia ha tergiversato a lungo, ma alla fine ella non sente di doversi integrare alla Società delle Figlie di Maria. Tuttavia ella ne resta implicata e tiene i contatti con l’abate de Clorivière. Attaccatissimo alla Chiesa primitiva, ma
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anche alla povertà evangelica tinta, d’altronde, da tracce di profetismo emananti dall’influenza di Clorivière ma anche dalle tendenze giansenistiche del fratello Achille, Fratel Salomone è profondamente toccato dalla vita eremitica. Nel novembre 1791 Fratel Salomone effettuò un ritiro nell’eremo della foresta di Sénart. Nella sua lettera datata 25 novembre, egli riferisce alla sorella sul luogo e sulla maniera di vivere di quegli eremiti. Questo eremo ci fa ricordare quelli esistenti nella diocesi di Boulogne-sur-Mer e non è improbabile che Fratel Salomone ne abbia conosciuto o visitato qualcuno nella sua infanzia. L’implicazione e il ruolo di Fratel Salomone negli inizi delle Società religiose fondate dall’abate de Clorivière sono state minimizzate. Fratel Salomone, in virtù della sua posizione, è un membro eminente e attivo di un corpo religioso che si oppone alla Chiesa costituzionalizzata. D’altronde egli è un collaboratore dei membri di una rete internazionale di opposizione di cui molte persone, e fra queste la sorella Rosalia, sono residenti a Boulogne-sur-Mer. Fratel Salomone assicura, dalla regione parigina, la diffusione delle informazioni, dei libri e delle lettere con la provincia e con l’estero. Vincenzo Cuvillier e Matteo Fontaine stanno ricostruendo questa rete e dovrebbero pubblicarne prossimamente i primi risultati.
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 539-543
LA RELAZIONE MAESTRO-DISCEPOLO TRA NUOVO TESTAMENTO E TRADIZIONE RABBINICA1 CARMELO RASPA Docente al Master per Educatori cristiani (Istituto “Leonardo da Vinci” – Catania)
Chiamati ad essere maestri
L’
essere maestri, e dunque il compito di insegnare, è, secondo le Scritture un dono ed una vocazione. Così Gesù, prima di ascendere in cielo, affida ai suoi discepoli il mandato di ammaestrare tutte le genti (cfr Mt 28,19): coloro che avevano accolto l’invito ad imparare dal maestro sono adesso costituiti maestri, proprio in virtù del loro essere stati discepoli. Nella tradizione ebraica, soltanto colui che è stato un discepolo fedele al servizio del proprio maestro potrà, a sua volta, divenire maestro in Israele.2 Così un commento anonimo a Dt 34, 7 (che recita: “Mosè aveva 120 anni quando morì”): “Egli fu uno dei quattro che vissero 120 anni. Ecco chi sono gli altri: Hillel l’anziano, Rabban Jochanan ben Zakkai e Rabbi Aqiba. Mosè visse 40 anni in Egitto, soggiornò 40 anni a Madian e servì (shimmesh) Israele per 40 anni. Hillel l’anziano salì da Babilonia a 40 anni, servì (shimmesh) i Saggi 40 anni e servì Israele 40 anni. Rabban Jochanan ben Zakkai fu occupato negli affari 40 anni, servì i Saggi 40 anni e servì Israele 40 anni. Rabbi Aqiba apprese la Torah a 40 anni, servì i Saggi 40 anni e servì Israele 40 anni”.3 Testo presentato al Corso di aggiornamento per insegnanti IRC celebratosi ad Acireale il 22 marzo 2010 e apparso senza la rielaborazione qui apportata in www.idracireale.org/copia/ aci_10/Gesù_Maestro.pdf. 2 Riprendo qui alcune considerazioni presentate in un altro mio contributo: C. RASPA, Fino a quanto è necessaria la relazione maestro-discepolo per la tradizione ebraica, in Itinerarium 13 (2005) 30, 237-243. 3 Midrash Tannaim su Dt 34,7: 226. 1
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Come si può ben notare, soltanto di Mosè è detto che servì Israele senza prima passare per l’esperienza del discepolato; per gli altri tre si rileva come il tempo del loro insegnamento in seno al popolo di Israele sia stato proporzionale, anzi corrispondente al tempo del loro essere discepoli. Scrive P. Lenhardt: “La durata e l’intensità del servizio reso al maestro, ad un maestro che è egli stesso al servizio di Israele, fanno sì che il discepolo riceva tutto dal suo maestro. Egli deve essere persuaso che è così e che ciò che egli ha ricevuto dal suo maestro proviene da Dio” (501).4 In questa luce si comprende il senso dell’affermazione di Rabbi Aqiba quando pervenne allo studio della Torah attraverso i maestri: “Colui che non ha servito i saggi è passibile della pena di morte”.5 I discepoli sono chiamati da Gesù stesso, in linea con la tradizione: “Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea. Questi dicevano tre cose: Siate misurati nel giudicare, suscitate molti discepoli e fate una siepe attorno alla Torah” (m.Abot 1,1). E infatti, Gesù dirà loro, mentre si approssima la Pasqua della sua vita: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Così facendo, Gesù adempie il precetto, poiché “fa” molti discepoli, chiamandoli, cioè non attendendo che essi vadano a Lui, ma invitandoli proprio Lui per primo alla sua scuola: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui” (Mc 3,13). La tradizione poi spiega il “suscitate molti discepoli” ricorrendo all’opinione di Shammai ed Hillel circa le persone da istruire; il più piccolo, poi, dei discepoli della scuola di Hillel, Rabban Jochanan ben Zakkaj, sarà il più grande tra loro.6 Allo stesso modo, Gesù farà di un bambino la misura della grandezza del discepolo (Cfr. Mt 18,1-4).
Discepoli sulla via I discepoli vanno da lui per andare dietro lui: il cammino per diventare maestri coincide strettamente con la sequela, la quale si coniuga come una comunanza di vita. Che il discepolo sia un servitore del maestro è rilevato
4 P. Lenhardt, Voies de la continuité juive. Aspects de la relation maître-disciple d’après la littérature rabbinique ancienne in RSR 66/4 (1978) 489-516 : 501. 5 j.Nazir 7; 56ab. 6 Cfr A. MELLO (a cura di), Detti di Rabbini, Qiqajon, Bose 1993, 51.
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dalle Scritture: Giosuè è chiamato il servitore (mesharet) di Mosè (Es 24,13; 33,11; Gs 1,1) sin dalla sua giovinezza (Nm 11,28). Anche di Eliseo la Scrittura afferma non che egli studiò alla scuola di Elia, ma che egli versò l’acqua sulle mani di Elia (2Re 3,11), il che, secondo l’interpretazione dei maestri ebrei, delinea il servizio del discepolo al maestro. Un servizio che si configura come vita in comune, all’interno della quale il discepolo presta servizio al maestro in tutte le necessità del vivere quotidiano. È nella vita di ogni giorno che il discepolo può apprendere dalla bocca del maestro quanto la Torah stabilisce per il vissuto personale e comunitario degli uomini. Non è un caso, allora, che la letteratura rabbinica intenda con l’espressione “servire il proprio maestro” il ricordarsi delle sue parole e dei suoi insegnamenti. Così i discepoli di Gesù, vedendolo pregare, sono spinti a chiedergli di insegnare loro come e cosa dire nella preghiera: “Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: ‘Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli’. Ed egli disse loro: ‘quando pregate dite’” (Lc 11,1-2); apprendono l’alto valore della cura della vita, che sorpassa l’osservanza del Sabato stesso, com’è nella tradizione ebraica: “E diceva loro: ‘Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato’”(Mc 2,27) e allo stesso tempo l’osservanza e l’adempienza dei precetti: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Mt 5,19). - e questo perché Gesù non viene ad abolire la Legge o i Profeti, ma a dare loro compimento (Mt 5,17-18), in quanto, come scrive l’Apostolo: “il compimento della Legge è Cristo” (Rm 10,4); sono istruiti per ben tre volte (cfr Mc 8,31; 9,3031; 10,32-34) sul destino del Figlio dell’uomo, sulla necessità della sua morte e resurrezione attraverso quella via crucis che sarà anche la loro, poiché “un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro” (Mt10,24-25), il che non si risolve certo in una ripetizione pedissequa delle parole del maestro e della tradizione, ma in quell’innovazione, propria dell’insegnamento ebraico, tendente a svelare nel tempo tutte le possibili facce di quella realtà vasta che è la Torah, innovazione che Gesù nel discorso della montagna, come sono stati definiti i capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo, dimostra di ben conoscere e che si evidenzia nell’espressione ricorrente al cap. 5, nei vv. 21.33: “Avete inteso che fu detto agli antichi...ma io vi dico”, che nulla conserva delle conclamate antinomie cristologiche.7 Sulla questione cfr P. LAPIDE, Il discorso della montagna. Utopia o programma?, Paideia, Brescia 2003.
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Le qualità del Maestro La prima attività di Gesù è l’insegnamento: la folla che l’ascolta nota l’autorevolezza del suo insegnare, che lo contraddistingue differenziandolo dagli scribi: “Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise a insegnare. Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” (Mc 1,21-22). L’autorevolezza viene dal fatto che Gesù “annunziava loro la parola”, non se stesso; inoltre, i suoi nemici mettono in luce un altro aspetto che lo rende autorevole agli occhi del popolo: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio” (Mc 12,14). Amore per la verità, imparzialità, adesione piena alla via di Dio che è la Torah, com’è definita la Legge, e suo annuncio rendono Gesù un maestro grande, così come vuole il significato dei termini Rabbì o Rabbunì in ebraico, che per questo, all’epoca di Gesù, avevano assunto il significato di titolo onorifico:8 ma un maestro non sostenuto dalla grandezza di ciò che insegna non è degno di tale titolo. Ecco perché Gesù avverte, contro la presunzione umana, che diventa ipocrisia e menzogna della Legge medesima, di non farsi chiamare da nessuno Rabbì sulla terra (cfr. Mt 23,1-12). Gesù è un maestro attento alla vita dei discepoli, come traspare da quest’invito loro rivolto: «Ed egli disse loro: “venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un poco”» (Mc 6,31). Gesù, come Mosè con Giosuè prima di lui, ha adempiuto, stando alla tradizione ebraica, il precetto secondo il quale un maestro deve aver caro l’onore del suo discepolo così come il discepolo tiene all’onore del suo maestro. L’onore, il Kabod, è la consapevolezza del maestro che solo un discepolo potrà fecondare e perpetuare il suo insegnamento: ecco perché il maestro deve essere attento alle condizioni di vita dei suoi discepoli, poiché queste influiscono sui tempi, i modi e l’efficacia del loro apprendimento. In quanto Rabbì, Gesù non si lascia conquistare dall’altezza di ciò che è divenuto ed è, un maestro. Lo afferma chiaramente nel contesto dell’ultima cena in Gv13, 13-17: “Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica”. Un mae-
Cfr G. STEMBERGER, Il giudaismo classico. Cultura e storia del tempo rabbinico (dal 70 al 1040), Città Nuova, Roma 1991, 98-100. 8
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stro che si fa servo della Parola che annuncia e degli uomini ai quali l’annuncio è rivolto, pur consapevole della sua identità: la verità dell’essere maestro sta tutta in questo chinarsi sui piedi dei discepoli. Nell’umiltà trova pienezza il significato di insegnare: “Quel vizio, dunque, non poteva essere strappato diversamente se non insegnando chiaramente come egli pensasse di essere superato dagli altri nella gloria tanto da dover collocarsi al livello dei servi, e come non temesse di fare il servo, lavando i piedi dei fratelli, di cingersi il panno per adempiere a questo servizio. Considera, infatti, come questo compito sia proprio d’un servo, se badi alle attitudini di questo mondo e al comportamento del secolo. Si offrì, dunque, come modello di un animo modesto e umile, non solo ai suoi discepoli, ma a tutti gli uomini. Perciò, il divino Paolo, avendolo preso come modello, fa questa esortazione dicendo: “Abbiate in voi lo stesso sentire che fu in Cristo Gesù” (Fil 2,5); e ancora: “Ognuno, per umiltà, ritenga gli altri superiori a sé” (2,3). La legge, infatti, dell’amore e della concordia dimora nello spirito umile. Tuttavia, per elevare il concetto della cosa, e perché non pensassimo che Cristo abbia compiuto qualcosa di comune, il divino evangelista rimane ammirato dinanzi alla sua gloria, al suo potere e al suo impero su tutti, dicendo: Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani. Sebbene, infatti, dice, non ignorasse di avere il potere su tutte le cose, e di essere uscito da Dio, cioè di essere stato generato dalla sostanza di Dio Padre, e di andare a Dio, cioè di ritornare in cielo, per sedere insieme con il suo Genitore, sopportò tuttavia una così grande umiliazione da cingersi con il panno e da lavare i piedi dei discepoli”.9
CIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al Vangelo di Giovanni, vol. 3, a cura di L. Leone, Città Nuova, Roma 1994, 12-13. 9
LETTERE PASTORALI DI FRATEL ÁLVARO RODRÌGUEZ ECHEVERRÌA Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane 01. Il volto del Fratello oggi (Dicembre 2000). 02. Essere Fratelli in comunità: nostra prima associazione (Dicembre 2001). 03. Associati al Dio vivente. La nostra vita di preghiera (Dicembre 2002). 04. La vocazione del Fratello oggi (Aprile 2003). 05. Associati al Dio dei poveri. La nostra vita consacrata alla luce del 4° voto (Dicembre 2003). 06. Associati al Dio del Regno e al Regno di Dio. Ministri e servitori della Parola (Dicembre 2004). 07. Associati per cercare insieme Dio, seguire Gesù Cristo e lavorare per il Regno. La nostra vita religiosa (Dicembre 2005). 08. Associati al Dio della storia. Il nostro itinerario formativo (Dicembre 2006). 09. Consacrati da Dio Trinità come comunità di Fratelli, per rendere visibile il suo amore gratuito e solidale (Dicembre 2007). 10. Essere segni vivi della presenza del Regno, in comunità di Fratelli consacrati da Dio Trinità (Dicembre 2008). 11. Consacrati da Dio Trinità come comunità di Fratelli. Messaggeri e apostoli inviati dalla Chiesa per rendere presente il Regno di Dio (Dicembre 2009). 12. Consacrati da Dio Trinità come comunità profetica di Fratelli appassionati di Dio e dei poveri (Dicembre 2010). 13. Consacrati da Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sottopongono al giudizio di Dio il loro ministero (Dicembre 2011). 14. Consacrati da Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sono ringiovaniti dalla speranza del Regno (Dicembre 2012).
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 545-546
ESPERIENZE E TESTIMONI
COLLEGIO “S. GIUSEPPE” – IST. “DE MERODE” (ROMA) LABORATORIO TEATRALE “IL QUADRIPORTICO” DI ALESSANDRO CACCIOTTI Direttore del Collegio “S. Giuseppe” – Istituto “de Merode” (Roma)
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ato nel 1990, il Laboratorio teatrale “Il Quadriportico” del Collegio “San Giuseppe” - Istituto “de Merode” di Roma-Piazza di Spagna ha messo in scena in 21 anni di vita quasi 40 spettacoli, e ha visto passare sul suo palcoscenico più di 1500 giovani, tra attori e staff tecnico. Il laboratorio è un’esperienza di gruppo in cui, intorno al progetto della messa in scena di una pièce teatrale, si dà l’opportunità ai giovani, condividendo il proprio tempo libero intorno a un’attività culturale impegnativa e insieme divertente, di intrecciare rapporti di amicizia, e di crescere sia nelle capacità intellettuali che nelle abilità manuali. In questi anni si è rivelato un importante strumento di educazione al self-control, al senso della responsabilità, al gusto per la bellezza, allo scambio interpersonale tra persone con differenti abilità, età, ambiente sociale, cultura. Ha contribuito a far superare timidezze e incertezze di carattere; ha abituato a sapersi presentare in pubblico e a mettersi in gioco davanti a un’assemblea. A chi ha lavorato nello staff tecnico ha fornito anche abilità nel settore organizzativo e in quello tecnologico: uso di computer, videoproiettori, programmi di informatica, consolle luci, mixer audio e altri tipi di strumentazione. Il laboratorio è un luogo dove tutto si costruisce insieme: si redige il testo; si sceglie il cast degli attori; si costruiscono le scene; si suonano e si cantano le canzoni; si assumono ruoli differenti come attori/attrici, tecnici, attrezzisti, truccatrici e costumiste; si cura la regia. Si opera da una parte in maniera artigianale e ludica, dall’altra si richiede grande impegno e professionalità, perché ognuno è responsabile nel proprio ruolo. Dal 2004 “Il Quadriportico” ha aperto un’esperienza di integrazione tra gli studenti del Liceo “de Merode” e l’Istituto “Leonarda Vaccari” in Roma che è impegnato nel campo della riabilitazione di persone con disabilità. La recitazione riesce a stimolare le potenzialità insite in ogni persona: sul set teatrale, infat-
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Alessandro Cacciotti
ti, anche i ragazzi diversamente abili esprimono capacità e competenze di gran lunga superiori a quelle mostrate nelle consuete attività, sia per la novità che il lavoro comporta, sia per la stretta collaborazione che si instaura con amici provenienti da altri contesti e situazioni psico-fisiche diverse. Agli studenti è richiesta una forte motivazione alla solidarietà e all’impegno nel volontariato. Il laboratorio organizza due spettacoli teatrali/musicali all’anno, che vanno in scena rispettivamente prima di Natale e per la fine dell’anno scolastico. Le prove si svolgono tutti i pomeriggi con un calendario che viene pubblicato circa ogni dieci giorni, che armonizza gli impegni di tutti con le esigenze dello studio e della scuola. Oltre ad esibirsi ordinariamente nel teatro dell’Istituto, che negli anni è andato via via arricchendosi di una strumentazione che fa invidia anche a teatri di più grosso nome, il laboratorio è stato ospite diverse volte del teatro “Ambra Jovinelli”, uno dei più grandi teatri di Roma, e a giugno 2011 con la rappresentazione di “Il Re Leone” ha calcato le scene del Teatro Nazionale, con il Teatro dell’Opera di Roma. Nella scelta dei soggetti “Il Quadriportico” si è specializzato nella rappresentazione di musical, un genere che unisce recitazione, canto, musica e danza e per questo offre più estese possibilità di coinvolgimento e molti stimoli alla creatività. L’ultima performance in ordine di tempo, andata in scena dal 15 al 19 dicembre del 2011, è intitolata “Mozart L’Opera Rock”, una prima assoluta in Italia di un musical prodotto nel 2009 in Francia da Dove Attia e Albert Cohen, che ha come oggetto la vita e la personalità contraddittoria del genio di Salisburgo. Oltre alla traduzione dal francese, sia delle parti dialogate che delle liriche delle canzoni, il testo è stato leggermente adattato in alcune parti, con l’inserzione di scene tratte dal famoso film Amadeus (1984) di Milos Forman. La musica di Mozart, classica per definizione, viene così a trovarsi insieme a potenti pezzi rock, quasi a sottolineare l’affascinante contraddizione tra le scelte armoniche del musicista e la vita e il carattere di un artista, che per esprimere liberamente se stesso dovette cozzare con le invidiose rivalità e ottusità dei suoi tempi. Tutti gli studenti dei Licei, nel mese di novembre, hanno partecipato a una matinée, in cui sono state presentate la vita e l’opera di Mozart e le caratteristiche dello spettacolo. Sul palco hanno operato oltre 30 attori e altrettanti macchinisti, costumiste, tecnici, (tutti alunni o ex-alunni dell’Istituto). A giudizio unanime, oltre alla valenza educativa dell’esperienza vissuta, lo spettacolo è stato anche di notevole livello artistico-culturale, di quelli che in genere non ti aspetti da gruppi scolastici. Fortemente sentito il messaggio di fondo, espresso soprattutto dalle liriche delle canzoni: “Pensa l’impossibile; brucia le carceri d’oro; osa l’utopia; solo i folli faranno andare avanti il mondo; la tua follia sarà la tua libertà”.
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 547-554
LEONARDO ROLLINO (1922 - 2012) ESEMPLARE EDUCATORE DELL’ISTITUTO SECOLARE “UNIONE CATECHISTI” DI VITO MOCCIA (Unione Catechisti del Crocifisso e dell’Immacolata)
Una gemma nella mistica corona del Ven. Fr. Teodoreto
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on si è ancora spento il rimpianto e la commozione per il trapasso del dr. Conti, la cui personalità è stata brevemente delineata nella nostra precedente rivista, che un’altra fulgida figura di Catechista ha concluso il suo cammino terreno, e ci induce a riflettere su di lui e sulla testimonianza che ci ha lasciato. È Leonardo Rollino, autentico e trasparente riflesso della santità del Fondatore dell’Unione, il ven. Fr. Teodoreto: si è a lui ricongiunto in Cielo, per perpetuare, con gli altri Catechisti e Fratelli delle Scuole Cristiane che l’hanno preceduto, l’Adorazione perenne al Crocifisso, suo e loro ideale e ragione di vita già qui in terra. È tuttora viva in noi l’impressione del suo spontaneo ottimismo, manifestato con un radioso sorriso, pressoché abituale, anche nelle prove sue personali e dell’Istituto, sorriso frutto altissimo della consapevolezza che “Gesù ha vinto il mondo dall’alto della Croce”, come si canta nell’inno dell’Unione, e che inesauribile è la materna protezione dell’Immacolata. Avvicinandolo, si avvertiva come un sentore di candore, o, per essere più espliciti, di santità. Fondamentale, al riguardo, una dichiarazione risalente al 1962 del compianto dr. Carlo Tessitore, allora Presidente generale dell’Unione, pur parco di giudizi, che in un colloquio con un catechista non esitò a dichiarargli: “Secondo me, Rollino è un santo, un santo da canonizzare”.1 Lucidissimo di mente, la sua morte è giunta inaspettata, pur considerando l’età (novanta anni) e qualche acciacco, ma senza gravi malattie che ne Questo è quanto mi ha riferito l’interlocutore di quel colloquio, il prof. Jordi Pascual, alla mia comunicazione del trapasso.
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facessero prevedere l’imminente crollo: il trapasso è avvenuto però in piena coscienza, come rilevato da Fr. Egidio Mura, che portandogli la Comunione la vigilia, ha potuto ancora constatare quanto fosse granitica la sua fede, nella certezza da lui manifestata, in quel momento estremo, della presenza reale di Gesù nell’Eucarestia.
Amico e collaboratore di Domenico Conti Che il decesso sia avvenuto a soli quattro mesi da quello di Conti, mi pare rivesta un profondo e provvidenziale significato: la ricomposizione in Cielo di questa mirabile coppia di adoratori del Crocifisso. In vita essi hanno costituito, suscitati dallo Spirito Santo, nell’ambito dell’Unione Catechisti uno di quei sodalizi spirituali tra due apostoli infiammati di amore di Dio e di zelo per il prossimo, che tanto hanno adornato la Chiesa in tutti i tempi.2 Il loro gemellaggio catechistico, avviatosi con la frequenza al medesimo corso di formazione sotto la guida di Fr. Teodoreto, avuto modo di consolidarsi con la professione congiunta dei voti di castità, povertà e ubbidienza proprio in occasione della trasformazione dell’Unione in istituto secolare, avvenuta il 24 giugno 1948 (pertanto in una circostanza solenne per la sua nuova configurazione, con le conseguenti ampie prospettive apostoliche che si profilavano) e si è perpetuato per tutta la vita, in un vincolo interiore che li ha allacciati persino nell’ultima fase, essendo stati ospitati entrambi nel pensionato dei Fratelli al Centro La Salle di Torino. Pur diverso di temperamento e di forma mentis da Conti, in quanto più riservato e più propenso all’azione che all’inventiva, Rollino ne è stato lo stretto ed assiduo collaboratore, tanto da succedergli nella Presidenza Generale dell’Unione, circostanza che gli ha consentito di concretare ed attuare vari progetti in precedenza impostati dall’amico.
Vocazione catechistica Rollino è nato a Torino l’11 giugno 1922, in famiglia di origine vercellese, dato che il padre era socio nella fonderia Cenisia. Ha frequentato le scuole allora gestite dai Fratelli: tre anni a S. Pelagia, in via delle Rosine, due all’Istituto Arti e Mestieri di Corso Trapani, dove ha allacciato i primi contatti con l’Unione Catechisti, attraverso la conoscenza di Fr. Teodoreto e la frequentazione dei corsi di formazione post-scolastica nell’ambito dell’A.M.I. (Associazione di Maria Immacolata), opera dell’Unione per l’orientamento vocazionale, sotto la guida del compianto catechista Giovanni Fonti.
Viene spontaneo l’accostamento, quanto a simbiosi spirituale, a insigni figure quali S. Basilio e S. Gregorio o, per restare nell’ambito lasalliano, il ven. Fr. Teodoreto e Fr. Cecilio. 2
Leonardo Rollino (1922 - 2012) esemplare Educatore dell’Istituto Secolare “Unione Catechisti”
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Dotato di animo generoso e aperto, di mente lucida e trasparente e di temperamento intraprendente e gioviale, il giovane Leonardo sicuramente deve essere stato affascinato dalla spiritualità dell’Unione e del suo Fondatore, e sin da allora il suo cuore, così sensibile, è stato attratto dal Crocifisso e dall’Immacolata. Allo scoppio della II guerra mondiale, iniziata per l’Italia nel giugno 1940, prestò il servizio militare nell’aviazione, sperimentando di persona i disagi, anzi lo sconvolgimento fisico e morale di quel tremendo conflitto; in lui tale esperienza consolidò maggiormente la sua offerta a Dio, tanto che al ritorno, illuminato dallo Spirito, decise di consacrarsi al Crocifisso. Completò la sua istruzione scolastica frequentando i corsi serali all’istituto Avogadro e conseguì il diploma di perito industriale, acquisendo quella competenza che gli avrebbe giovato nell’impiego presso la suddetta fonderia Cenisia, ma che soprattutto lo avrebbe abilitato all’insegnamento nella Casa di Carità Arti e Mestieri e assecondato, a complemento della sua ricchezza interiore, nel servizio prestato alla Unione Catechisti. Tali attività catechistiche lo assorbirono talmente che decise di lasciare l’impiego nella Cenisia per dedicarsi completamente, e a tempo pieno, alle opere cui si era votato.
L’educatore nell’Unione Catechisti e nella Casa di Carità In attuazione della sua vocazione catechistica, Rollino è stato essenzialmente un educatore nell’Istituto secolare e nella sua principale opera: la Casa di Carità Arti e Mestieri. Docente e animatore in tanti catechismi parrocchiali – cui sin dai primordi dell’Unione si sono dedicati i suoi membri – ha curato in particolare la formazione dei giovani aspiranti catechisti, in stretta collaborazione con il compianto Claudio Brusa. Tale opera formativa si è protratta con profitto nel tempo, ed ha avuto una speciale e provvidenziale efficacia nella formazione delle Catechiste. Ciò ha consentito il consolidamento del ramo femminile dell’Unione, nonché la ripresa e l’incremento delle prime adesioni risalenti agli anni ’60, sotto la presidenza di Conti, a compimento delle aspirazioni e dei contatti intessuti da Fr. Teodoreto con signorine desiderose di votarsi all’Istituto, cui avevano aderito come Zelatrici dell’Adorazione al Crocifisso. Non sarà mai abbastanza sottolineata l’importanza di questa opera formativa condotta da Rollino, non solo per la formazione delle persone interessate, ma per lo sviluppo e il futuro dell’Unione. Oltre alla specifica missione catechistica e formativa, è stato un infaticabile operatore nell’Unione, in tutti i servizi per i quali fossero necessarie competenza professionale, abilità e, soprattutto, disinteressata dedizione. Da membro del consiglio generalizio a segretario, economo e presidente, era
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il fac-totum per ogni adempimento e incombenza, anche amministrativa e finanziaria, mentre nella sperimentale attuazione del convitto per Catechisti, in via Campiglia a Torino, fu tra i più attivi per la realizzazione e l’adesione all’opera. L’altro versante della sua educazione catechistica è stato l’insegnamento alla Casa di Carità e la responsabile partecipazione alla direzione e alla gestione dell’Opera. Oltre che insegnante di religione e di materie tecniche, è stato direttore dei corsi serali nella sede di Grugliasco; in particolare la sua responsabilità nella gestione dell’Ente conseguì esiti di assoluto rilievo durante la presidenza dell’Unione, quale suo rappresentante nell’assemblea dei soci della Casa di Carità (quando la struttura giuridica dell’Ente era associazione dell’Unione e dei Fratelli, mentre ora, come noto, è fondazione). In tale incombenza non solo ha garantito un’intelligente ed operosa collaborazione, ma ha saputo cogliere e intuire le innovazioni che i segni dei tempi e lo straordinario sviluppo dell’Opera imponevano. Oltre a ciò va ricordato il suo contributo come insigne benefattore della Casa di Carità al punto che – in una circostanza di ristrettezze finanziarie risalente ad alcuni decenni fa – non esitò ad alienare dei beni ereditati dal papà, per far fronte all’emergenza: il movente era sempre l’amore al Crocifisso, poiché intravvedeva anche nella Casa di Carità l’espressione del divino Artigiano e Maestro, quale centro e fondamento dell’Opera e suo protettore con l’Immacolata, come risulta dal Diario di Fra’ Leopoldo.3
L’appassionato del Crocifisso Ma la pienezza della sua dedizione per l’Unione Catechisti si è manifestata durante il suo sessennio di presidente generale. La circostanza di succedere al dr. Conti dopo la lunga presidenza di questi, segnalatasi per la profondità delle intuizioni e la genialità delle innovazioni, poteva costituire una forte remora alla libera e responsabile gestione da parte sua, per l’ombra sempre incombente del predecessore. Ma è proprio in questa circostanza che si è rivelata la provvidenzialità del già rilevato gemellaggio spirituale tra i due: il neo-presidente ha fatto tesoro della gestione di Conti, continuando e
3 Su Fra’ Leopoldo, cfr. la nota successiva. Il tema della centralità del Crocifisso per la Casa di Carità mi fu svolto da Rollino quando, ancora giovane, ero alle prime armi nell’insegnamento al centro di formazione, e per quanto già da tempo fossi assiduo nel praticare l’Adorazione, come zelatore dell’Unione Catechisti, fu per me una rivelazione, che ho poi sviluppato, e costituisce tuttora la nozione fondamentale del modo di intendere la suddetta Opera. E ciò si pone in piena linea con la proposta formativa di Conti, che è poi la traduzione in termini didattici del messaggio di Fra’ Leopoldo e Fr. Teodoreto.
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perfezionando l’opera di rinnovamento, di riforma e di sviluppo dell’Istituto, ma animandola con il suo stile personale fatto di spontaneità, semplicità e naturalezza, tanto da facilitare il dialogo e l’apertura alle aspettative di tutti. I cardini della sua gestione sono stati l’aggiornamento del testo dell’Adorazione a Gesù Crocifisso e il consolidamento, in Italia e all’estero, dei rami e delle sedi dell’Unione, con particolare riguardo - come già rilevato - a quello femminile. Tali opere sono il significativo frutto della sua ricca personalità spirituale e del suo illuminato agire, animato della sua passione per il Crocifisso e l’Immacolata. In questa luce assume particolare rilievo il suo impegno per l’“Adorazione” e per la compilazione di una formula breve, accanto a quella originaria e tradizionale. Per chi non avesse piena conoscenza di tale preghiera – denominata anche “Devozione alle Cinque Piaghe”, di proprietà artistica e letteraria dei Fratelli e tanto amata e praticata nella famiglia lasalliana – ne diamo una brevissima illustrazione. Scaturita all’inizio dello scorso secolo dalla mente e dal cuore del Servo di Dio Fra’ Leopoldo Maria Musso, il frate converso francescano amico e consigliere di Fr. Teodoreto,4 l’”Adorazione” fu da questi conosciuta nel novembre 1911, e subito l’adottò come strumento efficace per favorire l’amore al Crocifisso, in spirito di conversione e di ascesi, tanto da farne il contrassegno del suo messaggio spirituale. È infatti attraverso la contemplazione e l’adorazione delle ferite aperte del Crocifisso che si coglie Gesù nel momento supremo della “sua ora” (cfr. Gv 2, 4),4 nell’immediatezza della sua infissione alla croce, pertanto nel culmine supremo della sua offerta al Padre e della sua condivisione, per libero
Fra’ Leopoldo Maria ofm, francescano laico, al secolo Luigi Musso, nacque a Terruggia Monferrato (AL) il 30 gennaio 1850. Di professione cuoco, entrò in convento dopo la morte della mamma, già da lui assistita, il 17 dicembre 1901, nel santuario di S. Antonio in Torino. Il 21 gennaio 1902 fu destinato al convento allora annesso alla chiesa di S. Tomaso, sempre in Torino, via Pietro Micca, dove risiedette sino alla morte, avvenuta il 27 gennaio 1922. Uomo di alta spiritualità, arricchita di singolari carismi soprannaturali, di profonda umanità e di viva sensibilità, per quanto praticamente illetterato, oltre alla compilazione dell’ “Adorazione”, ha lasciato un voluminoso Diario, mirabile documento di ascesi interiore e di intimità con Gesù e Maria, e varie lettere. Moltissimi si rivolgevano a lui per consigli e aiuti interiori, e tra questi Fr. Teodoreto, con riguardo alla sua missione educatrice e catechistica. Il messaggio spirituale lasciatoci da Fr. Teodoreto con le sue opere – Unione Catechisti, spiritualità incentrata sull’Adorazione al Crocifisso, Casa di Carità Arti e Mestieri – converge, anzi si identifica con quello di Fra’ Leopoldo. Per approfondirne la conoscenza rinviamo al libro di Fr. Teodoreto Nell’intimità del Crocifisso, Ed. Unione Catechisti, 1984, C.s. B. Brin, 26, 10149 Torino, in italiano, francese e inglese. 4 Altri passi di Gv in cui ricorre tale espressione: 7,6; 7,30; 8,20; 12,23.27; 13,1; 17,1. 4
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amore, del dolore e della morte umana. Peraltro tale condivisione è vita, poiché, secondo la costante dottrina della Chiesa, il Figlio di Dio, accettando e subendo la morte – anzi, potremmo dire, vivendola – la assume a Sé come esperienza umana, e in tal modo la vince e la sconfigge, trasmutandola, per chi sia incorporato in Lui, in passaggio all’esperienza diretta di Dio, sicché l’uomo diviene fratello di Gesù e figlio adottivo del Padre.
Formulazione della “Adorazione a Gesù, il Crocifisso Risorto” e prospettive di sviluppo Nella costante riflessione degli insegnamenti scaturiti dalle ferite sanguinanti e gloriose del Crocifisso, Rollino ha avvertito, d’intesa con i Fratelli, l’urgenza che la formula dell’ “Adorazione” rispondesse all’esigenza di rendere il linguaggio sempre più aperto ed accessibile alla sensibilità contemporanea, specialmente dei giovani, e conforme agli orientamenti liturgici scaturiti dal Concilio, affidando alla commissione per i rapporti tra i Fratelli e i Catechisti la revisione del testo.6 Le innovazioni hanno lasciato sostanzialmente invariata la struttura e il carattere della preghiera, con particolare attenzione al testo originario di Fra’ Leopoldo, di cui sono state ripristinate alcune formulazioni, apportando qualche modifica nello stile delle invocazioni e dell’effusione dei sentimenti, e favorendo altresì i momenti di raccoglimento e di preghiera mentale.7 Inoltre è stata approntata una formula breve, particolarmente indicata per i giovani, e comunque propedeutica alla formula piena, non articolata nelle cinque stazioni per ogni ferita, pur mantenendo espresso riferimento ad ognuna di esse. I nuovi testi aggiornati sono riportati in nota al termine di questo articolo, per facilitare la presa di conoscenza dello spirito e del carisma del messaggio di Fra’ Leopoldo e di Fr. Teodoreto, affidato all’Unione Catechisti e ai Fratelli. Non è stata un’operazione facile né pacifica poiché, come sovente accade nelle circostanze in cui una devozione “carismatica” viene riveduta per conformarla all’evoluzione del linguaggio e al cambiamento di sensibilità dovuto ai segni dei tempi, non sono mancate reazioni da parte di chi non tol-
La commissione era presieduta dal compianto Fr. Giuseppe Lazzaro e da Rollino, e costituì il comitato incaricato di redigere i nuovi testi, composto da Fr. Felice Proi, Fr. Egidio Mura, Domenico Conti e Vito Moccia. 7 Nelle domande di impetrazione è stata eliminata l’espressione “concedere alla Chiesa vittoria sui suoi nemici”, che non è di Fra’ Leopoldo, ma di una revisione ecclesiastica. Parimenti l’invocazione per le anime del Purgatorio è stata modificata secondo la formula originaria del Francescano. 6
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lerava che il testo subisse mutazioni (anche se, come sopra rilevato, alcune modifiche hanno riguardato il ripristino di espressioni originarie di Fra’ Leopoldo - cfr. nota 7).8 Con vivo senso d’intelligenza e di comprensione, Rollino superò queste difficoltà consentendo una pluralità di formulazioni, come tipici testi adottati dall’Istituto, pur ribadendo, d’intesa con i Fratelli, come ufficiale la formula aggiornata. Tale soluzione non è solamente una forma di compromesso, ma introduce una modalità di più profonda comprensione e di più ampia valorizzazione della devozione stessa. Invero il fulcro di questa consiste nell’adorare il Crocifisso con cuore contrito e sempre più desideroso di rispondere al divino appello di amore, attraverso la contemplazione delle ferite aperte con cui Gesù è trafitto sulla croce, rinnovando, come nella liturgia del Venerdì Santo, la preghiera universale della Chiesa per tutte le urgenze e le necessità dell’umanità. Quindi rientra nell’itinerario tracciato da Fra’ Leopoldo incentrare la riflessione e l’attenzione sulle emergenze più pressanti del tempo in cui si vive, per invocare l’aiuto di Dio, ma anche per annuncio e testimonianza nel mondo. Anzi quest’annuncio è una nota peculiare dell’istituto secolare, specie se finalizzato alla catechesi, come nel caso della nostra Unione. Nell’attuale situazione dell’umanità, i pericoli più gravi, anche secondo gli insegnamenti del Papa, sono la secolarizzazione, con la conseguente dimenticanza o negazione di Dio, e il consumismo, con i dolorosi riflessi dell’egoismo e della sensualità. Quindi nella pratica e nella diffusione dell’”Adorazione” risulta rispondente ai segni del nostro tempo evidenziare che proprio nel Crocifisso vi è la risposta e la soluzione agli interrogativi e alle tragedie che ci travagliano. È il Crocifisso Risorto che ci attesta l’esistenza e la presenza amorosa di Dio. Non è forse con riguardo a Sé crocifisso che Gesù ha posto la rivelazione della sua divinità? Sono chiare le sue parole: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono” (Gv 8, 28). E parimenti non è a Lui crocifisso che si compie la sua attrazione universale, e perciò l’espiazione e la purificazione dell’uomo? “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12, 32). Tali tematiche essenziali vanno quindi illustrate ed evidenziate nelle motivazioni apposte nei foglietti della devozione, nei commenti scritti e, soprattutto, in quelli orali, confermati dall’esempio di vita. L’“Adorazione” come strumento di catechesi, oltre che di contemplazione, è l’appello che possiamo trarre dalla testimonianza e dagli insegnamen-
In un caso analogo per fare accettare le modifiche introdotte alla preghiera scritta dal Fondatore di un movimento, dovette intervenire le C.E.I.. 8
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ti di Rollino, presentando la preghiera di Fra’ Leopoldo come aiuto e sussidio a individuare e a superare i mali che ci affliggono e ci condizionano, e come elevazione alla conoscenza e all’intimità con il Crocifisso Risorto. Questa mi sembra una delle prospettive operative che lui ci lascia, di tanto più attuale e preziosa all’inizio dell’anno della fede, proclamato dal Papa, e nel decennio dedicato all’educazione, secondo le indicazioni della Conferenza Episcopale Italiana9.
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Testi dell’Adorazione a Gesù, il Crocifisso Risorto.
Adorazione a Gesù, il Crocifisso Risorto (1998) - Mio Signore Gesù Crocifisso, Ti adoro e Ti amo, perché per amore del Padre, nello Spirito Santo, con la tua croce hai redento il mondo. Ti ringrazio di avermi amato, di aver sofferto tanti dolori e preso su di Te i miei peccati, di cui mi pento con tutto il cuore. Alla piaga della mano destra - Mio Signore Gesù Crocifisso, unito a Maria, con gli Angeli e i Santi, adoro la piaga della tua mano destra. Benedici la Chiesa, tuo popolo, il Papa e i Pastori chiamati ad annunciare il Vangelo e a celebrare l’Eucaristia. (Pausa di meditazione, oppure Padre, Ave e Gloria, o una di queste a scelta, dopo ogni adorazione). Alla piaga della mano sinistra - Mio Signore Gesù Crocifisso, unito a Maria, con gli Angeli e i Santi, adoro la piaga della tua mano sinistra. Ti prego per chi non conosce il tuo amore, per chi lo rifiuta e non vuole riconciliarsi con Te. Alla piaga del piede destro - Mio Signore Gesù Crocifisso, unito a Maria, con gli Angeli e i Santi, adoro la piaga del tuo piede destro. Ti prego perché i cristiani e le persone a Te consacrate vivano la loro vocazione nella santità e in ogni famiglia regni il tuo amore. Alla piaga del piede sinistro - Mio Signore Gesù Crocifisso, unito a Maria, con gli Angeli e i Santi, adoro la piaga del tuo piede sinistro. Ti prego per i defunti, e per le vittime dell’odio e della violenza, perché purificati dal tuo amore siano per sempre con Te. Alla piaga del costato - Mio Signore Gesù Crocifisso, unito a Maria, con gli Angeli e i Santi, adoro la piaga del tuo costato. Ti prego perché gli uomini trovino nel tuo Cuore trafitto l’amore che salva, la forza del perdono e della riconciliazione, il conforto nella sofferenza. Maria Immacolata, madre di Gesù e madre nostra, prega per noi. Signore Gesù, mio Salvatore, con Te offro al Padre, nello Spirito Santo, le tue piaghe sanguinanti e gloriose. Possa io vedere in Te Crocifisso il volto di Dio e lasciarmi attrarre dal tuo amore, amando i fratelli come Tu li hai amati, nell’impegno per la giustizia, l’unità e la pace. Adorazione a Gesù, il Crocifisso Risorto (formula breve) Mio Signore Gesù Crocifisso, Ti adoro e Ti amo, perché per amore del Padre, nello Spirito Santo, con la tua croce hai redento il mondo. Ti ringrazio di avermi amato, di aver sofferto tanti dolori e preso su di Te i miei peccati, di cui mi pento con tutto il cuore. Signore Gesù, mio Maestro e Salvatore, unito a Maria, con gli Angeli e i Santi, adoro le piaghe sanguinanti e gloriose delle tue mani benedicenti, che guariscono e salvano, dei tuoi piedi feriti, che portano il Vangelo di pace, del tuo cuore trafitto, che sulla croce ha vinto la morte. Possa vedere in Te Crocifisso il volto di Dio, lasciarmi attrarre dal tuo amore, amando i fratelli come Tu li hai amati, e trovare in Te la forza del perdono e il conforto nella sofferenza. Ti prego affinché la tua Chiesa sia sempre testimone di amore e centro di unità e di pace per tutti gli uomini.
Rivista Lasalliana 79 (2012) 4, 555-560
NOTE
ANCHE I “DURI” SOSTANO NEL CONFLITTO. QUANDO LA CONTESTAZIONE SOCIALE RIFIUTA LA VIOLENZA FILIPPO SANI1 Sociologo, formatore, orientatore DI
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i sembra di cogliere delle interessanti novità linguistiche e di significato simbolico nelle ultime vicende che riguardano il terrorismo italiano, in particolare per quanto concerne le cosiddette Nuove Brigate Rosse. Novità che, in realtà, non sono ascrivibili alla consueta delirante analisi deformata della realtà da parte degli appartenenti ai nuclei terroristici, da troppo tempo affezionati a un linguaggio di morte inutilmente violento, protervo e semanticamente sterile; quanto alla replica dei movimenti antagonisti, collegati al Centro Sociale “Askatasuna” di Torino, subito dopo l’attentato di Genova al dirigente dell’Ansaldo Adinolfi. Il comunicato dei movimenti antagonisti, di cui un importante quotidiano nazionale2 ha dato risalto, è stato pubblicato sul sito www.infoaut.org lo scorso maggio con il titolo “Autismi senza autonomia”. L’importanza di tale documento rappresenta un formidabile esempio di elaborazione simbolica della violenza all’interno di una dinamica relazionale di forte contrasto tra posizioni, interessi e bisogni diversi. Una sensazionale dimostrazione di come un movimento collettivo, non certo tenero nei confronti delle istituzioni e delle autorità rispetto ad alcune scelte di politica economica, possa denunciare l’inconcludenza e l’inutilità della violenza e, contemporaneamente, proporre una via d’uscita, anche se non condivisibile in alcuni passaggi, che tenta di gestire l’enorme emotività in gioco con una sostanziale accettazione Collabora da molti anni con il Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti di Piacenza. 2 PAOLO GRISERI, I duri di Askatasuna chiudono ai terroristi, La Repubblica, 16 maggio 2012. 1
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del conflitto come unica via d’uscita per risolvere questioni sociali apertamente esplosive. Tenterò di recuperare le posizioni dei movimenti alla fine del presente contributo, per evidenziarne ancora meglio l’implicito potenziale educativo nell’area della gestione dei conflitti. Periodicamente i mass media riprendono a parlare di terrorismo. Tuttavia, rispetto al passato (gli approfondimenti sui cosiddetti “anni di piombo” costituiscono ormai il patrimonio culturale della storia contemporanea), il recupero giornalistico della lotta armata e delle inaudite violenze perpetrate ai danni di vittime innocenti è, fortunatamente, solo legato, tranne qualche sciagurata eccezione (come purtroppo l’attentato a Roberto Adinolfi dello scorso 7 maggio conferma), alle commemorazioni3 o alle sentenze di processi nei confronti dei presunti terroristi, che si protraggono spesso per molti anni.4 Mi occupai di terrorismo intorno alla metà degli anni ’80, quando per ragioni di studio5 analizzai i processi sociali e psicologici che determinarono in alcuni giovani (senz’altro un’esigua minoranza dei ragazzi di allora) scelte radicali, come appunto la violenza e la lotta armata. È ormai ampiamente dimostrato come tale fenomeno fu generato grazie ad un particolare sincretismo sistemico di molti fattori (economici, sociali, culturali, antropologici), che oggi non è minimamente ipotizzabile. Lo stato nascente dei movimenti collettivi, soprattutto il portato relazionale e comunicativo, che è poi degenerato in piena a-conflittualità fusionale, è altrettanto irripetibile.
3 Vedi, ad esempio, l’intervento sulla Stampa.it del 9 maggio 2012 (anniversario del ritrovamento del corpo di Aldo Moro, che il Parlamento italiano ha voluto – approvandolo con un’apposita legge – riconoscere come “Giorno della memoria” in ricordo di Aldo Moro e di tutte le vittime del terrorismo) di ALBERTO PAPUZZI dal titolo “Anni di piombo, la normalità del male”. Nella sola città di Torino, scrive Papuzzi, tra il 1977 e il 1982 si contarono “quasi centocinquanta vittime dei terroristi: 19 morti e 130 feriti. I due gruppi che tenevano la città sotto assedio erano le Brigate Rosse e Prima Linea”. 4 Il Corriere della Sera del 28 maggio 2012 riportava la notizia relativa alla sentenza al secondo processo d’appello nei confronti delle cosiddette Nuove BR. Emessa dai giudici della Corte d’Appello di Milano, tale sentenza riconosce 11 condanne agli ideologi del gruppo. Nello stesso articolo viene anche dato ampio risalto agli attacchi intimidatori che uno dei leader brigatisti, Alfredo Davanzo, ha scagliato a più riprese durante i vari dibattimenti nei confronti di Pietro Ichino, giuslavorista che vive sotto scorta da ormai 10 anni, praticamente subito dopo l’uccisione di Marco Biagi. 5 Per la tesi di laurea in sociologia presso l’Università degli Studi di Urbino, presentai, insieme ad altri due studenti del corso, oggi colleghi e amici (MARCO BRUTTI e PIETRO CHECCUCCI) un impegnativo lavoro di ricerca durato circa due anni, dal titolo “Terrorismo ed area giovanile”.
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Sinteticamente: quando il tentativo di alcune avanguardie giovanili, in qualche modo portatrici dell’universo simbolico marxista, di confluire nell’alveo delle lotte operaie dell’autunno caldo, fallisce, prendono campo piccoli nuclei di stato nascente collettivo che legittimano la lotta armata come strumento necessario per rovesciare lo”stato autoritario e borghese”. L’escalation violenta del terrorismo mostra, a fronte della destrutturazione del progetto rivoluzionario iniziale, il crescente bisogno di rafforzare la solidarietà del gruppo, in quanto viene considerata come l’unica struttura di plausibilità che attribuisce ruoli adulti. Anzi, le azioni violente possono essere addirittura considerate alla stregua dei riti aggregativi; infatti, da un lato generano solidarietà tra i membri del gruppo stesso e, dall’altro, marcano visibilmente la presunta identità rivoluzionaria (il noi del gruppo e il loro della società autoritaria e borghese). Questi tratti identitari (da un punto di vista della sociologia dei gruppi) non sono minimamente sovrapponibili con la struttura organizzativa dei movimenti eversivi odierni. In secondo luogo, in Italia, il terrorismo, perlomeno quello che consideriamo attivo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’80 dello scorso secolo, ha avuto un’adesione massicciamente giovanile. Gli adepti erano, infatti, giovanissimi (tra le fila delle cosiddette colonne brigatiste diversi avevano meno di vent’anni).6 Non risulta che l’età media degli attuali terroristi sia così bassa. Lo scorso giugno la Procura della Repubblica di Perugia ha effettuato una serie di arresti nei confronti dei maggiori esponenti di un’organizzazione terroristica che aveva compiuto attentati in Italia e all’estero. Gli arrestati, una decina in tutto, hanno un’età media elevata. Tra loro un quarantenne, un cinquantenne e un sessantenne.7 Il terrorismo attuale, quindi, non sembra assolutamente possedere quell’elemento strutturale che lo caratterizzava come movimento giovanile d’avanguardia negli anni ’70 e ’80 del XX Secolo, connotato dall’esplosiva miscela di tratti giovanili, ideologici, politici ed esistenziali (come spasmo-
“Sono dei dati innanzi tutto obiettivi. Il primo è quello concernente l’età media dei terroristi pentiti e no. Per quanto riguarda le BR, qui parlo esclusivamente delle strutture di Torino, quindi il dato è calcolato sugli imputati dell’istruttoria torinese, l’età media è di 31 e mezzo. Per quanto riguarda Prima linea, ancora una volta dati riferiti all’istruttoria torinese, l’età media è invece di 24 anni; cioè Prima Linea, verrebbe fatto di concludere, è un gruppo più giovane e ciò corrisponde alla storia delle due formazioni terroristiche.”, GIANCARLO CASELLI, Il terrorismo italiano: i dati. Intervento al seminario “Contesto internazionale e terrorismo italiano”, 1981, Torino. 7 La Repubblica, 13 giugno 2012. 6
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dica ricerca di azioni violente indispensabili per definire un’identità di gruppo e di un ruolo adulto, alternativo all’autorità istituzionale che veniva contestata duramente e violentemente). Sono venute meno sia la forza ideologica sia la produzione simbolica, che la “sub cultura giovanile” alimentava come pulsione innovatrice (anche se la sua elaborazione profonda è paranoica, perché l’oggetto d’amore primario – la classe operaia – aveva voltato le spalle al progetto rivoluzionario). In comune con i movimenti dello scorso secolo, l’eversione armata di oggi possiede almeno due elementi perniciosi ed evolutivamente distruttivi. Il primo è, appunto, collocato nell’area dell’elaborazione paranoica dell’oggetto d’amore perduto. Nel secolo scorso la cosiddetta “classe operaia”, negando l’adesione al progetto rivoluzionario, rappresentava l’amore alienato da cui potersi simbolicamente liberare. La violenza espressa verso l’esterno permetteva pertanto di “esportare la colpa della morte nel nemico” (F. Fornari). Nelle dinamiche gruppali degli attuali movimenti terroristici l’azione violenta non è generata da una vera e propria trasformazione paranoica della perdita, del lutto, anche se assume in sé tutta la carica distruttiva dell’ulteriore fallimento (come perdita totale di legittimazione culturale, sociale e ideologica) della prospettiva di cambiamento rivoluzionario. Alcune esternazioni di Alessandro Settepani, uno dei leader dei nuovi movimenti eversivi italiani, intercettate dai Carabinieri del ROS, rappresentano eloquentemente l’assoluto delirio semantico di una posizione identitaria che ha rinunciato al confronto, alla dialettica, al contrasto relazionale, al conflitto comunicativo. Esclama Settepani: ”È adesso la prospettiva rivoluzionaria! È subito, ora! Io esco di casa e gli obiettivi ce ne ho quanti mi pare!”. E ancora: “Per me qualsiasi attacco è benvoluto. Se tu fai l’attacco, se lo puoi fare…puoi prendertela o con un semplice disgraziato bancomat o con il Parlamento…Cioè, puoi dinamitare il Parlamento… La cosa più importante per me è che avvenga l’azione diretta!”.8 L’altro elemento che permette di avvicinare le due esperienze eversive è rappresentato dalla presenza di una forte carenza conflittuale all’interno della dialettica comunicativa degli adepti. Nel senso che le comunicazioni propagandistiche, i contenuti delle intercettazioni telefoniche e le stesse efferate “azioni punitive”, appartengono a quella modalità relazionale che il Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti di Piacenza ha defini-
Tratto da GIOVANNI BIANCONI, Vita (e pensieri) dei nuovi terroristi, Corriere della sera, 14 giugno 2012.
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to, appunto “carenza conflittuale” (D. Novara, 2011 – 2012). In tutti gli atti violenti siamo in presenza di una carenza conflittuale, in quanto la persona che utilizza la violenza come espressione di sé è incapace di tollerare i conflitti, perché non è in grado di reggere la frustrazione e la contrarietà relazionale. La violenza, puntando all’eliminazione relazionale come forma di soluzione semplificatoria e arcaica, mira a creare un danno irreversibile nell’altro. Mentre il conflitto si colloca nell’area della manutenzione relazionale. Il conflitto mi parla dell’altro, mi obbliga a considerarlo. Il conflitto condensa elementi strutturali antinarcisistici. Il comunicato degli antagonisti, cui facevo cenno sopra, pone implicitamente in risalto proprio l’imprescindibile valenza conflittuale nel dibattito politico ed ideologico attuale. A seguito dell’attentato del dirigente dell’Ansaldo di Genova Roberto Adinolfi i “duri di Askatasuna”9 pubblicano un pezzo dal titolo “Autismi senza autonomia”10 che, oltre a prendere una netta posizione di rifiuto nei confronti della violenza messa in atto dagli attentatori, formalizza dei passaggi che si caratterizzano come espressione di un’inedita capacità di so-stare nel conflitto, quale antidodo al far male e al farsi male. Scrivono i militanti dei gruppi antagonisti, sbeffeggiando con ironia gli attentatori di Adinolfi: “Il ‘consenso’ e i ‘cori in mezzo ai cortei’ sono cose da poveracci, perdite di tempo: molto più sensato è il bel gesto ‘nichilista’, l’illuminazione che viene da chi ha avuto il colpo di genio di comprendere ciò che nessuno aveva compreso. Impostazione quanto mai ideologica, e presuntuosa, intrisa di quell’individualismo esasperato e venato di narcisismo che vede, con la tipica declinazione di una dottrina astratta, semplici casi di ‘alienazione’ (politica, mentale, forse) nelle altre forme di protesta”.11 E ancora prima: “Questo non vuol dire, si badi, che dietro l’azione di Genova sia da vedersi una ‘mano occulta’, magari legata genericamente ‘allo stato’ o ‘ai servizi’. Tutt’altro: c’è la mano di chi, prigioniero del proprio autismo più che dalle indubbie coercizioni della società contemporanea, ha creduto con questo gesto di poter insegnare qualcosa ai movimenti e ai militanti che agiscono nelle lotte”.12 E proprio quest’ultima riflessione che ci porta al cuore della dimensione conflittuale, alla sostanziale capacità dei militanti del Centro “Askatasuna” di intravedere nel gesto (disperato e vigliacco) dei terroristi un’occlusione
PAOLO GRISERI, art. cit. Autismi senza autonomia, www.infoaut.org, 15 maggio 2012. 11 Autismi senza autonomia, cit. 12 Autismi senza autonomia, cit. 9
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del confronto e dello scontro democratico (anche senza “ammorbidire le posizioni”). “Là dove non ci sono soggetti sociali – concludono i militanti di “Askatasuna” – ma monadi individualistiche, e non ci sono lotte o conflitti, ma gestualità spettacolarizzanti, la questione dell’autonomia neanche si pone”.13 Apprendere dal conflitto significa in buona sostanza anche questo. Pur nella contrapposizione ideologica e valoriale, lascio aperto il dialogo con l’interlocutore. Tento di mettermi nei panni dell’altra parte, cerco di capire. Potrei anche non accettare il punto di vista che mette in discussione la mia posizione, ma faccio salva l’opportunità che l’altro possa dissentire, esprimendo opinioni e visioni del mondo diverse dalla mia. L’autoreferenzialità di un gesto violento non concede alcuno spazio alla lotta civile di nessun organismo sociale o movimento collettivo, se non quello dell’effimera spettacolarizzazione mediatica. Ma qui siamo nell’ambito del delirio distruttivo. La questione della trasformazione sociale nemmeno si pone.
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Autismi senza autonomia, cit.
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AA.VV., Rileggere un discusso Risorgimento?, Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti (Firenze) 2012, pp. 192. e 19,00. Atti di un convegno promosso dall’Istituto Paritario “Marsilio Ficino” di Figline Valdarno col patrocinio della Regione Toscana e la collaborazione di enti e istituzioni locali. Quando la scuola coinvolge alunni, genitori, docenti, associazioni, territorio… allora ci si muove verso qualcosa di buono e di lodevole. L’iniziativa in parola nasce dal desiderio di spiegare ai giovani i valori autentici del Risorgimento e il bene che è l’Unità d’Italia. I vari interventi, pronunziati con stile non accademico da docenti, studiosi, pubblicisti, sono ispirati da limpido equilibrio, scevri da radicalismi retorici e sentimenti polemici: sono ricchi di senso, sono dettati da rigore, sono sostanziati di passione per la verità. Il discorso si apre con le pagine di Bruno Meucci su “Risorgimento: la memoria divisa”: un’analisi delle interpretazioni del processo risorgimentale attraverso l’opera di storici di vaglia, intesa a chiarire risorgimento e antirisorgimento, correnti e figure, problemi e valori. Una molteplice lettura (liberale, democratica, cattolica, anticlericale, meridionalista, filo-borbonica, federalista, anti-sabauda): intesa a spiegare il senso di una memoria divisa “che significa anche lacerazione della coscienza nazionale” (p.21).
Mario Cioffi spiega il ruolo di Rosmini nel Risorgimento, il suo progetto di unità federalista (che lo distingue dal Manzoni), il suo riformismo. Giulio Conticelli presenta le idee di Mazzini e Cattaneo. Enrico Maria Vannoni si dedica alla “lunga rivoluzione del XIX secolo”. Rileggere un discusso Risorgimento? sa di onestà intellettuale: impostazione organica, discorsiva, limpida. Gli autori trattano i loro temi senza pregiudizi, sostenuti da buon senso e da sicura conoscenza di fatti e problemi. Le celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia hanno prodotto una caterva di pubblicazioni per addetti e non addetti ai lavori, non tutte limpide: la polemica antirisorgimentale, che pur nasce da legittimi motivi, spesso inquina il linguaggio e il racconto, non distrugge e anzi semina pregiudizi e rivela residui ideologici duri a morire e impedisce la ricerca e la serena comprensione della verità. Nelle pagine in parola la posizione dei cattolici e della Chiesa nel processo risorgimentale è chiarita nei suoi aspetti essenziali: ai cattolici, man mano che si esce da una storiografia effettuata dai vincitori, viene restituita la parola. E il libro delle Edizioni Feeria e della Comunità di San Leolino è un libro di storia: autentico nelle intenzioni da cui nasce, autentico nell’interesse che suscita. Ma va sottolineato lo spirito che lo regge: la sensibilità pedagogica degli autori. Ai giovani si deve rispetto. E i giovani devono essere aiutati ad affron-
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tare dubbi, a costruire un percorso di ricerca, a conquistare metodo e sapere. Un libro di storia e di pedagogia? La risposta viene dalle parole di Ippolito Nievo (tratte da Le confessioni di un italiano, che è del 1867) riportate all’inizio: ”Io nacqui veneziano il 18 ottobre del 1775, giorno dell’Evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo”. Ecco: gli autori aiutano a riscoprire la fede profonda che animava i protagonisti del Risorgimento, educano all’amor di patria e a concepire l’unità del Paese come un bene immenso. E invitano pure a rileggere con animo sereno i classici del pensiero politico risorgimentale, documenti, diari, memorie. Francesco Pistoia U. CASALE, Il Concilio Vaticano II. Eventi, documenti, attualità, Lindau, Torino 2012, pp. 206. e 18.00. A cinquant’anni dalla sua apertura, mentre ferve un dibattito sul suo significato e sulla sua ermeneutica, è certamente utile ripercorrere le vicende del Concilio Vaticano II (1962-1965), tornando a riflettere su quell’ampia messe di testi che ne costituiscono il frutto durevole. Il volume scritto dal teologo Umberto Casale, Il Concilio Vaticano II. Eventi, documenti, attualità, edito nella collana “Pellicani” dell’Editrice Lindau di Torino (pp. 206, 18.00 euro) persegue l’obiettivo di far conoscere meglio il Vaticano II (evento e documenti) a cinquant’anni dal suo inizio (1962-2012): si tratta del più grande evento ecclesiale del ‘900 e costituisce una ‘bussola’ per i cristiani del XXI secolo. In particolare l’Autore sviluppa la trama del libro attraverso tre direttrici:
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innanzitutto intende accostarsi all’evento, anche con un breve excursus storico sulla tradizione conciliare della Chiesa, con riferimenti ai primi grandi concili (Nicea, 325; Costantinopoli, 351: Efeso, 431; Calcedonia, 451) che hanno ‘formulato’ la professione della fede (il Credo). Anche il secondo Concilio Vaticano si colloca in questa lunga tradizione e ne è una brillante espressione, per questo vi si trova qui una breve storia dell’assise conciliare, dal momento dell’annuncio di Giovanni XXIII (1959) e nella sua fase preparatoria, poi nello svolgimento delle quattro sessioni, mettendo in luce le dinamiche dell’evento, i dibattiti e le scelte operate. In secondo luogo sono presentati i documenti (16 testi suddivisi in costituzioni, decreti e dichiarazioni), offrendo le chiavi ermeneutiche necessarie per una completa intelligenza dell’unità e della ricchezza del corpus conciliare. Sono in special modo studiate le quattro costituzioni (Dei Verbum, Sacrosanctum Concilium, Lumen Gentium, Gaudium et Spes), documenti che sono teologicamente più importanti e, in certa misura, fondativi degli altri testi. Tra queste merita un approfondimento la Dei Verbum, un testo che ripensa, in modo innovativo e propositivo, i fondamenti del Cristianesimo (Rivelazione, Tradizione, Scrittura, Fede), come si legge nell’incipit del testo: «In religioso ascolto della parola di Dio … seguendo le orme dei concili Tridentino e Vaticano I, intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l’annuncio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami» (DV 2). Per concludere con alcune indicazioni pastorali aventi lo scopo di riportare in primo piano (nella vita dei cristiani, dei teologi e di tutta la Chiesa)
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la Parola di Dio, che è Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. A distanza di tanti anni dalla promulgazione, Dei Verbum non ha esaurito la sua carica innovativa e offre ai cristiani che la leggono la sensazione di una sorprendente freschezza. Tutti i documenti sono presentati nei loro tratti essenziali, sia i Decreti che riguardano la vita della Chiesa (santità, missionarietà, ecumenismo) e delle varie componenti del popolo di Dio (laici, religiosi, gerarchia), sia le Dichiarazioni che trattano grandi temi che coinvolgono l’umanità intera (educazione, libertà religiosa, dialogo fra le culture e le religioni). Infine, l’obiettivo di mettere in luce il significato attuale del Concilio: intanto è necessario superare le parziali interpretazioni della sola ‘continuità’ e della ‘discontinuità’, per questo occorre lavorare teologicamente sul concetto di tradizione se si vuole arrivare a situare il Vaticano II nella lunga storia della tradizione cristiana (e dei documenti del magistero della Chiesa). La tradizione di Gesù non è un dato fisso o morto, bensì realtà viva e vivace, “progredisce e cresce” (DV, 8), sicché la dinamica tradizione-progresso ne costituisce il tratto saliente. «Tradizione-progresso sono una coppia di termini omogenei» (H. Jedin), non possono essere separati o disgiunti. La tradizione senza progresso sarebbe la cristallizzazione della tradizione, il progresso sarebbe stravolgimento della tradizione. Sono le posizioni dei cosiddetti ‘conservatori’ (cristallizza la tradizione) e dei cosiddetti ‘progressisti’ (cambia la tradizione) a separare scorrettamente tradizione e progresso, una tale separazione ostacola la corretta comprensione dell’evento e dei testi conciliari, dal momento che evento e testi si muovono nella suddetta dinamica. Anziché rompere con la tradi-
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zione, il Vaticano II è la manifestazione fedele e creativa dell’ininterrotto legame che unisce il Gesù venuto (Incarnazione, Pasqua) con il Gesù che viene (la grazia dello Spirito Santo, il tempo della Chiesa) e il Gesù che verrà (parusia, escatologia). Conseguentemente, quella che Benedetto XVI chiama “l’ermeneutica della riforma”, già presente nelle intenzioni di Giovanni XXIII e ripresa da Paolo VI, è la via giusta per cogliere il significato attuale del Concilio, per assimilarne le dinamiche e le prospettive, per coglierne il valore profetico. Non si tratta di giudicare il Concilio alla luce della tradizione, ma di vederlo come sorgente di tradizione, come una grazia per rendere sempre più idonea la Chiesa a evangelizzare il mondo, come una ‘bussola’ (Giovanni Paolo II) per i cristiani del XXI secolo. O, con una felice espressione di Paolo VI: «Il Vaticano II è stato un triplice atto d’amore: verso Dio, verso la Chiesa, verso il mondo). Pertanto va riattivata nella Chiesa, come nei primi secoli, quella caratteristica costitutiva del suo esistere nel tempo, in cui la ricezione dei concili da parte del popolo di Dio non è che l’ampliamento, lo sviluppo e il prolungamento del processo conciliare (come ha scritto più volte Y. Congar). Creare nelle comunità cristiane ‘spazi’ in cui assimilare evento e documenti, nel rispetto dei tre ‘poli’: l’opera dei padri conciliari, i ricettori attuali e la lunga tradizione della Chiesa. La sinergia di questi tre ‘poli’ permette di cogliere l’affondo operato dal Concilio: la presentazione dell’identità cristiana nel suo legame con il principio (la Rivelazione, attestata dalla Scrittura) e nel suo legame comunicativo (la testimonianza) col mondo contemporaneo. B. P.
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DONATO PETTI, Dialogo sulla Vita Consacrata con Papa Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, 2012, pp. 168. e 14,00. Nel corso del suo Magistero, il Beato Giovanni Paolo II ebbe particolarmente a cuore la vita consacrata e volle sottolineare come la formazione permanente fosse «un’esigenza intrinseca alla consacrazione religiosa» (cfr. Esortazione Apostolica Vita Consecrata, 69). Egli mise a fuoco l’importanza di un programma formativo che avrebbe accompagnato la persona consacrata lungo tutte le fasi della vita, allo scopo di favorirne una crescita integrale. In continuità con il suo predecessore, il Santo Padre Benedetto XVI afferma che «La vita consacrata costituisce una ricchezza inestimabile per la Chiesa e per il mondo» (Angelus, 2 febbraio 2008). Naturalmente tutti i consacrati, che dedicano interamente la vita a Dio e alla Chiesa, guardano con grande interesse e filiale obbedienza alla dottrina del Sommo Pontefice il quale ha una speciale attenzione e cura pastorale per coloro che seguono Cristo Gesù da vicino attraverso la professione dei consigli evangelici. Tale attenzione è rivolta in modo speciale a coloro che esercitano il servizio dell’autorità e hanno il compito di aiutare a mantenere vivo «il senso della fede e della comunione ecclesiale, in mezzo ad un popolo che riconosce e loda le meraviglie di Dio, testimoniando la gioia di appartenere a Lui nella grande famiglia della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (cfr. Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Istruzione Il Servizio dell’Autorità e l’Obbedienza, 13f). L’Autore del Dialogo sulla Vita Consacrata con Papa Benedetto XVI, Fratel
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Donato Petti, già superiore della Provincia italiana dei Fratelli delle Scuole Cristiane, offre ai consacrati uno strumento di grande valore per sintonizzare la loro crescita con la mens del Sommo Pontefice. L’Autore ha raccolto con sapienza l’abbondante Magistero dell’attuale Successore di Pietro sulla vita consacrata. Certamente non è stato un compito facile perché, nell’arco di poco meno di sette anni di pontificato, Papa Benedetto XVI ha evidenziato un interesse tutto speciale per questa speciale vocazione nella Chiesa. Donato Petti ha studiato con cura il vasto forum papale: interventi in occasione delle Giornate della Vita Consacrata, discorsi diretti ai Vescovi di tutto il mondo in visita “ad limina Apostolorum”, omelie pronunciate durante le visite apostoliche all’estero, catechesi offerte nelle udienze settimanali e discorsi diretti agli stessi consacrati e consacrate in occasione di speciali incontri. Egli traccia, così, un itinerario che parte dall’analisi del difficile connubio tra fede e ragione che caratterizza l’ultimo secolo di storia, analizza il ruolo delle persone consacrate nell’attuale contesto storico per volgere, poi, uno sguardo pieno di speranza al futuro. Il presente volume è elaborato con una pedagogia creativa. L’autore formula una serie di domande che conferiscono all’opera il carattere dell’intervista. Le domande non sembrano precostituite ma creano, insieme agli stralci del Magistero, un semplice dialogo nel quale il Santo Padre discorre con genuina spontaneità sui grandi interrogativi con i quali la vita consacrata deve confrontarsi oggi. L’intento dell’Autore è quello di proporre un utile strumento di riflessione a tutti coloro che seguono i consigli evangelici nonché ai Pastori, ai
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sacerdoti e ai laici affinché possano trovare, in queste pagine, spunti per nuove esperienze formative. L’opera è, quindi, non solo un contributo prezioso alla formazione permanente dei consacrati, ma anche uno strumento che favorisce la formazione di uno spirito di comunione ecclesiale. Il sentire cum Ecclesia - che caratterizza fortemente l’ispirazione dei fondatori e fondatrici degli Istituti – implica, infatti, un’autentica spiritualità di comunione, cioè «un rapporto effettivo ed affettivo con i Pastori, prima di tutto con il Papa, centro dell’unità della Chiesa» (CIVCSVA, Istruzione Ripartire da Cristo, 32). Personalmente, in qualità di Religio-
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so redentorista, consacrato da trentotto anni e chiamato più volte e a diverso titolo a svolgere un servizio di autorità all’interno del mio Istituto, ringrazio Fratel Petti per il dono del suo libro. Sono convinto che questo dialogo renderà più accessibile il ricco Magistero del Papa Benedetto XVI sulla vita consacrata e servirà ad aiutare le persone consacrate a rispondere con fedeltà creativa ai segni dei tempi e ai bisogni emergenti nel mondo di oggi. Joseph W. Tobin, C.Ss.R. Arcivescovo Segretario Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica
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SEGNALAZIONE LIBRI QUADERNI DELLA MISSIONE EDUCATIVA LASALLIANA (M.E.L.) I quaderni lasalliani, pubblicati in proprio dalla Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane, vogliono far conoscere il mondo lasalliano e aiutare gli educatori ad aggiornarsi in un’ottica internazionale. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8/9 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20.
Verso il 2006: Assemblea internazionale della Missione Educativa Lasalliana (Novembre 2002). BOTANA ANTONIO, L’Associazione lasalliana: la narrazione continua (Marzo 2003). GUÉRIN-LESUEUR CLAIRE, Quando la scuola va verso i ragazzi (Marzo 2003) CAPELLE NICOLAS, L’innovazione educativa lasalliana (Giugno 2003) GILFEDDER PETER, All’ascolto dei giovani. L’esperienza australiana, Giugno 2003. PAJER FLAVIO, Educazione scolastica e cultura religiosa (Ottobre 2003). SHIELDS TERRY, Opzione preferenziale per i poveri. Le Scuole San Miguel negli Stati Uniti (Novembre 2003). BOTANA ANTONIO, Itinerario dell’educatore (Marzo 2004). GROS JEFFREY, Unità dei cristiani e apostolato lasalliano (Aprile 2004). BOLTON PATRICIO, Scuola lasalliana ed educazione popolare (Giugno 2004). LAURAIRE LÉON, La guida delle Scuole Lasalliane (Luglio 2004). ARTEAGA TOBÒN EDWIN, Il dialogo giudaico-cristiano (Ottobre 2004). GONZÁLEZ KIPPER LORENZO, Volontariato missionario lasalliano (Dicembre 2004). RIVERA MORENO JUAN A., L’appartenenza associativa. Considerazioni sociologiche (Febbraio 2005). AA.VV., Presenze lasalliane nel mondo (Marzo 2005). PÉREZ NAVARRO JOSÉ MARIA, La catechesi nella storia lasalliana (Aprile 2005). RODRÍGUEZ ECHEVERRÍA ÁLVARO, Ministri e servitori della Parola (Maggio 2005). AA.VV., Educazione integrale (Giugno 2005). INCONTRO INTERCAPITOLARE-MAGGIO 2004: Servizio educativo dei poveri (Luglio 2005).
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21. GOUSSIN JACQUES, Una pratica lasalliana: la presenza di Dio (Ottobre 2005). 22. AA.VV., È già uomo chi che lo diventerà (Novembre 2005). 23. GONZALEZ ANDREW, Asia 2004. La situazione dell’educazione (Febbraio 2006). 24. AA.VV., ONG cattoliche e CCIC. Anno internazionale della famiglia (Febbraio 2006). 25. COMTE ROBERT, L’identità oggi (Marzo 2006). 26. SÁNCHEZ MARTÍN B. – MARTÍNEZ BELTRÁN JOSÉ M., Multiculturalismo e immigrazione (Aprile 2006). 27. AA.VV., L’identità lasalliana. Note per un laboratorio (Maggio 2006). 28. RODRÍGUEZ MANCINI SANTIAGO, Pastorale educativa nella scuola. Uno sguardo argentino (Giugno 2006). 29. LOMBAERTS HERMAN, De La Salle al cuore della società contemporanea multiculturale e multireligiosa (Luglio 2006). 30. AA.VV., Laboratori e conferenze Huether (Settembre 2006). 31. AZMITIA ÓSCAR, Il progetto educativo regionale lasalliano dell’America latina – P.E.R.L.A. (Ottobre 2006). 32. MUELLER FREDERICK C., Scuole e insegnanti lasalliani: un punto di vista degli Stati Uniti (Novembre 2006). 33. GARCÍA AHUMADA ENRIQUE, L’animazione biblica della nostra pastorale (Gennaio 2007). 34. LOMBAERTS HERMAN, L’educazione lasalliana alle prese con l’Unione Europea (Marzo 2007). 35. KOPRA GREG, “La” missione diviene la “nostra” missione. Formazione lasalliana nel Distretto di San Francisco (Giugno 2007). 36. PEREDA NÚÑEZ, Fondazione La Salle delle scienze naturali (Luglio 2007). 37. BÉDEL HENRI, I Fratelli delle Scuole Cristiane in Francia e il servizio educativo “degli artigiani e dei poveri” per mezzo dell’insegnamento tecnico (Ottobre 2007). 38. SÁNCHEZ MARTÍN B., Relazioni tra le famiglie e la scuola. Una esperienza (Novembre 2007). 39. TRI NGUYEN, Le identità delle Università Lasalliane: un documento di ricerca analitica (Dicembre 2007). 40. AA.VV., Esperienze pastorali nel mondo lasalliano (Giugno 2008). 41. MILLER ERNEST, Appello mondiale ad una nuova mobilitazione per l’infanzia (Marzo 2010). 42. ROGERS ANTHONY, Cultura e giustizia: una prospettiva della missione per la vita consacrata (Gennaio 2011). 43. TUMACA-RAMOS DARA, Affidati alle mie cure. La gioia di illuminare gli spiriti e di toccare i cuori (Giugno 2011). 44. GÓMEZ RESTREPO CARLOS G., La missione lasalliana nell’America Latina e nei Caraibi: una sfida piena di speranza (Gennaio 2012). 45. P.E.R.L.A. - Progetto Educativo Regionale Lasalliano Latino-Americano (Marzo 2012). 46. MONTOYA DURA JOSÉ MARTÍN, Piano di educazione ambientale per uno sviluppo sostenibile (Ottobre 2012).
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INDICE 2012 (ANNO 79°)
EDITORIALI Donato Petti La risposta lasalliana all’emergenza educativa (1, pp. 11-15). Liberi di scegliere (2, pp. 155-160). La nuova evangelizzazione (3, pp. 295-306) La “novità cristiana” del laicato a 50 anni dal Concilio Vaticano II (4, pp. 441-446).
STUDI Arteaga Tobòn Edwin La espiritualidad del educador lasaliano hoy a la luz de los escreto de San Juan Bautista De La Salle (2, pp. 171-182). Biju-Duval Denis Catechesi, educazione cristiana e nuova evangelizzazione (3, pp. 315-328) Emilio Butturini Il Concilio di Giovanni e Paolo (4, pp. 447). Casale Umberto Fede e scienza: un dialogo necessario (1 - 313, pp. 47-58). Di Giovanni Gabriele “Educare alla vita buona del vangelo”. Gli orientamenti pastorali dei vescovi italiani interrogano il mondo lasalliano (2, pp. 183-198). Edgar Genuino Nicodem La Asociación a la luz de la eclesiología del Pueblo de Dios–Comunión (4, pp. 473-488). Felice Flavio La via istituzionale della carità (1 - 313, pp. 31-46). Pesce Francesco Famiglia ed evangelizzazione: uno sguardo antropologico (3, pp. 329-340) Trisoglio Francesco San Giovanni Crisostomo: l’educatore di una popolazione smarrita e spaventata (1 - 313, pp. 17-30). S. Ignazio d’Antiochia, araldo dell’unità (2, pp. 161-170). Evangelizzazione ed educazione in S. Gregorio di Nazianzo (3, pp. 307-314)
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La spiritualità dei secolari nei tre libri di S. Giovanni Crisostomo in difesa del monachesimo (4, pp. 461).
PROPOSTE Antiseri Dario In che cosa consiste l’interdisciplinarità (1 - 313, pp. 65-70). Come favorire la creatività (2, pp. 199-206). Perché senza il messaggio cristiano l’Occidente non esisterebbe (3, pp. 341-344) Fare un tema significa risolvere un problema (4, pp. 489-499). Bordignon Bruno La libertà di scelta educativa (4, pp. 501-511). dal Covolo Enrico Sull’idea di Università. Per una cultura della qualità (1 - 313, pp. 59-64). L’università comunità educante in una società complessa (3, pp. 345-354) Gentile Antonio Un nuovo linguaggio per una nuova evangelizzazione (3, pp. 367-376) Murano Raimondo Cultura classica e cultura tecnica (4, pp. 513-516). Rodríguez Echeverría Álvaro Le università lasalliane comunità di memoria e di speranza per la società odierna (3, pp. 355366) Spalletta Marica Contro il “professorese”. Alcune best practices nella comunicazione tra docenti e studenti (2, pp. 207-214). Tébar Belmonte Lorenzo Repensar la pedagogía lasaliana (1 - 313, pp. 71-90). Trespidi Cesare Lasalliani autori di libri di preghiera (2, pp. 251-266).
RICERCHE Gaetano Dammacco I giovani e i media digitali: il problema educativo (4, pp. 517-524). De Carli Sergio Pavel Florenskij e la scuola. Il pensiero pedagogico del “Leonardo russo” e la condizione italiana (2, pp. 239-250). Guidi Remo Luigi Alessandro Alessandrini (1 - 313, pp. 91-106).
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Moulis Philippe Le Bienheureux et le Saint: Nicolas Le Clercq alias Frère Salomon et Benoît Labre (3, pp. 377-394) Moulis Philippe – Ricousse Francis Il Beato Salomone, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, e il Padre Pietro-Giuseppe de Clorivière. Una collaborazione durante la Rivoluzione (1791-1792). (4, pp. 525-538). Paolantonio Marco A settant’anni dalla nascita di una stagione catechistica d’eccezione. La prima Commissione Catechistica Lasalliana (1942-1975) (1 - 313, pp. 107-126). Pitaud Bérnard La Spiritualité du Bienheureux Nicolas Roland (2, pp. 215-238). Raspa Carmelo La relazione maestro-discepolo tra Nuovo Testamento e Tradizione rabbinica (4, pp. 539-543).
ESPERIENZE Bonati Anna - Bonfanti Cristian Istituto San Giuseppe (MI) - “A scuola di coaching” (3, pp. 409-416) Alessandro Cacciotti Collegio “S. Giuseppe” – Istituto “de Merode” (Roma) Laboratorio teatrale “Il Quadriportico” (4, pp. 545-546). Iannaccone Antonio Il Centro Universitario “Villa San Giuseppe” (Torino) - (2, pp. 267-270). Liberotti Annalena I proverbi, le festività, le ricette... da fonti di cultura a strumenti di dialogo (1 - 313, pp. 129130). Scuola dell’infanzia “M. Montessori” (Pozzuoli-NA) Percorso didattico di educazione scientifica (2, pp. 271-276).
TESTIMONI Moccia Vito Domenico Conti (1921-2012) – Un Educatore “catechista” secolare (3, pp. 395-408) Leonardo Rollino (1922-2012): esemplare Educatore dell’Istituto Secolare “Unione Catechisti” (4, pp. 547-554).
NOTE Filippo Sani Anche i “duri” sostano nel conflitto. Quando la contestazione sociale rifiuta la violenza (4, pp. 555-560).
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RECENSIONI AMODIO G., Beata Elena Aiello. Infaticabile nella carità, Paoline, 2011, pp. 160. e 11,00 (Francesco Pistoia) - (3, pp. 426). AA.VV., Rileggere un discusso Risorgimento?, Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino, Panzano in Chianti (Firenze) 2012, pp. 192, e 19,00. (Francesco Pistoia) – (4, pp. 561-562). ANTISERI DARIO, Come si ragiona in filosofia e perché e come insegnare storia della filosofia, La Scuola, Brescia, 2011 (1, pp. 135-138). U. CASALE, Il Concilio Vaticano II. Eventi, documenti, attualità, Lindau, Torino 2012, pp. 206, e 18.00. (B.P.) – (4, pp. 562-563). FAUSTI SILVANO, S.J. - CANELLA VINCENZO, F.S.C. - Alla scuola di Marco. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2004, pp. 335. - Alla scuola di Matteo. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2007, pp. 592. - Alla scuola di Luca. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2009, pp. 614. - Alla scuola di Giovanni. Un vangelo da rileggere, ascoltare, pregare e condividere, Ancora, Milano 2012, pp. 512 (2, pp. 279-280). FILM 12. Regia: Nikita Mikhalkov ( 2, pp. 280-281). NUSSBAUM M., Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il mulino, 2011, pp. 168. e 14,00 (Emma Franchini) - (3 - 315, pp. 422-426). PETTI D., Dialogo sull’educazione con Papa Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, 2011, pp. 396. e 15,00 (F. Trisoglio) - (1 - 313, pp. 133-134). PETTI D., Dialogo sull’educazione con Papa Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, 2011, pp. 396. e 15,00 (Biancamarta Tammaro) - (3, pp. 417-420). PETTI D., Dialogo sulla Vita Consacrata con Papa Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, 2012, pp. 168. e 14,00. (X Joseph Tobin) – (4, pp. 564-565). POLI G.F. – CONTI G., Educare se non ora, quando? Editrice Rogate, 2012, pp. 251. e 18,00 (Marcello Semeraro) - (3, pp. 420-422). RODRIGUEZ ECHEVERRIA FR. ALVARO, Consacrati dal Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sottopongono al giudizio di Dio il loro ministero. Lettera Pastorale, Roma, 2011 (2, pp. 277279). ZACCARIA FRANCESCO, Participation and beliefs in popular religiosity. An empirical-Theological Exploration Among Italian Catholics, Brill, Leiden-Boston, 2010 (1 - 313, pp. 138-142).
SEGNALAZIONE LIBRI 1 - 313, pp. 143-144; 2, pp. 283-284; 3, pp. 427-428; 4, pp. 567-568.
INDICE 2012 (ANNO 79°)
TASSA RISCOSSA TAXE PERÇUE ROMA
Rivista lasalliana Direzione: 00149 Roma - Via dell’Imbrecciato, 181 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56 Sito web: www.lasalliana.com
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Rivista lasalliana
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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”
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ISSN 1826-2155
Rivista lasalliana
trimestrale di cultura e formazione pedagogica Donato Petti La “novità cristiana” del laicato a 50 anni dal Concilio Vaticano II Emilio Butturini Il Concilio di Giovanni e Paolo Francesco Trisoglio La spiritualità secolare in S. Giovanni Crisostomo Edgar Genuino Nicodem La asociación a la luz de la eclesiología del pueblo de Dios-Comunión Dario Antiseri Fare un tema significa risolvere un problema Bruno Bordignon La libertà di scelta educativa Raimondo Murano Cultura classica e cultura tecnica Gaetano Dammacco I giovani e i media digitali: il problema educativo Philippe Moulis - Francis Ricousse Le Bienheureux Salomon et le Père Pierre-Joseph de Clorivière Carmelo Raspa La relazione maestro-discepolo tra Nuovo Testamento e tradizione rabbinica Alessandro Cacciotti Collegio “S. Giuseppe” (Roma) - Laboratorio teatrale “Il Quadriportico” OTTOBRE - DICEMBRE 2012 • ANNO 79 – 4 (316)
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