Rivista lasalliana n 3 2013

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Rivista lasalliana

Direzione: 00149 Roma - Via dell’Imbrecciato, 181 ( 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56 Sito web: www.lasalliana.com

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TASSA RISCOSSA TAXE PERÇUE ROMA

2013

Rivista lasalliana

RL

Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.

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Rivista lasalliana 19

ISSN 1826-2155

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°A N N IV ER SA RI

trimestrale di cultura e formazione pedagogica

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Donato Petti Una nuova alleanza per l'educazione

Francesco Trisoglio Come deve parlare chi annunzia la fede, secondo S. Agostino

Giovanni Chimirri Educazione e politica rosminiana: eticità, laicismo, libertà di insegnamento Vincenzo Rosito La reciprocità come fondamento dell’esperienza educativa

Dario Antiseri Versioni di greco e di latino quali momenti formativi di una mente critica Raimondo Murano La funzione ispettiva e la promozione degli insegnanti

Marina Pescarmona La teoria dell’evoluzione e le sue implicazioni pedagogico-didattiche Cesare Trespidi Lasalliani autori di libri di preghiera - IV

Matthieu Fontaine Un épisode de la vie des Frères avant la Révolution (1742-1743) Óscar A. Elizalde Prada Volver a Vaugirard

Jean Rabenalisoa Ravalitera - Hilaire Raharilalao L’œuvre de Frere Raphael-Louis Rafiringa (1856 – 1919) LUGLIO - SETTEMBRE 2013 • ANNO 80 – 3 (319)



RIVISTA LASALLIANA

Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondato nel 1934 Anno 80 • numero 3 • luglio-settembre 2013 Direttore

DONATO PETTI

Comitato scientifico DARIO ANTISERI (Metodologia delle Scienze Sociali)

GAETANO DAmmACCO (Diritto di libertà religiosa)

CARLO NANNI (Scienze dell’educazione)

FLAVIO FELICE (Dottrine Economiche e Politiche)

STEPHANE OPPES (Filosofia teoretica)

PAOLO ASOLAN (Teologia pastorale)

GAbRIELE DI GIOVANNI (Direttore “Sussidi per la catechesi”)

DENIS bIJu-DuVAL (Teologia dell’evangelizzazione)

ITALO FIORIN (Pedagogia speciale)

PASQuALE CAPO (Gestione risorse professionali)

PASQuALE mARIA mAINOLFI (Bioetica)

GILLES bEAuDET (Ricerche lasalliane)

GIORGIO CALAbRESE (Scienze dell’alimentazione umana)

LuCIANO CHIAPPETTA (Legislazione scolastica)

mARIO CHIARAPINI (Direttore “Lasalliani in Italia”)

GIuSEPPE COSENTINO (Ordinamenti scolastici)

ENRICO DAL COVOLO (Letteratura cristiana antica)

REmO L. GuIDI (Questioni umanistico-rinascimentali)

ANTONELLO mASIA (Legislazione universitaria)

PHILIPPE mOuLIS (Ricerche storiche)

DIEGO muÑOZ (Ricerche e Studi lasalliani)

RAImONDO muRANO (Formazione tecnico-professionale)

EDGAR GENuINO NICODEm (Studi lasalliani)

CARmELA PALumbO (Autonomia scolastica)

mARCO PAOLANTONIO (Studi lasalliani)

mAuRIZIO PISCITELLI (Didattica)

mARIO RuSCONI (Management scolastico)

LORENZO TébAR bELmONTE (Pedagogia lasalliana)

ENRICO TRISOGLIO (Storia e Letteratura patristica)

RObERTO ZAPPALà (Antropologia filosofica)

Comitato di Redazione

Luca Amati - marco Camerini - Stefano Capello - michele Cataluddi - Giovanni Decina - Francesco Decio Antonio Iannaccone - Annalisa malatesta - Virginio mattoccia - Alberto Rizzi - Enrico Sommadossi - monica Zanchini Di Castiglionchio.

Collaboratori

Edwin Arteaga Tobón, Antonio Augenti, Gilles beaudet, bruno bordignon, Graziella bussoni, Emilio butturini, Angelo Piero Cappello, Italo Carugno, umberto Casale, Robert Comte, Giovanni Chimirri, Sergio De Carli, Paulo Dullius, Paolo Fichera, matthieu Fontaine, Andrea Forzoni, Emma Franchini, Antonio Gentile, Oreste Gianfrancesco, Pedro Gil, mariachiara Giorda, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Léon Lauraire, Lino Lauri, Herman Lombaerts, Anna Lucchiari, matteo mennini, Vito moccia, Patrizia moretti, Israel Nery, José maría Pérez Navarro, Raffaele Norti, Laura Pappone, marina Pescarmona, Francesco Pesce, massimo Pisani, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, bérnard Pitaud, Óscar A. Elizalde Prada, Hilaire Raharilalao, Vincenzo Rosito, marica Spalletta, Antonella Susanna, Giuseppe Tacconi, biancamarta Tammaro, Cesare Trespidi, Joan Carles Vázquez, Ciro Vitiello.


DIREZIONE

Donato Petti - Via dell’Imbrecciato, 181 - 00149 Roma ( 06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it

Le riviste in cambio e i libri per recensione vanno inviati alla Direzione

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AMMINISTRAZIONE

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ISSN 1826-2155. Registrazione del Tribunale di Torino n. 353, 26.01.1949 (Tribunale di Roma n. 233, 12.6.2007) Spedizione in abbonamento postale: Poste italiane DL 353/2003 (conv. in legge n. 46, 27.02.2004) art. 1 c. 2 - DCb Roma (Associata all’unione Stampa Periodica Italiana)


SOmmARIO

Rivista lasalliana 80 (2013) 3

SOmmARIO EDITORIALE

299 Donato Petti

Una nuova alleanza per l’educazione

Alla luce delle radici dell’attuale crisi educativa, così profonda e radicale, viene presentato il progetto dell’educazione integrale della persona, nella consapevolezza della sfida interculturale e interreligiosa. La nuova alleanza per l’educazione richiede il contributo delle istituzioni e di tutti i soggetti educativi, con il ruolo centrale della famiglia e degli educatori. C’è bisogno di un nuovo rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, protagonisti della relazione educativa, capaci di mettere in gioco la propria libertà, per una nuova frontiera dell’educazione. A New Alliance in Education

In the light of the profound and radical origins of the current crisis in education, we present a project of education aimed at the whole person, taking into account the challenges of our multi-cultural and multi–religious society. The new alliance for education requires the contributions of school and all the individuasl involved, with the central being played by the family and the teachers. There is a need for a renewal of personal trust between those involved in the educational relationship, so that they can bring into play their own liberty in a new vision of education.

STUDI 307 Francesco Trisoglio

Come deve parlare chi annunzia la fede, secondo S. Agostino

S. Agostino come teologo ha sentito la drammaticità di scoprire la verità; come docente e scrittore ha vissuto quella della potenziale atonia delle parole. Tutte portano una semantica, ma non tutte e non sempre le aprono l’accesso al destinatario; sovente esse scorrono in un tono sordo per cui, se entrano, non rimangono, si spengono subito; per rimanere ed illuminare, debbono vibrare di una loro intima emozione, che si manifesta nell’arte del dire. Sono necessari entrambi, sia il messaggio che la persuasività.


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SOmmARIO

According to St Augustine, how should we speak when proclaiming the faith?

As a theologian, St Augustine, knew the drama involved in discovering the truth; as a teacher and writer he experience the potential weakness of spoken words. They all carry meaning, but taken together they do not always open the way to meaning for those to whom they are addressed. Often they run together into a dull noise, and if they enter people’s heads they do not remain there long but are soon spent. In order to remain and illumine, they must vibrate with intimate emotion that is evident in the way they are spoken. Message and power of persuasion need one another.

317 Giovanni Chimirri

Educazione e politica rosminiana: eticità, laicismo, libertà di insegnamento

Per il filosofo-beato A. Rosmini (1797-1855), l’educazione presuppone un’antropologia e un conato spirituale che diano un senso all’esistenza. Il mondo va compreso e valorizzato nei suoi limiti, per non cadere nell’idolatria del finito. Stato e Chiesa sono due istituzioni autonome, ma lo Stato non può essere indifferente ai valori morali e religiosi del popolo, garantendo alla Chiesa quella libertà d’insegnamento che ha origine in un mandato divino. Solo chi ha scienza, onestà e autorità è legittimato ad insegnare, evitando ogni industria scolastica che non guarda all’interesse vero dei ragazzi. Education and Politics according to A. Rosmini: ethics, laicism, freedom in teaching

For the philosopher A. Rosmini (1797-1855), education presupposes an anthropology and a spiritual effort which give meaning to existence. The world is understood and evaluated according to its limits, so as not to succumb to an idolatry of the finite. State and Church are autonomous institutions, but the State cannot be indifferent to the moral and religious values of its people and must allow the Church that liberty in teaching which derives from a divine mandate. Only those who possess knowledge, integrity and authority can legitimately teach so as to avoid creating an “education industry” which is not concerned with the true interests of the children.

327 Vincenzo Rosito

La reciprocità come fondamento dell’esperienza educativa

L’articolo intende sviluppare un’analisi del concetto di reciprocità in quanto principale modello interpretativo della natura umana e delle


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azioni sociali. Il concetto di reciprocità può essere definito come la condizione intersoggettiva che permette una piena autorealizzazione, all’interno dell’esperienza educativa. L’autore si sofferma su tre specifici aspetti: la struttura formale della reciprocità e l’antropologia sociale della relazione affettiva; il legame tra reciprocità e formazione umana; la reciprocità come fondamento della relazione educativa e del rapporto teandrico. Ne consegue un’attenta azione didattica volta all’impiego formativo della dimensione progressiva dell’umano. Reciprocity as the basis of the educational experience

This article aims to develop an understanding of reciprocity as ideal-typical mode of framing human nature and social action. The concept of reciprocity can be defined as the social condition that prevents such self-realization within educative condition. The author focus on three specific aspects: The formal structure of reciprocity and the social anthropology of love. The relationship between reciprocity and human development. The mutual life as basis of the pedagogical experience and the relationship between man and God. Hence a careful teaching finalized to the formative exploitation of progressive feature of human.

PROPOSTE 335 Dario Antiseri

Versioni di greco e di latino quali momenti formativi di una mente critica

Ogni traduttore è un interprete. Ogni traduzione consiste in un’ interpretazione. Il traduttore è uno scienziato così come lo è un fisico, per la semplice ragione che l’uno e l’altro lavorano con il medesimo metodo. Le versioni di greco e di latino sono momenti formativi di una mente critica perché autentico allenamento alla soluzione di problemi e, di conseguenza, autentica attività di ricerca. Interpretare e tradurre non sono un lusso, non sono un “vizio” di una scuola distratta dalla vita: interpretare e tradurre equivale a risolvere scientificamente problemi: scientificamente, proprio come in fisica o in biologia. Interpretare e tradurre sono esercizio dell’intelligenza, esercizio all’intelligenza.

Translation from Greek and Latin as a way of training critical minds

Every translator is an interpreter. Every translation is an interpretation. The translator is a scientist just like the physicist, for the simple reason that they both work according to the same methods. Translations from Greek and Latin


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are steps in the process of developing a critical mind, because they give real training in problem solving, and consequently they are an authentic form of research. Interpreting and translating are not a luxury, they are not a ‘vice’ belonging to schools that are divorced from real life. They match the problem solving methods of science just as do physics, or biology. Interpreting and translating are intelligence exercises which develop intelligence.

349 Raimondo murano

La funzione ispettiva e la promozione degli insegnanti

Attività di consulenza e orientamento, capacità di formulazione di proposte, ricerca di forme di costante collaborazione ed autocorrezione hanno evoluto l’attività ispettiva verso forme di controllo collaborativo in quanto l’ispezionato – docenti e dirigenti scolastici – non è un “inquisito”, ma un soggetto coinvolto dal procedimento di controllo, al fine di qualificare il servizio formativo e scolastico offerto sia dalle scuole statali che dalle scuole paritarie. The role of inspection in the development of teachers

Through things like consultancy direction, the formulation of proposals, the search for permanent collaboration and self-assessment, inspection has developed into a kind of collaborative control involving the inspectors, the teachers and the school management. It is no longer an “inquisition”, but a complex process of checking, for the general good and for the benefit of the community, in order to improve the quality of the provision of educational development in all schools, whether State or paritarie.

355 marina Pescarmona

La teoria dell’evoluzione e le sue implicazioni pedagogico-didattiche

La didattica della teoria dell’evoluzione implica considerazioni filosofiche che travalicano i confini dell’insegnamento delle scienze naturali, in quanto impone una riflessione sulla modalità con cui la comunità scientifica pensa si sia sviluppato il mondo dei viventi. In questo contributo si offre una sintesi divulgativa della teoria scientifica che trova nel pensiero di Darwin il suo ancora valido nucleo fondante e indica una possibile strada per una totale compatibilità con la fede cristiana. The theory of evolution and its implications for pedagogical and didactic The teaching of the theory of evolution implies philosophical considerations


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that overcome the limits of natural science, since it shows the way in which the scientific community thinks the world of living beings has developed. This article offers a simple synthesis of the scientific theory the essence of which still lies in the ever true darwinian thought. A possible avenue towards the science-religion co-existence is also briefly indicated.

RICERCHE 363 Cesare Trespidi

Lasalliani autori di libri di preghiera - IV

Sull’esempio del Fondatore, S. Giovanni battista de La Salle, altri Lasalliani si sono cimentati nell’edizione di volumetti per la formazione alla preghiera cristiana dei loro allievi. Rivista Lasaliana già ha illustrato l’opera di Fr. basilio André (n. 2 – 2012 - pp. 251-266), di Fr. Renato Audeny Philibert (n. 1, 2013, pp. 83-93), di Fr. Leone Napione, di Fr. basileo Cordara, di Fr. Candido Chiorra (n. 2 - 2013); ora completa la rassegna. Lasallian Authors of Books of Prayers - IV

Following the example of our Founder, other Lasallians have concerned themselves with the production of books to train their pupils in Christian prayer. The Rivista Lasaliana has already presented the works of Brother Basilio André (n. 2 – 2012 - pp. 251-266), Brother Renato Audeny Philibert (n. 1, 2013, pp.8393), Brother Leone Napione, Brother Basileo Cordara, and Brother Candido Chiorra (n. 2 - 2013). We now complete the undertaking.

377 matthieu Fontaine

Un épisode de la vie des Frères des Écoles Chrétiennes à Saint-Omer (Artois, royaume de France) avant la Révolution: l’opposition des administrateurs de la ville à la création d’une communauté, 17421743.

La présence des frères des écoles chrétiennes dans une ville n’est pas sans provoquer parfois quelques tensions avec l’autorité municipale. C’est un épisode de ce type qui est évoqué ici, à Saint-Omer (Artois, France). Les frères s’y sont installés en 1720 sous l’impulsion de l’évêque, avec l’accord des mêmes administrateurs de la ville qui, 22 ans plus tard, s’élèvent avec force contre la volonté supposée des Lassaliens d’agrandir leurs locaux et de former une communauté. Le souhait de ces administrateurs est de limiter strictement aux clauses initiales le nombre des frères.


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An episode in the lives of the Brothers in Saint-Omer, Artois, France, before the Revolution, involving the opposition of the town administrators to the establishment of a Community in 1742-1743.

The presence of the Brothers in a town sometimes gave rise to tensions with the municipal authorities. One such episode occurred in the town of SaintOmer, Artois, France. The Brothers arrived there in 1720, at the initiative of the Bishop and with the agreement of the town council. Twenty-two years later, however, the officials strongly opposed an alleged plan to increase the premises and install a Community. The aim of the administrators was to include clauses strictly limiting the number of Brothers in the Community.

ESPERIENZE E TESTIMONI 383 Óscar A. Elizalde Prada Volver a Vaugirard

Vaugirard señala un lugar inspirador para los lasallistas que buscan “crecer por dentro” y revitalizar su ministerio y su vocación. Este artículo presenta una experiencia que desarrolla la universidad de La Salle de bogotá (Colombia) con los estudiantes de la maestría en Docencia. Return to Vaugirard

Vaugirard points out to an inspiring place addressed to the Lasallians who are looking for “grow up inside their selfs” and revitalise their ministry and vocation. This article presents an experience that La Salle university of bogota (Colombia) develops with the students of the Teaching master.

391 Jean Rabenalisoa Ravalitera - Hilaire Raharilalao

L’œuvre culturelle et pedagogique de Frere Raphael- Louis Rafiringa (1856 – 1919).

De fils de forgeron étranger à toute autre culture et à toute autre religion que celles de ses ancêtres malgaches au 19ème siècle, RaphaëlLouis Rafiringa est devenu aussi bien un génie de la langue malgache qu’un modèle de vie chrétienne et religieuse, épris de culture et de foi, élevé par l’Eglise catholique au rang des bienheureux en 2009. Digne héritier de Jean-baptiste De La Salle, Fondateur des Frères des Ecoles Chrétiennes et digne fils de son terroir, il a su allier les valeurs de la


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culture malgache aux valeurs chrétiennes pour initier une approche pédagogique appropriée, au service de l’homme et du peuple malgache, en véritable pédagogue. The cultural and teaching work of Brother Raphael- Louis Rafiringa (1856 - 1919).

Being a son of a blacksmith, unfamiliar to any other culture and any other religion except those of his Malagasy ancestors in the 19th century, RaphaelLouis Rafiringa has become a genius of Malagasy language as well as a model for Christian and religious life, smitten with culture and faith, grown up by the catholic church, ranked among the blessed in 2009. A worthy heir of Jean-Baptiste De La Salle, founder of the religious congregation of Lasallian Brothers and a dignified son of his land, he knew how to combine Malagasy cultural values with Christian values in order to initiate a suitable educational approach in the service of humanity and Malagasy people as real educator.

RECENSIONI E NOTE 405

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S. TAGLIAGAmbE, Il cielo incarnato. Epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij, Aracne, Roma, 2013, pp. 1-190, e 12,00 (Dario Antiseri). FAbRICE HADJADJ, Come parlare di Dio oggi? Anti-manuale di evangelizzazione, Ed. messaggero, Padova, 2013, pp. 179. e 13,00 (Franco Savoldi). S. PARONETTO, Tonino Bello maestro di nonviolenza. Pedagogia, politica, cittadinanza attiva e vita cristiana, Paoline, milano 2012, pp. 314, e 20,00 (Emilio Butturini). LuCIA CAPuZZI, Coca rosso sangue. Sulle strade della droga da Tijuana a Gioia Tauro, San Paolo, 2013, pp. 234. e 14,00 (Franco Savoldi). ANTONIO ROSmINI, La buona educazione. Antologia commentata delle “Opere Pedagogiche” (a cura di G. Chimirri), bonomi Editore, Pavia 2013, pp. 124. e 12,00 (D.P.). GIOVANNI CHImIRRI, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori, mimesis, milano 2012, pp. 310. e 24,00 (D.P.). mARINELLA ATTINà, La scuola primaria. L’anima della tradizione, le forme della modernità, mondadori università, milano, 2012, pp. 244. e 20,50 (Alberto Mirabella). GIOVANNI ANTONuCCI, Storia del teatro italiano contemporaneo, Studium, Roma 2012, pp. 298. e 19,50 (Francesco Pistoia).


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LAuRA-LuISA-mORANDO mORANDINI, Il Morandini 2013. Dizionario dei film, Zanichelli, bologna 2012, pp. 2050. e 37,60 (Francesco Pistoia). ARmANDO FumAGALLI-LuISA COTTA RAmOSINO, Scegliere un film 2012, Ares, milano 2012, pp. 470, e 19,00 (Francesco Pistoia). FRANCO mONTINI-VITO ZAGARRIO (a cura di), Istantanee sul cinema italiano, Rubbettino, Soveria mannelli 2012, pp. 230. e 14,00 (Francesco Pistoia). Globalizzazione, cosmopolitismo ed educazione (Emma Franchini).

SEGNALAZIONE LIBRI 431

Riviste italiane di cultura e formazione pedagogica (Michele Cataluddi).


Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 299-305

EDITORIALE

UNA NUOVA ALLEANZA PER L’EDUCAZIONE DI

DONaTO PETTI

SOMMaRIO: 1. Emergenza educativa e crisi di valori. - 2. Radici della crisi educativa. - 3. Educare alla verità dell’integralità della persona. - 3.1. Educare alla verità della persona. - 3.2. Educare all’integralità della persona. - 3.3. La sfida interculturale e interreligiosa. - 4. Formazione integrale degli educatori. - 5. Una rinnovata alleanza per la frontiera educativa.

L’

1. Emergenza educativa e crisi di valori

esperienza quotidiana ci dice che educare diventa sempre più un compito complesso, vasto, arduo e precario, sia per la famiglia, sia per la scuola che per ogni altro organismo. L’odierna cultura risente fortemente, sia nei metodi che negli atteggiamenti, di una visione impregnata di relativismo e di soggettivismo, che danneggiano la serietà della ricerca e della riflessione e, di conseguenza, anche il dialogo, il confronto e la comunicazione interpersonale.1 La coscienza diffusa delle famiglie vive nell’incertezza più profonda circa l’educazione dei figli. Il rimedio più alla portata sembra quello di accontentarli in tutto e subito. L’educazione è ridotta sempre più a trasmissione di abilità e capacità di fare, mentre si cerca di appagare il desiderio di felicità delle nuove generazioni con oggetti di consumo e gratificazioni effimere. In questo marasma di fluttuanti emozioni e di smarrimenti razionali, i genitori e gli insegnanti, vedendosi disorientati di fronte al loro ruolo e alla loro missione, sono tentati dallo scoraggiamento.2 Il leit-motiv ricorrente è BENEDETTO XVI, Discorso all’apertura del Convegno ecclesiale della Diocesi di Roma su “Famiglia e Comunità cristiana”, 6 giugno 2005. 2 BENEDETTO XVI, Discorso all’apertura del Convegno della Diocesi di Roma nella Basilica di S. Giovanni in Laterano, 11 giugno 2007. 1


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Donato Petti

che siamo in piena “emergenza educativa”, dichiarata inevitabile all’interno di una società sfidata da rapidi mutamenti sociali, economici e culturali. La crisi educativa è solo un aspetto della crisi globale che ha colpito alla radice tutti i settori della società. La famiglia e la scuola non sembrano essere più il terreno fertile primario e naturale da dove le giovani generazioni attingono la linfa nutritiva della loro esistenza. Inoltre, negli ambiti scolastico ed accademico, l’autorità degli insegnanti e dei professori è messa in discussione e, purtroppo, la competenza di alcuni di loro non è esente da parzialità cognitiva e da carenza antropologica, escludendo o limitando così la verità sulla persona umana. La scuola e l’università sembrano essere divenute incapaci di progetti creativi che rechino in sé una teleologia trascendentale in grado di sedurre i giovani nel loro essere profondo. Molti vorrebbero aver successo e ottenere rapidamente uno status sociale e professionale importante, disinteressandosi della formazione, delle competenze e dell’esperienza richieste. Gli adulti responsabili non hanno saputo o potuto dare loro i necessari punti di riferimento. Viviamo in una grande confusione circa gli interrogativi perenni e le scelte fondamentali della vita: donde veniamo?, dove andiamo?, qual è l’origine e il destino del genere umano?, che cosa sono bene e male?, che cosa ci attende alla fine della nostra esistenza terrena?, come dobbiamo vivere?, che cosa dobbiamo fare per compiere il bene? Nella nostra epoca queste domande sono troppo spesso relegate ai margini. Tante filosofie contrastanti nascono e scompaiono, creando confusione e disorientamento.3

2. Radici della crisi educativa

In particolare, nell’ottica cristiana, la crisi dell’educazione nella società contemporanea può essere ricondotta a due radici fondamentali. La prima consiste in un falso concetto di autonomia dell’uomo: sempre più, in effetti, l’esercizio della libertà è percepito soltanto come un diritto intangibile dell’individuo che da solo vuole decidere e scegliere la fisionomia, le caratteristiche e le finalità della vita e della morte. al contrario, la persona umana diventa se stessa solo dall’altro, l’«io» diventa se stesso solo dal «tu» e dal «voi». La libertà comporta il riferimento a una legge morale naturale, di carattere universale, che precede e unisce tutti i diritti e i doveri. La seconda radice dell’emergenza educativa consiste nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino dell’umanità: la natura e la Rivela3

BENEDETTO XVI, Udienza Generale, 14 aprile 2010.


Una nuova alleanza per l'educazione

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zione. Infatti, la natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, che non contiene in sé alcun imperativo morale, nessun orientamento valoriale. La Rivelazione viene considerata come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale. Ma se tacciono le due fonti - la natura e la Rivelazione - anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche essa diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro. Fondamentale è, quindi, recuperare il concetto di natura come creazione, mediante la quale Dio parla a noi e ci mostra i valori veri; il libro della creazione è decifrato nella Rivelazione, è applicato e fatto proprio nella storia culturale e religiosa, non senza errori, ma in una maniera sostanzialmente valida, sempre di nuovo da sviluppare e da purificare.4

3. Educare alla verità dell’integralità della persona

L’educazione, come necessità primordiale, occupa un posto di primo piano nell’epoca contemporanea e rappresenta una sfida decisiva almeno per due motivi: in primo luogo, perché nell’era attuale, fortemente caratterizzata dalla mentalità tecnologica, voler educare e non solo istruire non è scontato, ma è una scelta; in seconda istanza, perché la cultura relativista pone una questione radicale: ha ancora senso educare?, e, poi, educare a che cosa?

3.1. Educare alla verità della persona

La profonda crisi che ha colpito tutto il mondo evidenzia l’esigenza di un investimento più deciso e coraggioso nel campo del sapere e dell’educazione, che è un atto d’amore, esercizio di «carità intellettuale», che richiede responsabilità, dedizione, coerenza di vita. Non basta una formazione tecnica e scientifica; ogni uomo, ogni società, ha bisogno di una cultura aperta alla dimensione antropologica, morale e spirituale dell’esistenza. Spesso la rivendicazione della libertà viene fatta, senza mai fare riferimento alla verità della persona umana. In alcuni ambienti il parlare di verità viene considerato fonte di discussioni o di divisioni e quindi da riservarsi piuttosto alla sfera privata. E al posto della verità – o meglio, della sua assenza – si è diffusa l’idea che, dando valore indiscriminatamente a tutto, si assicura la libertà e si libera la coscienza. È ciò che chiamiamo relativismo. Ma che scopo ha una “libertà” che, ignorando la verità, insegue ciò che è falso o 4

BENEDETTO XVI, Discorso all’Assemblea Generale della C.E.I., 27 maggio 2010.


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ingiusto? La verità non è un’imposizione. Né è semplicemente un insieme di regole. Proprio l’esperienza quotidiana ci insegna che la libertà è autentica solo quando è riconciliata con la verità. Se è sganciata da essa, la libertà diventa tragicamente principio di distruzione dell’armonia interiore della persona umana, fonte di prevaricazione dei più forti e dei violenti. La vera libertà presuppone la ricerca della verità – del vero bene – e pertanto trova il proprio compimento precisamente nel conoscere e fare ciò che è retto e giusto. La verità, in altre parole, è la norma-guida per la libertà e la bontà ne è la perfezione.5 O la lotta per la libertà e per la ricerca della verità vanno insieme, oppure insieme periscono miseramente.6 Deve essere, dunque, riguadagnata l’idea di una formazione integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità. alla carenza di punti di riferimento ideali e morali, che penalizza particolarmente la convivenza civile e soprattutto la formazione delle giovani generazioni, deve corrispondere un’offerta ideale e pratica di valori e di verità. Oggi assumersi la responsabilità di educare i giovani alla conoscenza della verità, ai valori fondamentali dell’esistenza, alle virtù intellettuali, teologali e morali, significa guardare al futuro con speranza.

3.2. Educare all’integralità della persona

Una questione fondamentale è quella dell’educazione della persona, cioè lo sviluppo armonico delle proprie doti fisiche, morali, intellettuali e spirituali. È necessario e urgente aiutare i giovani a progettare la vita sui valori che fanno riferimento ad una visione “alta” dell’uomo e che trovano nel patrimonio religioso e culturale cristiano una delle sue espressioni più sublimi. La famiglia occupa un luogo sostanziale nell’educazione della persona. Essa è l’ambito dove l’uomo può nascere con dignità e crescere e svilupparsi in maniera integrale. È nella famiglia che i figli imparano la solidarietà fra le generazioni, il rispetto delle regole, il perdono e l’accoglienza dell’altro, che sperimentano l’affetto dei genitori, scoprono che cosa sia l’amore e imparano ad amare. In questo modo sono capaci di elaborare una sintesi personale tra ciò che hanno ricevuto e quello che imparano, e che ognuno è chiamato a realizzare dalla nascita alla morte.7 aRISTOTELE, Etica Nicomachea, 1. GIOVaNNI PaOLO II, Enciclica Fides et ratio, 90. 7 BENEDETTO XVI, Omelia in occasione del V incontro mondiale delle famiglie a Valencia, 9 luglio 2006. 5 6


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Nell’impegno per un’educazione integrale, entra anche la formazione alla giustizia e alla pace. I ragazzi e le ragazze di oggi crescono in un mondo dove i contatti tra le differenti culture e tradizioni, anche se non sempre diretti, sono costanti. Per loro, oggi più che mai, è indispensabile imparare il valore e il metodo della convivenza pacifica, del rispetto reciproco, del dialogo e della comprensione. I giovani, per loro natura, sono aperti a questi atteggiamenti, ma proprio la realtà sociale in cui crescono può portarli a pensare e ad agire in modo opposto, persino intollerante e violento.8

3.3. La sfida interculturale e interreligiosa

Oggi le società sono di fronte a una sfida nuova che la globalizzazione ed il pluralismo crescente rendono ancor più acuta: quella cioè dell’incontro delle religioni e delle culture nella ricerca comune della verità. L’accoglienza della pluralità culturale degli alunni e dei genitori si trova necessariamente a confrontarsi con due esigenze: da un lato, non escludere qualcuno in nome della sua appartenenza culturale o religiosa; dall’altro canto, una volta riconosciuta e accolta questa diversità culturale e religiosa, non fermarsi alla pura constatazione. Ciò equivarrebbe in effetti a negare che le culture si rispettano veramente quando si incontrano, perché tutte le culture autentiche sono orientate alla verità dell’uomo e al suo bene. Perciò, gli uomini provenienti da culture diverse possono parlarsi, comprendersi al di là delle distanze spaziali e temporali, perché nel cuore di ogni persona abitano le stesse grandi aspirazioni al bene, alla giustizia, alla verità, alla vita e all’amore. Il valore “largo” dell’educazione interculturale comprende una fedeltà coraggiosa ed innovativa, che sappia coniugare chiara coscienza della propria identità e apertura all’alterità, per le esigenze del vivere insieme nelle società multiculturali. Per raggiungere tali obiettivi dovrà essere prestata particolare cura alla formazione dei formatori, non solo da un punto di vista professionale, ma anche religioso e spirituale, perché, con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale, la presenza dell’educatore diventi espressione di amore e testimonianza della verità.9 BENEDETTO XVI, Omelia alla Santa Messa nella solennità di Maria SS. Madre di Dio, 1° gennaio 2012. 9 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica, 7 febbraio 2011. 8


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4. Formazione integrale degli educatori

Se il fine dell’educazione è la formazione integrale dell’educando, cioè lo sviluppo di tutte le sue facoltà, appare del tutto evidente che i docenti debbano avere acquisito, per primi, una formazione integrale. I bambini, i ragazzi ed i giovani hanno bisogno di punti di riferimento precisi e concreti soprattutto nella famiglia e negli educatori per la loro crescita serena ed armonica. Ora questi nodelli sono stati minati e compromessi con la crisi della famiglia, che moltiplica i «padri» e le «madri» e fa sì che oggi la maggior parte di coloro che si sentono «orfani» non siano figli senza genitori, ma figli che ne hanno troppi. Tale situazione, con le inevitabili interferenze e l’incrociarsi di rapporti, non può non generare conflitti e confusioni interne, contribuendo a creare e imprimere nei figli una tipologia alterata di famiglia. Cresce, da più parti, contemporaneamente il bisogno di educatori veri. Lo chiedono i genitori, preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli, lo chiedono tanti insegnanti che vivono la triste esperienza del degrado delle loro scuole, lo chiede la società nel suo complesso, perché vede messe in dubbio dalla crisi dell’educazione le basi stesse della convivenza. Insieme ad un adeguato progetto che indichi il fine dell’educazione alla luce del modello da perseguire, c’è bisogno di educatori autorevoli che mettano in gioco in primo luogo la loro persona e sappiano unire autorità ed esemplarità nel compito di educare coloro che sono loro affidati. La formazione professionale dell’educatore implica non solo un vasto ventaglio di competenze culturali, psicologiche e pedagogiche ma esige anche la capacità di far sintesi tra competenze professionali e motivazioni educative.10 Essere educatore, oggi, significa uscire da se stessi e stare in mezzo ai giovani, accompagnarli nelle tappe della loro crescita, mettersi al loro fianco. Ma soprattutto accompagnare le parole con la testimonianza, con la coerenza di vita. Senza coerenza non è possibile educare.11

5. Una rinnovata alleanza per la frontiera educativa

Di fronte ad una crisi dell’educazione così profonda e radicale, l’assunzione del compito educativo diventa una priorità per tutti. Un’autentica CONGREGaZIONE PER L’EDUCaZIONE CaTTOLICa, Educare insieme nella Scuola Cattolica. Missione condivisa di persone consacrate e fedeli laici, 8 settembre 2007, n. 22. 11 FRaNCESCO, Discorso agli studenti delle scuole gestite dai Gesuiti in Italia e Albania, 7 giugno 2013. 10


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educazione integrale delle nuove generazioni richiede il contributo di molti soggetti educativi. La nuova frontiera educativa costituisce il luogo per un’ampia convergenza di intenti: la formazione delle nuove generazioni deve stare a cuore a tutti gli uomini di buona volontà, interpellando la capacità della società intera di assicurare riferimenti affidabili per lo sviluppo armonico delle persone.12 Non è sufficiente un generico richiamo ai valori, né una proposta educativa che si accontenti di interventi puramente funzionali e frammentari. C’è bisogno, invece, di un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, protagonisti della relazione, capaci di prendere posizione e di mettere in gioco la propria libertà. Tale indispensabile alleanza non può che partire da una nuova prossimità alla famiglia, che ne riconosca la centralità e ne sostenga il primato educativo. I genitori, poiché hanno trasmesso la vita ai figli, sono i primi e principali educatori. In questo compito primario essi hanno bisogno dell’aiuto sussidiario della società civile e delle altre istituzioni; infatti, «la famiglia è la prima, ma non l’unica ed esclusiva comunità educante».13 Tra tutti gli strumenti educativi, un’importanza particolare riveste la scuola, particolarmente per favorire la trasmissione della cultura e l’educazione al vivere insieme. È quindi necessaria una stretta e attiva collaborazione fra genitori, insegnanti e dirigenti delle scuole. È obbligo dello Stato riconoscere e sostenere il diritto primario dei genitori alla libera educazione e formazione dei figli, secondo il progetto educativo da loro giudicato valido e pertinente. Non si rende giustizia alla famiglia, se lo Stato non garantisce il pieno esercizio del diritto della libertà di scelta educativa per il bene comune dell’intera società.

BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica, 7 febbraio 2011. 13 GIOVaNNI PaOLO II, Familiaris consortio, 40. 12



Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 307-316

STUDI

COME DEVE PARLARE CHI ANNUNZIA LA FEDE, SECONDO S. AGOSTINO1 DI FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino)

SOMMARIO: 1. Fine dell’eloquenza. - 2. Aspetti specifici dell’eloquenza. - 3. La precettistica retorica. - 4. Metodologia espositiva. - 5. Lo stile biblico. - 6. Modelli ecclesiastici. - 7. Il tono del docente. - 8. Preminenza del tenore di vita

S.

Agostino presenta subito, nell’esordio (§ 1), con incisiva sinteticità, l’impianto dell’opera complessiva: una prima parte verte sul modo di trovare le idee che vanno capite (libri I-III); una seconda (libro IV) sul modo di esporre ciò che è stato capito. Come teologo egli ha sentito la drammaticità di scoprire la verità; come docente e scrittore ha vissuto quella della potenziale atonia delle parole. Tutte portano una semantica, ma non tutte e non sempre le aprono l’accesso al destinatario; sovente esse scorrono in un tono sordo per cui, se entrano, non rimangono, si spengono subito; per rimanere ed illuminare, debbono vibrare di una loro intima emozione, che si manifesta nell’arte del dire. Sono necessari entrambi, sia il messaggio che la persuasività. S. Agostino rileva pertanto che, anche i dotti pagani, hanno dichiarato che «la sapienza senza l’eloquenza giova poco alle città e che l’eloquenza senza la sapienza abitualmente arreca gravi danni e non giova mai» (Cicerone, De invent. 1,1; Doctr: IV,18). Egli rileva che questa è un’intuizione imposta dalla verità che discende dal Padre della luce; è indubitabile, perché ha un carattere divino.

1

De doctrina christiana libri quattuor, Hoelder-Pichler-Tempsky, Vindobonae, 1963.


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1. Fine dell’eloquenza

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Ancora sulla traccia di Cicerone (Orat. 69) Agostino afferma che un oratore eloquente deve ‘istruire, dilettare, convincere’ ed aggiunge specificando: «istruire è un prodotto della necessità, dilettare è la conseguenza della piacevolezza, convincere è il segno della vittoria»; il primo punto sta nelle cose che diciamo; gli altri due nel modo con cui le diciamo (IV, 74). Indagando quali siano questi stimoli in base ai quali l’eloquenza opera, e cioè quali siano i modi per evitare il fallimento dello scopo operativo a cui tende, Agostino afferma che, per dilettare e convincere, importa un procedimento motivato che sia centrato sullo scopo. Nell’arte, al di là del puro compiacimento estetico, egli vede l’azione elevatrice dello spirito. Dell’agire spirituale egli segue l’intima concatenazione. Se l’oratore vuole dilettare e trattenere colui a cui parla, è importante il modo con cui parla per indurlo all’azione (75). Scopo finale nella predicazione è il comportamento nella vita; siamo ai fondamenti della pratica morale. L’estetica, pur restando valore autonomo, passa a propellente pedagogico. La bellezza, sulla linea dell’intuizione di Crisippo, si fonde con il vero e con il giusto. Il vero resterebbe sterilmente solitario ed irraggiunto, se ad esso non conducesse la persuasione intellettuale; infatti «gli uomini possono mettere o non mettere in pratica quello che sanno, ma non possono praticare quello che non sanno». Il successo viene ottenuto quando l’istruzione e la soddisfazione sfociano nell’applicazione (76); in mancanza di questa i due primi elementi restano inutili (77). La soddisfazione, se è elemento efficace, è però anche ambiguo, perché può essere fornito anche dall’abile presentazione del falso; ma non è il falso che produca compiacimento, lo è invece la confutazione dell’errore in nome della verità (77). Importante è comunque il ruolo della soddisfazione per quelli che disdegnano la verità ma ai quali piace il modo con cui essa viene esposta (78); Agostino lo poteva affermare con sicurezza, in quanto era stata una reazione fondata sulla sua esperienza personale; nell’indifferenza del dogma, egli si era recato a sentire le omelie esegetiche di Ambrogio e, attraverso lo stile, aveva acquisito la verità. Ribadisce pertanto e sintetizza che ecclesiastico eloquente è quello che applica i tre aspetti dell’eloquenza: insegna per istruire, soddisfa per attirare, ma anche persuade per assicurarsi la vittoria (79). Dopo aver evidenziato la grande efficacia della piacevolezza nell’eloquenza (81) fondandosi su due passi di Geremia (5,30-31 e 23,29 LXX), Agostino esclama: «O eloquenza, che sei tanto più terribile quanto più sei pura e che tanto più sei solida quanto più sei impetuosa, sei davvero una scure che taglia le pietre!» (82) Efficaci per la salvezza sono soltanto le parole di Dio; Agostino consolida la sua affermazione con un parallelo che, se non è


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sperimentalmente documentabile, è però intuitivamente percepibile: come le medicine che gli uomini prescrivono ai propri simili giovano soltanto se opera la salute Dio, il quale può guarire anche senza quelle medicine, che tuttavia lascia che vengano usate, così gli aiuti della dottrina che l’uomo porge giovano all’anima solo quando Dio fa sì che giovino (95); è il tema del De magistro: le parole umane convincono e convertono solo quando fanno risonare all’interno della coscienza umana le parole divine. Non è un’autorizzazione all’astensione ma uno stimolo alla preghiera, che propizi l’intervento di Dio. Come sempre, occorre una collaborazione divino-umana; pertanto, chi desidera persuadere ciò che è buono usi i tre fattori umani (istruire, dilettare, convincere) e preghi che le sue parole vengano accolte dagli ascoltatori in maniera intelligente, volentieri e con ubbidienza; chi lo fa per bene può giustamente essere detto eloquente, anche se non raggiunge l’assenso degli uditori. Quando parliamo per condurre gli uomini alla salvezza è tutto grande quello che diciamo (98). Quando uno parla per insegnare agli uomini a liberarsi dai mali eterni e ad arrivare ai beni eterni, sia che parli al pubblico sia che si rivolga privatamente ad uno solo o a parecchi, dice sempre cose grandi (102).

2. Aspetti specifici dell’eloquenza

È assiomatico che si deve difendere la verità, perciò Agostino pone subito, in apertura (4), l’asserzione categorica preliminare che, siccome la retorica è aperta ad inculcare sia il vero che il falso, non è giusto pretendere che i difensori della verità contro la falsità siano inermi ed incapaci di attirare la simpatia degli uditori, che siano fiacchi e sonnacchiosi, mentre i difensori dell’errore sono brillanti e dominano gli ascoltatori; ne consegue che chi difende la retta fede e combatte l’eresia deve accattivarsi quelli che sono ostili ed animare gli afflosciati mediante il suo modo di esprimersi (14). Poiché la perizia oratoria occupa una posizione centrale, ed ha una grande efficacia nel persuadere sia il male che il bene, perché i buoni non debbono dedicarsi con zelo a combattere per la verità, quando i cattivi usurpano quella perizia per tutelare l’errore? (5). Per attrezzarsi convenientemente, bisogna però impegnarsi assai presto a procurarsi questa competenza, perché in età più tarda il rendimento è più scarso e più difficoltoso (7). Per acquisire questa formazione, Agostino dichiara che non propone quei precetti che sono in uso nelle scuole retoriche e che egli aveva imparati ed insegnati; non era questo il suo intento (3); d’altra parte, i giovinetti intelligenti si procacciano più facilmente l’eloquenza leggendo ed ascoltando persone eloquenti che studiando i precetti dell’eloquenza (8). Un uomo capace, leggendo, oltre il canone biblico, la letteratura ecclesiastica, anche se mira al contenuto e non alla forma, tuttavia assume una formazione anche stilistica (9).


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3. La precettistica retorica

Se manca un ingegno sveglio, l’individuo non si assimila i precetti retorici, ed anche se, con grande fatica, essi venissero in qualche parte assimilati, non servirebbero a nulla; anche coloro che li hanno imparati e parlano con fluidità ed eleganza, non tutti parlano secondo quei precetti. Agostino pensa che siano ben pochi quelli che possono fare entrambe le cose, parlare con eleganza e, mentre parlano, pensare ai precetti sullo stile (10). Per parlare in maniera distinta, bisogna stare attento a non dimenticare quello che si deve dire. Nei discorsi degli uomini eloquenti si trovano applicati i precetti dell’eleganza ai quali non hanno pensato mentre parlavano, sia che li avessero imparati sia che non li conoscessero affatto; li applicavano perché erano eloquenti, non per essere eloquenti. Anche senza precetti retorici molti sono diventati più eloquenti di quelli che li avevano imparati (12). I ragazzi non hanno bisogno di un’arte stilistica che raffini loro l’espressione, se vivono in mezzo a persone di linguaggio distinto (13). In Agostino viene da ammirare la signorile libertà di spirito di un retore che nella precettistica retorica era vissuto e che ad essa aveva dedicato tutto il suo impegno professionale e che tuttavia della precettistica proclama l’insita sterilità; il trascendimento gli era stato imposto dalla sua eccellenza artistica; aveva sperimentato che l’arte scaturisce da una ricchezza di spirito anteriore alla scuola, nella quale trova soltanto norme di raffinamento.

4. Metodologia espositiva

Per condurre alla certezza sulle questioni dubbie è necessario apportare prove; quando invece si tratta più di stimolare che di istruire gli ascoltatori perché non si comportino con una trasandata negligenza, si richiede una maggiore capacità oratoria; qui sono necessari gli inviti ed i rimproveri e tutti quegli accorgimenti che servono per commuovere gli animi (15). Alla vivacità espositiva deve mirare colui che è capace di dire cose sagge, anche se non è capace di dirle in maniera elegante; è invece pericoloso il dire con eleganza cose stolte, in quanto gli ascoltatori trovano gusto in ciò che non serve a nulla (17). Oltre che all’attrazione del vuoto Agostino mette in guardia contro la malia d’un’eloquenza che perverte; osserva infatti che vengono ascoltati con piacere quelli che parlano con eloquenza, ma che quelli che parlano con sapienza vengono ascoltati con un guadagno di salvezza; vanno pertanto spesso assunti elementi salutari che sono amari e va sempre evitata la dolcezza rovinosa; non c’è comunque nulla di meglio di una piacevolezza salutare e di una salubrità piacevole (23). L’eloquenza inoltre va adeguata all’età; ce n’è una che si addice ai giovani ed un’altra agli anziani, poi-


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ché essa deve concordare con la persona che parla; ce n’è quindi una consona con chi riveste una grande autorevolezza; quanto più la loro parola sembra essere modesta, tanto più supera gli altri in solidità, evitando vacue risonanze (26).

5. Lo stile biblico

I libri del canone contengono una quantità di modelli oratori, la cui eccellenza si irradia su quanti li conoscono; uno parla con una sapienza maggiore o minore in rapporto alla sua conoscenza delle Scritture nella retta comprensione del senso (19). La Sacra Scrittura fornisce una grande ricchezza: chi deve parlare con sapienza, anche se non è in grado di farlo con eloquenza, deve ricordare le parole della Scrittura; quanto più è povero nelle parole sue tanto più deve essere ricco in quelle, in modo che quello che dice con le parole sue lo compensi con quelle (21); degli autori biblici, quando sono capiti, non c’è nulla di più sapiente ed anche di più eloquente (25). L’eloquenza dei testi biblici ci appare inferiore quando non sono capiti; d’altronde la stessa oscurità dei precetti divini andava espressa in un’eloquenza nella quale la nostra intelligenza traesse vantaggio non solo dalla sapienza ma anche dall’allenarsi (27). Gli autori biblici hanno colorito la loro eloquenza con elementi detratti da quella profana, in una dose per la quale questa né manca né predomina; così essi non intendevano né condannare né ostentare la cultura laica (29). Nella Bibbia vengono dette cose tali che le parole con le quali sono espresse non sembrano impiegate dallo scrittore, ma fornite, come spontaneamente, dalla materia stessa; è una sapienza che proviene dal cuore del sapiente e l’eloquenza segue come un’ancella, non chiamata ma inseparabile (30). E Agostino cita subito Rom 5,3-5: «Noi ci gloriamo nelle tribolazioni, poiché la tribolazione produce la costanza, la costanza, a sua volta, una virtù collaudata, la virtù collaudata la speranza, che non delude, poiché Dio opera nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (31); Agostino analizza: qui vediamo la figura retorica della klimax o gradatio, le parole si agganciano e si succedono con una dignità che è scandita dal susseguirsi di commi concisi e di frasi più ampie per concludersi con un periodo a largo giro (32). Come esito dell’esame gli risulta che Paolo non ha seguito i precetti dell’eloquenza, ma che l’eloquenza ha seguito la sua sapienza (33). In 2 Cor 11,16-30 Agostino riscontra che Paolo persegue la sapienza, ma non rifiuta un’eloquenza che la segua; ammira l’alternanza del ritmo e la squisita varietà con cui concisione ed ampiezza vengono intrecciate in maniera attraente (34-36) e continua in un minutissimo esame stilistico del passo (37-43).


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6. Modelli ecclesiastici

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Ma non soltanto nei profeti, come Amos (49-57), si trovano esempi di eccellenza stilistica; sono infatti molti gli ecclesiastici che hanno trattato le parole divine non solo con sapienza ma anche con eloquenza (24). Compito dei commentatori biblici è di non parlare come se presentassero se stessi, assumendo un’autorevolezza simile a quella dei testi scritturali, ma di farli capire nella massima chiarezza, in modo che le difficoltà che ci sono insite non derivino dall’incapacità dell’espositore (62). Allo scopo Agostino offre una serie di indicazioni ispirate da acutezza psicologica e da perizia didattica. Si deve pertanto evitare di presentare alla gente passi biblici che siano in se stessi difficili o impossibili da capire (63). Un alacre desiderio di chiarezza induce il commentatore a tralasciare la parola elegante; non bada se la sua parola suoni bene, ma se mostri bene quello che vuole mostrare (64). Nonostante che i docenti di alto rango credano che può essere lingua pura soltanto la parola oscura ed ambigua, bisogna usare il tono popolare, evitando ogni ambiguità ed oscurità; si parli nello stile non dei dotti ma degli ignoranti; è ammissibile qualche volgarismo lessicale, purché il popolino eviti confusioni (65) . «A che serve la purezza del linguaggio, se colui che ascolta non capisce, dato che non c’è nessun motivo di parlare se quello che diciamo non lo capiscono coloro per i quali parliamo affinché capiscano?» Chi insegna eviti tutte le parole che non insegnano e se, al loro posto, ne può trovare di quelle che vengono completamente capite, usi queste; si avvalga anche di parole meno pure, affinché quello che si insegna venga imparato in purezza (66). È, nuovamente, di alto interesse questa concezione strumentale del linguaggio in chi del maneggio elegantemente disinvolto dello stile era uno dei sommi maestri. Se poi, ad ostacolare la comprensione, agisce l’oscurità del lessico, vi contribuisce anche la monotonia della dizione, generatrice di una noia che spegne l’attenzione. Perciò Agostino inculca una lezione che si articoli in dialogo; chi parla può anche non rilevare l’eventualità di obiezioni o la richiesta di chiarimenti; sono integrazioni opportune che non possono trovare emersione nel discorso continuato di uno solo (67). Nell’ascoltatore possono stagnare domande inevase, ma può anche distendersi una sazietà annoiata, che alligna agevolmente nell’esposizione monotona e protratta. Agostino invita pertanto l’oratore alla perspicuità nell’osservare gli atteggiamenti degli ascoltatori; infatti una moltitudine avida di conoscere indica col suo comportamento se ha capito; finché non lo manifesta, bisogna rielaborare quello che si insegna in una grande varietà di formulazioni, cosa che non possono fare quelli che recitano a memoria un testo preparato in anticipo e ricordato; quando però una questione è stata capita, bisogna terminare (68). Agostino scarta tanto la meccanicità dell’esposizione quanto la stiracchiatura verbosa di chi veleggia sul flusso


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verbale in assenza di apporti. Infatti, osserva, come risulta gradito colui che chiarisce ciò che non è ancora conosciuto, così appare fastidioso colui che insiste su ciò che è già noto. Si possono anche ripetere cose note, quando è piacevole il modo con cui vengono dette (69). Il docente più bravo è quello che fa ascoltare la verità e capirla; raggiunto lo scopo, troncare, non annoiare (71). L’eloquenza tipica dell’insegnante non è quella che fa piacere quello che insegna o che fa praticare ciò che rincresceva, ma quella che fa apparire chiaro ciò che era nascosto; Agostino rileva però che questo, se lo si fa in maniera antipatica, raggiunge soltanto coloro che sono appassionatissimi della verità; è caratteristica delle menti più elevate amare nelle parole la verità e non le parole (72). Ed esemplifica: a che cosa serve una chiave d’oro, se non riesce ad aprire quello che vogliamo o che danno arreca una di legno, se ci riesce? (73).

7. Il tono del docente

Sebbene il docente dica cose grandi, non sempre le deve dire in tono solenne; è invece opportuno che usi quello smorzato quando insegna qualche cosa, quello moderato quando loda o biasima; quando però parla a renitenti, allora deve dire le cose grandi in tono solenne per convincere gli animi (104); quando uno loda Dio, occorre una formulazione che abbia un aspetto magnifico e splendido, perché Dio non è mai lodato come si merita (106); Agostino riferisce in Paolo esempi dello stile smorzato (107-109) ed invita il docente ad allargare il quadro della propria trattazione; infatti nell’insegnare non bisogna soltanto aprire ciò che è chiuso e sciogliere i nodi delle questioni intricate, occorre anche illustrare i problemi connessi, per evitare che, grazie ad essi, venga impugnato quello che diciamo. Conviene confutare le obiezioni che possono sorgere, perché non abbiano da emergere quando non c’è più nessuno che possa rispondere (110). Agostino offre in S. Paolo esempi di stile temperato (111-113); li analizza, precisando che in essi non si riscontra la clausola metrica (114-115); ci sarebbe infatti il rischio che, inserendo la mollezza della clausola, si riduca l’austera serietà e l’autorevolezza della severa e profonda parola divina (116); dichiara tuttavia che nei suoi scritti personali egli la clausola metrica l’ha usata (117) e noi comprendiamo che di usarla egli aveva motivo: la Bibbia si espresse nella solennità oracolare consona con le comunicazioni divine; egli quella solennità la doveva mediare con l’immediatezza di un’attrattiva che inducesse gli uomini ad accettarla. Agostino specifica poi che lo stile solenne non dista da quello temperato per le parole eleganti ma per l’impeto dei sentimenti; l’eleganza del discorso è più il risultato della forza dell’argomento che della cura del bello stile (118). Quando però Paolo esorta a vincere le persecuzioni del mondo nella


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speranza sicura dell’aiuto di Dio, usa uno stile solenne, ornato degli accorgimenti retorici (121). Tuttavia, citando Gal 4,10-20, Agostino rileva che non ci sono ossimori, klimax o commi o ampie volute, eppure noi avvertiamo che l’eloquio è fervido per la grandezza dei sentimenti (123-124). Lo stile smorzato viene usato da S. Cipriano quando tratta dell’Eucaristia (125-126); S. Ambrogio lo adopera anche sul tema grandioso dell’uguaglianza dello Spirito Santo col Padre e col Figlio (127). Lo stile temperato è invece usato da Cipriano quando parla della verginità (128) e lo usa anche Ambrogio, quando spiega il comportamento che debbono tenere le vergini consacrate; quando però viene all’esortazione, allora usa lo stile solenne (130); di stile solenne Agostino riporta esempi in Cipriano ed in Ambrogio (131-132). L’espressione deve però essere, per quanto possibile, varia, con una mescolanza dei tre generi; è meno efficace la continuità in uno solo (134). Bisogna stimolare la commozione per acquistare l’assenso dell’ascoltatore, ma non protrarla a lungo, cosa che ne provocherebbe la caduta; sublime e smorzato vanno alternati, come il flusso delle maree (135). Nel genere sublime è conveniente incominciare in tono moderato e, caso mai, interporre qualcosa in tono smorzato, affinché, al confronto, ciò che si dice in stile sublime appaia più grandioso (136). Il genere sublime sovente, con il suo peso, frena le voci e provoca le lacrime ed Agostino lo afferma fondandosi su una sua esperienza personale. Racconta infatti che a Cesarea di Mauritania vigeva una consuetudine scellerata (la Caterva): in una determinata stagione gli abitanti si contrapponevano in due bande che si combattevano ferocemente col lancio di pietre nell’intento di uccidere; membri d’una stessa famiglia si schieravano in entrambe le fazioni in scontri che si protraevano per giorni consecutivi uccidendosi tra loro; era un’autentica guerra civile. Agostino, chiamato dal vescovo locale, accorse, parlò in uno stile sublime, elevato alla massima tensione; non credette di aver combinato un gran che finché li vide acclamare, ma si convinse del successo quando li vide piangere (139); con le acclamazioni essi significavano che erano stati istruiti e dilettati, con le lacrime che erano stati (con)vinti (140). Scopo universale, in tutti questi generi, è infatti la persuasione; nel genere smorzato l’oratore persuade che è vero quello che dice; in quello sublime persuade che gli uditori facciano quello che già sanno che va fatto ma che non fanno; in quello temperato l’oratore persuade che egli parla con una bella eleganza (143). Il genere temperato è il più adatto a quanti si pavoneggiano della loro lingua e sfoggiano maestria nei panegirici, dove non si insegna nulla e non si spinge nessuno ad agire, ma soltanto si dilettano gli ascoltatori; noi invece puntiamo ad un alto fine, cioè che si amino i buoni costumi e si evitino quelli cattivi (144). Agostino si dilunga sull’opportunità di comporre i tre stili, dei quali torna a specificare i singoli effetti (145-150).


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8. Preminenza del tenore di vita

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Per essere ubbiditi ha un’efficacia superiore a qualsiasi sublimità di stile la vita dell’insegnante. Chi parla con sapienza ed eleganza ma vive colpevolmente, erudisce molti che desiderano imparare, ma non giova affatto alla sua anima. Cristo è verità e tuttavia la verità può essere annunziata anche dalla non verità, cioè ciò che è giusto e vero può venire proclamato anche da un cuore corrotto ed ingannevole (151); Cristo disse: «Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno, infatti dicono e non fanno» (Mt 23,3); si ascoltano con profitto anche coloro che non agiscono con profitto (152). Per essere ascoltato, chi insegna deve scegliere una buona vita, ma non deve neppure trascurare una buona fama; procuri, per quanto può, che questa sia buona davanti a Dio e davanti agli uomini: davanti a Dio, temendolo, e davanti agli uomini, provvedendo al loro bene. Ed anche quando parla, preferisca piacere con la sostanza più che con le parole; giudichi che non si parla meglio, se non si parla secondo la verità; il docente non sia servo delle parole ma le parole lo siano del docente (155). S. Paolo prescrive di non scendere a vacue contese verbali (2 Tim 2,14); questo non significa non curare come l’errore venga vinto dalla verità, ma come la propria formulazione venga preferita a quella di un altro, è un ammonimento contro la vanagloria (156), ma significa anche cercare, attraverso ad ogni tipo di stile, che la verità si manifesti chiara, che la verità piaccia, che la verità stimoli, poiché la carità, che costituisce la pienezza della legge, non può essere genuina, se si ama, non quello che è vero, ma quello che è falso (157). Chi non riesce in entrambi i pregi, dica con sapienza ciò che non dice con eleganza, piuttosto che dire con eleganza ciò che dice senza la sapienza (158). Se non riesce a realizzare neppure questo, parli in maniera da offrire agli altri un esempio; il suo stile di vita diventi il suo modo di insegnamento (159). Agostino scende poi ad un’ultima concessione davanti al caso di un’estrema indigenza inventiva in chi è chiamato a predicare; nota infatti che ci sono taluni abili nell’esibire, nel porgere, ma incapaci di procurarsi il contenuto della loro dizione efficace; a loro consiglia di prendere le buone trattazioni altrui, di impararle a memoria e di rivolgerle alla gente; approva questo accorgimento (169); importa il punto di arrivo assai più di quello di partenza; è l’anticipo delle moderne forniture sistematiche di omelie domenicali. Agostino tranquillizza: questo non è furto, poiché la parola di Dio è un bene comune a tutti quelli che la praticano (161). E conclude con una consegna sovrana: nel catechista parli Dio; lo preghi che gli metta in bocca le parole opportune, come aveva fatto Ester (164); la precettistica umana viene completata e trascesa dall’ispirazione divina. Questo ‘metodo catechistico’ è mirabile per la sapienza pedagogica, lo zelo apostolico, l’acutezza indagatrice, la squisitezza espressiva; non ha il


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rigore strutturale di una trattazione accademica; i singoli elementi, più che posti dall’autore, sembrano affiorati dalla natura stessa del tema, più che scoperta paiono efflorescenza dalla pratica pastorale; non c’è nulla di ricercato, nulla di artificiale, nulla di estroso. I precetti sono immersi in un clima superiore; sovente in se stessi sono ovvi, ma lasciano intravedere uno sfondo; Agostino non fornisce, come i retori pagani, una competenza professionale per le gare del foro, offre accorgimenti per la salita ai beni eterni; il divario tra le due mete è incommensurabile. Spira una sottile drammaticità; in fondo, quei precetti erano finalizzati ai comandamenti di Dio. Per essere ascoltato, chi insegna deve scegliere una buona vita, ma non deve neppure trascurare una buona fama.


Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 317-326

EDUCAZIONE E POLITICA ROSMINIANA: ETICITÀ, LAICISMO, LIBERTÀ D’INSEGNAMENTO DI GIOVANNI CHIMIRRI Professore all’Università dell’Insubria - Varese

SOMMARIO: 1. Il pensiero pedagogico di Rosmini. - 2. Civiltà cristiana, moralità, rapporto Stato/Chiesa. - 3. Requisiti per insegnare e libertà d’insegnamento

A

1. Il pensiero pedagogico di Rosmini

ntonio Rosmini (1797-1855) dopo due secoli di ombre, sospetti e incomprensioni, è stato definitivamente riabilitato sia dalla cultura laica che ecclesiale (se ne veda la beatificazione del 2007). Più noto come teologo, filosofo, giurista e diplomatico, Rosmini è poco conosciuto come fondatore di collegi, pedagogista e consulente scolastico, nonostante abbia scritto una decina di opere sull’argomento per un totale di circa mille pagine, recentemente ristampate (Stresa (2009), o meglio, in forma antologica, introdotta e commentata, nel più agile e recente La buona educazione (Pavia 2013). Scriveva Rosmini: «la filosofia spinge avanti tutte le ricerche fino a quando la mente umana trova il suo soddisfacimento, le ragioni veramente ultime alle quali può giungere e che rispondono ai supremi bisogni dell’animo umano [...] La filosofia è così la vera pedagogia dello spirito che svela agli uomini il bene».1 La pedagogia educa al senso delle cose, e non avere come fine ultimo questo, è per Rosmini un delitto contro la verità e contro il bene dei bimbi. I figli desiderano e pretendono dagli educatori null’altro che il bene e la verità, e non certo sterili opinioni, gusti soggettivi, ipotesi fantasiose, ecc.2 Il fatto educativo, è lo stabilire legami fra gli uomini, esercitare un’influenza sugli altri per migliorali. L’educazione non è mai qualcosa di asettico, neutrale, puramente istruttivo. No, l’educazione è molto di più, è crescita comune ed è progresso dei popoli, se non vogliamo che questi rimangano fanciulli e di questi ne conservino i limiti; e se non vogliamo una «società di idolatri che scambiano il finito per l’infinito» e nell’adorazione del mondo mortale si perderà!3 A. ROSMINI, Introduzione alla filosofia, Roma 1979, pp. 301-302. A. ROSMINI, La buona educazione, Pavia 2013, pp. 45-46. 3 A. ROSMINI, Idem, op. cit., p. 59. 1 2


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Essendo un processo spirituale, l’educazione non può mai assumere aspetti di costrizione e di violenza, ma svolgersi nel campo della persuasione e dell’affettuosa corrispondenza, badando al grado di maturazione delle coscienze e rispettandone le autonomie; e, quando si tratta di bambini molto piccoli, facendo leva sulla loro naturale predisposizione alla fiducia (che non va mai tradita). L’educazione, per Rosmini, è soprattutto un processo di benevolenza, discrezione, prudenza e consiglio, ovvero, formazione dell’uomo intero (corpo, mente, intelletto, cuore, libertà, coscienza di sé, abilità, ecc.). Privilegiare solo una parte dell’uomo, vuol dire perderne di vista la perfezione e farne un essere confuso, squilibrato e senza disciplina, in conflitto continuo tra un’esigenza e l’altra! L’adulto non deve inventare nulla da, per dir così, buttare dentro il bambino, ma deve solo assisterlo nella sua crescita, indirizzando ed «ordinando quelle doti naturali che già possiede», come l’«ammirazione del mondo», la «benevolenza», la «fiducia dovuta agli esseri intelligenti», il «rispetto di quelle volontà alle quali uniformarsi», ecc. È potenziando queste sue predisposizioni che è poi facile fare del bambino una «persona morale e religiosa»; ed è questa, in estrema sintesi, la proposta pedagogica del beato Rosmini. Ma proseguiamo in alcuni approfondimenti. Il fatto educativo non può esaurirsi tutto nel presente, perché la vita umana è fatta anche di attesa, speranza, futuro, ricapitolazione dell’universo, giustizia assoluta, aspirazioni religiose, perfezionamento etico, ecc. Non può essere vera educazione, dunque, quella che si limita al contingente, all’empirico o all’economico, se non si preoccupa nel contempo anche di ciò che è immortale e invisibile; ed in sostanza, se essa (l’educazione) non si fa anche cura dell’anima. Per Rosmini, rimane sempre da ultimo il compito più importante da assolvere: quello della formazione morale e religiosa.4 A molto serve, certo, che il bambino diventi grande, forte, abile, capace di operazioni intellettuali, colto, ecc., eppure, tutte queste cose a poco servono se nel contempo egli non ha imparato ad obbedire (e nessuno può comandare se prima non ha imparato ad essere comandato), non ha imparato a riconoscere il prossimo, a ben volere, a discriminare il bene dal male, ecc. Nella morale e nella religione, il bambino (ma ogni individuo) è chiamato al massimo dello sforzo e della responsabilità, a dichiarare alla società chi-è, come-vuole-essere, che tipo di contributo dare, a quali ideali votarsi. L’educazione dovrà certo valorizzare l’individualità della persona, ma nel contempo dovrà pure segnalare che ella è «grande» solo nel suo complesso e nel suo ordine interiore, senza esaltarla per questo o quello (la modestia non è 4

A. ROSMINI, Idem, p. 119.


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mai troppa)! La «buona educazione», secondo Rosmini, deve essere in grado di mortificare perfino le doti individuali del soggetto qualora fossero d’impedimento all’attuazione di valori morali o tarpassero le ali al perfezionamento religioso! La «buona educazione» non può essere solo un’educazione civile, perché l’individuo, prima di essere un cittadino dello Stato, è semplicemente un essere umano, irriducibile a qualsivoglia categoria politica. Secondo Rosmini, le strade che può percorrere qualsivoglia educazione, sono solo due. La prima, è quella nella quale si presuppone o si dichiara l’insistenza di Dio; e ci si accontenta di adeguare gli individui al mondo e di formare le loro coscienze al variabile e al relativo. Ma, poiché ogni coscienza non può minimamente acquietarsi in tutto questo, allora questo tipo di educazione cercherà possibili surrogati dell’assoluto, esaltando il contingente e il relativo fino a venerarli (piacere, ricchezza, scienza, ego, arte, carriera, lavoro, salute fisica, successo sociale, competitività, ecc.)! La seconda strada che può invece percorrere l’educazione, è quella non tanto di sbattere in faccia l’Assoluto agli educandi, ma quella di mostrargli le strade che possono condurre ad esso; una strada sulla quale il mondo non è affatto negato, ma giudicato per quello che è, rinviato ad un assoluto di senso, esposto al mistero del soprannaturale: qui l’educazione agirà soprattutto in direzione dell’interiorità, dell’affermazione dei valori, della benevolenza, della fiducia, della speranza.

2. Civiltà cristiana, moralità, rapporto Stato/Chiesa

Quando «le società camminano verso un miglioramento, allora si conservano», ma quando contrastano questo fine, «cadono in rovina, vittime di se stesse». Rosmini individua nel corso della storia vari modelli di società, ma egli ne postula un altro tipo che superi il formalismo giuridico nell’autentica moralità e nella virtù spirituale praticata senza limitazione; elementi, questi, che costituiscono la vera forza decisiva e la vera coesione sociale, sempre che la società voglia perpetuarsi e non retrocedere nella barbarie!5 Rosmini intravede nella civiltà cristiana il modello compiuto di società, e non certo nel senso di una conquista politica del cristianesimo, ma nel senso più evangelico del cristianesimo come «sale della terra, come linfa vitale di ogni vita civile». Per Rosmini, la religione cristiana fornisce al singolo quel coraggio, quella pazienza e quella speranza capace di trascendere ogni limite socio-politico e, soprattutto, indirizza e vincola la volontà e l’intelligenza a quel Bene senza il quale ogni società si riduce ad un organismo animale destinato a nascere/svilupparsi/scomparire come ogni evento naturale! 5

Idee che Rosmini sviluppa soprattutto nella sua Filosofia della politica.


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Per Rosmini, la civiltà europea è uno dei migliori frutti del cristianesimo, ed escluderlo dalla formazione degli stati moderni significa privarsi delle sue feconde radici e perdere la propria identità morale.6 Il cristianesimo, per le sue caratteristiche di universalità e per i valori di uguaglianza, dignità e libertà che propone, è l’unica ricetta in grado di affratellare i popoli verso un governo mondiale dell’umanità, superando ogni particolarismo etnico/nazionalistico. Proprio in questi ultimi anni è aumentato l’interesse verso i rapporti tra religione e politica, e il mercato librario è stato invaso da quintali di volumi. Qui ci limitiamo ad affermare che ogni riduzionismo laicista non funziona, perché nelle leggi dello Stato riecheggiano i costumi morali da sempre riconosciuti dall’umanità, come riecheggiano da sempre i dieci comandamenti e insomma la protezione dei diritti e della dignità della persona che ha il diritto di aspirare all’infinito. Ogni Stato (si voglia o no) è dunque un organismo etico, e non c’è Stato che non si occupi di religione, oscillando tra «religione di Stato», «teocrazia» e «separatismo» delle democrazie moderne. Ma non c’è Stato, infatti, che ignori la religione del suo popolo per lo stesso motivo per cui non si può disinteressare delle sue idee morali e politiche. La ragione del rapporto necessario tra Stato e religione, deriva dalla natura stessa dello Stato che ha di mira la pace, l’ordine pubblico e insomma – annota il laico G. Gentile,7 «l’unità dello spirito popolare come realizzazione di quella volontà umana che contiene anche la religione. Perciò lo Stato laico è una favola [...] è la laicità inferiore e negativa degli ignoranti e degli impotenti [...] Ma Dio, anche misconosciuto, è sempre lì nel fondo del nostro cuore, ci punge e ci turba finché non sia stato scoperto e confessato; egli è sempre lì davanti ai nostri occhi nella sua logica di essere necessario nel sistema di tutte le determinazioni [...] Cos’è la religiosità immanente ad ogni serio operare politico? È la religiosità di chi crede (in qualche modo ed ogni modo) a Dio e lo sente presente in ogni momento della propria coscienza come quel Giudice che gli chiede conto di ogni suo pensare, sentire, agire [...] Un Giudice al cui giudizio non è possibile sfuggire senza precipitare nell’abisso del nulla».8 6 Cosa riconosciuta, come è noto, anche dal laico B. Croce nel saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. 7 Tra i massimi filosofi italiani e autore di varie opere pedagogiche, tra cui segnalo solo i due volumi del Sommario di pedagogia come scienza filosofica. 8 G. GENTILE, Genesi e struttura della società, Firenze 1975, pp. 89-92. Parole davvero toccanti di un laico che si definiva «cristiano» e «cattolico», di un laico che fece rimettere il crocefisso nelle scuole, ma della cui filosofia però, permangono punti difficilmente compatibili con la dottrina cristiana (difatti alcune sue opere furono messe all’«Indice»).


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Del resto, la laica Costituzione Italiana trasuda valori morali e spirituali molto elevati: onestà, lealtà, solidarietà, rispetto e cura dei deboli, diritto alla vita, alle cure mediche, all’istruzione, alla famiglia, libertà di pensiero, dignità del lavoro, rappresentanza politica, divisione dei poteri, ecc. L’organismo statale non ha fondamenti fuori della morale (e nessun giudice può interpretare le leggi senza ideali morali) e fuori della buona volontà degli uomini di vivere rettamente associati (quindi uno Stato a-morale o immorale non può esistere): «la politica non può prescindere dall’etica, né la legge civile e l’ordine giuridico possono prescindere da una legge morale superiore».9 Cosicché, uno Stato totalmente laico che si occupi solo di «amministrazione del territorio», dove regna sovrana l’indifferenza, l’equidistanza da ogni valore e il ribrezzo per ogni esigenza spirituale, è qualcosa d’inconcepibile. Per Rosmini, Stato e Chiesa sono sovrani nel loro ambito, con la precisazione che lo Stato non è il fine dell’individuo, il luogo e il momento nel quale egli trova compimento (mentre lo è la Chiesa, avendo questa dei fini soprannaturali), sebbene ciò non implichi quella «separazione assoluta voluta dalla politica volgare», dovendo anzi lo Stato «proteggere gli stessi diritti religiosi ed evitare quindi di violarli lui stesso».10 La sbandierata «autonomia dello Stato»11 non vuol dire per Rosmini autonomia dalla morale, o «poter fare leggi indipendenti da qualsivoglia legge morale e religiosa [...] Una tale autonomia dello Stato, non c’è e non può esserci!».12 La scorretta autonomia di uno Stato che non cerca e non vuole l’armonia con le istituzioni religiose (senza commistione di ruoli), o peggio, l’autonomia che neppure riconosce come autorità la Chiesa (bastando una sola autorità), importa che «l’umano arbitrio sia messo in trono» e che il legislatore si «arroghi un potere assoluto», quando invece, per Rosmini, la fonte dell’autorità e della legge non può essere quella del sovrano di turno, ma solo quella «dell’eterna ragione» e dell’«eterno Dio».

3. Requisiti per insegnare e libertà d’insegnamento

Possiamo continuare l’analisi del rapporto politica/religione, soffermandoci sull’opera rosminiana Della libertà d’insegnamento.13 La libertà d’insegnamento è «l’esercizio non impedito del diritto d’insegnare e d’imparare14 [...] COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Alla ricerca di un’etica universale, n. 9. A. ROSMINI, Questioni politico-religiose, Pescara 1964, pp. 55-56. 11 Ricordiamo che nella laica Francia, dove vige un separatismo assoluto tra Stato e Chiesa, le scuole non statali ricevono molti più contribuiti che non nella «cattolica Italia», tanto che in Francia ci sono circa un milione di studenti di scuole non-statali, contro i 150 mila italiani! 12 A. ROSMINI, Questioni politico-religiose, op. cit., p. 60. 13 Opera incompiuta, scritta per essere pubblicata a puntate su un periodico a partire dal 1854. Citiamo sempre dall’antologia da noi curata, A. ROSMINI, La buona educazione, pp. 81-89. 9

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Nessuno può violare questo diritto naturale, che esiste prima della legge civile».15 Le condizioni essenziali della libertà d’insegnamento sono per Rosmini le seguenti:

«a) la scienza, poiché chi non sa, è privo della potenza d’insegnare; b) l’onestà, non esistendo un diritto d’insegnare il male o l’errore; c) l’inoffensività verso altri che insegnano o l’esercizio di qualche violenza e frode per accaparrarsi discepoli. Questi tre principi sono semplici e derivano dal comune diritto di ragione, che può essere messo in dubbio solo da due tipologie di persone che disgraziatamente non mancano di esistere e di agitarsi nell’umana società. Le prime, sono quelle che non riconoscono l’autorità della morale, e quindi non ammettono la condizione dell’onestà in quello che s’insegna. Annullando tale presupposto, esse falsificano il vero concetto di libertà, sostituendogli la libertà bastarda d’insegnare tutto ciò che di erroneo può esserci in un cervello disordinato e tutto ciò che di perverso può esserci in un cuore corrotto! Le seconde, sono quelle che ammettono una morale, ma piegata alle loro passioni e accomodata secondo il loro gusto. Costoro sono talvolta peggiori dei primi, poiché mentre quelli non riconoscendo alcuna morale permettono che ogni cosa (bene o male che sia) possa essere insegnata da tutti, questi altri (ad uso dei propri interessi), proclamano non di rado una libertà più bastarda d’insegnare tutto e impediscono poi ipocritamente la libertà d’insegnare il bene!».16

Ma se tutti indistintamente hanno il diritto d’imparare, non tutti hanno la facoltà d’insegnare, ma l’hanno per Rosmini solo i seguenti sei soggetti: a) la Chiesa, b) i dotti (quelli che sanno e che hanno i titoli stabiliti dalla legge), c) i padri di famiglia (diritto che possono delegare), d) i benefattori (che istituiscono scuole senza scopo di lucro),17 e) i comuni e le province, f) il governo.18 14 Il «diritto di insegnare» e il «diritto d’imparare» non sono in fondo due diritti, ma le due facce di un medesimo diritto, dove, impedendo l’esercizio dell’uno s’impedisce nel contempo l’esercizio dell’altro. 15 A. ROSMINI, La buona educazione, p. 81. 16 A. ROSMINI, Ibidem. 17 Ma pensiamo soltanto a tutte quelle scuole che dietro lusinghe di titoli (spesso di nessun valore e neppure riconosciuti dalle autorità competenti) e/o dietro promesse di opportunità di lavoro e/o dietro l’apparenza del loro livello scientifico, hanno per fine null’altro che la più ampia quantità pagante di studenti! Rosmini tornerà poco più avanti sul tema, condannando tutte quelle industrie scolastiche che hanno di mira solo il guadagno e che non hanno titoli e sentimenti per educare!


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L’opera in oggetto si dilunga nell’analisi di questi sei soggetti, ma noi dobbiamo qui limitarci al primo e all’ultimo (Chiesa e governo). Per Rosmini, la Chiesa non ha solo il diritto alla libertà d’insegnamento come l’ha ogni società, «ma ha quel diritto fondato sopra un titolo più alto che nessuno Stato e nessuna forza fisica le possono togliere: il decreto di Cristo quando ordina di andare ad ammaestrare tutti i popoli (Mt 28,19), e nei popoli sono compresi tutti i governi e tutti i governati. La Chiesa, attraverso i suoi ministri e delegati, ha il diritto d’insegnare e di predicare dalle cattedre; ha il diritto di vigilare sopra tutti gl’insegnamenti e l’educazione dei fanciulli, e se rinviene qualcosa di contrario alla vera dottrina di cui essa conserva il deposito, ha il dovere e l’autorità di avvisare del pericolo».19

Tutti quelli che con qualsiasi pretesto impediscono alla Chiesa di esercitare i suoi diritti d’insegnamento, la offendono e la violentano. Ancor di più, per Rosmini, sono «tiranni tutti quei governi che pretendono di insegnare dottrine religiose indipendentemente dalla Chiesa [...] Quando poi un governo civile impedisce ai suoi cittadini di insegnare dottrine contrarie a quelle delle chiese, non offende la libertà d’insegnamento ma la protegge, poiché quella libertà non è di tutti ma appartiene solo a chi ne ha il diritto».20 Certamente, oggi i tempi sono cambiati e la religione cattolica non è più «religione di Stato» (tranne qualche raro caso). Se in Italia la Chiesa, attraverso la procedura delle nomine, gestisce ancora l’insegnamento della religione nelle scuole primarie e secondarie, in altri paesi quest’insegnamento è molto più libero e laicizzato, per non parlare dei paesi non cristiani, dove il cristianesimo viene spesso perseguitato, né la Chiesa può esercitare i suoi «diritti pedagogici»! Annotiamo poi che, oggi, i moderni stati democratici non intervengono più in difesa della Chiesa, e quando ad esempio un docente vince un regolare concorso in materia religiosa, può insegnare tranquillamente dottrine non-cattoliche! Per quanto riguarda infine i compiti specifici dei governi in merito all’insegnamento, Rosmini afferma che «i governi hanno tre doveri verso i soggetti che hanno titolo per insegnare: a) non offenderli in alcun modo, b) tutelarli, c) aiutarne l’esercizio e regolarne la coesistenza».21 In questi diciotto secoli di persecuzioni dove la Chiesa pareva sconfitta e perdente, prosegue A. ROSMINI, La buona educazione, p. 82. A. ROSMINI, Idem, p. 83. 20 A. ROSMINI, Idem, p. 84. Ma oggi, gli stati civili e democratici, non intervengono più in tal senso; e quando ad esempio un docente vince un regolare concorso in materia religiosa in qualsiasi università, può insegnare tranquillamente dottrine non-cristiane. 18 19


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Rosmini, essa non rinunciò mai ai suoi diritti, altrimenti si auto-distruggerebbe, e questo non può darsi, perché Gesù le ha promesso un’eterna assistenza:

«le tutele giuridiche che esige la Chiesa22 non sono fisiche ma morali, e queste servono per stemperare e regolare le stesse forze fisiche dei governi. Quando un governo dà una garanzia alla Chiesa, non la dà solo ad essa, ma a tutti i cittadini e in fondo la dà a se medesimo! La garanzia maggiore che un governo può dare alla Chiesa è proprio quella della libertà d’insegnamento, riconoscendola come maestra e giudice della dottrina cristiana e della morale».23 «Io so bene che lo Stato temporale è una cosa e la Santa Sede è un’altra cosa, alla quale lo Stato non va sottomesso. La Chiesa non vuole comandare lo Stato, ed anzi ha il dovere di conservarne l’indipendenza. Quando bisogna stipulare accordi con lo Stato, è naturale che ognuno cerchi i propri interessi ma, e qui è il punto, la Sede Apostolica non va riguardata come uno Stato temporale, uno Stato diverso e quindi straniero, poiché il papa è il Papa di tutti e non è un semplice principe terreno ma il vicario di Cristo su tutta la terra e quindi ha in custodia l’umanità intera. Il papa, vivendo sulla terra, vive nel suo Stato, che è lo Stato spirituale dell’umanità, sul quale ha potere in materia religiosa e morale».24 Altrove poi, in alcuni frammenti postumi, scrive Rosmini:

«È uno strazio sentir riconoscere alla Chiesa il diritto all’insegnamento, ma limitatamente nelle chiese, per cui i preti non dovrebbero uscire da esse ed entrare ad esempio nelle scuole! In tal modo, non si riconosce che quel diritto le è stato conferito dal suo divino fondatore e che esso si estende dappertutto e che la sua missione è quella di ammaestrare tutti gli uomini della terra. Lo stesso Gesù ha insegnato nei templi e fuori, nelle case e nei pretori, nelle città e nei deserti, sulle spiagge e sulle montagne. Non ci fu alcun luogo dove non si fece udire la sua parola. E disse ai suoi apostoli, cioè alla Chiesa: “come il padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). E disse pure: “tutto A. ROSMINI, Idem, p. 87. Ricordiamo che sedici anni dopo la morte di Rosmini, quindi nel 1871 (l’occupazione di Roma è del 1870), il Parlamento italiano emanò la famosa «Legge delle guarentigie», che regolava unilateralmente i rapporti con la Santa Sede; legge respinta da papa Pio IX. La legge rimase tuttavia ope-rante fino ai «Patti Lateranense» del 1929, rivisti dal nuovo Concordato in vigore dal 1984. 23 A. ROSMINI, La buona educazione, p. 88. 21 22


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quello che vi dico all’oscuro, comunicatelo alla luce, e tutto quello che vi dico all’orecchio, predicatelo sui tetti” (Mt 10,27)!».25

Se i governi riconoscono l’autorità del Mandante, devono poi per coerenza riconoscere anche l’estensione del mandato, salvo che, appunto, vogliano negare l’autorità divina con la quale la Chiesa insegna, o salvo il caso in cui vogliano persino rinunciare allo stesso cristianesimo, in nome di quella parola magica che non dice nulla, e che si chiama «insegnamento laico»! Ma si chiede giustamente Rosmini:

«cos’è quest’insegnamento laico? Forse un insegnamento immorale? Forse un insegnamento irriverente e che offende la religione? Se è questo, lo dicano chiaramente i governi e che la nazione lo sappia una volta per tutte! Ma se non è così, allora quell’insegnamento laico è morale e religioso, e non si vede in quale senso sia laico. O forse è laico perché i laici sono più morali e più religiosi rispetto agli insegnanti della Chiesa? Forse perché proprio i laici devono insegnare la morale e la religione, a preferenza dei preti?26 Forse perché i laici hanno quell’aroma segreto che impedisce alla scienza di corrompersi? Ma voi governi volete capovolgere il metodo che vige da diciotto secoli nella Chiesa, e per il quale solo dai ministri di Dio i laici devono imparare la religione e la morale! Non solo, i preti hanno pure la facoltà di condire l’umana scienza e di toglierle quel veleno di tracotanza e di sofisma con cui, lasciata tutta da sé, si mescola nel cuore umano, rendendola una cosa santa e utile per la vita presente e per quella futura.27 [...] Oppure, voi governanti, volete l’insegnamento laico per meschino calcolo di guadagno? O come mezzo di potenza ed influenza, gelosi di quella ecclesiastica? Anime piene di dispotismo, se intendete l’insegnamento laico in questo modo! In realtà, non v’importa nulla dell’insegnamento, ma col pretesto di questo, nascondete altri fini e piegate l’interesse della cosa pubblica ai vostri vantaggi e disegni particolari! Dunque, quest’insegnamento laico che oggi si pronuncia pomposamente dai politici, o è una parola sciocca e insignificante, o è una parola di guerra alla Chiesa, un’empietà mascherata, una parola interessata e ostile al bene pubblico, piena di cupidigia ed ambizioso dominio!».28 A. ROSMINI, Idem, p. 89. A. ROSMINI, Idem, p. 117. 26 Invero oggi i laici hanno fatto strada, ed anche loro insegnano non solo religione nelle scuole primarie e secondarie, ma anche teologia nei seminari e nelle facoltà teologiche (sempre però dietro nomina ecclesiastica). 27 Se da un lato la ragione come tale esercita un qualche controllo sulle dottrine religiose (affinché non siano irrazionali o mitologiche o contro il bene dell’uomo), da parte sua la religione 24 25


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Fanno riflettere parecchio queste parole, se pensiamo che sono state scritte due secoli fa! Parole significative per tutti ancora oggi, credenti e no, al fine di comprendere meglio quei rapporti Stato/Chiesa che la nostra Costituzione prevede29 e al fine di riaffermare la sacrosanta «libertà d’insegnamento», coi tre requisiti essenziali citati sopra dal Nostro.

(con la sua teo-logia, che è pur sempre un esercizio di razionalità) esercita un qualche controllo su tutta la scienza, affinché questa non diventi immorale e non cada nelle più disparate ideologie non-scientifiche, come spesso cade (scientismo, materialismo, atomismo, edonismo, agnosticismo, ate-ismo, nichilismo, ecc.). 28 A. ROSMINI, La buona educazione, pp. 117- 118. 29 Ne abbiamo tra l’altro parlato nel terzo capitolo del nostro Teologia del nichilismo, Milano 2012, pp. 111-206.


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LA RECIPROCITÀ COME FONDAMENTO DELL’ESPERIENZA EDUCATIVA DI VINCENZO ROSITO Docente di filosofia all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” (Roma)

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Elezione e promozione. - 3. Scambio e progressività.

L’

1. Premessa

idea di “reciprocità” si offre a interpretazioni talvolta divergenti e in grado di formulare paradigmi etici e sociali diversificati. Il “principio di reciprocità”, molto spesso invocato nella gestione delle relazioni internazionali, può suggerire una visione dei rapporti intersoggettivi fondata sulla perfetta equipollenza delle azioni e su una corrispondenza di gesti che non lascia spazio a forme di eccedenza gratuita. Se così interpretata, la reciprocità sarebbe sinonimo di equivalenza: a un gesto deve necessariamente corrisponderne un altro simile o di pari valore; a un’azione corrisponde sempre una reazione in grado di chiudere il circolo dello scambio in una sfera perfettamente integrata e finita. La declinazione del concetto di reciprocità, che qui vorrei analizzare, si pone, in realtà, su tutt’altra prospettiva. Se ben interpretato, questo concetto non tende a regolare i rapporti umani alla luce di un criterio di perfetta corrispondenza o di equilibrio matematico delle prestazioni. Esso, piuttosto, tende a far emergere incessantemente la disparità di un rapporto che includa forme di eccesso gratuito e che sia attento allo stato della relazione stessa. In altri termini, la reciprocità può assurgere a categoria paradigmatica delle relazioni umane, solo se intesa come struttura relazionale in cui gli interagenti maturano la consapevolezza di abitare un’impresa comune, all’interno della quale l’attenzione per la relazione stessa viene prima dell’equilibrio perfetto delle prestazioni. La reciprocità, dunque, in quanto principio costitutivo della relazionalità sociale, appare come dinamica interna di un rapporto intersoggettivo in grado di determinarne il linguaggio, i ruoli e le regole stesse che lo definiscono. Il termine latino reciprocum richiama una configurazione relazionale capace di strutturare un rapporto intersoggettivo, determinato da un movi-


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mento di “andata e ritorno” tra i partner di una relazione. Nel reciprocum appare, in prima istanza, l’articolazione formale di una gestualità comune che incessantemente si sposta tra ciò che è precedentemente dato (reci) e ciò che viene successivamente prodotto (procus). Si apre dunque un campo semantico che ha al centro l’idea stessa di scambio, anzi di soggetti ai quali è richiesta la partecipazione complementare a un’opera comune intesa come mutualità dei ruoli e delle funzioni (cum).1 Nelle pagine che seguono cercherò di analizzare le configurazioni relazionali aperte dal concetto di reciprocità in due ambiti specifici: quello della relazione d’amore e quello del rapporto tra uomo e Dio. Nella filigrana di questi contesti emergeranno figure e dialettiche in grado di illuminare le dinamiche di formazione umana, sino a configurare un possibile paradigma pedagogico-educativo ispirato dal concetto stesso di reciprocità.

2. Elezione e promozione

Da una prospettiva filosofica, la relazione d’amore, per quanto debba essere considerata una fattispecie dei rapporti intimi, rappresenta notevoli implicazioni sociali. Essa, infatti, non si presenta mai come chiusura degli amanti in un universo autocentrato ed esclusivo, ma implica sempre e comunque uno spazio cooperativo, al cui interno emergono linguaggi, pratiche e ruoli definiti e rimaneggiabili. Proprio per questo, la relazione amorosa può essere messa in rapporto con il più ampio mondo delle relazioni sociali, in quanto intrinsecamente caratterizzata da forme di scambio affettivo, di mutuo e gratuito sostegno, nonché di condivisione all’interno di un comune orizzonte simbolico. In questo contesto, la reciprocità si esplica nella possibilità di fondare un codice comune e di gestire insieme significati e azioni valutabili dai partner. Quando agisce nei reticoli delle relazioni intime, la reciprocità può essere colta principalmente mediante il concetto di terzietà. In qualunque relazione intersoggettiva, infatti, lo spazio del “terzo” rappresenta quell’elemento necessario al rapporto stesso, in quanto coincide con la possibilità di fondare un codice comunicativo. Gli amanti, ad esempio, si comprendono anche come interagenti e cooperatori proprio perché sono in grado di definire insieme un ambito della comunicazione che funge 1 Cfr. L. BRUNI, Reciprocità. Dinamiche di cooperazione economia e società civile, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. X. La dialettica di mutualità, racchiusa nell’idea di reciprocità, viene espressa molto bene anche dal termine tedesco Einander (l’un l’altro), in cui la compenetrazione delle individualità rappresenta il darsi stesso di una relazione di reciprocità mediante la quale non ci si percepisce in quanto l’uno e l’altro, ma più precisamente come l’uno nell’altro. Interessante è anche il modo con cui la lingua inglese esprime l’idea di reciprocità ricorrendo ai termini mutual o mutuality, nei quali prevale la dimensione della convergenza degli interagenti in una dialettica di scambio vicendevole.


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da medium dei loro vissuti coordinati. Questo spazio, a sua volta, non si presenta mai come un ambito esclusivamente espressivo: esso non è tanto il luogo del linguaggio intimo, quanto di una comunicazione riuscita tra gli amanti.2 Maurice Nédoncelle ha il merito di aver formulato una “ontologia della reciprocità” partendo proprio da un’attenta lettura esistenziale dell’umano nei suoi contesti affettivi. Ricorrendo al lessico dell’ontologia personalista, Nédoncelle distingue una reciprocità elettiva da una reciprocità naturale.3 Quest’ultima caratterizza l’insieme dei legami biologici e sociali propri della vita preriflessiva; il tessuto di relazioni in cui siamo immersi fin dalla primissima infanzia rappresenterebbe dunque il luogo in cui viene a consolidarsi una prima e inconscia percezione delle dinamiche di reciprocità. Le esperienze di assistenza e di cura, di cui la persona è oggetto nei primi anni di vita, giocano indubbiamente un ruolo essenziale nella formazione di quel senso di fiducia e di sicurezza indispensabile alla creazione di relazioni intime di reciprocità che solo in età adulta potranno consapevolmente essere definite tali. D’altro canto, la reciprocità elettiva viene coscientemente esperita in quanto forma peculiare di relazioni autonomamente e liberamente scelte. L’intenzionalità del soggetto maturo si rivela così nella capacità di dare forma a relazioni consapevolmente vissute. La reciprocità elettiva costituisce quindi il modo con cui il desiderio e l’esercizio consapevole della decisione danno forma a un rapporto specifico in cui «confluiscono due atti, non come cose che si aggiungono, ma come intenzioni che si liberano superandosi».4 Nella relazione d’amore, dunque, il carattere propriamente elettivo della reciprocità risiede nella capacità di configurare il rapporto non come semplice addizione o fusione di due coscienze, bensì come comunione e comunicazione in virtù del trascendimento di entrambe. L’elezione dell’altro, scelto in quanto amato, non si esaurisce in un atto storicamente puntuale di accoglienza reciproca. Nella relazione d’amore, infatti, il momento della scelta rappresenta la tensione processuale e dilatata nel tempo del rapporto; l’elezione è il dinamismo stesso di una storia 2 Tutti i sentimenti, quello dell’amore in particolare, non possono escludere il contributo reciproco di due o più persone alla creazione di un orizzonte linguistico condiviso: «Il “medium” amore non è un sentimento, bensì un codice di comunicazione, secondo le cui regole si possono esprimere, formare, simulare sentimenti, subordinarne, negarne altri con tutte le possibili conseguenze che si possono avere quando viene realizzata una adeguata comunicazione» N. LUHMANN, Amore come passione, Bruno Mondadori, Milano 2006, p. 11. 3 Cfr. M. NÉDONCELLE, La réciprocité des consciences. Essai sur la nature de la personne, Editions Aubier Montaigne, Paris 1942, pp. 70-79.


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comune che si invera in una creatività dinamica e processuale. Nel momento in cui prometto amore a una persona, scegliendola, iscrivo me stesso in un percorso biografico che si apre alla reciproca trasformazione, mi immergo in una storia in cui le possibilità che si apriranno nella mia esistenza saranno possibilità condivise. Solo le condizioni della trasformazione progressiva della creatura umana e della sua incompiutezza sono in grado di fondare l’idea nédoncelliana di persona in quanto “dialettica della possibilità”. Secondo questa prospettiva, il tratto distintivo dell’essere umano risiede proprio nella sua apertura di nuovi orizzonti esistenziali; la relazione d’amore, presentandosi prima di tutto come elezione perenne e continuata, racchiude in sé gli elementi fondativi di un’antropologia della possibilità. L’uomo costruisce e sviluppa pienamente se stesso solo nell’opera incessante di apertura di nuove condizioni di possibilità per se stesso e per gli altri. Il concetto di possibilità rimanda, in questa sede, non tanto alla piena realizzazione delle qualità naturali sopite e inespresse nell’individuo, bensì al rinvenimento di vissuti non ancora presenti nell’orizzonte di una progettualità comunionale degli interagenti: «Occorre considerare la possibilità di un’armonia finale, senza poter decidere antecedentemente sino a dove quest’ultima si estenda».5 La relazione d’amore può così assurgere a espressione paradigmatica della reciprocità soprattutto se ha la forma di una scelta consapevole e di un impegno rinnovato nei confronti della costruzione di un tessuto di comunione: «Due esseri si amano solo se accettano un’opera comune che li supera».6 Secondo questa prospettiva, la dimensione più rilevante non è tanto quella del gioco speculare degli amanti, inteso come scambio indifferenziato dei medesimi sentimenti; quanto il mutuo e consapevole concorso di entrambi alla costruzione di un’impresa comune volta al soddisfacimento progressivo della relazione stessa. È qui che riposa, infatti, l’andamento circolare della reciprocità: «Amare l’altro è cercare di renderlo amante, o se lo è, è gioire che lo sia».7 Una tale declinazione della relazione d’amore è in grado di suggerire notevoli spunti anche per la configurazione delle relazioni educative. Si può infatti parlare di “amore” nell’impresa formativa che unisce docente e discente, solo se la dinamica esistenziale dell’apertura di possibilità viene messa al centro della relazione stessa. Secondo questa prospettiva, l’invito di Idem, p. 19. Idem, p. 205. 6 M. NÉDONCELLE, Conscience et Logos. Horizons et méthodes d’une philosophie personnaliste, Editions de l’Epi, Paris 1961, p. 44. 7 M. NÉDONCELLE, La réciprocité des consciences, p. 84. 4 5


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San Giovanni Battista de la Salle a “toccare il cuore degli alunni”,8 può essere interpretato proprio come il tentativo di configurare la relazione educativa nel segno di un rapporto amorevole che non solo faccia emergere le possibilità e le capacità ancora inespresse nel discente, ma che sia in grado soprattutto di sviluppare un rapporto incessantemente aperto alla propria riconfigurazione. Un rapporto che diventa cooperazione all’interno di una storia comune che allarga le possibilità affettive, conoscitive e umane tanto dell’insegnate quanto dell’alunno. In quest’ottica, “toccare il cuore”, potrebbe significare prima di tutto dilatarlo, renderlo capace di un amore più grande, fare in modo che gli orizzonti cognitivi e relazionali di ogni alunno superino i confini del rapporto educativo e siano in grado di ricercare possibilità nuove, quelle possibilità di una vita che parte dall’esperienza formativa per espandersi nel mondo delle relazioni sociali. Una relazione educativa riuscita è dunque quella che mette sia il docente che il discente nella possibilità di importare quelle forme di reciprocità, di fiducia e di servizio, esperiti all’interno del rapporto di formazione, nel mondo vasto e plurale delle relazioni sociali che entrambi vivono e vivranno. Proprio per questo la reciprocità è pensabile solo come forma di una relazione circolare d’amore che non si autoalimenta mediante uno scambio equivalente di sentimenti o di gesti tra loro corrispondenti, bensì attraverso la ricerca delle condizioni di rigenerazione e di espansione della relazione stessa: «La reciprocità invita a un compito; essa si compie solo a tappe, nella duplice e laboriosa storia dei soggetti che unisce».9 È giusto, dunque, parlare di amore all’interno della relazione educativa se lo si intende prima di tutto come «volontà di promozione»,10 come compiacimento per la dilatazione del cuore dell’altro, come gioiosa attenzione per le consapevolezze umane e cognitive sviluppate dall’altro. L’amore è reciproco, e allo stesso tempo, la relazione tra docente e discente può essere fecondamente vissuta all’insegna della reciprocità, non tanto se io amo l’altro per far sì che egli mi ami, ma se lo amo per far sì che la sua stessa capacità di amore si dilati. Il servire l’altro nella figura dell’alunno, può correttamente parlare il lessico dell’amore reciproco solo se la mia azione contribuisce alla promozione della sua persona, espandendo l’intensità, gli orizzonti e gli oggetti della sua capacità di amare.11 J.B. DE LA SALLE, Meditazioni per le principali feste dell’anno, Città Nuova, 1999, 81,2; 115,3 M. NÉDONCELLE, Vers une philosophie de l’amour et de la personne, Editions Aubier Montaigne, Paris 1946, p. 246. 10 Idem, p. 15. 11 Per un’analisi delle ricadute eminentemente pedagogico-educative del pensiero di Maurice Nédoncelle rimando a: Ontologia della reciprocità e riflessione pedagogica. Saggio sulla filosofia dell’amore di Maurice Nédoncelle, Vita e Pensiero, Milano 2001. 8 9


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3. Scambio e progressività

Nel paragrafo precedente si è visto come il cuore dialettico della reciprocità risiede nel pari contributo che gli interagenti possono apportare alla creazione di un’opera comune. Una dimensione particolarmente complessa è quella delle differenze dei ruoli o della disparità delle funzioni all’interno di una relazione reciproca. Ancora una volta l’esperienza educativa si presta, in tal senso, ad alcune osservazioni: il rapporto che lega l’educatore all’alunno fonda la sua efficacia anche sulla determinazione e sul riconoscimento di ruoli e compiti diversi, ciò nonostante possiamo parlare, anche in questo caso, di una relazione informata dalla dialettica di reciprocità. Ciò che rende il rapporto educativo fecondamente reciproco è, infatti, il comune apporto che i soggetti possono e devono conferire alla piena realizzazione della relazione stessa, per quanto i loro rispettivi ruoli, quello di docente e quello di discente, siano differenti per compiti e prerogative. Per costruire il loro rapporto reciproco, alunno e insegnante non possono, né devono rinunciare ai loro rispettivi compiti e, dunque, alla loro disparità; in siffatta relazione la differenza risiede nella diversità di ruoli che non inficia la reciprocità in quanto partecipazione parimenti richiesta a entrambi per la creazione e ridefinizione di un’opera comune. È interessante notare che la stessa relazione uomo-Dio (relazione teandrica) porta con sé i tratti appena enunciati che caratterizzano la relazione educativa: uomo e divinità rappresentano, infatti, la configurazione-limite della diversità e della distanza sostanziale tra soggetti di una relazione possibile. L’autentica novità che il cristianesimo porta in sé risiede proprio nella possibilità di una relazione di reciprocità tra Dio e uomo, pur conservando e custodendo l’alterità del primo rispetto al secondo. È lecito, dunque, chiedersi se sia pensabile un rapporto relazionale e mutuamente cooperativo tra uomo e Dio. In questa sede si vorrebbe sostenere la tesi per cui la differenza radicale, che distingue i soggetti della relazione teandrica, permette una relazione in cui si possono sperimentare processi di reciproca trasformazione. La conferma di questa posizione può venire da una certa interpretazione dell’incarnazione stessa. Mediante il processo di “ominazione” di Dio, viene aperta, prima di tutto, la possibilità di dire e di esperire non solo un Dio relazionale, ma principalmente un Dio che, incarnandosi, entra in un rapporto di reciprocità con l’umano, conservando la sua sostanziale alterità.12 Un Dio che si incarna è un Dio che sposa fino in fondo la scelta di ina12 Il mistero, o meglio, il movimento dell’incarnazione si configura principalmente come assunzione radicale e definitiva, da parte di Dio, della “progressività” umana. Non è semplicemente il dato corporeo a essere assunto dal Figlio di Dio; egli, infatti, assumendo la natura


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bitare lo spazio della trasformazione e della progressività propria della natura umana. Questo movimento coincide con l’allargamento della soggettività divina mediante l’assunzione della relazione in quanto luogo di scambio (commercium) e di trasformazione. Uomo e Dio possono essere amici, possono allestire una relazione di reciprocità, possono, in altri termini, entrare in una rapporto in cui l’uguaglianza perfetta tra i soggetti non riguarda né la loro natura, né la perfetta equivalenza delle prestazioni, bensì l’elezione della relazione stessa a luogo di trasformazione della differenza e non di abolizione di essa. È dunque Dio stesso che, mediante il processo di incarnazione, fonda lo spazio dello scambio, apre e rende possibile la dimensione della reciprocità tra uomo e Dio. In tal senso l’ottica cristiana della relazione intersoggettiva è sintetizzabile nella possibilità, data gratuitamente agli uomini, di percepirsi filii in Filio: «Se è spogliato di ogni connessione necessaria della reciprocità con l’eguaglianza, se rispetta la priorità del Creatore in rapporto alla creatura, il rapporto di Dio con le persone è una realtà, e vi sono tante più ragioni di applicare ad esso il termine di reciprocità, allorché ci collochiamo nella prospettiva cristiana: filii in Filio».13 Potremmo altresì dire che si danno rapporti positivi di reciprocità solo se sono fondati in quella specifica relazione teandrica che coincide con l’esperienza della morte e risurrezione del Figlio che ci fa figli. Ora, in quello che già i Padri della Chiesa antica chiamavano mirabile scambio, la reciprocità della relazione umano-divina non si fonda tanto su un mutuo e formale scambio di cure, di prestazioni o di stati empatico-affettivi, quanto sulla richiesta di un mutuo allargamento trasformativo delle nature dei soggetti. Nella persona di Gesù, Dio instaura e rende possibili rapporti di positiva reciprocità, proprio perché assume non solo la dimensione limitante e limitata dell’umano, ma anche la sua gradualità progressiva e trasformativa. Il Dio cristiano, incarnandosi, rivendica la positività della progressività umana, sposa fino in fondo la dinamicità della crescita e della formazione, anzi, si fa egli stesso soggetto in crescita e in formazione. C’è una mirabile componente pedagogico-esistenziale nel mistero cristiano dell’incarnazione, quella che rivendica, per l’uomo, la centralità di una formazione progressiva e permanente che sa farsi trasformazione continua di sé e del umana, prende su di sé la stessa transitività trasformativa dell’umano. «Assumendo la finitezza del mondo, Dio vi si fa presente secondo la grammatica universale della “transitività”: essa allude non tanto alla fuggevolezza eraclitea degli spazi di contingenza, bensì a un preciso status, uno spazio vitale e ontologico dell’essere che si comunica e si dona». G. MAZZA, Dio al limite. Prospettive per un cristianesimo della soglia, San Paolo, Milano 2009, p. 133. 13 M. NEDONCELLE, Bipolarità del cristiano, AVE, Roma 1971, p. 66.


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mondo. La natura umana viene acquisita da Dio in quanto “divenire dell’uomo”, in quanto gradualità delle fasi biografico-formative dell’individuo che diventa fanciullo, adolescente, adulto. Solo così ci è aperta la via per una salvezza dell’umano che passa attraverso la piena e consapevole assunzione della propria progressività radicale. In questo, ogni insegnate o formatore ha la misura dei propri atti e dei propri pensieri: Dio stesso ha scelto la condizione di colui che si immerge in una relazione formativa, scegliendo la formazione dell’uomo come percorso di progressiva consapevolezza e libertà. La prospettiva dell’incarnazione chiede di essere compresa in relazione alla categoria antropologica di incompiutezza, intesa non tanto come limitatezza e finitudine dell’uomo, quanto come perfettibilità e riformulabilità delle sue posizioni di senso. Solo così la reciprocità, presente nella relazione teandrica, può tradursi in orientamento pratico per ogni percorso di formazione umana. Il linguaggio dell’incarnazione apre alla dimensione formativa in quanto dialettica costitutiva dell’umano. Quest’ultima, a sua volta, partendo dalla capacità (di ogni educatore) di rinvenire il “non ancora” (di ogni alunno), permette il dispiegamento di un progetto educativo in cui umano e divino possono interagire in una dimensione di reciproca cooperazione.


Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 335-347

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VERSIONI DI GRECO E DI LATINO QUALI MOMENTI FORMATIVI DI UNA MENTE CRITICA DI DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali

SOMMARIO: 1. H.-G. Gadamer: «Ogni traduzione è sempre un’interpretazione». - 2. K. R. Popper: «Ogni buona traduzione è un’interpretazione del testo originale». - 3. Interpreti al lavoro sui banchi di scuola. - 4. Quando nei Licei scientifici l’unica attività di ricerca scientifica è stata la versione di latino. - 5. Il professore di latino nel ricordo di Czeslaw Milosz. - 6. L’antica – umile e formativa – pratica scolastica del “riassunto”.

«La condizione del traduttore e quella dell’interprete sono sostanzialmente identiche. Ogni traduttore, infatti, è un interprete» (Hans-Georg Gadamer)

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«Ogni buona traduzione è un’interpretazione del testo originale» (Karl R. Popper)

1. H.-G. Gadamer: «Ogni traduzione è sempre un’interpretazione»

a posizione di Hans-Georg Gadamer nei confronti della traduzione è estremamente chiara: ogni traduzione è sempre una interpretazione. Scrive Gadamer: «Sono le situazioni in cui la comprensione è disturbata o difficile quelle nelle quali più chiaramente si danno a conoscere le condizioni che sono richieste da ogni tipo di comprensione. Allo stesso modo, la struttura dell’atto linguistico viene in luce in modo particolarmente istruttivo là dove il dialogo, svolgendosi in due lingue diverse, è reso possibile solo dalla traduzione. Il traduttore deve trasporre il significato del discorso nel contesto in cui vive l’interlocutore a cui si rivolge. Ciò non significa, ovviamente, che egli possa falsare il senso che l’altro interlocutore ha voluto dare al discorso. Tale senso deve essere mantenuto, ma, dovendo


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essere compreso in un diverso mondo linguistico, va come ricostruito in un modo nuovo. Ogni traduzione è perciò sempre una interpretazione, anzi si può dire che essa è il compimento dell’interpretazione che il traduttore ha dato della parola che si è trovato di fronte».1 Prendiamo, dice Gadamer, il caso della traduzione da una lingua straniera. Ebbene, «qui non può esservi dubbio che la traduzione di un testo, per quanto il traduttore sia penetrato nell’animo e nella mentalità dell’autore, non può essere mai una pura riattualizzazione del processo spirituale originario della produzione, ma una riproduzione del testo guidata dalla comprensione di ciò che in esso vien detto. Nessuno può mettere in dubbio che qui si tratta di una interpretazione, non di un puro ricalco. È una luce nuova e diversa quella che viene proiettata sul testo dalla nuova lingua e per il lettore della traduzione. L’imperativo della fedeltà, che vale per ogni traduzione, non può sopprimere le fondamentali differenze che sussistono tra le diverse lingue. Anche quando ci proponiamo di essere scrupolosamente fedeli ci troviamo a dover operare difficili scelte. Se nella traduzione vogliamo far risaltare un aspetto dell’originale che a noi appare importante, ciò può accadere solo, talvolta, a patto di lasciare in secondo piano o addirittura eliminare altri aspetti pure presenti. Ma questo è proprio ciò che noi chiamiamo interpretare. La traduzione, come ogni interpretazione, è una chiarificazione enfatizzante. Chi traduce deve assumersi la responsabilità di tale enfatizzazione. Non può lasciare in sospeso nulla che non gli riesca chiaro. Deve decidere il senso di ogni sfumatura. Ci sono certo casi limite nei quali anche nell’originale (per il lettore “originario”) c’è qualcosa di oscuro. Ma proprio in questi casi limite viene in luce piena la necessità di decidere a cui l’interprete non può sfuggire. Deve rassegnarsi, e dire chiaramente come intende anche queste parti oscure del testo. In quanto però non sempre è in condizione di esprimere veramente tutte le dimensioni del testo, il suo lavoro implica anche una continua rinuncia. Ogni traduzione che prenda sul serio il proprio compito risulta più chiara e più superficiale dell’originale. Anche quando è perfetta, non è possibile che non le manchi qualcuna delle risonanze che si avvertono nell’originale. In certi rari casi di capolavori di traduzione, che sono vere e proprie ri-creazioni, tale perdita può essere compensata o addirittura risolversi in un guadagno: si pensi per esempio a come Les fleurs du mal di Baudelaire, nella traduzione poetica di Stefan George, sembrano respirare di una nuova salute».2 Nella prospettiva della sua teoria ermeneutica, e in perfetta coerenza con essa, Gadamer conclude che «la condizione del traduttore e quella dell’inter1 2

H.-G. GADAMER, Verità e metodo, Fabbri, Milano, 1972, p. 442. Op. cit., p. 444.


Versioni di greco e di latino quali momenti formativi di una mente critica

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prete sono [...]sostanzialmente identiche [...]. Ogni traduttore, infatti, è un interprete. E un testo in lingua straniera – prosegue Gadamer – rappresenta solo un caso di accresciuta difficoltà ermeneutica, cioè un caso di particolare distanza ed estraneità da superare. “Estranei” o “stranieri” in questo senso preciso sono in realtà tutti gli “oggetti” con cui l’ermeneutica tradizionale ha da fare. Il compito del traduttore non si distingue qualitativamente, ma solo per il diverso grado di intensità, dal compito ermeneutico generale che ogni testo ci propone».3 La logica della traduzione è la stessa di quella sottesa ad un dialogo e più ampia è la distanza tra i dialoganti, più questi sono “estranei” l’un l’altro – più sono tra loro “stranieri” – più ardua ma anche più affascinante risulta la reciproca comprensione. Tradurre un testo è interpretarlo, cioè porre ad esso delle domande, entrare in dialogo con esso.4

2. K. R. Popper: «Ogni buona traduzione è un’interpretazione del testo originale»

Altrettanto chiara di quella di Gadamer è la teoria della traduzione proposta da Popper in coerenza con la sua idea di metodo per trial and error. Popper ha criticato i filosofi analitici, cioè i filosofi del linguaggio di Cambridge ed Oxford, a motivo del loro interesse per il “significato” delle parole piuttosto che per la verità delle proposizioni in cui le parole sono inserite. Popper è persuaso che «le filosofie del significato e le filosofie del linguaggio (in quanto si occupano delle parole) sono sulla strada sbagliata. Per quanto concerne le questioni intellettuali, le sole cose per le quali vale la pena di sforzarsi sono le teorie vere, o le teorie che si avvicinano alla verità, che in ogni caso vi si avvicinano più di qualche altra teoria (in concorrenza), ad esempio una teoria più vecchia».5 Certo, fa presente Popper, «è del tutto evidente che il cambiamento di una parola può mutare radicalmente il significato di un asserto; proprio come il cambiamento di una lettera può mutare radicalmente il significato di una parola, e quindi di una teoria – e di ciò potrà rendersi conto chiunque si interessi dell’interpretazione, diciamo, di Parmenide. Eppure gli errori dei copisti e dei tipografi, benché possano essere fatalmente fuorvianti, il più delle volte possono essere corretti riflettendo sul contesto». In ogni caso, egli prosegue, «chiunque abbia fatto una qualche traduzione, ed abbia riflettuto su questo fatto, sa che non esiste una traduzione Op. cit., p. 445. Op. cit., p. 444. 5 K.R. POPPER, La ricerca non ha fine, trad. it., Armando, Roma, 19973, p. 34. 3 4


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grammaticalmente corretta ed anche quasi letterale d’un qualsiasi testo interessante. Ogni buona traduzione è un’interpretazione del testo originale; ed io mi spingerei anche fino al punto di dire che ogni buona traduzione di un testo non banale deve essere una ricostruzione teoretica. Essa comprenderà quindi perfino un po’ di commento. Ogni buona traduzione deve essere, al tempo stesso, precisa e libera. Detto per inciso, è uno sbaglio pensare che nel tentativo di tradurre un brano di uno scritto puramente teoretico le considerazioni estetiche non siano importanti. Basti pensare ad una teoria come quella di Newton o di Einstein, per vedere che una traduzione che renda il contenuto di una teoria ma non riesca a evidenziare certe simmetrie interne può essere del tutto insoddisfacente; al punto che se uno facesse solo questa traduzione, ove scoprisse quelle simmetrie avrebbe esattamente l’impressione di aver recato egli stesso un contributo originale, di aver scoperto un teorema, anche se il teorema interessava principalmente per ragioni estetiche. (In modo alquanto simile, una traduzione in versi di Senofane, Parmenide, Empedocle, o Lucrezio, è preferibile, restando immutate le altre condizioni, a una versione in prosa). Ad ogni modo, ancorché una traduzione possa essere brutta perché non sufficientemente precisa, una traduzione precisa di un testo difficile semplicemente non esiste. E se le due lingue hanno una struttura differente, certe teorie possono essere quasi intraducibili (come ha dimostrato bene Benjamin Lee Whorf). Certamente, se le lingue sono fra loro strettamente connesse come, ad esempio, il greco e il latino, l’introduzione di poche parole coniate appositamente può essere sufficiente a rendere possibile una traduzione. Ma in altri casi è possibile che tutto un elaborato commentario prenda il posto della traduzione».6

3. Interpreti al lavoro sui banchi di scuola

Che ogni traduzione consista in un’interpretazione è un’idea che non trova ostacoli. Non sempre compresa, invece, è l’idea che il traduttore sia uno scienziato così come lo è un fisico. E scienziato al pari del fisico il traduttore lo è per la semplice ragione che l’uno e l’altro lavorano con il medesimo metodo. E, in effetti, che una traduzione sia l’esito di una serie di congetture e confutazioni è, se non altro, facilmente comprensibile solo che si ponga attenzione a che cosa accadeva allorché, negli anni del liceo, dovevamo fare una versione dal latino o dal greco. Ebbene, mentre il brano da tradurre ci veniva dettato, noi procedevamo con tentativi di abbozzi di traduzione di ciò che venivamo progressivamente scrivendo: questi tentativi mutavano magari via via che seguitavamo a scrivere. Una volta finita la dettatura, talvolta si 6

Op. cit., pp. 36-37.


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aveva già subito l’idea del senso del brano (descrizione di una battaglia, una ambasceria, un viaggio, una favola con intenti morali, un resoconto di qualche azione di qualche illustre personaggio, ecc.), e allora si cercava di far quadrare i pezzi del brano ancora non compresi (un avverbio, un aggettivo, un verbo, una intera espressione, o più espressioni) con il tutto (di senso) da noi proposto. E poteva capitare che i pezzi (o le parti) si inserissero rapidamente senza difficoltà in questo nostro tentativo di interpretazione. Ma poteva anche accadere che dei pezzi resistessero ai nostri tentativi di incasellamento: erano questi i momenti terribili del compito in classe, quando si aveva appunto la sensazione di stare sbagliando versione. E che il nostro primo abbozzo fosse non sempre giusto (anzi, che fosse spesso sbagliato) lo si vedeva quando la resistenza di qualche pezzo non inquadrabile nel nostro abbozzo di interpretazione si rafforzava legandosi ad altri pezzi magari ambigui (rispetto al nostro abbozzo) e ci costringeva ad abbandonare la nostra interpretazione. E così ricominciavano i nostri tentativi di congetture sul senso del testo da tradurre, di interpretazioni di ciò che il testo poteva dire, e le nostre prove (sulla bontà dell’interpretazione) attraverso l’inquadramento di tutti i pezzi del testo nella nostra congettura. Talvolta era lo stesso titolo della versione a darci una prima indicazione sul senso del testo. E il disagio era grande quando il professore ci dettava un testo senza titolo: il gioco ad indovinare che cosa dicesse il brano si faceva così più rischioso. Talvolta, poi, se il brano era fuori della nostra «memoria», se riguardava cioè eventi, fatti, personaggi o istituzioni non conosciuti o non studiati, allora si correva il pericolo di consegnare il foglio in bianco. Tutto questo per quanto riguarda l’interpretazione del brano, le nostre congetture sul contenuto del testo, e la retroazione delle parti del testo su questi nostri tentativi. E non ci vuol molto a vedere come ci troviamo con tutta chiarezza, ancora una volta, davanti al noto Zirkel des Werstehens, al circolo ermeneutico, che, come sappiamo, non differisce minimamente dal metodo per tentativi ed eliminazione degli errori. E che cosa è mai, infatti, una traduzione se non la trascrizione, per esempio, in italiano, di un nostro tentativo di comprendere un testo, per esempio, latino, o greco? Dunque: che cos’è una traduzione se non una congettura, per esempio, in italiano, su quel che dice e come lo dice7 un testo, per esempio, greco? Una congettura ovviamente controllata sulle singole parti del testo e sul contesto.8 E, pertanto, quale differenza c’è tra una traduzione e una interpretazione? O, meglio Cfr. E.A. NEDA, Bible Translating, in AA.VV., On Translation, New York, 1966, p. 19. L’interpretazione, cioè la congettura sul senso di un testo, vale a dire su ciò che un testo dice, sul contenuto del testo, va controllata sul testo e sul contesto per la ragione che un testo vive sempre in un contesto. E il contesto, da una prospettiva logico-epistemologica, è ogni informa7 8


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ancora, quale differenza c’è, dalla prospettiva del metodo, tra tradurre e interpretare? Quale differenza c’è, dalla prospettiva epistemologica, tra la soluzione dei problemi posti da una traduzione e la soluzione dei problemi che si pongono i fisici o i biologi? zione che può significativamente corroborare o smentire l’interpretazione proposta. Ma ecco come Georges Mounin chiarisce l’idea di contesto: «L’antica nozione di contesto è abbastanza chiara: esso è l’insieme degli indizi che nella totalità di un certo testo ne chiariscono una delle parti. Ma – egli prosegue – la nozione di contesto è divenuta figurata, ed è stato necessario compiere un inventario di tutti quei sensi figurati. Così, se il contesto di una pagina di romanzo è il romanzo stesso, esiste anche un contesto del romanzo, che è la totalità dell’opera del romanziere. Esiste altresì un contesto di quel romanziere, che è la totalità delle opere dei romanzieri suoi contemporanei; c’è poi un contesto di quel romanzo contemporaneo, che è l’insieme dei romanzi contemporanei di tutto il mondo, nella cui atmosfera culturale l’autore è inserito; e c’è anche l’insieme del romanzo attraverso i secoli, e della letteratura attraverso i secoli, almeno nella misura in cui tutto questo è trasfuso anche in una sola pagina di un solo autore, non foss’altro che per una allusione. Ma accanto a quel contesto propriamente linguistico che si dilata già in modo così smisurato, il contesto della nostra pagina di romanzo è anche, da un lato, il suo contesto geografico (cioè il luogo del romanzo), dall’altro il suo contesto storico (cioè il secolo, il mezzo secolo e persino il decennio); il quale contesto anche un altro ne include, quello sociale, e tutto un contesto culturale, quello cioè che Edmond Cary opponeva a Fedorov: “Il contesto linguistico forma solo la materia bruta dell’operazione (del tradurre): mentre quel che caratterizza veramente la traduzione è il contesto, ben più complesso, dei rapporti fra due culture, due mondi di pensiero e di sensibilità”. In breve il contesto, muovendo da un corpus di due o trecento parole si amplifica a cerchio fino al contenuto, nello spazio e nel tempo, di tutta una civiltà» (G. MOUNIN, Teoria e pratica della traduzione, trad. it., Einaudi, Torino, 1955, pp. 135-136). E volendo essere ancora più chiaro, Mounin si rivolge alla linguistica puntando sul concetto di messaggio e su quello di situazione. «Anzitutto – egli scrive – la nozione di messaggio, definito come “l’insieme di quei significati dell’enunciato che si fondano essenzialmente su una realtà extralinguistica” (geografica, storica, sociale, culturale); la quale nozione ha per corollario che “il messaggio, nella sua totalità, è più vasto della semplice somma dei segni (linguistici) che lo compongono”. E riservando la nozione di contesto a tutte le indicazioni fornite esplicitamente dal testo (scritto, letterario), la linguistica definisce situazione tutte le indicazioni geografiche, storiche, sociali, culturali non sempre incluse nell’enunciato linguistico, e che sono tuttavia necessarie per una traduzione completa e totale del messaggio contenuto in tale enunciato. È dunque priva di qualità una traduzione nella quale non sia rispettata al massimo la totale fedeltà prima di tutto al contesto, e poi alla situazione (quella situazione che, come si è appena visto, è sempre meglio studiare ed imparare direttamente sul posto). La linguistica ci ha dato anche l’analisi esatta di tutte le diverse “lingue” presenti in una stessa lingua; lingue non confuse tra loro e non sempre rivelate dalla situazione né dal contesto: la lingua volgare, gergale o popolare; la lingua comune, essa stessa familiare od elevata (lingua scritta), o letteraria o poetica; le lingue tecniche, i gerghi di mestiere, quelli professionali e le terminologie scientifiche. Alla linguistica dunque il merito di aver preso coscienza di tutti questi “registri” di una stessa lingua, onde ci riesce comprensibile perché non fosse mai soddisfacente tradurre Omero nella lingua di Racine, o Shakespeare in quella di Voltaire. E sempre dalla linguistica, e da sua figlia, la stilistica, impariamo che una traduzione letteraria manca di qualità anche qualora non si sia rispettata il più possibile la fedeltà a questi registri di lingua, così come si è fatto rispetto al testo, al contesto e alla situazione» (Op. cit., pp. 136-137). Ed è così, allora, che


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Tradurre vuol dire interpretare; interpretare vuol dire, innanzi tutto, avanzare una congettura di senso del testo («qui si tratta di questo o di quest’altro»); e la congettura va provata sul testo – e sul contesto. Ma è ovvio che il traduttore di un testo è un individuo che, in base al suo Vorveständnis, getta sul testo certi Vorurteile piuttosto che altri: questo per dire che storicamente il testo da tradurre retroagisce su Vorurteile almeno in parte diversi, e ciò spiega la diversità delle traduzioni e il perché un testo può venir costantemente ritradotto. Anche qui la distanza temporale non è un ostacolo sulla via di una migliore traduzione: più si capisce, col passar del tempo, della lingua usata dall’autore, più si sa di storia delle consuetudini, ecc., meglio possiamo tradurre. È così che capiamo quel che scrive Georges Mounin a proposito delle traduzione della Bibbia: «[...] Scorrere una dopo l’altra le traduzioni della Bibbia susseguitesi attraverso i secoli resta sempre un’esperienza stupefacente per un lettore profano in buona fede: leggiamo ad esempio le diverse versioni di uno stesso testo (il Cantico dei Cantici, ad esempio), che secoli di lettori hanno deciso di ammirare; l’impressione che se ne trae non condanna la traduzione, e forse anzi ci fa toccare con mano la sua validità, il suo continuo perfezionarsi da un’epoca all’altra: sotto i nostri occhi, infatti, a ciascuna di queste nuove traduzioni della Bibbia, vediamo letteralmente svilupparsi una civiltà sempre meno simile alla nostra, man mano che ci inoltriamo nei secoli; e ogni traduzione discende di uno o più strati verso l’originale così come uno scavo archeologico fa ricomparire un sito sepolto».9 Ecco perché il tradurre, come l’interpretare (e come la ricerca della verità), è un compito infinito. E, tra l’altro, vale per la traduzione quello che Gadamer ha scritto per l’interpretazione: «Il criterio per stabilire la correttezza delle interpretazioni è l’accordarsi dei particolari nel tutto. Se tale accordo manca l’interpretazione è fallita».10

4. Quando nei Licei scientifici l’unica attività di ricerca scientifica è stata la versione di latino

Le precedenti scarne considerazioni sulla teoria della traduzione sono sufficienti a far comprendere la portata formativa degli esercizi di traduzio«l’analisi linguistica ha [...] riportato al livello qualitativo quale lo si concepisce oggi la nozione tanto denigrata e schernita di fedeltà nella traduzione letteraria: poiché oggi tradurre significa non solo rispettare il senso strutturale, o linguistico, del testo (cioè il suo contenuto lessicale e sintattico), ma anche il senso globale del messaggio (con il suo ambiente, il secolo, la cultura e, se è necessario, la civiltà, magari completamente diversa, da cui essa proviene)» (Op. cit., p. 137). 9 G. MOUNIN, Teoria e pratica della traduzione, cit., p. 133. 10 H.-G. GADAMER, Intervista apparsa sul settimanale tedesco «Die Woche», 10 febbraio 1995.


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ne – e questo per l’evidente ragione che gli esercizi di traduzione costituiscono seri tentativi di soluzione di problemi. In breve: se tanto spesso la didattica delle scienze si risolve nel mandare a memoria formule e leggi in base alle quali eseguire poi esercizi; se tanto spesso la didattica delle letterature e della storia si risolve in sforzi di memoria con esclusione di ogni accenno di ricerca..., è allora facile constatare che, in situazioni del genere, le uniche attività di autentica ricerca restano, nei licei scientifici, le versioni di latino. Se è, insomma, valida la prospettiva unificata del metodo, ne consegue che è nelle versioni che lo studente affronta problemi proponendo congetture e mettendole alla prova. Ogni brano da tradurre pone un problema di fondo, quello di scoprire quale sia il senso del testo, e questa scoperta – quando riesce – è l’esito di congetture e confutazioni, di tentativi errati e di nuove interpretazioni da sottoporre a controllo. E sta esattamente qui la portata formativa degli esercizi di traduzione. La traduzione è un dialogo – a volte davvero difficile sino a raggiungere casi di impossibilità – tra l’autore di un testo, cioè il testo, e il traduttore – un’attività altamente formativa soprattutto in un’epoca dove, come ha sottolineato Gadamer, «la televisione significa la fine dell’esperienza del dialogo».11 E «il dialogo – per Gadamer - ha un suo spirito, e le parole che in esso si dicono portano in sé una loro verità, fanno “apparire” qualcosa che d’ora in poi “sarà”».12 Le domande che il traduttore pone al testo ricevono risposte dal testo e dal contesto e il dialogo ha un buon esito, finisce bene – anche se potrà venir ripreso subito dopo –, se da esso è progressivamente emersa l’alterità del testo, se cioè il traduttore sarà riuscito (anche se in maniera non ultimativa) a far parlare il testo, a fargli esporre il suo messaggio – se, insomma, lo avrà costretto a non nascondersi o a non camuffarsi fra le righe di una pagina. Ed ecco, allora, la conclusione di quanto finora detto: più versioni di greco e di latino quali momenti formativi di una mente critica – e momenti formativi perché autentico allenamento alla soluzione di problemi e, di conseguenza, autentica attività di ricerca. E questa è una, soltanto una, delle ragioni per cui il rapporto della scuola con il mondo classico costituisce un baluardo nella formazione di un cittadino dalla mente vigile.

5. Il professore di latino nel ricordo di Czeslaw Milosz

Ne La mia Europa lo scrittore lituano Czeslaw Milosz, premio Nobel per la letteratura 1980, ricordando i suoi anni di ginnasio trascorsi in una scuola cattolica, ha ancora davanti agli occhi il professore di geografia, dai ragaz11

12

H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 341. Op. cit., p. 441.


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zi soprannominato il “Gorilla”: «[...], non si sa perché impersonava per noi il passato, e in effetti doveva aver già insegnato nel ginnasio zarista. Era un omone gigantesco, dal muso nero, con i baffi neri, portava pantaloni a righe e giacca nera. Si stravaccava sulla sua sedia e sbadigliava in modo pauroso, facendo vedere un palato che ci sembrava nero, nei cani segno d’un cattivo carattere, il che trovava conferma nel suo caso. La sua noia si comunicava subito a tutti e si scatenava il pandemonio. Lui, troppo indolente per adoperare le parole, puntava il dito verso i banchi, tracciando uno svogliato semicerchio. L’allievo indicato anelava a mettersi nell’angolo, in castigo. Verso la fine della lezione i banchi erano quasi spopolati».13 In ogni caso, sia il “Gorilla” come l’insegnante di storia, il vecchio Kalaszenski, che si distingueva per il forte accento bielorusso, erano figure di second’ordine in quello che per i giovani studenti era l’Olimpo dei professori. In primo piano, sulla scena di questo Olimpo, c’erano il professore di religione e il professore di latino. Più tardi, quando all’Università Milosz lesse La montagna incantata di Thomas Mann, venne folgorato dalla percezione che si trattasse quasi di un libro scritto su questi due insegnanti: il professore di religione immagine vivente del gesuita Naphta e il professore di latino immagine dell’umanista Settembrini. Chomik (il “Criceto”), così i ragazzi chiamavano il professore insegnante di religione, distorcendo il suo vero nome. «Il suo corpo modesto – annota Milosz – era mosso da un’anima accanita e fanatica. Ne testimoniavano rughe dolorose intorno alla bocca, il duro sguardo celeste se si sollevavano le palpebre, il rosso scuro di una furia repressiva. Era un inquisitore per vocazione [...] Obbligandoci a partecipare alle funzioni, Chomik certamente non avrà avuto molte illusioni. Ma non le avevano nemmeno i suoi predecessori quando convertivano con la spada gli eretici. La sua posizione gli consentiva di realizzare pienamente la propria volontà. Questa posizione non era molto diversa da quella raggiunta anni più tardi nelle scuole dell’Europa orientale e centrale dall’insegnante di marxismo-leninismo».14 Ebbene, Adolf Rozek, l’insegnante di latino, era una figura all’opposto di quella di Chomik. Lo era già «per la sua elegante e delicata ironia, oltre la quale non andava mai nella lotta contro il sacerdote, trattato peraltro con cortesia. Il suo viso sempre ben rasato aveva qualcosa di una scultura romana. Forse ciò era dovuto alla sua passione per i princìpi della misura classica. Vestiva in modo impeccabile, talvolta con un fiore rosso all’occhiello; in effetti avrebbe dovuto portare la toga».15 Il professor Rozek – prosegue C. MILOSZ, La mia Europa, trad. it., Adelphi, milano, 1985; rist. 2005, pp. 90-91. Op. cit., pp. 91-93. 15 Op. cit., p. 94. 13 14


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Milosz – «ci dominava con facilità non alzando quasi mai il tono della voce, con la sua sola serietà leggermente caustica. Figlio di proletari della Galizia, apparteneva probabilmente a quell’ultima generazione di allievi della monarchia austro-ungarica, i quali a partire dai primi anni di scuola assorbivano grandi porzioni di latino, di greco e di commenti di autori antichi».16 Nelle sue lezioni di latino – e qui siamo al punto più interessante per noi – il professor Rozek, ricorda Milosz, «non si preoccupava soltanto del vocabolario e della grammatica. Quando abbandonammo Giulio Cesare e Cicerone, ossia la ginnastica delle proposizioni incidentali, e ci mettemmo a lavorare su Ovidio e Orazio, le sue lezioni si trasformarono nella scienza rinascimentale dell’arte del ben comporre le frasi».17 Ed ecco come si procedeva: «Dapprima si leggeva il testo, e se l’allievo scandiva male l’esametro oppure la strofa alcaica, l’insegnante emetteva sibili acuti come se fosse stato punto da uno spillo. Il vero lavoro iniziava dopo l’analisi grammaticale. Allora si cercavano insieme le parole dalla sfumatura più vicina all’originale. “Sì,” diceva corrugando le sopracciglia “già non è male, ma ancora rozzo. Chi propone qualcosa di meglio?”».18 La sintassi polacca – fa presente Milosz – lascia una notevole libertà nell’ordine della frase e Rozek «aveva cura di fermarsi al limite oltre il quale si cade nell’artificiosità, seppure talvolta si lasciasse trasportare, come in passato molti scrittori polacchi, dalla sintassi latina. “Giallo miele stillava...” – stavamo già arrivando al risultato traducendo la descrizione ovidiana dell’eterna primavera. Ci fermava con un gesto della mano. Ricominciavamo a vagare tra soggetto, complemento e verbo, per poter leggere finalmente, dopo molti tentativi, la conquista collettiva: “E giallo dalla verde quercia stillava il miele”».19 Spesso – dice Milosz – un solo verso come questo occupava un’intera lezione, talché nel corso di un intero anno si studiavano poche pagine di poesia. Tuttavia, pur essendo esiguo il materiale trattato, enorme – confessa Milosz – fu l’influsso esercitato sulla sua propria formazione da simili lavori di interpretazione: «benché allora non lo sospettassi affatto, il tempo loro consacrato doveva servirmi molto di più delle intere giornate spese a immagazzinare tonnellate delle nozioni più svariate, e in seguito inutili. E non si tratta in definitiva della nostalgia per l’Età dell’Oro o per il castello del Sole, che si ergeva su lucenti colonne, né di Fetonte che cade dal carro celeste, né della cima nevosa del monte Soratte o dei pastori delle Bucoliche. E Ibidem. Op. cit., pp. 94-95. 18 Op. cit., p. 95. 19 Ibidem. 16 17


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nemmeno di frammenti di versi che riappariranno ossessivamente più tardi in vari frangenti della vita, [...] La cosa più importante era la capacità acquisita una volta per tutte di concentrare l’attenzione non soltanto sul significato, ma sull’arte delle connessioni, la certezza che quanto si dice cambia a seconda di come lo si dice. L’ostinazione di Rozek mostrava che vale la pena di tendere alla perfezione e che essa non si misura con l’orologio, ossia induceva al rispetto per la letteratura in quanto frutto di un lavoro faticoso».20 Op. cit., pp. 95-96. A questo punto è di grande interesse far notare come Giovanni Vailati avesse già ai suoi tempi chiaramente individuato i pericoli insiti nell’“antagonismo” e nell’“incompatibilità” delle due culture – quella scientifica e quella umanistica. E contro la proposta avanzata in quegli anni da L. De Vincolis nel suo libro La riforma della Scuola Classica davanti alla scienza e alla civiltà (tip. Garramone e Marchesiello, Potenza, 1899), proposta consistente nel prospettare due tipi di liceo, l’uno prevalentemente scientifico e l’altro prevalentemente letterario, Vailati scriveva: «Ci sembra al contrario che lo scindere l’una dall’altra la cultura scientifica e quella estetica o letteraria, lungi dal favorire lo sviluppo di ambedue, tenda al loro comune degradamento, e comprometta quell’armonico sviluppo delle facoltà mentali che deve essere il primo obiettivo d’una educazione liberale veramente degna di questo nome» (G. VAILATI, Recensione a L. De Vincolis, La riforma della Scuola Classica davanti alla scienza e alla civiltà, in «Rivista italiana di sociologia», 2, marzo 1900; rist. in G. VAILATI, Scritti, vol. 3, cit., p. 297). E nella Recensione del libro La riforma della scuola di Giovanni Fraccaroli – recensione già richiamata nel capitolo precedente – Vailati, contro i difensori dell’eccellenza dello studio delle scienze naturali – a motivo del benefico effetto da tale studio esercitato «sullo sviluppo delle attitudini a ben osservare, a ben descrivere, e a ben classificare e coordinare» – sottolinea che giustamente il Fraccaroli mette in luce «come anche lo studio dei fatti linguistici e grammaticali, tanto nelle lingue antiche che moderne, può offrire, per l’esercizio e l’educazione appunto di tali attitudini, un campo non meno vasto e non meno degno di essere utilizzato» (G. VAILATI, Recensione de La riforma della scuola di Giovanni Fraccaroli, in G. VAILATI, Scritti, vol. 3, cit., p. 285). Di conseguenza, «il porre in contrasto lo studio delle scienze naturali e quello delle lingue, se può trovare qualche giustificazione nei metodi deplorevolmente antiquati che prevalgono nell’insegnamento di queste ultime, equivale ad ignorare il fatto che gli studi linguistici hanno assunto, già da più di un secolo, il carattere di una scienza non meno “naturale” di quanto lo siano la botanica o la biologia» (Ibidem). E a quest’ordine di idee si riallacciano i commenti di Vailati alle considerazioni del Fraccaroli sulla funzione dell’insegnamento del latino. Difatti, scrive Vailati, contributi notevoli potrebbero venir apportati alla conoscenza della nostra lingua «da una maggior cura che gli insegnanti di lingue classiche dedicassero a porre in rilievo quanta parte di esse – e soprattutto del latino – sopravvive in qualsiasi lingua colta moderna» (Ibidem). In realtà, afferma Vailati, «è ben strano che, mentre si vanno sempre più riconoscendo, anche per la scienza, i vantaggi d’un insegnamento presentato sotto forma storica e tale da dare un’idea delle fasi di svolgimento, attraverso le quali esse sono giunte allo stato attuale, è strano, dico, che i difensori del latino non insistano con maggior energia sul fatto che lo studio di esso è in fondo lo studio della storia e delle origini della lingua che parliamo ancora oggi, e che solo per mezzo di esso possiamo formarci un concetto concreto delle vicende e dell’evoluzione, sia nella forma che nel significato, che hanno subito le parole e le espressioni che costituiscono la parte più vitale e permanente dei nostro patrimonio linguistico» (Op. cit., pp. 285-286). Si tratta, insomma, di studiare quella che si potrebbe chiamare «la vita intima delle lingue, la ricerca, cioè, 20


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6. L’antica – umile e formativa – pratica scolastica del “riassunto”

Interpretare e tradurre non sono un lusso, non sono un “vizio” di una scuola distratta dalla vita: interpretare e tradurre equivale a risolvere scientificamente problemi: scientificamente, proprio come in fisica o in biologia. Significa abituarsi a capire, a capire l’altro, gli altri, le ragioni degli altri. Significa imparare a porre nel contesto, a situare al posto giusto, prodotti linguistici, “testi”, che altrimenti non avrebbero senso o ne avrebbero uno sbagliato e non adeguato. Interpretare e tradurre vuol dire «dare» senso, dar senso a cose che, magari a prima vista, sono nonsensi. Ecco perché interpretare e tradurre sono esercizio dell’intelligenza, esercizio all’intelligenza. Ben pochi saranno coloro che non scorgono il senso e il valore dell’interpretare e del tradurre. Ma forse più d’uno sono coloro che, per esempio, non riescono a vedere il senso e l’importanza di quella vecchia pratica scolastica che è il fare il riassunto di un brano. Ma: riassumere è cogliere il nocciolo di un discorso, è interpretare. È esercizio a capire. E, di conseguenza, fare riassunti significa far pratica ermeneutica. Gli alunni riassumono il brano; e, fatto questo, diventa interessante confrontare questi riassunti. È interessante, giacché si vedrà che, in genere, ogni riassunto è spesso diverso, sotto qualche aspetto, dall’altro. C’è chi coglie come fondamentale un motivo, e chi ne coglie un altro; c’è chi insiste magari su aspetti non fondamentali, e chi ordina gli aspetti fondamentali in modo diverso. Il confronto tra i vari riassunti si trasforma allora in proficua discussione su quale sia la più adeguata interpredelle cause e dei motivi che determinarono i successivi adattamenti di queste alla loro funzione di mezzi di espressione e di comunicazione dei sentimenti, dei pensieri, delle cognizioni, delle credenze, dei gusti, delle abitudini della gente che le ha parlate e le parla» (G. VAILATI, La Psicologia di un Dizionario, in «Rivista di psicologia applicata», IV, I, gennaio-febbraio 1908; rist. in G. VAILATI, Scritti, vol. 3, cit., p. 327).Un insegnamento del latino, che dia maggiore importanza agli esercizi di interpretazione delle opere dei classici, è ben visto dal Vailati. Ma, egli aggiunge, un tale insegnamento, per quanto riguarda le scuole secondarie italiane, «rappresenta una opportunità unica, e della quale avremmo gran torto di non trarre tutto il possibile partito, per prendere conoscenza del significato originario delle parole e delle frasi che usiamo ogni giorno, per renderci ragione dei significati, apparentemente disparati, assunti dalla nostra lingua da uno stesso vocabolo, per acquistare coscienza dei legami che tra tali diversi significati intercedono, per riconoscere le parentele tra le parole la cui affinità ci è nascosta dalle trasformazioni subite da esse e dai loro significati o si è resa difficile da rintracciare per la scomparsa delle forme intermedie. Né è da trascurare l’efficacia che tale studio può avere per coltivare e raffinare quello speciale senso delle sfumature da cui dipende la preziosa attitudine a ben scegliere in ciascun caso i termini e le locuzioni che nella nostra lingua sono meglio adatte ed appropriate per esprimere in modo preciso e vivace il nostro pensiero, senza deformarlo o tradirlo inconsciamente, come tanto spesso avviene a chi delle locuzioni o frasi che adopera non conosce che i significati più correnti o volgari» (Op. cit., pp. 328-329).


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tazione del brano. Come mai un alunno ha messo in evidenza un aspetto e un altro alunno ha, invece, sottolineato un diverso aspetto, e un altro non ha addirittura capito il senso del testo? È qui che vengono a galla i «pre-giudizi» degli interpreti, cioè degli alunni che han fatto il riassunto. Indubbiamente, la comparazione dei riassunti e la discussione su di essi va fatta nei dovuti modi, con le dovute cautele, a seconda del livello scolastico, a seconda della maturità degli alunni, della loro «memoria» culturale, della difficoltà del brano. E tuttavia nessuno potrà negare il «senso» e l’«importanza», per l’educazione all’intelligenza, di quella vecchia – umile ed insieme decisamente formativa – pratica scolastica che è il riassunto. Una pratica che trova una illuminante giustificazione all’interno della teoria ermeneutica.


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2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione. Presentazione di J. JOHNSTON, pp. 1194.

3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana. Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI, pp. 480.

4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio. Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO, pp. 862.

5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali, Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO. Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA, pp. 470.

6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA. Introduzione di R. L. GUIDI, pp. 560. CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net


Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 349-354

LA FUNZIONE ISPETTIVA E LA PROMOZIONE DEGLI INSEGNANTI

DI RAIMONDO MURANO (già Direttore Generale per l’Istruzione e la Formazione tecnica superiore e per i rapporti con i sistemi formativi delle Regioni)

SOMMARIO: 1. Qual è l’importanza della figura ispettiva? - 2. La funzione ispettiva svolta dai Dirigenti Tecnici della scuola. - 3. Rimando normativo. - 4. La relazione ispettiva. - 5. PCM recante “Regolamento concernente l’organizzazione del MIUR ai sensi dell’art. 2 della legge 135/2012”. - 6. Conclusioni.

1. Qual è l’importanza della figura ispettiva?

A) Innanzitutto dobbiamo ricordare che la valutazione riguarda e continuerà a riguardare ogni aspetto della scuola e dei risultati ottenuto dai suoi operatori. Una scuola di qualità non può fare a meno della valutazione e questa non può fare a meno degli Ispettori per gli aspetti che di seguito esamineremo. Pertanto, ogni docente deve necessariamente farsi soggetto consapevole di tale esigenza, peraltro richiestaci dalla Comunità Europea, e posizionarsi nei confronti della valutazione in modo collaborativo non considerandola materia e procedura esterna o peggio estranea alle attività scolastiche. Ciò nell’ottica, oramai largamente condivisa, della rendicontabilità a cui nessun settore e organo della Pubblica Amministrazione può e deve sottrarsi.

B) Un secondo fattore di importanza che riveste la figura ispettiva è individuabile nella sua possibilità, assieme al superamento del concorso a Dirigente scolastico, di assicurare alla docenza una progressione reale di carriera all’interno della scuola, anche se il sistema italiano è quello che meno incoraggia la mobilità ascendente della docenza.

2. La funzione ispettiva svolta dai Dirigenti Tecnici della scuola

Per evitare, come sosteneva il compianto Mauro Laeng, che nulla sia più lontano dalla scuola italiana che la cultura della valutazione, occorre conoscere in che cosa si sostanzi la funzione ispettiva che rappresenta la parte altamente professionale della valutazione, nonché “terza gamba” del Siste-


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Raimondo Murano

ma Nazionale di Valutazione assieme all’INVALSI e all’amministrazione attiva del “sistema-scuola”. Occorre, quindi, conoscere in cosa si estrinseca l’azione del personale ispettivo, ovvero dei Dirigenti Tecnici di seconda fascia, già con qualifica dirigenziale ai sensi dell’art. 12 del DPR 30 giugno 1972, 748. A tal fine possono bastare le seguenti osservazioni:

a) L’attività ispettiva viene identificata con l’azione del in-spicere, ovvero del “guardare dentro” per acquisire elementi di conoscenza a rilevanza giuridica concretizzandosi in una serie procedimentalizzata di atti attraverso i quali si esercita una potestà autoritativa incidente sulla sfera giuridica di altri soggetti.

b) Con “l’acquisizione di scienza” il personale ispettivo esercita, infatti, l’attività conoscitiva attraverso la verifica, l’accertamento, l’istruttoria, l’accesso, l’inchiesta. Attività queste proprie delle azioni ispettive disposte da soggetti pubblici che espletano funzioni amministrative.

Elemento centrale dell’azione amministrativa è la procedimentalizzazione dell’agire della pubblica amministrazione il cui centro nevralgico è costituito dalla “fase istruttoria del procedimento” in cui gli elementi di fatto e di diritto vengono acquisiti e valutati divenendo vero e proprio sub-procedimento istruttorio di accertamento e di controllo.

3. Rimando normativo

La scarna elaborazione dottrinale che regola la funzione ispettiva dalla sua ideazione viene colmata nell’azione amministrativa condotta dal personale ispettivo tecnico dall’art. 6,lettera b), della legge 7 agosto 1990, 241. Con essa viene colmato il precedente vuoto, soltanto affrontato dall’art. 4 del DPR 417/74 che recita: “La funzione ispettiva concorre, secondo le direttive del Ministro per la pubblica istruzione, e nel quadro delle norme generali sull’istruzione, alla realizzazione delle finalità di istruzione e di formazione, affidate alle istituzioni scolastiche ed educative. Essa è esercitata da ispettori tecnici centrali e periferici (…). Gli ispettori tecnici contribuiscono a promuovere e coordinare le attività di aggiornamento del personale direttivo e docente delle scuole di ogni ordine e grado; formulano proposte e pareri in merito ai programmi di insegnamento e di esame e al loro adeguamento, all’impiego dei sussidi didattici e delle tecnologie di apprendimento, nonché alle iniziative di sperimentazione di cui curano il coordinamento: possono essere sentiti dai consigli scolastici provinciali in relazione alla loro funzione; svolgono attività di assistenza tecnico-didattica a favore delle istituzioni scolastiche ed attendono alle ispezioni disposte dal Ministro per la pubblica istruzione o dal provveditore agli studi. Gli ispettori tecnici svolgono altresì attività di studio, di ricerca e di consulenza tecnica per il Ministro, i direttori generali, i capi dei servizi centrali, i Soprintendenti scolastici e i Provveditori agli studi. Al termine di ogni


La funzione ispettiva e la promozione degli insegnanti

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anno scolastico il corpo ispettivo redige una relazione sull’andamento generale dell’attività scolastica e dei servizi.”

La richiamata legge 241/90 definisce l’ispezione come atto interno dell’Amministrazione, disposto nei confronti dei soggetti appartenenti alla propria struttura, con finalità acquisitive e di controllo autoritativo per:

1) L’azione di orientamento nei confronti dell’ispezionato e della stessa amministrazione attiva, esercitando una finalità di consulenza dell’azione ispettiva. Tale logica, propria della teoria dell’ottimizzazione del risultato, deve necessariamente convivere con il rispetto della legittimità procedurale.

2) La verifica della regolarità – legalità – legittimità formale dell’azione amministrativa (anche per l’individuazione di eventuali fatti illeciti sui quali grava l’obbligo della denuncia alla magistratura contabile e penale). La verifica di comportamenti “patologici” nell’azione di pubblici dipendenti è tesa alla eliminazione di comportamenti illegittimi, di diseconomie gestionali per il perseguimento del principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 della Costituzione).

Con la citata legge 241/90, che attribuisce al responsabile del procedimento poteri ispettivi nel corso dell’istruttoria assegnatagli, vengono definite le tipologie di ispezione (ordinarie e straordinarie; interne ed esterne; generali e settoriali; e secondo l’oggetto: amministrative, contabili e tecniche).

Comunque, si è soliti classificare le ispezioni in istruttorie - di vigilanza – di controllo.

a) In sostanza, l’attività ispettiva, ai sensi del richiamato art. 6 della citata legge 241, è tesa essenzialmente alla verifica della regolarità, legalità, legittimità formale dell’azione amministrativa. La più recente evoluzione dottrinale della materia ha posto in rilievo il valore della procedimentalizzazione dell’agire della Pubblica Amministrazione. Ogni docente deve sapere che l’Amministrazione caratterizza l’azione ispettiva -come suo momento centrale - non più il provvedimento conclusivo, ma la fase istruttoria in cui gli elementi di fatto e di diritto vengono acquisiti e valutati, anche con il coinvolgimento istruttorio dell’ispezionato, a partire dalla comunicazione di avvio di procedimento ispettivo, consentendo allo stesso soggetto dell’ispezione d’apportare ogni utile supporto collaborativo, attraverso audizioni, memorie scritte, documenti a tutela del principio del contraddittorio procedimentale. b) L’ispezione, che possiamo definire “complesso di operazioni materiali e non solo atto amministrativo” deve avere una motivazione esplicita e deve contenere il nominativo del responsabile del procedimento, con l’obbligo di comunicare il termine e l’autorità dove ricorrere, indicando altresì l’obbligo


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PROPOSTE

Raimondo Murano

di conclusione del procedimento ispettivo nei termini prescritti. La lettera di incarico, che deve contenere l’oggetto dello stesso necessariamente delimitato, costituisce l’atto di nomina del responsabile e l’avvio dell’istruttoria a cui l’adozione del provvedimento finale dovrà richiamarsi. La legge 241 è, quindi, il rimando normativo basilare per qualsiasi dirigente preposto a compiti di controllo ispettivo. Altro rimando essenziale per la definizione del profilo di Dirigente Tecnico è costituito dal D.Lgs. 165/2001. Questo, all’art. 17, recita: Funzioni dei dirigenti1

“1. I dirigenti, nell’ambito di quanto stabilito dall’articolo 4, esercitano, fra gli altri, i seguenti compiti e poteri: a) formulano proposte ed esprimono pareri ai dirigenti degli uffici dirigenziali generali; b) curano l’attuazione dei progetti e delle gestioni ad essi assegnati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, adottando i relativi atti e provvedimenti amministrativi ed esercitando i poteri di spesa e di acquisizione delle entrate; c) svolgono tutti gli altri compiti ad essi delegati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali; d) dirigono, coordinano e controllano l’attività degli uffici che da essi dipendono e dei responsabili dei procedimenti amministrativi, anche con poteri sostitutivi in caso di inerzia; d-bis) concorrono all’individuazione delle risorse e dei profili professionali necessari allo svolgimento dei compiti dell’ufficio cui sono preposti anche al fine dell’elaborazione del documento di programmazione triennale del fabbisogno di personale di cui all’articolo 6, comma 4; e) provvedono alla gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai propri uffici, anche ai sensi di quanto previsto all’articolo 16, comma 1, lettera l-bis; e-bis) effettuano la valutazione del personale assegnato ai propri uffici, nel rispetto del principio del merito, ai fini della progressione economica e tra le aree, nonché della corresponsione di indennità e premi incentivanti”.

4. La relazione ispettiva

È bene sempre sapere che ogni procedimento ispettivo deve concludersi con una relazione di ispezione scritta con cui il Dirigente tecnico per i serviArt. 17 del D.Lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 10 del D.Lgs. n. 546 del 1993 e poi dall’art. 12 del D.Lgs. n. 80 del 1998. 1


La funzione ispettiva e la promozione degli insegnanti

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zi ispettivi esterna al titolare dell’ufficio dell’Amministrazione attiva eventuali proposte risolutive di quanto ispezionato. Con la relazione si attesta l’esistenza, o meno, di un dato verificato e si forniscono rimedi a fronte di disfunzioni riscontrate. Dette proposte, con cui si conclude ogni relazione ispettiva, non assumono alcun valore vincolante per l’Amministrazione attiva in quanto le relazioni sono e restano atti interni d’ufficio e non possono essere diversamente considerate che momenti della fase acquisitiva dell’amministrazione. È opportuno precisare che la relazione ispettiva non può avere natura di provvedimento amministrativo, in quanto è, e resta, priva di autoritatività in quanto atto interno dell’Amministrazione, il cui contenuto può essere, ai sensi del DPR 513/97 anche informatico, contenendo: 1) estremi della lettera di incarico; 2) data di inizio della visita; 3) durata degli accertamenti; 4) adempimenti istruttori effettuati; 5) risultanze a cui si è pervenuti e parere formulato

Tali elementi scandiscono anche le relazioni redatte dal Collegio ispettivo, che non è un collegio perfetto, che si rende necessario solo in circostanze determinate dall’Amministrazione che richiede, comunque, ai componenti dello stesso che le conclusioni dell’ispezione siano adottate collegialmente e sottoscritte all’ unanimità. È bene evidenziare che l’Amministrazione attiva non è obbligata a provvedere sulla base delle risultanze della relazione ispettiva avendo la stessa Amministrazione piena facoltà di disattendere la conclusione delle indagini o di rimanere, rispetto alle stesse, inerte.

5. PCM recante “Regolamento concernente l’organizzazione del MIUR ai sensi dell’art. 2 della legge 135/2012”

I Dirigenti tecnici per il servizio ispettivo, tutti ricoprenti il ruolo dirigenziale e il profilo di pubblico ufficiale, vengono dalla Tabella A) prevista dal DPCM in oggetto conteggiati in appena 191 unità su un totale complessivo di 440 figure dirigenziali. Gli ispettori inglesi, va ricordato, sono circa 12 mila e quelli francesi raggiungono le 5 mila unità. Il “corpo ispettivo, composto dai dirigenti che svolgono la funzione ispettiva tecnica, è collocato, a livello di amministrazione centrale, in posizione di dipendenza funzionale dal Capo del Dipartimento per l’istruzione e, a livello periferico, in posizione di dipendenza funzionale dai Dirigenti preposti agli Uffici scolastici interregionali e regionali. Le modalità di eser-


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PROPOSTE

Raimondo Murano

cizio della funzione ispettiva tecnica sono determinate con apposito atto di indirizzo del Ministro”.

6. Conclusioni

Il Corpo ispettivo, composto da dirigenti di seconda fascia con funzioni ispettive, rappresenta un supporto costante dell’azione amministrativa per concorrere al miglioramento delle prestazioni amministrative, fornendo alla dirigenza di prima fascia (Direttori Generali) elementi utili per valutare e correggere le scelte gestionali, stimolando oneri di riesame e intervento da parte delle pubbliche amministrazioni. In sostanza, dal 1974 al 2012 l’attività di esclusivo controllo, precedentemente caratterizzante la funzione ispettiva, è divenuta attività di cooperazione, ausilio, correzione ed affinamento della gestione dei soggetti appartenenti alla Pubblica Amministrazione. Anche il controllo si inserisce sempre più nel processo dell’azione amministrativa al fine di correggerne le disarmonie e spingerla al miglioramento. Ciò non solo perché non è più bastevole il mero controllo della regolarità amministrativa, ma anche perché appare prioritario nell’esercizio e nel ruolo della funzione ispettiva la ricerca della razionale organizzazione dei servizi, dell’adeguata utilizzazione del personale, del buon andamento generale degli uffici, e della economicità/rese dei servizi. Attività di consulenza e orientamento, capacità di formulazione di proposte, ricerca di forme di costante collaborazione ed autocorrezione hanno evoluto l’attività ispettiva verso forme di controllo collaborativo in quanto l’ispezionato – e questo ogni docente come ogni dirigente scolastico non deve dimenticarlo – non è un “inquisito”, ma un soggetto coinvolto dal procedimento di controllo, che collabora con l’ispettore all’oggettivo, imparziale ed esaustivo accertamento dei fatti utili per l’Amministrazione, per il pubblico bene e servizio resi alla comunità al fine di qualificare il servizio formativo e scolastico offerto all’utenza, sia attraverso l’intervento statale, sia attraverso le scuole paritarie che svolgono un insostituibile compito di “surroga” di quanto lo Stato non è in grado di erogare.


Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 355-361

LA TEORIA DELL’EVOLUZIONE E SUE IMPLICAZIONI PEDAGOGICO-DIDATTICHE

DI MARINA PESCARMONA Docente di scienze naturali presso il Liceo Classico dell’Istituto paritario Collegio “San Giuseppe” - Istituto “de Merode” (Roma)

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il paradigma darwiniano. - 3. Il neodarwinismo. - 4. Riflessioni e didattica della teoria.

L’

1. Premessa

evoluzione degli esseri viventi è oggi considerata dalla stragrande maggioranza degli scienziati sia un fatto che una teoria, laddove per teoria la comunità scientifica intende una spiegazione corroborata da un insieme di riscontri empirici, osservazioni, ipotesi verificate. Fatto e teoria non sono dunque due termini antitetici: il fatto è relativo all’esistenza del processo evolutivo, mentre la teoria ne inquadra i meccanismi. Il termine “evoluzione” nel linguaggio comune assume spesso l’accezione di progresso, una marcia verso qualcosa di più progredito, di migliore, partendo da qualcosa di più semplice e peggiore. Non è andata così, o almeno non sempre così, nel caso dell’evoluzione biologica, dove con questo termine viene indicato un processo di cambiamenti ereditari che nel tempo possono produrre differenze significative tra popolazioni di organismi viventi. La diversità biologica attuale deriva da “storie” diverse, storie che si possono raffigurare in un albero pieno di rami e rametti molti dei quali popolati da forme di vita estinte. L’albero della vita non ha la forma di un abete rovesciato che indicherebbe diversità crescente nel tempo, e magari una diversità letta dal semplice verso il complesso. L’albero si ramifica con forme non prevedibili, rami che muoiono e rami che proliferano si alternano continuamente. Risalire l’albero dalla base alle chiome più alte significa partire dal passato - dalle radici della vita - fino ad oggi. C’è anche un percorso arboreo, caratterizzato da una crescente complessità e specializzazione dei caratteri, che porta all’uomo. Ma questo è solo uno dei percorsi possibili.

2. Il paradigma darwiniano

Anche Charles Darwin (1809-1882), che dell’evoluzionismo è stato indubbiamente il protagonista, ha distinto chiaramente l’evoluzione come


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Marina Pescarmona

fatto indubitabile, dalla teoria, sempre perfettibile, che si adopera nella spiegazione dei suoi meccanismi. L’importanza di Darwin non è relativa soltanto alle sue scoperte ma anche all’impatto che esse hanno prodotto nella storia del pensiero, dalla metà dell’Ottocento ai giorni nostri. Insieme ad Alfred Wallace (1823-1913), egli ha identificato nella selezione naturale il principale motore dell’evoluzione.1 Già prima della pubblicazione de L’Origine delle Specie erano state proposte visioni che mettevano in discussione la fissità delle specie suggerita da un’interpretazione letterale della Genesi biblica. Il più famoso evoluzionista che ha preceduto Darwin è senz’altro Jean-Baptiste de Monet cavaliere di Lamarck (1744-1829) meglio noto come Lamarck. Nei manuali di biologia per liceo questo grande naturalista è indicato come contraltare fallace di Darwin e ricordato esclusivamente per la sua spiegazione, erronea, dell’allungamento nel tempo del collo delle giraffe. Gli scienziati “minori” sono spesso maltrattati dalla sintesi spietata dei manuali, ma l’insegnante dovrebbe rendere giustizia a tutti quelli che, pur non arrivando a cogliere l’aspetto risolutivo di un problema, hanno ispirato i grandi scopritori. La teoria della selezione naturale si è sviluppata partendo dall’osservazione che gli esseri viventi, anche quelli della stessa specie, hanno delle diversità morfologiche, fisiologiche o comportamentali, ovvero una variabilità di base di cui né Darwin né Wallace conoscevano le cause. In una nazione, come in una regione, città o famiglia, possiamo riscontrare numerose differenze anatomico-funzionali tra gli individui. In questa pluralità di caratteri, alcuni sono più congeniali all’ambiente, al punto da poter dare, a chi li possiede, maggiore chance di sopravvivenza e prole più numerosa.2 E’ importante sottolineare che tale vantaggio è strettamente legato all’ambiente in cui si vive: se questo dovesse variare – cosa tutt’altro che infrequente – i suddetti vantaggi potrebbero non essere più tali. Immaginiamo che l’ambiente sia un campo di basket e che i giocatori, reclutati in modo casuale, abbiano altezza diversa. Se per sopravvivere è necessario fare canestro e così guadagnare un anno di vita per ogni centro: Per un approfondimento sul rapporto tra Darwin e Wallace e la proposta della selezione naturale, cfr. CHARLES DARWIN, Autobiografia, a cura di Nora Barrow, Einaudi, Torino 2006 p. 103. 2 Nel formulare la teoria della selezione naturale Darwin prese ispirazione dalla lettura del Saggio sul principio della popolazione scritto nel 1838 dall’economista inglese Thomas Malthus (1766-1834). In questo saggio l’autore sostiene che nelle popolazioni umane, la crescita demografica avverrebbe più rapidamente di quella dei mezzi di sostentamento a disposizione. Si renderebbe, dunque, necessario un controllo delle nascite per evitare la perdita degli elementi più deboli della popolazione. Anche Alfred Wallace era a conoscenza della teoria malthusiana e ne venne influenzato per la formulazione della sua teoria. 1


La teoria dell’evoluzione e sue implicazioni pedagogico-didattiche

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chi farà più canestri? Gli individui più alti naturalmente, i quali si troverebbero ad avere una vita più lunga e, quindi, ad avere più figli. L’altezza media, in quanto vantaggiosa, generazione dopo generazione aumenterebbe. Alcuni giocatori bassi, i più agili e veloci, nel ruolo di playmaker, continuerebbero comunque a far parte della squadra e a segnare punti, almeno quanto basta per sopravvivere. Immaginiamo poi che cambino le regole del gioco: i canestri si abbassano a un metro di altezza da terra. Chi sarà ora avvantaggiato? Ebbene, nel nuovo campo, giocatori più bassi potranno sfruttare appieno le abilità faticosamente affinate nella competizione con i giganti. Col passare delle generazioni, le squadre cambieranno volto abbassando progressivamente l’altezza media. L’agilità e la velocità che, nel primo ambiente, servivano solo alla mera sopravvivenza, diventano le caratteristiche più adatte a dominare la scena. La selezione naturale agisce dunque come un filtro, premiando le caratteristiche vantaggiose all’interno dell’ambiente ed eliminando col tempo le svantaggiose. Solo occasionalmente tale processo comporta un passaggio dal semplice al complesso, come nel percorso che ha condotto all’uomo. In altri casi invece la semplicità è stata vincente: la selezione ha consentito, ad esempio, a semplici organismi unicellulari come i batteri di colonizzare letteralmente la nostra Terra.

3. Il neodarwinismo

Il paradigma darwiniano, che indica come motore evolutivo il binomio variazione-selezione, è stato corroborato dall’avvio della genetica il cui padre fondatore è Gregor Johann Mendel (1822-1884), un genio che non ha trovato la giusta gloria in vita. Mentre la comunità scientifica, Darwin compreso, navigava nel buio alla ricerca di un meccanismo che spiegasse l’ereditarietà dei caratteri, il monaco cecoslovacco, usando per i suoi esperimenti un approccio statistico d’avanguardia, ha svelato il meccanismo principale della ripartizione e trasmissione dei caratteri ereditari. Questo in un’epoca in cui non si sapeva cosa fossero cromosomi e geni.3 Per un caso piuttosto singolare la riscoperta delle “leggi di Mendel” è avvenuta nell’anno 1900, in modo autonomo, da parte di tre diversi scienziati.4 La sperimentazione genetica ebbe un avvio scoppiettante e fece emergere, tra le altre cose, la Mendel espose i suoi risultati nel breve scritto Versuche über Pflanzenhybriden (Ricerche sugli ibridi vegetali), letto nel 1865 alla Società dei Naturalisti di Brno e pubblicati l’anno seguente negli Atti della Società stessa. Nessuno fu in grado di apprezzare l’importanza delle sue scoperte. 4 Cfr. E. MAYR, Storia del pensiero biologico, Bollati Boringhieri, Torino, 1982, pp. 674-681. 3


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PROPOSTE

Marina Pescarmona

causa della variabilità individuale esistente nelle popolazioni. Diversi sono i fattori che producono le miscele genetiche proprie di ogni individuo, ma tra questi soltanto le mutazioni aggiungono vere e proprie novità creando varianti del tutto nuove. Le mutazioni sono cambiamenti del DNA di vario tipo, dovuti a errori di vario genere o ad agenti esterni, i cosiddetti mutageni. Solo le mutazioni che coinvolgono il Dna dei gameti possono essere trasmesse alla progenie.5 L’incontro tra genetica e teoria dell’evoluzione non è stato in verità indolore, né immediatamente produttivo: alcune scoperte della genetica sembravano al principio addirittura contraddire l’idea darwiniana di evoluzione come susseguirsi di cambiamenti lenti e costanti sotto l’egida della selezione naturale. Sir Ronald Fisher (1890-1962) riuscì, insieme al britannico John Scott Haldane (1860- 1936) e all’americano Sewall Wright (1889- 1988), a risolvere tale questione e ad arricchire la teoria di nuovi aspetti (neodarwinismo). Venne quindi fondato quel campo di ricerca che viene chiamato “genetica di popolazione” che, pur mantenendo l’individuo singolo come oggetto della selezione naturale, individua proprio nella popolazione ciò che effettivamente evolve.6 Per richiamare l’analogia dei campi da basket, si può dire che sia l’intera squadra a cambiare, cioè la popolazione di giocatori. Le popolazioni possono essere esposte a eventi ambientali imprevedibili e talvolta improvvisi (ad es. un’eruzione vulcanica) che ne decidono il destino anche indipendentemente dal loro grado di adattamento. Non sempre i prescelti della selezione, coloro che hanno una fitness più alta, riescono a evitare la mietitura trasversale di eventi catastrofici. Una grande eruzione vulcanica può mutare l’ambiente repentinamente, producendo effetti che vanificano in un sol colpo, millenni di lavorio del binomio mutazione-selezione. La contingenza dunque, unica responsabile di decimazioni e frazionamenti casuali della popolazione, produce nel tempo divergenze nei caratteri della popolazione, con un effetto di cosiddetta “deriva genetica”. Mutazioni, selezione e contingenza sono allora tre i fattori che interagiscono in maniera imprevedibile segnando le storie evolutive. Immaginiamo un terremoto che distrugga tutti i campi da basket al punto da dover cambiare gioco. Nel nuovo sport serve magari avere una buona vista, le grandi altezze selezionate in migliaia di generazioni non serFu merito dell’evoluzionista tedesco AUGUST WEISSMAN aver formulato, nel 1885, la teoria della continuità del plasma germinale che stabilisce il ruolo esclusivo dei gameti come cellule in grado di trasmettere alla prole i caratteri ereditari. La teoria è incompatibile con quella dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti di Lamarck che prevedeva un passaggio di informazione dalle cellule somatiche ai gameti. 6 Cfr. E. MAYR, Op. cit., Bollati Boringhieri, Torino, 1982, pp. 500-503. 5


La teoria dell’evoluzione e sue implicazioni pedagogico-didattiche

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vono più, e neanche i piccoli e agili giocatori sono avvantaggiati. La selezione ricomincia il suo lavoro col nuovo scenario, anche se bisogna tener presente che, a volte, le vecchie caratteristiche possono essere “riciclate”: gli uomini alti, preferiti dalle donne, (selezione sessuale) potrebbero ad esempio riprodursi maggiormente, non eliminando del tutto nella popolazione la loro caratteristica. Questa è una storia, ma anche le specie attualmente viventi sono il risultato di storie diverse in cui il nuovo si costruisce dal vecchio ed estinzioni di massa eliminano organismi anche perfettamente adattati e specializzati. Sembra di osservare la nostra vita terrena: un eterno confronto tra caratteri innati e ambiente, talenti e occasioni, libero arbitrio e contingenza. Una storia non deterministica che ci restituisce un senso di libertà e di avventura. I mari del Cambriano, 540 milioni di anni fa, brulicavano di vita con organismi di una disparità di forme mai eguagliata nei periodi successivi e piani anatomici del tutto originali. Pochi di loro sono sopravvissuti alle estinzioni successive alimentando l’albero evolutivo. Pochi, e non i meglio adattati, non quelli sulle cui caratteristiche avremmo forse scommesso, come ben narrato da Stephen Jay Gould in La vita meravigliosa. Non si hanno certezze sulla causa delle estinzioni di massa, non si possono avere certezze nelle ricostruzioni storiche perché gli eventi sono irripetibili; si possono però ricostruire scenari plausibili alla luce degli elementi noti. Tra i sopravvissuti del Cambriano c’è la piccola Pikaia gracilens, un organismo lungo pochi centimetri ma dotato di una struttura che ha avuto uno strepitoso successo evolutivo: una corda dorsale, base per lo sviluppo dei successivi vertebrati. Conosciamo Pikaia dai pochi fossili ritrovati nel Burgess Shale (Canada), un paradiso paleontologico che non finisce di stupire: questo cordato ancestrale non era tra gli organismi di maggior successo nei bassi mari cambriani, non aveva caratteristiche particolarmente vincenti da giustificare una sopravvivenza per “merito”. Ma Pikaia é sopravvissuta.7 Il ruolo degli eventi catastrofici sembra dunque essere cruciale per i processi evolutivi: maggiore è l’evento di estinzione, più profondo risulta il cambiamento dell’ecosistema. Dalla strage operata dalla crisi del PermoTriassico sopravvisse circa il 4% della popolazione, ma questa piccola frazione fu sufficiente a ricreare gli ecosistemi degli esordi del Mesozoico. Ne sortì una fauna rinnovata che poi subì un’ulteriore decimazione alla fine dell’era, la famosa estinzione dei dinosauri, di cui i piccoli mammiferi beneficiarono. Catastrofi creative e non solo distruttive. Cfr. STEPHEN JAY GOULD, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia, Universale economica Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 332-334. 7


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Marina Pescarmona

4. Riflessioni e didattica della teoria

Tutto quanto sopra esposto è ciò che la comunità scientifica può a oggi offrire. È più della teoria di Darwin ma meno di quanto si potrebbe conoscere in futuro. La scienza procede - come l’evoluzione- per piccoli passi e ogni tanto subisce lo “scossone” del genio che spinge sull’acceleratore. Un aspetto da tener presente è la peculiarità della biologia evolutiva rispetto ad altri ambiti scientifici, la ricostruzione storica del passato che l’evoluzionismo fa, non è equivalente alla scoperta di una legge fisica la cui validità si può verificare sperimentalmente in tutti i suoi aspetti. Il passato biologico lascia nei fossili tracce preziose, ma la fossilizzazione, la conservazione nel tempo dei fossili e il ritrovamento degli stessi, non sono eventi ordinari. Non abbiamo una documentazione fossile completa che ci faccia viaggiare indietro nel tempo indicandoci come sono andate le cose ma, come Charles Darwin, possiamo studiare il passato attraverso il presente. La biodiversità attuale ci può dare indicazioni sui rami inferiori dell’albero, attraverso programmi di ricerca con approcci diversi, come ad esempio l’embriologia, la genetica, l’ecologia e la biogeografia. Certamente c’è ancora da scoprire molto sui meccanismi evolutivi, ma il fatto che la vita biologica abbia subito evoluzione è un convincimento che emerge chiaramente da fatti scientifici e in modo indubitabile. Affrontiamo ora il tema dell’approccio didattico della teoria dell’evoluzione in una scuola cattolica. Certamente non è questo un argomento confinabile nelle ore di scienze, tra le leggi di Mendel e la scoperta del DNA; esso rimanda a questioni di grande importanza pedagogica come la concezione della vita e dell’uomo e il ruolo creativo di Dio. Quanto meno gli insegnanti di filosofia e di religione dovrebbero essere coinvolti in un approccio possibilmente condiviso. Se si vuole trovare una strada di compatibilità fra scienza e fede occorre in primo luogo riconoscere alla teoria dell’evoluzione ciò che finora ha prodotto in termini scientifici. In secondo luogo è altresì necessario riflettere sulla possibilità che il ruolo creativo di Dio possa esprimersi con dinamiche non fissiste8 ma compatibili con le nuove conoscenze. La derivazione filogenetica da una scimmia progenitrice non toglie dignità all’uomo di oggi che, con solo il due per cento di differenza genomica, rimane sicuramente l’unico essere che, tra le altre capacità, discute della sua origine. Allo stesso tempo, le scienze naturali non hanno certamente 8 Il fissismo sostiene l’immutabilità delle specie nel tempo. Il termine fissismo si oppone a quello di evoluzionismo ma non a quello di creazionismo che si riferisce all’esistenza di un Dio creatore dell’universo.


La teoria dell’evoluzione e sue implicazioni pedagogico-didattiche

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come oggetto d’indagine un’anima che la teologia descrive essere stata immessa nell’uomo direttamente da Dio. Uno scienziato che indica una strada di dialogo tra scienza e fede è Francisco J.Ayala (Madrid, 1934), docente di scienze biologiche e filosofia all’Università della California, Irvine. Nel suo libro Il dono di Darwin alla scienza e alla religione,9 delimita i confini dei due campi: “Gli scienziati e i filosofi che sostengono che la scienza esclude la validità di qualsiasi conoscenza al di fuori della scienza, commettono un “errore categorico”: confondono il metodo e il magistero scientifici con le implicazioni metafisiche della scienza. Il naturalismo metodologico afferma che la conoscenza scientifica ha precisi confini, non che è valido ciò che essa dice in ogni campo”. Anche la National Academy of Sciences ha recentemente dichiarato “La religione e la scienza rispondono a interrogativi differenti sul mondo. La scienza non si occupa del problema se vi sia scopo nell’universo o nell’esistenza umana… Di conseguenza, molte persone, tra cui numerosi scienziati, nutrono forti convinzioni religiose e nel contempo accettano la realtà dell’evoluzione”.10 Letture consigliate

AYALA FRANCISCO, Il dono di Darwin alla scienza e alla religione, Edizioni San Paolo, Milano, 2009. AYALA FRANCISCO, Le grandi domande. Evoluzione, Edizioni Dedalo, Bari, 2012. DARWIN CHARLES, L’origine delle specie, Zanichelli, Bologna, 1982. ELDREDGE NILES, Le trame dell’evoluzione, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002. MAYR ERNST, Storia del pensiero biologico, Bollati Boringhieri, Torino 1999. PIEVANI TELMO, La vita inaspettata, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011. SCOSSIROLI RENZO E., I primi passi della genetica. Scoperta e riscoperta delle leggi di Mendel sull’ereditarietà dei caratteri, Jaca Book, Milano, 1987.

9 Cfr. FRANCISCO J. AYALA., Il dono di Darwin alla scienza e alla religione, Edizioni San Paolo, Milano 2009, p. 245. 10 Cfr. National Academy of Sciences, Teaching About Evolution and the Nature of Sciences, Washington, DC, National Academy Press, 1998, p. 58.


LETTERE PASTORALI DI FRATEL ÁLVARO RODRÌGUEZ ECHEVERRÌA Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane

01. Il volto del Fratello oggi (Dicembre 2000).

02. Essere Fratelli in comunità: nostra prima associazione (Dicembre 2001). 03. Associati al Dio vivente. La nostra vita di preghiera (Dicembre 2002). 04. La vocazione del Fratello oggi (Aprile 2003).

05. Associati al Dio dei poveri. La nostra vita consacrata alla luce del 4° voto (Dicembre 2003). 06. Associati al Dio del Regno e al Regno di Dio. Ministri e servitori della Parola (Dicembre 2004).

07. Associati per cercare insieme Dio, seguire Gesù Cristo e lavorare per il Regno. La nostra vita religiosa (Dicembre 2005). 08. Associati al Dio della storia. Il nostro itinerario formativo (Dicembre 2006).

09. Consacrati da Dio Trinità come comunità di Fratelli, per rendere visibile il suo amore gratuito e solidale (Dicembre 2007).

10. Essere segni vivi della presenza del Regno, in comunità di Fratelli consacrati da Dio Trinità (Dicembre 2008).

11. Consacrati da Dio Trinità come comunità di Fratelli. Messaggeri e apostoli inviati dalla Chiesa per rendere presente il Regno di Dio (Dicembre 2009).

12. Consacrati da Dio Trinità come comunità profetica di Fratelli appassionati di Dio e dei poveri (Dicembre 2010).

13. Consacrati da Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sottopongono al giudizio di Dio il loro ministero (Dicembre 2011).

14. Consacrati da Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sono ringiovaniti dalla speranza del Regno (Dicembre 2012).


Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 363-375

RICERCHE

LASALLIANI AUTORI DI LIBRI DI PREGHIERA - IV CESARE TRESPIDI 1 Cultore di studi lasalliani DI

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Fr. Angelo di Gesù, Borgogno Michelangelo (Volvera - Torino, 29-IV-1889 – Torino, 18-VI-1982). - 3. L’opera. - 4. Fr. Ernesto, Moretti Ernesto (Frassineto Po Alessandria, 16-I-1892 – Torino, 15-I-1979). - 5. L’opera. - 6. Fr. Tullio, Panizzoli Apollonio Marco (Prestine - Brescia, 25-IV-1923). - 7. L’opera.

C

1. Premessa

on questa quarta parte si conclude il recupero della memoria che ci si era proposto. Ha ancora senso il riportare alla luce, non lasciandoli chiusi negli scaffali della biblioteca, questi testi di accompagnamento e di sostegno alla preghiera comunitaria? La risposta ci pare convintamente affermativa, sia come tributo di riconoscimento e di riconoscenza verso i Fratelli che ne sono stati compilatori, sia come offerta di fruizione – nostalgica forse ma indubbiamente efficace – per chi varca la soglia di ogni tempio sacro che già, sull’onda del flusso del tempo, ha assorbito gli echi di tante suppliche elevate con preghiere e canti. Infine sono davvero grato ai Fratelli curatori dell’Archivio del Centro La Salle di Torino, per l’invito e l’aiuto offertomi.

2. Fr. Angelo di Gesù, Borgogno Michelangelo (Volvera - Torino, 29IV-1889 – Torino, 18-VI-1982)

Originario di un paese, la cui attività economica era prevalentemente di carattere agricolo (già si stavano avviando, però, alcune attività industriali),

La prima parte di “Lasalliani autori di libri di preghiera” è stata pubblicata su Rivista Lasalliana: n. 2, 2012, pp. 251-266; la seconda sul n. 1, 2013, pp. 83-93; la terza sul n. 2, 2013, pp. 241251. 1


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Cesare Trespidi

contribuì a confermarne la fecondità di vocazioni sacerdotali e religiose. Egli stesso, dopo aver goduto, come primogenito di nove figli, dell’esempio di una famiglia segnalatasi per la condotta esemplare e per una indefessa operosità, seguirà le orme di due zii – Fr. Anastasio di Gesù e Fr. Mansueto – e vedrà tre sorelle consacrate nel monastero di S. Croce di Rivoli come Canonichesse di S. Agostino. In una genealogia così generosa nella donazione a Dio, si segnala anche, per singolarità di meriti, don Luigi Balbiano, suo prozio da parte della madre. Essendone diffusa la fama di santità, volle certificarne le virtù tramite ricerche e consultazioni presso diverse fonti e, convinto dalle prove raccolte, si prodigò per più di sessant’anni, profondendo ogni tipo di risorse, per promuoverne la causa di beatificazione.2 Chiamato Angioletto nelle comunità, con riferimento alla magrezza che lo contraddistingueva, la sua attività può definirsi frenetica (ivi inclusa la fitta corrispondenza, stilata in elegante grafia, con innumerevoli persone). La sua presenza è stata distribuita in varie comunità – i frequenti trasferimenti erano correlati soprattutto ad esigenze relative alle condizioni di salute – ma in ogni mansione a lui affidata – insegnamento, assistenza, infermeria, economato – ha esibito un impegno encomiabile nella ricerca degli esiti migliori.3 Coltivò diversi interessi: indagini di carattere storico, cura di piante e fiori, iniziative per la Provincia, inserimento di ex-allievi nel mondo del lavoro e, soprattutto, le due opere4 che ci accingeremo ad illustrare. Gli siamo grati per aver lasciato (ora depositati nell’archivio) diversi quadernetti in cui vengono alla luce le ricche risorse di spiritualità che sostentavano il suo operare: esse iniziano col Ricordo del Noviziato e si concludono, pur con qualche interruzione, nel 1978. Essi costituiscono un vero e proprio itinerario spirituale: vi sono registrati le devozioni, i propositi – talora precisati nella più minuta praticità –, le intenzioni, le novene speciali, l’amore per gli allievi, la comunità, la Provincia e la Congregazione. Si scopre che lo zelo generoso, evidente anche dal suo costante andare, non era un adoperarsi nel contingente, ma attingeva ad una profondità di spirito, magari insospettata. Ne ebbe la gratificazione maggiore quando, all’età di 92 anni, il 27 novembre 1981, ritirò personalmente a Roma dal Papa Giovanni Paolo II il decreto in cui si dichiarava l’eroicità delle virtù praticate da don Balbiano: la fotografia che lo ritrae abbracciato dal Santo Padre testimonia la sua felicità. 3 Un’informazione più esaustiva è stata fornita nel libretto n° 22 dei necrologi della Provincia Italia. 4 Ma non sono gli unici suoi scritti. 2


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I frutti più duraturi restano consegnati ai due suoi scritti più importanti, a testimonianza del suo culto della preghiera.

3. L’opera

PREGHIERE, SALMI ED INNI di uso più comune nella vita del cristiano, Biella, Scuola Tipografica Ospizio di Carità, 1924, pp. 223, cm 14x8 (nella biblioteca del Centro La Salle si trova la 3a edizione).

Di fronte alla pagina del titolo un’immagine in bianco e nero di Gesù fra gli Angeli e la scritta sottostante: Cuore Eucaristico di Gesù, abbiate pietà di noi. – Oltre alle orazioni quotidiane si aggiungono due modi di assistere alla S. Messa (il secondo con preghiere tutte in italiano), il Sacramento della Penitenza, due Esercizi per la S. Comunione, con altre preghiere aggiunte (di S. Bonaventura, S. Tommaso d’Aquino, S. Anselmo, S. Alfonso dei Liguori, S. Ignazio). – Le divozioni diverse si riferiscono: alla SS. Trinità, allo Spirito Santo, a Gesù Bambino, a Gesù Crocifisso, a Gesù Sacramentato, al Sacro Cuore, a Maria SS., a S. Giuseppe, agli Angeli, ai Santi, alle anime del Purgatorio. Vi si aggiungono preghiere per i fedeli agonizzanti, per l’apparecchio alla morte; altre orazioni diverse si concludono con un breve esercizio per la Via Crucis, le litanie dei Santi, per la sepoltura degli adulti e le parti che si cantano nella Messa dei Morti. In calce vengono sempre indicate le indulgenze applicate. – Il Vespro della domenica e della Madonna. – Salmi di Vespri propri di alcune solennità. – Inni e versetti: propri del tempo, di alcuni santi, comuni dei santi. – Sette inni diversi (in latino). – Per la novena del santo Natale. – La Messa degli Angeli: con partitura musicale. – Sei mottetti ad onore del SS. Sacramento (in latino). – Ventidue laudi sacre (in italiano). – L’indice rinvia a 21 salmi e cantici ed a 24 inni e sequenze.

PRECI E CANTI di uso più comune nella vita del cristiano. È il lascito senz’altro più emblematico della devozione di Fr. Angelo.

È del 1927 la prima edizione (Libreria del Sacro Cuore, A. e G. Sismondi, Torino, pp. 528). Può essere considerata un ampliamento dell’opera precedente, notevolmente arricchita con gli apporti di nuove preghiere, di considerazioni ed esortazioni su ognuno dei temi proposti. Si segnalano le aggiunte: la meditazione (22 argomenti che prendono spunto da massime del Vangelo), gli Uffici dei defunti, due messe cantate, nuovi mottetti, inni e


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cantici (in latino ed italiano). Anche l’illustrazione di fronte alla pagina del titolo è cambiata: la giaculatoria, variata, è sotto l’immagine di Gesù all’ultima cena tra Giovanni e Pietro. Ma la novità più evidente è costituita dalle partiture musicali dai vespri in poi (pp. 261-458). La seconda edizione, notevolmente migliorata (A. e C. / Libreria Editrice Giacomo Arneodo, Torino, 1931, pp. 549; Scuola Tipografica Ospizio di Carità, Biella), primeggia – come ci informa l’anonimo profilo registrato in archivio – «oltre che per la sua praticità, anche per l’accurata impaginazione, con le note esplicative e l’abbondanza di artistiche illustrazioni. Ma, a causa del periodo bellico, la stampa si arrestava per un lungo periodo, dopo il quale non fu più possibile utilizzare il precedente materiale tipografico». A tale edizione succedono quella del 1934, non ridotta come la precedente ma unica integra (L. I. C. E., R. Berruti e C. / Casa Editrice A. e C., Torino, pp. 840; Scuola Tipografica Ospizio di Carità, Biella), ed una successiva terza edizione del 1939 (Casa Editrice A. e C., Società Industriale Grafica Carlo Ranotti & C., Torino, pp. 541), nuovamente rifatta nel 1941, di pp. 662, presso lo stesso editore. La prima ristampa (sempre dell’Editrice A. e C., ma per la tipografia Ponzone, di Torino) è del 1951. La terza edizione può dirsi definitiva: le sono succedute un’edizione ridotta, di pp. 239, una seconda ristampa, di pp. 662, ed un’ultima edizione ridotta, di pp. 239, del 1957. Queste tre ultime edizioni, sempre dell’A. e C., usufruiscono delle Arti Grafiche Conti & C. Non sembri prolissa questa precisazione di edizioni e ristampe: esse stanno ad indicare sia con quanta cura Fr. Angelo vi si sia dedicato (oltre che con quanta preghiera le abbia accompagnate),5 sia la diffusione che l’opera ha registrato; infatti diverse generazioni di allievi e di fedeli ne hanno usufruito, e non stupisce che qualcuno, soprattutto ex-allievi, tuttora chiedano di poterne recuperare una copia. Sono conservate in archivio diverse lettere – di vescovi, parroci, confratelli, sia con elogi sia con suggerimenti – che confermano l’accoglienza che l’opera ha ricevuto e l’apprezzamento che le è stato ribadito. Tra questi documenti segnaliamo in particolare la lettera indirizzata a Fr. Angelo da don Vesco, parroco di Strambino, che, col vescovo di Ivrea Mons. Filippello, era direttore spirituale di Margherita Claret de La Touche. Egli, dopo aver premesso: «Una delle tante preoccupazioni dei parroci è quella di mettere tra le mani dei propri fedeli un buon libro di pietà, sì che i parrocchiani possano pregare bene ed in modo uniforme», ne esplicita i pregi: Per ogni edizione c’è un’avvertenza importante: «Questo libro si vende a beneficio della Causa di Beatificazione del Servo di Dio don Luigi Balbiano, vicecurato di S. Maria Maggiore in Avigliana (Torino)». 5


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• «molte preghiere per le occasioni più comuni;

• molti canti musicati per le occasioni più frequenti, specialmente eucaristiche: • nessun altro libro di pietà ha tanta musica; • il lato tipografico è stato molto curato;

• il prezzo è tenuto in limiti accessibili a tutti».6

Nella preparazione dell’edizione del 1941 l’autore motiva le istruzioni premesse ai vari capitoli: «affinché il libro non sia solo una raccolta di preghiere e di pratiche devote, ma una guida che istruisca, dia delle idee chiare e precise e formi ad una pietà illuminata e soda». Quindi spiega: «Quanto alla scelta delle preghiere abbiamo preferito quelle liturgiche, oppure composte da Santi o approvate dalla Chiesa».7 I

Il libro comprende sette parti:8 (pp. 1-149):

Esercizi di pietà: Anno ecclesiastico – Della preghiera – La meditazione – Preghiere quotidiane – La Santa Messa – La Confessione – La SS. Comunione.

II (pp. 151-351): Devozioni diverse (ciascuna preceduta da una breve considerazione ed esortazione). III (pp. 354-392):

IV (pp. 393-473):

Messe cantate (con partiture musicali). Vespri festivi.

V (pp. 475-493): Uffici dei defunti.

VI (pp. 495-603): Canti liturgici: oltre alle riproduzioni dei canti in gregoriano e di altri più noti, per quelli di nuovo accompagnamento musicale Fr. Angelo ha scambiato una fitta corrispondenza anche con compositori quali G. B. Campodonico, don Lorenzo Perosi, G. Mosso; ha collaborato per armonizzazioni anche Fr. Giocondo di Maria.

Ci sono anche una lettera del Segretario Generale del Re Umberto di Savoia in esilio a Cascais, del 29-V-1947, e un foglietto del Segretario della S. Congregazione dei Riti, del 3-IX-1934, in cui si ringrazia dell’omaggio del libro. 7 Circa l’ultima indicazione aggiunge, a sottolineare la scrupolosità del suo metodo di lavoro: «Abbiamo aggiornato tutte le indulgenze annesse alle preghiere e pratiche di pietà secondo le ultime disposizioni contenute nel Preces et pia opera indulgentiis ditata edito dalla Sacra Penitenzieria Apostolica». 8 Ci si riferisce alla 3a edizione nuovamente rifatta del 1941. 6


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VII (pp. 605-642): Canti popolari (testi senza musica).9

Da questo schema del contenuto si può constatare che Preci e Canti risulta un vero e proprio manuale di pietà, esaustivo sotto ogni aspetto. Se poi si considera che all’epoca la liturgia richiedeva prevalentemente l’ascolto – non sempre proficuo per i riti in lingua latina – ancora di più si apprezza il contributo di Fr. Angelo a favorire la partecipazione, suggerendo, inoltre, ulteriori elementi all’educazione spirituale degli allievi (che allora assistevano quotidianamente alla S. Messa) e dei fedeli delle diverse parrocchie che avevano suggerito l’adozione del suo testo.

4. Fr. Ernesto, Moretti Ernesto (Frassineto Po - Alessandria, 16-I-1892 – Torino, 15-I-1979)

“Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo” (Ef 4, 11-12).

E Fr. Ernesto ebbe proprio il dono di essere maestro, cultore della liturgia sia nella preghiera sia nel canto, sia nei gesti, catechista fin da bambino istruendo alcuni compagni presso un altarino eretto in onore della Madonna, alla quale attribuiva una guarigione miracolosa all’età di sette anni. Ora insegnante, ora aiutante, ora direttore nelle varie comunità che hanno goduto della sua presenza, ha sempre fatto intravedere, come fonte sorgiva del suo operare, quella letizia interiore che non era intaccata dalle increspature varianti delle contingenze, sempre vivificata dalla preghiera, che egli definiva «Stare unito al Signore con amore».

È tutta da rileggere, per ricavarne edificazione, la memoria scritta, profondamente partecipata, che gli ha tributato Fr. Felice Proi (5° volume delle Bibliografie dei Fratelli defunti edito dalla Provincia di Torino per gli anni 1976-79, pp. 118-146). Egli compendia la vita di Fr. Ernesto in queste parole: «Amarti, Signore, è una festa», e conferma: «Il Diario della sua vita, redatto alcuni anni prima del tramonto e poi completato con mano tremante gli ultimissimi mesi, è una celebrazione di festa. Canti, preghiere, messe, accademie, prime comunioni, anniversari, cori, musiche, liturgie, pellegrinaggi, funzioni, consacrazioni… costituiscono la costante trama dei suoi ricordi». In lui si

L’edizione ridotta, del 22-VII-1941, comprende 240 pagine, di cui 87 sono occupate dai canti. 9


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intrecciarono e si fusero armoniosamente l’istanza attiva e quella contemplativa: la dote del vero apostolo. I confratelli che l’hanno conosciuto possono certamente riconoscervi il ritratto che viene presentato e risentirne vivi l’esempio e l’insegnamento che sono stati tramandati.

5. L’opera

MANUALETTO DI PIETÀ ad uso dei giovani, per cura di un Fratello delle Scuole Cristiane,10 Prima Edizione, Società Anonima Tipografica fra Cattolici Vicentini, Vicenza, 1923, pp. 312 + 6 di Indice generale, cm 14 x 8.

Di fronte alla titolazione è raffigurata in bianco e nero la Sacra Famiglia con l’invocazione «Illuminateci, Soccorreteci, Salvateci». Il cartonato nero presenta nella facciata elementi ornamentali e, in basso, un simbolo eucaristico in rilievo. – La prima parte comprende:

• Preghiere quotidiane (in italiano e latino);

• Preghiere per varie circostanze del giorno (in italiano);

• La Santa Messa: ordinario della Messa e modo di servirla (in italiano e latino) con inserimento di preghiere diverse in italiano, come pure nell’altro modo di udire la S. Messa; • Preghiere d’apparecchio alla Confessione, durante e dopo la Confessione;

• La SS. Comunione (con una illustrazione, che occupa la pagina di fronte al titolo, di Cristo che irraggia luce sulla mensa eucaristica): preghiere per prima e dopo, come nel successivo Altro esercizio per la SS. Comunione.

– La seconda parte include:

• Divozioni diverse: si segnalano, in particolare, quelle corredate anche da una pia immagine: quelle a Gesù Bambino, a Gesù Crocifisso, al Sacro Cuore, a Maria SS., a S. Giuseppe, a S. Giovanni Battista de La Salle, alla Sacra Famiglia con S. Giuseppe morente per l’esercizio della buona morte.

– La parte terza – tutta in latino, talora con traduzione – è riservata ai canti liturgici (28), ai canti a Gesù Cristo, al SS. Sacramento, a Maria SS., ai Santi, per un martire, per un confessore, per il sommo Pontefice. 10

Come Fr. Basileo Cordara, anch’egli, umilmente, non appone il proprio nome.


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Seguono: il Vespro della domenica, le Antifone della SS. Vergine, gli inni delle domeniche, i Salmi dei Vespri propri di alcune solennità, il Vespro della Madonna.

– La parte quarta è dedicata alle Canzoncine Sacre (78) per varie occasioni, che si concludono con i Canti cattolici per cortei religiosi (8), l’Inno popolare dei Congressi Eucaristici Nazionali e l’Inno dei piccoli Rosarianti.

– L’Appendice, cui corrisponde l’immagine di un’adorante con la scritta sottostante «Star con Gesù è dolce paradiso», tratta dall’Imitazione di Cristo, II, VII, include: • Brevissime nozioni sull’orazione mentale: a mo’ di lezione di catechismo, che include anche fatti addotti ad esempio;

• Raccolta di massime da meditare (sono 35), ovvero soggetti di orazione mentale; • Un piccolo modello di orazione.

La seconda edizione, con lo stesso titolo, edita dalla Società Anonima Tipografica, Casa Editrice Pontificia, Vicenza, 1930, pp. 399, cm 14 x 8, è fondamentalmente simile alla prima, ma con alcune aggiunte:11

• Diversi sono i fregi incisi sul cartonato della copertina;

• Più frequenti sono le illustrazioni, in bianco e nero, inserite; presenti anche sopra i titoli più significativi;

• Tre sono i modi di udire la S. Messa (invece di due): secondo la liturgia, i quattro fini del Sacrificio, Meditare la Passione di N. S. Gesù Cristo; • La Messa per i defunti;

• Terzo esercizio per la SS. Comunione; ed altre preghiere (di S. Ambrogio, S. Anselmo, S. Tommaso d’Aquino, S. Bonaventura, S. Ignazio, S. Alfonso de’ Liguori); • L’Atto di Riparazione composto e prescritto da S. S. Pio XI per la festa del S. Cuore;

• La Coroncina al S. Cuore di Gesù, la consacrazione di una famiglia e di un Collegio al S. Cuore;

• I misteri del santo rosario;

Questa edizione è stata curata da Fr. Michele Meyer (mentre Fr. Ernesto era direttore a Viareggio): questi, nato nel 1875 in Lorena, nel 1904 fu inviato in Italia (Albano Laziale) e nel 1905 al Collegio San Giuseppe di Torino; dal settembre 1923 Economo Provinciale, morì a Torino nel 1935. 11


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• La preghiera a S. Agnese Vergine e Martire, patrona della gioventù femminile ed a S. Teresa del Bambino Gesù; • I canti a Gesù Cristo: Quicumque certum quaeritis, En ut superba criminum e l’Inno a Cristo Re Te sæculorum principem; • Canti al SS. Sacramento: Lauda Sion Salvatorem, Ecce Panis Angelorum e Adoro Te devote; • A Maria SS.: un altro Tota pulchra; • Ai Santi: Jesu corona Virginum;

• Alcune variazioni e aggiunte nelle Canzoncine sacre;

• Testi per la Messa cantata – normale e dei defunti – con testi in latino.

È stata invece eliminata l’Appendice della I edizione. L’Indice registra 35 canti liturgici e 95 canzoncine sacre. Una edizione (la 3a?) è del 1944 con i caratteri della Casa Editrice A. e C., Torino, pp. 405, cm 12 x 8. Il testo è sostanzialmente lo stesso, con varianti di poco conto, come ad esempio, la riduzione delle illustrazioni inserite ed alcune semplificazioni nelle diverse devozioni e nelle preghiere varie, 25 i canti liturgici e 92 le canzoncine sacre.12 Meritano almeno una citazione altri libretti, tutti editi dalla Casa Editrice A. e C.:

– Fr. Ignazio Pallottini, Tre messe dialogate, per i giovani di Azione Cattolica adunati in ritiro spirituale, 1943, pp. 32. Ogni giorno comprende (sempre in forma di preghiera, a voci alternate tra P. (presidente) e T. (tutti): La preparazione, L’offertorio, Prima e dopo la Consacrazione, La Comunione. Vengono suggeriti i titoli di tre Canti religiosi popolari e, nella pagina conclusiva, dopo l’esempio di Benedetto Labre, modello di Gesù per il quadro della Cena per un pittore, suggerisce i propositi.

– Fr. Alfredo Aimone Prina, La Santa Messa: XII Messe dialogate o meditate, 1943, 2a Edizione, pp. 128. Scopo principale dell’opera, si dice nelle Avvertenze, è «Far partecipare al Divin Sacrificio e avviare gradatamente il giovane all’uso del Messalino, meta ultima alla quale si deve tendere»; inoltre suggerisce che «Al memento dei vivi e dei morti il Presidente ricordi nominativamente persoUn’ottava edizione, sempre con i caratteri della Casa Editrice A. e C., Torino, 19.., pp. 431, cm 12 x 8, è disponibile presso la Biblioteca Pio XII dell’Università degli Studi Europea, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum. 12


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ne, istituzioni, avvenimenti… che possono interessare la Comunità» ed ammonisce che «Non deve mancare il canto, intonato alle festività ed eseguito con pietà e fervore». L’impostazione ricalca lo schema dell’opera precedente, con qualche ingrediente aggiunto. L’ordine è il seguente: Ordinario della S. Messa – Per l’Avvento – Per il periodo natalizio – Per la Quaresima – Nel periodo pasquale – La Comunione dei Santi – Per il 1° venerdì del mese – In onore di Maria SS. – La Vocazione (cui segue Mezzi per conoscere la propria vocazione) – La «Grazia» – Nella festa del Papa – Per i fedeli defunti. Ogni Messa è introdotta da un disegno inserito in un rettangolo, in bianco e nero, con una scritta in latino.

Altri tre libretti sono, invece, anonimi (cosa non infrequente nelle opere dei Fratelli):

– Adorazione a Gesù in Sacramento, per i fanciulli: norme e preghiere, 1937, pp. 32. Indica le norme per ore e mezze ore di Adorazione; ad un’esortazione a Genitori, Educatori, Catechisti perché conducano i giovinetti a Gesù «avvicinandoli materialmente al tabernacolo», segue quella ai fanciulli. Il libretto divide le preghiere in sei parti: Adorazione – Fede – Comunione spirituale – Riparazione – Ringraziamento e promesse – Domande, raccomandando che «non si ometta la preghiera alla Vergine in principio e il saluto a Gesù e a Maria SS. alla fine». – Via Crucis, per onorare le Sante Piaghe di N. S. Gesù Cristo, 1944, pp. 32. Precedute dallo Stabat Mater, seguono le preghiere per le 14 stazioni, ognuna delle quali è rappresentata da un’illustrazione a tutta pagina.

– Libretto di pietà, dedicato alla Consolata, 1945, pp. 108. In elegante cartonato nero con scritta e figura in oro, riporta innanzitutto le Preghiere del Cristiano, quindi la Supplica alla Consolata da recitarsi il giorno della festa, i Pii pensieri suggeriti dal Beato Giuseppe Cafasso, Tre modi per udire la S. Messa, Confessione e Comunione, la Visita del sabato a Gesù Sacramentato ed alla Consolata, la Novena a Maria Consolata (seguita da altre preghiere alla medesima), la Supplica alla Madonna di Pompei, la Coroncina ad onore del Sacro Cuore di Gesù, seguita dall’Atto di consacrazione, dall’Inno e dalle Litanie del Sacro Cuore, Inni in latino e Canti in italiano. L’ultimo ritratto di Fratelli autori è riservato a:


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6. Fr. Tullio, Panizzoli Apollonio Marco (Prestine - Brescia, 25-IV1923).

Laureato in Lettere presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, svolse l’apostolato educativo nell’Istituto Gonzaga della stessa città. Successivamente assunse vari ed importanti incarichi nella Provincia religiosa, come Direttore e Preside a Parma, Milano, Spin di Romano d’Ezzelino, Torino; dal 1994 svolge mansioni varie all’Istituto Filippin di Paderno del Grappa. Fu, inoltre, consigliere amministrativo della Fondazione Don Carlo Gnocchi per diversi trienni consecutivi, per nomina di S. E. il Cardinale Vicario di Roma. Proprio durante il suo direttorato al Collegio della Pro Juventute di Parma compilò la prima edizione (dedicata specificamente agli ospiti del Collegio), la ristampa e la seconda edizione della sua opera. Egli vi si è dedicato con grande impegno e, come confessa al Visitatore Fr. Timoteo in una lettera del 13-VIII-1964, vi «ha dato volentieri anche un pezzetto della sua salute». In questo stesso scritto allude alla preparazione di un fascicolo degli accompagnamenti musicali a disposizione degli organisti. In una seconda lettera al Visitatore, del 25-IV-1965, presenta un Promemoria, lamenta la mancata adozione, «amara e dolorosa mortificazione» per lui, in molte delle scuole della Provincia13 e, alludendo a quegli anni del Concilio Vaticano II, come promotori di «un ulteriore terremoto di riforme sostanziali della Messa», preannuncia una nuova edizione entro pochi mesi.

7. L’opera

PREGHIAMO INSIEME, edito dalla Fondazione “Pro Juventute don Gnocchi”, Parma, ma, come le successive, della Scuola Grafica Salesiana di Milano, 1962, pp. 295: riservato ai ragazzi e ai giovani del «Collegio Santa Maria ai Servi» di Parma, e perciò fuori commercio. La ristampa, con l’aggiunta al titolo Guida pratica di vita spirituale, illu-

13 Nelle varie scuole si era piuttosto restii a sostituire il Preci e canti di Fr. Angelo di Gesù – come si proponeva la nuova opera – oltre che, come si legge nella lettera di risposta del Visitatore Fr. Timoteo del 30 aprile, per il nuovo spirito liturgico promosso dal Concilio: «… rispondono che attualmente si pretende che in chiesa si dialoghi con il sacerdote, si stia ad ascoltare le letture; resta poco tempo per la preghiera individuale; non sono più necessari grossi libri di pietà liturgica che non siano messalini…». Quindi il superiore esprime la difficoltà a soddisfare la richiesta di «una ovvia regolare adozione nelle nostre case». Fr. Tullio sottolinea che «la questione esula assolutamente ogni ragione personale» e, nella prima lettera citata, a rilevare il suo spirito di servizio fraterno e collaborativo, invita il superiore ad esprimere «un autorevole plauso a Fr. Marco Paolantonio per le splendide illustrazioni».


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strata da Fr. Marco Paolantonio, è del 1964, coi caratteri della Editrice A. & C. di Torino, pp. 431: si presenta come un manuale di pietà per ragazzi e giovani. La 2a edizione, aggiornata, col titolo della ristampa, A. & C., Torino / Queriniana, Brescia, è del 1965, pp. 399. Il titolo originario è ancora della 3a edizione, aggiornata, 1968, pp. 399, Edizioni Incontri, Milano / Queriniana, Brescia.

Il testo – con l’esortazione del titolo ad una preghiera comunitaria – si presenta con una certa eleganza, sia per le copertine plasticate (tre in blu ed una in granata) con fregio in oro, sia per i disegni e le illustrazioni, nonché per l’efficace distribuzione grafica tra il rosso ed il nero. La prima edizione definisce lo schema-base del contenuto ed intende offrirsi come «una piccola raccolta di preghiere», oltre che suggerire qualche canto, «per partecipare – attivamente e comunitariamente – alla Santa Messa, che è il Mistero centrale e dinamico della vita cristiana».14 Essa comprende: Preghiere del mattino e della sera; La S. Messa, tracce per partecipare (vero fulcro del testo, da p. 17 a p. 176); La S. Comunione e Il Sacramento della Penitenza (preghiere di preparazione e di ringraziamento); Preghiere a Dio (30), alla Madonna (15), all’Angelo Custode (2), ai Santi (3), di Suffragio (5); Altre preghiere (14) e devozioni (Visita a Gesù, Devozione a Gesù Crocifisso, Via Crucis, Novena di Natale; Canti italiani e latini (57); Salmi (7).

Nella ristampa del 1964, oltre all’aggiunta nel titolo Guida pratica di vita spirituale, alla segnalazione delle illustrazioni di Fr. Marco Paolantonio, e della A. & C. come casa editrice, si constatano diverse modifiche: efficaci note introduttive ed inserimento di quadri di riflessione; il Salmo 148 a commento di Tutto il creato dia gloria a Dio; alcune note introduttive; Passi scritturali: Parole di Dio per la giornata e per la vita; L’anno liturgico, con Messe per i tempi d’Avvento, di Quaresima, pasquale, Pentecoste, per il S. Cuore, la SS. Vergine, i Defunti; Visita a Gesù Eucaristico; 65 Elevazioni e preghiere, con testi di S. Gregorio di N. e Paolo VI; Canti per la Messa (43), per il tempo liturgico (50), alla Madonna e ai Santi (40), per i defunti (5), Canti vari (13); 14 illustrazioni d’autore, oltre ai disegni. La seconda edizione presenta poche varianti rispetto alla ristampa pre-

La presentazione varierà soprattutto nell’ultima edizione: «Questo libro vuol aiutare i ragazzi e i giovani a pregare: orienta e guida alla preghiera personale, comunitaria e liturgica in quello spirito di rinnovamento interiore e di impegno apostolico promosso dal Concilio». 14


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cedente: 8 Preghiere quotidiane invece di 3; riduzione delle Messe per il tempo liturgico (solo per i tempi d’Avvento, natalizio, di Quaresima, pasquale); l’aggiunta di 4 Elevazioni e preghiere; qualche lieve riduzione del numero dei Canti; una illustrazione d’autore in meno.

La terza edizione, oltre alla variazione nella presentazione già segnalata, ricalca l’impostazione delle precedenti con alcune varianti: l’aggiunta di 2 Preghiere quotidiane; oltre ai Passi scritturali per la giornata e per la vita, si inseriscono il Messaggio di Paolo VI ai giovani; le Note di liturgia e Cristo protagonista della liturgia; semplificazione delle tracce delle Messe, specificando le Celebrazioni della parola per l’Avvento, la Quaresima, il tempo pasquale, la Risurrezione; inserimento di quadri dedicati a testi di Paolo VI; divisione dei Canti (segnalati nell’indice secondo l’ordine alfabetico): per la Messa (40), per il tempo liturgico (25), a Gesù Eucaristico (10), per il S. Cuore e Cristo Re (9), per la Madonna ed i Santi (35), per i defunti (4), canti vari (22); la rubrica Devozioni e pratiche cristiane (pp. 325-372).

Esaminati attentamente questi testi, si può affermare che essi hanno assolto compiutamente ed egregiamente la funzione propostasi di sostituire il Preci e canti, giunto ad esaurimento dopo essere stato in auge nelle scuole dei Fratelli ed in molte parrocchie. Ben a ragione, quindi, Fr. Tullio auspicava un maggior sostegno nella loro adozione e diffusione. L’impronta ed il tono, nonché l’impostazione nel suo complesso, fanno avvertire un piglio più moderno, mentre rimane vivissimo ed efficacissimo l’apporto di arricchimento per la spiritualità lievitante ogni anima cristiana. È un ulteriore contributo ed impulso “ad maiorem Dei gloriam!”


LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.

FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.

ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.

MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••

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Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 377-381

UN ÉPISODE DE LA VIE DES FRÈRES DES ÉCOLES CHRÉTIENNES À SAINT-OMER (ARTOIS, ROYAUME DE FRANCE) AVANT LA RÉVOLUTION: L’OPPOSITION DES ADMINISTRATEURS DE LA VILLE À LA CRÉATION D’UNE COMMUNAUTÉ, 1742-1743 PAR MATTHIEU FONTAINE

Université d’Artois, C.R.E.H.S (E.A., 4027) SOMMAIRE: 1. Les Frères à Saint-Omer. - 2. L’opposition des administrateurs de la ville.

L

1. Les Frères à Saint-Omer

’installation des disciples de saint Jean-Baptiste de La Salle à SaintOmer, siège d’évêché et ville fortifiée aux confins des provinces d’Artois et de Flandres, à proximité de la frontière des Pays-Bas Catholiques, remonte à l’année 1720, soit un an après la mort du saint. Leur histoire entre 1719, date de la mise en œuvre du projet par l’évêque François de Valbelle, et 1906, a été écrite au début du siècle dernier par l’abbé Oscar Bled.1 Un document d’archive, issu de la correspondance de ce que l’on nomme localement le “Magistrat” (groupe formé par les administrateurs de la ville), vient éclairer un point particulier de cette histoire, qui se situe une vingtaine d’années après l’arrivée des frères en ville. Avant d’évoquer l’épisode en question et de donner une transcription de ce document, un bref rappel s’impose. L’avocat et chroniqueur Jean Charles Visconti, fils de Pietro Antonio Visconti, cuisinier italien établi dans la ville en 1695 à la suite des armées de Louis XIV, évoque l’arrivée des frères parmi les faits marquants de l’année 1720: Les marguilliers de Sainte-Marguerite aliénèrent cette année une partie du cimetière de leur paroisse pour y bâtir différentes maison. Le collège des frères de la doctrine chrétienne y fut aussi construit et fondé par les soins et les dons de M. François de Valbelle évêque de St-Omer et de Messieurs du Magistrat, et les frères vinrent s’établir en cette ville au mois de septembre, et au premier octobre ils firent ouverture de leur classe. Les frères des écoles chrétiennes. St-Omer. 1719-1906. Saint-Omer, imprimerie H. d’Homont, 1906, pp. 236.

1


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RICERCHE

Matthieu Fontaine

Le 16 octobre sont arrivés à Saint-Omer les frères des écoles chrétiennes pour y demeurer. Les premiers furent le frère Bernardin supérieur, frère Clément, frère Hyacinthe, frère Zozime. Ils ont commencé à tenir les écoles le 11 novembre, dont deux enseignaient dans les anciennes écoles du chapitre et deux autres dans les écoles nouvelles bâties sur le cimetière de Sainte-Marguerite où est leur maison. Le 4 novembre par un mandement dépêché de l’évêque, ce grand événement fut annoncé.2

Un peu moins de quatre ans plus tard, le nombre des frères passe de quatre à sept. Le même Visconti signale ce fait: Dans le mois de juin 1724, le Magistrat accorda encore pour deux frères des écoles chrétiennes, au moyen de quoi ils sont sept dont deux enseigneront sur [la paroisse de] Sainte-Aldegonde, deux sur [celle de] Sainte-Marguerite et deux sur Saint-Sépulcre, pour quoi on fit bâtir des écoles sur le cimetière de Saint-Sépulcre.3

2. L’opposition des administrateurs de la ville

En 1742, des difficultés vont s’élever entre le Magistrat et les frères. Les administrateurs craignent que d’autres Lassaliens s’installent sans leur assentiment, et forment une communauté. Ils expriment leurs craintes dans deux délibérations au cours de l’été, la première en date du 26 juillet, la seconde, plus précise, le 18 août : Dans l’assemblée de Messieurs des Magistrats des deux années et des dix jurés pour la communauté il a été délibéré de faire les poursuites nécessaires pour obliger les frères de la doctrine chrétienne détachés de la maison de Saint-Yon appelés en cette ville pour y enseigner la jeunesse à lire et à écrire, à vider leurs mains de la maison qu’ils ont acquise dans le faubourg du Haut-Pont et de tout ce qui en dépend.4

Le 18 août 1742 dans l’assemblée des Magistrats des deux années et des dix jurés pour la communauté il a été résolu d’enjoindre aux frères des écoles chrétiennes détachés de la maison de Saint-Yon et appelés en cette ville pour y apprendre la jeunesse à lire et à écrire, de détruire le bâtiment qu’ils se sont avisés de commencer de leur autorité dans une partie du jardin de la maison dont ils n’ont que le droit d’habitation et de rétablir les lieux dans leur ancien état, avec d’autant plus de raison que par la délibération du 28 juin 1728 il est abondamment pourvu au besoin pour lequel ils veulent faire entendre qu’ils ont

Bibliothèque de l’agglomération de Saint-Omer, manuscrit 836. Ibidem. 4 Bibliothèque de l’agglomération de Saint-Omer, archives de la ville, copie de cette délibération, CXCII-21. 2 3


Un épisode de la vie des Frères avant la Révolution (1742-1743)

379

commencé ce bâtiment. Il a été délibéré au surplus de leur faire savoir que l’intention du Magistrat est que le nombre des frères en cette ville soit réduit à sept conformément à leur réception, liberté néanmoins d’en avoir un huitième seulement à leurs dépens ce qu’ils seront tenus d’exécuter en dedans deux mois sinon et à faute de ce faire les pensions que la ville leur paye seront arrêtées.5

Les aléas de la conservation des archives font que nous ne disposons à Saint-Omer que du point de vue des administrateurs de la ville, à défaut de connaître plus en détail la volonté et les arguments des frères. Toujours estil que la seconde délibération du Magistrat n’a pas plus d’effet que la première, et le 17 septembre 1742, il se tourne vers l’intendant Chauvelin, représentant du roi dans la province. Source : Bibliothèque d’agglomération de Saint-Omer, archives de la ville, correspondance du Magistrat, année 1742, pièce n° 34. A M. Chauvelin. Du 17 septembre 1742. Monsieur. Nous avons eu communication par votre subdélégué de la lettre que vous lui avez écrite le 29 août au sujet de la requête des frères des écoles chrétiennes, par laquelle ils se plaignent de deux ordonnances rendues en plein conseil de la ville les 26 juillet et 18 août dernier. La première concerne une acquisition qu’ils ont faite dans le faubourg du Haut-Pont. La deuxième un bâtiment qu’ils se sont avisés de commencer de leur autorité privée dans une maison qui leur a été assignée pour leur habitation précisément. Vous mandez Monseigneur qu’à l’égard du premier article il s’agit de savoir si leurs lettres patentes peuvent s’étendre au-delà de Rouen, que c’est ce que votre subdélégué discutera avec nous et avec ces frères, et qu’a l’égard du second article, il vous semble qu’on pourrait leur permettre ce qu’ils demandent. La délibération du 26 juillet n’a été prise qu’après une discussion exacte de leurs lettres patentes qu’ils nous avaient communiqués et il nous a paru clair comme le jour qu’elles nous sont étrangères, le nouvel examen que nous venons d’en faire ne fait que nous confirmer dans le jugement que nous en avions déjà porté. Si ces frères, qui se donnent la liberté de dogmatiser là-dessus par leur requête, avaient pris conseil de quelqu’un plus éclairé qu’eux, ils ne se seraient pas égarés comme ils ont fait, et s’ils ne se laissaient pas dominer par un esprit d’indépendance pour ne pas dire de révolte, ils auraient pour nous bien plus de ménagements qu’ils n’en ont. 5

Ibid.


380

RICERCHE

Matthieu Fontaine

À l’égard du second article, ils vous ont exposés que nous leurs défendons de faire un four dans leur maison et une boulangerie au-dessus, cette proposition telle qu’ils la présentent paraît d’abord favorable mais s’ils nous méprisent ils vous en imposent Monseigneur en ce que dès 1728 nous avons abondamment pourvu à ce qu’ils pouvaient désirer à cet égard comme le porte en termes exprès notre délibération du 28 juin 1728 ci jointe. Ils vous en imposent encore en ce qu’ils osent dire que le four qui a été fait alors est entièrement caduc et qu’il y a péril de feu, tout ceci n’est que prétexte, s’il avait besoin de réparation il suffisait qu’ils nous en parlassent puisque nous sommes chargés des réparations et entretiens de la maison qu’ils habitent, mais leurs vues bien marquées sont d’augmenter cette maison déjà plus que suffisante pour y loger 40 personnes 14 ou 15 frères compris. Ils ne dissimulent pas que leur dessein est de l’ériger ici en communauté. Ils prétendent même que leurs lettres patentes pour l’établissement de la maison de Saint-Yon à Rouen est un titre qui les en autorise et c’est dans cet esprit qu’ils veulent encore augmenter les bâtiments de leur habitation. Il nous importe donc d’arrêter le cours de cette entreprise, nos délibérations ont pour fondement les anciens placards, les lois du royaume et en particulier l’édit du mois de décembre 1666 sur le fait des formalités nécessaires pour l’établissement des communautés, enregistré au parlement le 31 mars 1667. Ils ne vous parlent pas Monseigneur de cette partie de la délibération du 18 août qui porte que le nombre des frères sera réduit à 7 conformément à leur réception, ils se multiplient ici malgré nous, ils se donnent pour maîtres de la maison qu’ils occupent et ils osent même se qualifier de communauté quoique suivant l’édit, elle soit illicite, faite sans pouvoir et au préjudice de l’autorité du roi et des lois du royaume, c’en sont les termes. L’acquisition qu’ils ont faite doit suivant ce même édit être confisquée au profit de l’hôpital général de cette ville. Au reste nous avons crû devoir agir avec plus de sagesse qu’eux, il leur est enjoint de réduire à 7 le nombre des frères qu’ils ont ici, conformément à leur réception, liberté néanmoins d’en avoir un huitième seulement, à leurs dépens, ce qu’ils seront tenus d’exécuter en dedans deux mois, sinon et à faute de ce faire, les pensions que la ville leur paie seront arrêtées. Le temps nous apprendra s’ils sont assez riches pour subsister sans ce secours, mais s’ils l’étaient assez pour n’en avoir pas besoin, nous pourrons mettre en usage des moyens plus efficaces, pour décomposer cette prétendue communauté. Nous sommes (...).

Neuf jours plus tard, le 26 septembre 1742, c’est au tour du procureur général du roi Joly de Fleury, à Paris, d’être sollicité par les mêmes administrateurs. Leur lettre reprend les arguments déjà évoqués, avec cet ajout qui vise à toucher la corde sensible du service du roi pour essayer de tourner la décision à leur avantage:


Un épisode de la vie des Frères avant la Révolution (1742-1743)

(...) Quoique Saint-Omer soit une ville de guerre nous sommes ici accablés de communautés, elles occupent de vastes terrains et quand il s’agit d’en trouver pour le service du roi on manque de ressource. Cependant, nous avons cru qu’il était de notre devoir de recourir à des lumières supérieures pour ne pas nous commettre et c’est dans cet esprit Monseigneur que nous venons vous supplier de nous faire connaître vos intentions. Peuvent-ils acquérir ici, peuvent-ils se multiplier et former malgré nous une communauté. (...)

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L’épilogue intervient l’année suivante, avec la décision de Joly de Fleury de débouter les frères de leur projet d’établissement, décision signifiée au Magistrat le 14 juin 1743. Cet épisode artésien n’est pas un cas particulier, il illustre les tensions qui émaillent la vie sociale des frères et leurs rapports avec les autorités politiques locales, tensions qui n’excluent pas, malgré tout, le respect mutuel. Un episodio della vita dei Fratelli delle Scuole Cristiane a Saint-Omer (Artois) prima della Rivoluzione: l’opposizione degli amministratori della città alla creazione di una comunità (1742-1743)

(Sintesi)

La presenza dei Fratelli delle Scuole Cristiane in una determinata città qualche volta poteva provocare tensioni con le autorità locali. L’articolo illustra, appunto, un episodio di questo tipo accaduto a Saint-Omer (Artois) in Francia. I Fratelli vi si insediarono nel 1720 su invito del vescovo e con il consenso degli amministratori della città. Ai quattro Fratelli arrivati nel 1720 si aggiunsero altri tre nel 1724. Nel 1742, preoccupati per le ristrutturazioni dell’immobile, eseguite dai Fratelli senza autorizzazione preliminare, e temendo l’arrivo di altri Fratelli, gli amministratori si recarono dal rappresentante del re nella Provincia ed dal Procuratore Generale del re, invocando da parte dei Fratelli il rispetto rigoroso del numero iniziale dei componenti della comunità. L’epilogo si ha nel 1743, con la decisione di negare ai Fratelli la realizzazione del loro progetto scolastico. Questo episodio non è un caso isolato ed illustra le tensioni che contrassegnavano l’inserimento dei Fratelli nella vita sociale e il loro rapporto con le autorità politiche locali; tali le tensioni non escludevano, tuttavia, il rispetto reciproco.


LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE CHARLES LAPIERRE, FSC Giovanni Battista de La Salle - cammina alla mia presenza Città Nuova, Roma 2006, pp. 234 L’autore ricostruisce l’itinerario del La Salle nel realizzare la vita che Dio gli ha chiesto “camminando alla sua presenza” e risponde a quanti desiderano conoscerlo come pedagogista e istitutore di grande attualità, ma anche a genitori ed educatori, che vedono in lui un modello da incarnare e un ideale da trasmettere ai giovani.

TERESIO BOSCO, SDB Giovanni Battista de La Salle – la forza di donare la vita Elledici, Leumann (To) 2004, pp. 44 Tratteggia la figura e l’opera del La Salle, pioniere dell’educazione in un tempo decisamente diverso dalla nostra epoca, specie in ambito scolastico ed educativo. La lettura del breve ritratto rende attuale la passione che il santo ebbe per la gioventù dell’epoca. E che i Fratelli delle scuole cristiane continuano a vivere oggi.

MANUEL OLIVÉ, FSC Giovanni Battista de La Salle – una vita per i giovani Istituto Gonzaga, Milano s.d., pp. 96 Biografia agile, incisiva, essenziale. Ricca di illustrazioni, è quanto mai adatta anche ai preadolescenti per iniziare un percorso di conoscenza di un santo educatore che per dedicarsi alla promozione dei ragazzi più poveri ha lasciato il ceto dei benestanti coinvolgendo nell’avventura altri giovani generosi per istituire le scuole gratuite.

LEO C. BURKHARD, FSC Un birichino di Parigi trad. it. di Camillo Coffano, Editrice A.&C., Milano 1961, pp. 160 Una storia romanzata alla gloria del pioniere e santo protettore delle scuole popolari. Tutte le vicende richiamano dei fatti storici. Al fine di garantire l’unità del racconto, l’autore ha ideato il personaggio del narratore attribuendogli dei fatti accaduti a molti. È lui – questo birichino di Parigi trascinato nella scia dell’eroe – che vi parla.

Giovanni Battista de La Salle Fondatore dei FSC e Patrono degli educatori fumetto di G. Signori e F. Pescador – Prov. Italia FSC, Roma 2008, pp. 207 I disegni, il testo e la sceneggiatura del fumetto, mentre non impediscono l’accostamento degli adulti alla vicenda storica e all’opera del La Salle, favoriscono invece un interessante e attento approccio all’opera del santo anche ai più piccini. ••• Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net


Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 383-390

ESPERIENZE E TESTIMONI

VOLVER A VAUGIRARD

DI ÓSCAR A. ELIZALDE PRADA Universidad de La Salle de Bogotá (Colombia)1

RESUMEN: 1. Introducción. - 2. “Laboratorio Lasallista” para volver a Vaugirard. - 3. Hacia un nuevo “Vaugirard”.

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1. Introducción

a referencia a Vaugirard en los relatos históricos de los Hermanos de las Escuelas Cristianas emerge justo cuando el naciente Instituto atraviesa una compleja encrucijada. A la temprana e inesperada muerte del Hermano Enrique L’Heureux, en quien san Juan Bautista de La Salle había puesto no pocas esperanzas para que fuera su sucesor, se sumó la perplejidad por la deserción de varios Hermanos y la escasez de nuevas vocaciones. Blain comenta que “esta era la triste situación en la que se encontraba el piadoso Fundador a fines de 1690. Después de tantos sacrificios, de tantas penas y trabajos, de tantas cruces y persecuciones, de tantas apariencias de éxito, se hallaba más o menos en el mismo estado que diez años antes, con pocos Hermanos, sin casi haber avanzado su obra, y con el temor de verla perecer”.2 A pesar de este sombrío panorama, la fe inquebrantable y el celo creativo del Fundador lo movió a transitar nuevas sendas. Convencido de que su obra era, en realidad, la obra de Dios (“Domine, opus tuum”), vislumbró que el futuro del Instituto sería posible si construía con prudencia evangélica “la casa sobre la Roca” (cf. Mt 7, 24-25). Buscó, entonces, “una propiedad Docente-investigador de la Universidad de La Salle en Bogotá (Colombia), vinculado al Departamento de Formación Lasallista. Redactor Jefe de la Revista Vida Nueva Colombia. Correo electrónico: oelizalde@unisalle.edu.co. 2 JUAN BAUTISTA BLAIN, Vida del Padre Juan Bautista De La Salle. Fundador de los Hermanos de las Escuelas Cristianas, Libro segundo, RELAL, Bogotá, 2006, p.130. 1


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ESPERIENZE E TESTIMONI

Óscar A. Elizalde Prada

ubicada convenientemente, cercana a París, que pudiera servir como centro para la renovación física y espiritual de los Hermanos antiguos, y de noviciado para los nuevos candidatos”.3 Su búsqueda lo condujo a Vaugirard, una pequeña aldea a las afueras de París, donde encontró un terreno con una casa sencilla, alejada, aireada, con habitaciones suficientes, y rodeada de jardines. Blain es enfático en decir que “es esta pobre casa la que los Hermanos pueden mirar como la segunda cuna de su Instituto: fue allí donde se renovó, donde retomó su primer fervor, donde comenzó el noviciado, y donde las virtudes de humildad, pobreza, obediencia, mortificación y penitencia volvieron a encontrar hombres que dieron ejemplos, de los que los tiempos heroicos de las órdenes nacientes podrían enorgullecerse”.4 La tradición lasallista ha dado a Vaugirard un lugar privilegiado en la historia del Instituto. Para los primeros Hermanos representó nada más ni nada menos que un espacio y un tiempo para “crecer por dentro”, revitalizar su espíritu de fe y de celo, y restablecer la salud de quienes se habían desgastado en el trajín diario, para así continuar la misión encomendada. El espíritu de Vaugirard ha prevalecido en algunas experiencias de renovación que han hecho parte de la vida de los Hermanos, como “el segundo noviciado” en Roma y los retiros que anualmente realizan los religiosos. Más recientemente, desde hace algunas décadas el Centro Internacional Lasaliano (CIL) ha abierto múltiples posibilidades de formación permanente para religiosos y laicos que comparten el carisma lasallista y manifiestan un particular deseo de “volver a las fuentes” para actualizar las implicaciones de su llamado a ser “ministros de Jesucristo” (cf. MTR 9,2) en el mundo de la educación, como lo sugirió De La Salle.5 Por supuesto, en cada Región, en cada Distrito y en cada una de las obras del Instituto, este tipo de experiencias han adquirido identidad propia, encarnándose en la historia de los pueblos y abriendo nuevos caminos de cuño espiritual lasallista. Son los caminos del Espíritu de Dios que “todo lo hace nuevo” (Cf. Ap 21, 5) y que recuerda los caminos que llevaron al Fundador a Vaugirard. LUKE SALM, Señor es tu obra. Vida de San Juan Bautista De La Salle, RELAL, Bogotá, 2004, p. 99. 4 BLAIN, Juan Bautista, op cit., p.132. 5 Cfr. SAN JUAN BAUTISTA DE LA SALLE, Meditaciones destinadas a todos aquellos que se dedican a la educación de la juventud, RELAL, Bogotá, 1996, p. 66. 3


Volver a Vaugirard

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2. “Laboratorio Lasallista” para volver a Vaugirard

La necesidad de “volver a Vaugirard” acompaña hoy las búsquedas de fidelidad creativa de los lasallistas. Hermanos, maestros, estudiantes, padres de familia, administrativos y todos aquellos que de alguna manera se vinculan a esta tricentenaria “obra de Dios”, con frecuencia comparten el desasosiego de un mundo en cambio, en crisis e impredecible, donde abundan las insatisfacciones, y los sentidos de vida se tornan esquivos. Sin embargo, las condiciones que hacen parte de la “sociedad líquida” de Bauman,6 ofrecen también diversas posibilidades de poner en tela de juicio lo que hasta ahora se había considerado como una heredad inamovible, con la certeza de que “formular las preguntas correctas constituye la diferencia entre someterse al destino y construirlo, entre andar a la deriva y viajar”.7 En el contexto de la educación superior, las condiciones impuestas por la globalización, reclama de las universidades lasallistas respuestas que apunten a la formación integral de sus estudiantes, donde también se contemple la necesidad de diseñar, desarrollar y acompañar experiencias de sentido para “crecer por dentro”. La Universidad de La Salle de Bogotá (Colombia), asumió esta tarea a la luz de su compromiso con el desarrollo humano integral y sustentable. “Desde los valores cristianos inspirados en la tradición educativa lasallista, creó el área de Ciencia y Pensamiento Cristiano del Departamento de Formación Lasallista”,8 encargada de “agenciar los espacios académicos de ‘Humanismo y Ciencia’ en las especializaciones, y ‘Laboratorio Lasallista’ en las maestrías, los cuales procuran dar vida al Proyecto Educativo Universitario Lasallista”.9 De este modo, “humanismo y ciencia han de encontrar en la universidad [lasallista] un espacio para el diálogo, para el mutuo cuestionamiento, para enriquecerse en la medida en que ambos buscan respuestas a los grandes enigmas de la humanidad, a los grandes desafíos de los tiempos y de los lugares”.10 Cfr. ZIGMUNT BAUMAN. Modernidad líquida, Fondo de Cultura Económica, Buenos Aires, 2004. 7 ZIGMUNT BAUMAN. La globalización. Consecuencias humanas, Fondo de Cultura Económica, Buenos Aires, 2008, p. 12. 8 UNIVERSIDAD DE LA SALLE. Hitos 15. Ciencia y pensamiento cristiano en la educación posgradual, Unisalle, Bogotá, 2011, p. 5. 9 Ídem. 10 CARLOS GABRIEL GÓMEZ, FSC., Humanismo, ciencia y lasallismo. Referentes para la misión de la Universidad de La Salle. En Revista de la Universidad de La Salle No. 45. Unisalle, Bogotá, 2008. 6


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ESPERIENZE E TESTIMONI

Óscar A. Elizalde Prada

Desde 2009, todas las maestrías de la Universidad de La Salle11 han incorporado en su malla curricular el espacio académico de “Laboratorio Lasallista”, el cual se concibe como “una propuesta de orden práctico y vivencial antes que un discurrir teórico en la que la Universidad se muestra como actor clave en su deconstrucción y reconstrucción permanentes”.12 Deconstruir y reconstruir permanentemente la experiencia de vida y el ejercicio profesional es, con certeza, una evocación al espíritu de Vaugirard. En este sentido, la educación que ofrece la universidad lasallista se puede entender como “un proceso orientado a facilitar que las personas logren ser responsables de sus propios actos, cultiven su sentido crítico, orienten sus acciones hacia los niveles profundos de la persona, fomenten la actitud de búsqueda, y construyan por sí mismas la identidad personal y el sentido de sus vidas”.13 Por eso, “el énfasis lasallista manifiesta explícitamente la importancia que contiene la relación pedagógica como posibilidad de formación”14 y “privilegia diversas didácticas que fundadas en un ejercicio reflexivo y crítico sobre la formación, apelan al saber pedagógico como referente de conocimiento esencial para la realización de una práctica fundamentada”.15

3. Hacia un nuevo “Vaugirard”

Particularmente los estudiantes de la maestría en docencia han reconocido que el Laboratorio Lasallista ha sido un espacio viable y pertinente frente a sus búsquedas de sentido como maestros. Más concretamente, les ha permitido resignificar su ser, saber y hacer docente, desde el pensamiento pedagógico-espiritual lasallista en perspectiva de educación superior. Cuatro módulos hacen parte del seminario que se realiza con una intensidad de 32 horas durante el último semestre de la Maestría: (1) Juan Bautista de La Salle: los desafíos de su tiempo y su propuesta educativa; (2) actualidad de la escuela lasallista; (3) el maestro: su ministerio y su vocación; y (4) el carisma lasallista hoy. Hasta aquí, posiblemente nada resulta muy novedoso en esta propuesta formativa. Al menos con relación a sus contenidos. En el momento de escribir este artículo (abril de 2013), la Universidad de La Salle de Bogotá (Colombia) contaba con 11 Maestrías: administración de empresas, agronegocios, ciencia animal, ciencias veterinarias, ciencias del hábitat, docencia, ciencias de la visión, gestión documental y administración de archivos, estudios y gestión del desarrollo, filosofía e ingeniería. 12 UNIVERSIDAD DE LA SALLE, Op. cit., p. 20. 13 UNIVERSIDAD DE LA SALLE, Enfoque Formativo Lasallista, Unisalle, Bogotá, 2008. pp. 13-14. 14 Ídem, p. 16. 15 Ídem, p. 19. 11


Volver a Vaugirard

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Sin embargo, desde el punto de vista metodológico, el tercero de los módulos (“el maestro: su ministerio y su vocación”) es el que mayor impacto ha causado en los estudiantes de la maestría, según lo han manifestado en la evaluación que se realiza al final del seminario. Se trata de una Jornada de reflexión e interiorización que se desarrolla fuera del campus universitario, a 25 kilómetros al occidente de la ciudad, en el monasterio de San Benito que se encuentra en el municipio de “El Rosal”, en un ambiente natural. El sentido que se le ha dado a esta experiencia (iniciativa del profesor José Luis Meza, de la Facultad de Educación de la Universidad), ha buscado, hasta cierto punto, emular la casa de Vaugirard de finales del siglo XVII, a través de un monasterio donde se respira la divisa benedictina “ora et labora”. Agotados por el desgaste laboral, en un tiempo académicamente exigente, donde la mayoría se encuentra inmersa en la elaboración de su trabajo de grado, esta Jornada es un “alto en el camino” para vivir una experiencia de interiorización y reflexión en la perspectiva lasallista de la fe, la fraternidad y el servicio, para re-leer el sentido profundo de la vocación de maestros y la trascendencia de su ministerio educativo. La Jornada se desarrolla mediante una dinámica participativa, que considera los itinerarios inéditos de cada estudiante a la luz de la pedagogía cristiana y de la pedagogía lasallista. De este modo, se privilegian momentos personales de interiorización y reflexión, aprovechando la exuberante riqueza natural del lugar, así como también algunos espacios de iluminación, compartir y celebración del ministerio educativo. Lo anterior implica una etapa de preparación, en la cual cada estudiante escribe una narrativa autobiográfica. Durante la Jornada, se proponen algunas dinámicas de interiorización que ayudan a redescubrir el valor del silencio para encontrarse consigo mismo y con el Dios de la vida. Para esto, resulta muy oportuno el diseño de algunos instrumentos de interiorización, a manera de guía, que ayudan a recorrer un camino de reflexión a través de preguntas y lecturas recomendadas (algunas Meditaciones para el Tiempo de Retiro y el capítulo 6 del ensayo “A la escucha del Maestro”:16 ¿cómo educar a la manera de Jesús?, de Mario Peresson, SDB). Al final de la experiencia, se realiza una celebración litúrgica inspirada en “la fiesta de las tiendas” (o de los Tabernáculos) del pueblo israelita, en cuatro momentos que permiten socializar los frutos de la jornada: (1) acogi-

MARIO PERESSON, SDB, A la escucha del Maestro. Ensayo de pedagogía cristiana, CLARCIEC-PPC, Bogotá, 2012. 16


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Óscar A. Elizalde Prada

da, (2) memoria, (3) palabra, y (4) bendición. Se trata, al mismo tiempo, de una técnica evaluativa que combina arte y espiritualidad.

* * * Por su carácter este texto queda en deuda con los lectores que deseen conocer más detalles de las Jornadas de Reflexión e Interiorización que se desarrollan en el Laboratorio Lasallista con los estudiantes de la Maestría en Docencia de la Universidad de La Salle de Bogotá. Es preciso decir que sólo se trata de una experiencia que procura responder a un imperativo siempre útil y necesario para todos los lasallistas: “volver a Vaugirard”. En su biografía del Fundador, Blain manifiesta que Vaugirard “tuvo el éxito que podría esperar Juan Bautista de La Salle”17 porque todos los que pasaban por allí “parecían otros hombres”. La renovación del carisma lasallista pasa, necesariamente, por la espiritualidad. Más allá de esta pequeña experiencia, las diversas propuestas que se desarrollan en el Instituto con una sensibilidad por la espiritualidad lasallista, señalan que existe una sed genuina y un llamado inaplazable para recuperar en este tiempo la inspiración de Vaugirard.

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BLAIN, Op. cit., p.133.


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TORNARE A VAUGIRARD18 (Sintesi)

Nella memoria storica dei Fratelli delle Scuole Cristiane si parla di Vaugirard proprio mentre il nascente Istituto attraversa un momento molto delicato. Alla immatura ed inaspettata morte del Fratello Henri L’Heureux, in cui San Giovanni Battista De La Salle aveva riposto non poche speranze quale suo successore, si aggiunse l’incertezza per la diserzione di vari Fratelli e la scarsità di nuove vocazioni. Nonostante questa prospettiva poco rassicurante, una fede incrollabile ed un fervente zelo conducono il Fondatore a Vaugirard, un piccolo agglomerato vicino Parigi, dove trova del terreno con una modesta casa, isolata, circondata da giardini, con aria buona e con sufficienti locali. La tradizione lasalliana ha sempre visto in Vaugirard un luogo privilegiato. Agli occhi dei primi Fratelli ha rappresentato uno spazio ed un tempo per “crescere dentro”, ravvivare lo spirito di fede e di zelo, far recuperare la salute per poi riprendere la missione affidata, a coloro che avevano esaurito le energie nell’attività quotidiana. Per quanto riguarda l’educazione superiore, le condizioni imposte dalla globalizzazione, esigono dalle università lasalliane delle risposte che mirino alla formazione integrale degli studenti ed anche alla necessità di programmare, sviluppare ed accompagnare esperienze che facciano “crescere dentro“. Da 2009 gli operatori delle Università La Salle di Bogotà (Colombia) hanno inserito nei programmi curricolari lo spazio accademico del “Laboratorio Lasalliano”, pensato come “una risposta pratica e dinamica più che come una dissertazione accademica in cui l’Università si mostra come principale artefice della sua permanente pars destruens et construens”. Annullare e ricostruire continuamente ciò che si sperimenta nella vita e nell’esercizio della professione è certamente una rievocazione dello spirito di Vaugirard. In questo senso, l’educazione che contraddistingue l’Università lasalliana si può spiegare come “un processo che permetta di orientare le persone ad essere responsabili delle proprie azioni, mantenendo il senso critico, dirigendo le azioni verso l’intimo della persona, coltivando la voglia di ricerca, e costruendo in se stessi la propria identità ed il significato della vita”. Soprattutto gli studenti del Magistero di indirizzo didattico hanno riconosciuto che il Laboratorio Lasalliano ha permesso loro di dare nuovo significato all’essere, sapere e fare l’insegnante, partendo dal pensiero pedagogico-spirituale lasalliano nella prospettiva dell’educazione superiore.

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Traduzione dalla lingua spagnola di Giovanni Decina.


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ESPERIENZE E TESTIMONI

Óscar A. Elizalde Prada

Il seminario che si svolge nell’ultimo semestre del Magistero è diviso in quattro moduli: (1) Giovanni Battista de La Salle: le sfide del suo tempo e la sua proposta educativa; (2) attualità della scuola lasalliana; (3) il maestro: il suo ministero e la vocazione; (4) il carisma lasalliano oggi. Dal punto di vista metodologico, il terzo modulo è quello che lascia veramente il segno negli studenti di magistero, secondo quanto hanno manifestato nella valutazione che si tiene al termine del seminario. In effetti, si tratta di una Giornata di riflessione e di interiorizzazione tenuta fuori del campus universitario, presso il monastero di San Benedetto, a contatto con la natura, nel borgo di “El Rosal”. L’esperimento ha cercato di emulare in certo qual modo la casa di Vaugirard alla fine del secolo XVII, nel bel mezzo di un monastero impregnato del motto benedettino “ora et labora”. Stanchi e affaticati per il lavoro quotidiano, in un tempo di pressanti impegni accademici, questa Giornata è una “pausa nel cammino” che permette di vivere una esperienza di interiorizzazione e di riflessione nella prospettiva lasalliana di fede, fraternità e servizio, per ri-leggere il significato profondo della vocazione di maestri e la trascendenza del proprio ministero educativo. Nella Giornata, si sviluppano dinamiche di partecipazione, in cui l’itinerario personale di ogni studente è vagliato alla luce della pedagogia cristiana e lasalliana. In questo modo vengono agevolati momenti personali di interiorizzazione e di riflessione come anche degli spazi per l’accompagnamento, la condivisione e la celebrazione del ministero educativo. Quanto detto, richiede una fase di preparazione, in cui ogni studente è invitato a tracciare una piccola autobiografia. Lungo la Giornata, si propongono alcune dinamiche di interiorizzazione che aiutano a riscoprire il valore del silenzio per incontrare se stessi e il Dio della vita. Per questo, è opportuno seguire a modo di guida, la traccia offerta dai mezzi di interiorizzazione, atti a favorire la riflessione attraverso domande e letture consigliate. In sintesi, bisogna dire che si tratta soltanto di una esperienza che facilita la risposta ad un imperativo: “tornare a Vaugirard”. Il rinnovamento del carisma lasalliano passa necessariamente per la spiritualità.


Rivista lasalliana 80 (2013) 3, 391-403

L’ŒUVRE CULTURELLE ET PEDAGOGIQUE DE FRERE RAPHAEL- LOUIS RAFIRINGA (1856 – 1919), MEMBRE TITULAIRE DE L’ACADEMIE MALGACHE ET PIONNIER DE L’INCULTURATION A MADAGASCAR Jean Rabenalisoa RavaliteRa Enseignant Chercheur à l’Université d’Antananarivo Membre titulaire de l’Académie Malagasy

HilaiRe RaHaRilalao Vice-Postulateur de la Cause du Frère Raphaël – Louis Rafiringa Membre titulaire de l’Académie Malagasy soMMaiRe: 1. le fils d’un forgeron. - 2. Un leader respecté. - 3. l’éducateur chrétien passionné de culture. - 4. le Religieux académicien. - 5. l’œuvre littéraire du Frère Rafiringa. 6. les communications du Frère Raphaël-louis Rafiringa à l’académie Malgache. - 7. Un pionnier de l’inculturation : annoncer l’evangile dans le milieu culturel malgache. - 8. le «missionnaire» dans un contexte malgache de première évangélisation. - 9. le lasallien, pionnier d’une éducation humaine et chrétienne à Madagascar. - 10. initiateur d’une pédagogie modelante de culture et de foi. - 11. Précurseur du mouvement œcuménique au printemps de l’eglise à Madagascar? - 12. Conclusion.

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1. Le fils d’un forgeron

é dans le paganisme de son père Rainiantoandro 10 Honneurs, chef–forgeron de la Reine Rasoherina, Raphaël Rafiringa se laisse entraîner à l’église de Mahamasina par sa sœur ernestine Rasonavony, déjà élève des sœurs de saint Joseph de Cluny. il prend goût aux cérémonies religieuses, fréquente l’école catholique tenue par Pierre Ratsimba. le père limozin, curé de la paroisse saint Joseph de Mahamasina, lui administre le baptême le dimanche 7 novembre 1869. Dès lors sa vie change, il devient plus pieux, plus assidu, plus appliqué; il est vrai que c’est un garçon intelligent. le Frère Gonzalvien le remarque, lui propose de poursuivre le cours de ses études à l’ecole principale notreDame du sacré-Cœur d’andohalo (1871), puis, il devient interne en 1874. Cette année, à la mort du Frère Yon et le départ pour la Réunion du Frère indrenis pour refaire sa santé, Raphaël avec trois autres camarades sont priés par le Frère Gonzalvien de s’adjoindre à lui et au Frère ladolien pour


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l’équipe éducative de l’ecole d’andohalo. ils acceptent volontiers et les quatre jeunes gens «se montrèrent dévoués et pleins de zèle pour l’emploi d’instituteurs et d’éducateurs de leurs jeunes concitoyens». la foi du jeune instituteur a été confirmée et développée par les exemples de la vie des Frères Gonzalvien et ladolien, par les réflexions et les catéchismes. la retraite de trois jours, l’appartenance à la Congrégation de la très sainte vierge ne firent que fortifier davantage la foi et la piété de Raphaël: on y voyait qu’il avait l’étoffe pour autre chose qu’un simple instituteur. il fit part de son dessein au Frère ladolien puis au Frère Gonzalvien et entra dans l’institut des Frères des ecoles Chrétiennes. après des lettres vraiment héroïques pour obtenir le consentement de ses parents, le 16 avril 1876, il fut admis comme postulant et le 1er Mars 1877, au noviciat sur place à antananarivo sous le nom de Frère Raphaël – louis. le Frère Gonzalvien, son Directeur et Maître des novices qui ne ménageait pas la formation de son novice, ne tarissait pas d’éloges sur lui: «Il était doué de toutes les qualités désirables pour un excellent Frère des Ecoles Chrétiennes. Tout le monde l’admire et le vénère». lorsqu’il parut pour la première fois dans son costume, tout le monde à l’église dit: «C’est un homme de foi! Il le mérite bien!» sa formation se poursuit au-delà du terme canonique. les cinq années depuis 1878 jusqu’en 1883 furent un continuel noviciat: il fut préparé ainsi à affronter une épreuve où il dut déployer foi, zèle, humilité et mortification. 2. Un leader respecté

a vingt-huit ans, le Frère Raphaël-louis Rafiringa, de par la guerre franco-malgache (1883-1886) et le départ de tous les missionnaires catholiques de Madagascar et la mort du Père basilide Rahidy, sj., le 10 avril 1883, resta le seul religieux malgache à antananarivo. la première surprise passée, les chrétiens d’antananarivo élisent le Frère Raphaël–louis comme leur Président, «leur Préfet». il dut organiser les réunions, présider au culte, administrer les sacrements du baptême, bénir les mariages, prêcher les retraites, convertir protestants, païens et agnostiques, travailler avec les jeunes gens de l’Union Catholique - qui étaient tous des condisciples ou des employés dans la haute administration royale - sous la protection officielle de victoire Rasoamanarivo, belle-fille du Premier Ministre et exemple vivant de sainteté. a lui tout seul revenait le soin des écoles, tant de la ville que de la campagne, et le soin matériel et spirituel de six novices et postulantes des sœurs de st Joseph de Cluny, ainsi que du soin des lépreux d’ambahivoraka qu’il fallait pouvoir de tout.


l’œuvre culturelle et pedagogique de Frère Raphael-louis Rafiringa (1856 – 1919)

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Durant ces quatre années de guerre, il reste le religieux que n’ébranlaient pas les reproches et les incitations à abandonner la vie religieuse, et qui s’abandonne à la Providence et reste fidèle aux exercices de piété. la guerre finie, il reprend sa place dans la Communauté enseigne, écrit des ouvrages d’éducation, consigne ses expériences dans «Fruits de quatre années de guerre». Mais une autre guerre franco-malgache va commencer, plus courte celle-ci (1894-1895). De nouveau, le Frère Raphaël-louis reste seul. Cette fois, l’evêque l’investit du soin des catholiques. il en est le chef spirituel, il leur passe ses consignes. il s’occupe spécialement des écoles catholiques; on leur en veut; il échappe à un guet-apens grâce à la protection de saint Michel.

3. L’éducateur chrétien passionné de culture

la communauté reconstituée, il reprend le rang. s’il accepte l’annexion de Madagascar sur le plan politique, par contre il résiste à la colonisation culturelle par une résistance «linguistique» dit un biographe. il fut un temps chef de quartier de Faravohitra, mais il sera toujours préoccupé de susciter des vocations religieuses. il donne des conseils à l’evêque, aux prêtres, aux Frères des ecoles Chrétiennes, fait partie de l’académie Malgache dès le début de la société savante. le Frère Raphaël-louis est un écrivain. il écrit dans les revues religieuses, rédige une grammaire et une poétique malgache, des pièces de théâtre. tous ces écrits n’avaient qu’un seul but: l’éducation des jeunes malgaches et surtout l’éducation de la foi et l’éveil des vocations sacerdotales et religieuses. il forma des cercles de jeunes où l’on accourait pour recevoir formation, conseils pour la vie. il était considéré comme l’un des membres les plus influents de la Mission Catholique. il n’est pas étonnant qu’il fût impliqué dans l’affaire de la v.v.s (Vy, Vato, Sakelika). les jeunes intellectuels d’alors formèrent une société secrète, pour conserver la civilisation malgache menacée par la civilisation européenne. Cette société fut jugée «anti-française» et politique. Donc, le 24 décembre 1915, à 18.30 heures, le Frère Raphaël-louis est arrêté par la police. on ramasse ses papiers, et on le conduit en prison, à antanimora, antananarivo. il n’oppose aucune résistance. Dans la cellule, son premier soin est de se jeter à genoux et de remercier Dieu! en prison, il récite la prière de communauté, égrène beaucoup de chapelets, fait le chemin de la croix avec le crucifix de sa profession, passe de longues heures en oraison et en méditations sur les meilleurs moyens d’avancer le Royaume de Dieu et de susciter des vocations sacerdotales et religieuses, de les former.


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Doyen des inculpés dans cette affaire pénible, il fut déclaré innocent et réhabilité après 58 jours d’incarcération, le 18 Février 1916. affecté à l’ecole saint Joseph de Fianarantsoa en 1917, il s’occupe de surveillance, de catéchisme; il prie, écrit une «vie des saints» de tous les jours; le chapelet ne quittait pas ses doigts. affaibli par les travaux et miné par la maladie, il mourut le 19 Mai 1919 durant l’épidémie de grippe espagnole, réconforté par les sacrements de l’eglise. en 1933, ses restes mortels retrouvés sans corruption, reviennent triomphalement à antananarivo. ils sont vénérés à soavimbahoaka, «la colline bénie du peuple» comme il se plaisait lui-même à l’appeler, parlant de la colline jadis nommée ifahitra. 4. Le Religieux Académicien

le Frère Raphaël-louis Rafiringa fut un des rares Malgaches membres de l’académie malgache fondée par Gallieni par l’arrêté du 23 Janvier 1902. Dès le 03 avril 1902, c’est-à-dire après la séance d’inauguration du 27 Février, «sur proposition de divers membres, les candidatures de M. Mondain, auteur de divers travaux sur la langue malgache, et du F. Raphaël–Louis Rafiringa, lettré indigène comme membre sociétaire, sont votées à l’unanimité».il ne tardera pas à devenir membre titulaire en remplacement de Rabesihanaka démissionnaire qui n’avait assisté à aucune séance et qui se sentait déplacé au sein d’une société savante. le Frère Raphaël-louis Rafiringa côtoyait Julien, berthier, ses anciens élèves, les pères Cadet et Malzac, les pasteurs vernier et Mondain. Parmi ces grands malgachisants européens, il était le seul (malgache) compétent. Dans sa lettre de condoléances, lors de la mort de cet illustre académicien, le président de l’académie Malgache, le docteur Fontoynont écrivait: «Je lis dans la Tribune que le Frère Raphaël-Louis est mort à Fianarantsoa. C’est une grande perte non seulement pour vous, mais pour nous-mêmes et pour tous ceux que les choses malgaches intéressent». Quatorze ans après sa mort, lors de la réinhumation de ses cendres à antananarivo, le président rappelait encore sa profonde connaissance, non seulement de la langue malgache, sa langue maternelle, mais du français qu’il enseigna à une foule de compatriotes. «Le F. Raphaël était un excellent éducateur, un grammairien ainsi qu’un linguiste remarquable. Plusieurs de ses communications à l’Académie Malgache portent l’empreinte d’un esprit clair et précis. Nous aimions l’entendre prendre la parole et en un français impeccable, argumenter l’un et l’autre». Ces témoignages montrent la valeur culturelle du Frère Raphaël-louis Rafiringa très connu et fort apprécié dans le milieu religieux mais méconnu


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sinon oublié par l’histoire dans le milieu culturel et surtout dans l’histoire littéraire malgache. Fort heureusement, l’année de sa béatification, une thèse de doctorat en littérature malgache intitulée «Ny very tadiavina hita ao amin’ny sanganasan’ i Frera Raphaël-Louis Rafiringa = les valeurs (malgaches) perdues mais retrouvées dans les œuvres du Frère Raphaël-louis Rafiringa» comble cette lacune.

5. L’œuvre littéraire du Frère Rafiringa

il est difficile de dresser un tableau complet de l’œuvre littéraire du Frère Raphaël-louis Rafiringa. tout ce qu’on peut dire, c’est qu’elle est immense et variée mais si mal connue. Personne ne pourra en faire l’inventaire, car un certain nombre d’écrits ont été victimes du «vandalisme», qui fit détruire une grande partie de son œuvre en 1915. De même, la règle de modestie religieuse à laquelle il se pliait, la collaboration anonyme qu’il apporta à de nombreux ouvrages de la Mission Catholique, ouvrages soit collectifs, soit signés par des missionnaires français, tout cela fait que sa paternité littéraire ne peut être prouvée sans contestation que dans quelques ouvrages.

on pourrait classer les œuvres du Frère Raphaël-louis Rafiringa en deux catégories:

• Les œuvres d’inspiration chrétienne

il produisait des opuscules dont le but est d’éclairer païens et protestants: - Fonjambolamena madio (lingots et or pur), - Fanambadiana kristianina (le mariage chrétien), - Ramanantsoa sy ny zanany (Ramanantsoa et ses enfants), - Leingahy mianaka (leingahy et son fils).

Ces ouvrages étaient autant de démonstrations de la vérité catholique qu’une réfutation des erreurs protestantes et païennes. a l’occasion des fêtes religieuses, il composait des pièces à faire pénétrer chez les spectateurs les beautés du catholicisme comme La pièce historique et véritable Apologie de la Mission, présentée à antananarivo le 13 novembre 1912 à l’occasion de la clôture de l’année jubilaire de la Mission catholique. il y avait aussi la traduction en beau malgache de la pièce Le signe de la Croix de Baju, ou encore Les vertus et les talents extraordinaires de Mgr Cazet, caractérisés par les proverbes malgaches. Jusqu’à la fin de sa vie, il travaillait encore à traduire La vie des Saints (tantaran’ny olo-masina isan’andro), la traduction des Lamentations de Jérémie. on peut dire aussi que les lettres qu’il


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a écrites à ses supérieurs canoniques ou à ses confrères ont une valeur littéraire.

• Les œuvres d’inspiration profane

le Frère ismaël norbert avançait les chiffres suivants: 41 poèmes écrits de 2 500 vers contenus dans 100 pages; 11 pièces théâtrales contenues dans 193 pages dont: - Andrianampoinimerina, Radama 1er, Radama II, rois de Madagascar - Des traductions des Fables de la Fontaine, de Telemaq… - vers l’année 1881-82, sur les instances réitérées qui lui firent faites, il écrivit une Histoire de Madagascar dont le manuscrit contenait environ 600 pages. le travail fut remis au Père De la vaissière; - la collaboration du Frère Raphaël-louis au Dictionnaire du Père Malzac est certaine; dans la préface du Dictionnaire Malgache-Français, sorti en 1888, sous les noms des Pères abinal et Malzac, le Père Malzac mentionna «l’aide de plusieurs Malgaches intelligents et connaissant bien le Français»; - L’historique du collège Saint Joseph d’Andohalo couvrant 500 pages manuscrites; c’est plutôt une manière de diaire; ouvrage d’une valeur historique. l’éducation de la jeunesse fut aussi le souci constant du Frère. ainsi fut écrit Fanabiazana ny tanora (l’éducation des jeunes). le périodique catholique malgache Ny feon’ny Marina (la voix de la vérité), de novembre 1913 à avril 1914 publie un long article du Frère Raphaël-louis. Citons encore Ny fahaiza-miteny (L’Art oratoire), une œuvre très originale qui fera certainement école. a partir du jeu national Fanorona (équivalent malgache du jeu d’échec), il a théorisé les 21 figures de la stratégie des jeux pour établir une technique oratoire.

6. Les communications du Frère Raphaël-Louis Rafiringa à l’Académie Malgache

toutes les communications faites par le Frère à l’académie Malgache, qu’on peut trouver dans le Bulletin de l’Académie Malgache (baM) sont d’une extrême importance, une richesse culturelle inestimable, Citons: - De l’orthographe malgache. Réflexions préliminaires, baM, i, 4 (1902), pp. 186 – 189; - Quelques règles d’orthographe malgache, baM, ii, 4 (1903), pp. 237-239; - Règles de prononciation malgache et orthographe tirée de ces règles. baM, iii, 1 (1904), pp. 15-16; - Notes sur la langue malgache, baM, v (1957), pp. 51-54.

en guise de conclusion, on peut dire que le Frère Raphaël-louis Rafiringa nous a laissés un héritage culturel immense. sa modestie ne fait que


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rehausser sa valeur culturelle. son statut d’académicien le classait déjà parmi les immortels. le proverbe malgache «Volamena latsaka ambovoka tsy avelan’ny soa tsy hamiratra» (tel un poudre d’or jeté dans de la poussière, sa valeur ne le laisserait pas ternir (traduction libre), illustre ses qualités.

7. Un pionnier de l’inculturation: annoncer l’Evangile dans le milieu culturel malgache

Frère Raphaël-louis Rafiringa, religieux profès de l’institut des Frères des ecoles chrétiennes, natif de Madagascar et digne fils de saint Jean-baptiste de la salle, fondateur de cet institut au Xviième siècle en France, s’est illustré notamment comme religieux éducateur dans le charisme de l’éducation humaine et chrétienne des jeunes et des pauvres, vécu en milieu socioculturel malgache du XiXème siècle. né le 13 novembre 1856 à antananarivo d’une grande famille de la religion ancestrale malgache, il mourut à Fianarantsoa le 19 Mai 1919. il aura vécu à un moment particulièrement significatif de l’histoire de la Grande ile: le passage de la royauté malgache au régime colonial occidental. Ce qui a contribué chez lui à un cheminement humain et religieux déterminant, aussi bien pour la vie de la nation que pour celle de l’eglise à Madagascar.

Quand les trois premiers Frères des ecoles chrétiennes en la personne des Frères Gonzalvien, ladolien et Yon débarquèrent sur le sol malgache le 24 novembre 1866, appelés par les prêtres jésuites arrivés plus tôt pour initier l’évangélisation à antananarivo, Raphaël – louis Rafiringa avait 10 ans. Personne n’aura douté que par des circonstances historiques inattendues que sont les deux guerres franco-hova (1883-1886; 1894-1895), les missionnaires seront très vite relayés dans leur œuvre évangélisatrice par les premiers chrétiens autochtones. les uns et les autres, mais d’une manière fort différente, vont enjoindre dans un même milieu l’unique Parole du Maitre : Allez dans le monde entier, proclamez l’Evangile (Mc16,15). Frère Raphaël- louis Rafiringa, avec une femme laïque, victoire Rasoamanarivo et les jeunes de l’Union Catholique l’auront accompli à leur dépens, mais dans un sursaut et un élan de foi extraordinaire qui n’ont d’égal que la jeunesse de l’eglise malgache naissante.

8. Le «missionnaire» dans un contexte malgache de première évangélisation

avec l’avènement de l’expansion européenne et la période coloniale du XiXème siècle, Madagascar avait accueilli les missionnaires protestants de la London Missionary Society ainsi que les missionnaires Catholiques français


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venus de l’île bourbon (la Réunion). Devant l’influence grandissante aussi bien de la politique que de l’évangélisation dans son Royaume, la Reine de Madagascar avait décidé d’expulser tous les étrangers du territoire malgache, les missionnaires inclus (prêtres, religieuses, religieux); Frère Raphaël-louis Rafiringa se retrouva seul. avant leur départ, il s’est vu confier par les missionnaires la garde et la responsabilité de la jeune chrétienté malgache. evoquant une situation aussi historique d’évangélisation, le pape Paul iv ne lancera – t – il pas plus tard son appel de défi, à Kampala en 1969, sans ambages: «Africains, vous êtes désormais vos propres missionnaires…». et à l’occasion de la visite pastorale de Jean-Paul il en 1989 à Madagascar, le Frère Raphaël-louis Rafiringa fut salué plusieurs fois à l’égal de victoire Rasoamanarivo comme l’une des figures remarquables de la jeune eglise locale. Premier fruit lui-même de l’action évangélisatrice des missionnaires en terre malgache et ayant souffert de l’absence de ces derniers pendant trois ans de guerre, Raphaël–louis Rafiringa avait eu déjà un souci particulier de la relève des missionnaires: les vocations religieuses et sacerdotales autochtones et surtout de leur formation inculturée.

9. Le Lasallien, pionnier d’une éducation humaine et chrétienne à Madagascar

Religieux convaincu du charisme de Jean-baptiste de la salle, et formé à l’esprit de l’éducation, Frère Raphaël-louis Rafiringa s’employa à évangéliser ses contemporains notamment au sein des eglises et des écoles d’antananarivo. il resta un grand religieux éducateur malgré les dures épreuves de ces années d’absence des missionnaires et de ses confrères, il sut inventer des pistes apostoliques imposées par les circonstances; catéchismes, visites aux malades et aux lépreux, etc. et comme apôtre animé d’esprit de foi et de zèle, il trouva des modes d’action éducative nouveaux, bien en avance sur ce que l’eglise et le Concile vatican ii lanceraient et approuveraient comme cette place active et engagée des laïcs. «L’éducation de la jeunesse dans les misions, écrivait-il, est un des moyens les plus efficaces pour faire prendre racine la Religion chez les infidèles, parce que c’est par elle que les principes de la Religion peuvent entrer dans toutes les parties de l’âme avec les premières impressions de l’enfance et grandir avec elle». le docteur Fontoynont, président de l’académie malgache dont il était membre, témoignait ainsi le 18 Juin 1933 quand ses restes ont été ramenés à antananarivo: «Le Frère Raphael avait reçu aussi la juste récompense de maîtrise dans l’art d’enseigner ainsi que de sa profonde connaissance non seulement de la langue malgache, sa langue maternelle, mais du français qu’il enseigne à une foule de ses jeunes compatriotes. Le Frère Raphael était un excellent éducateur, un grammai-


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rien ainsi qu’un linguiste remarquable. Plusieurs de ses communications à l’Académie malgache portaient l’empreinte d’un esprit clair et précis. En ces jours où sont ramenés à Tananarive ses restes, tous ceux parmi nous que la mort n’a pas encore fauchés, apportent par ma voix, un tribut mérité de déférence, de reconnaissance pour les services rendus au peuple malgache et d’affection à la mémoire du Frère Raphaël-Louis dont ses chefs et ses collègues venus d’Europe surent apprécier la haute valeur, et à qui ses nombreux élèves avaient voué, et vouent encore une affection sans bornes».

10. Initiateur d’une pédagogie modelante de culture et de foi

avec l’assentiment de ses supérieurs à partir de 1896, le Frère Raphaëllouis organisa un enseignement à base de joutes oratoires qui groupa l’élite des jeunes gens de l’etablissement. C’est un grand honneur que de faire partie de ces hommes graves. Dans ce cénacle, les discussions étaient surtout philosophiques: on cultivait tout spécialement la logique en traitant de la morale et du dogme. les dimanches, des jeunes gens catholiques se répandaient dans les villages et travaillaient à l’évangélisation; on les appellerait aujourd’hui des catéchistes volontaires. sans être suffisamment documenté pour apprécier à leur juste valeur les travaux de ces groupes qui sûrement manquaient d’unité, il ne semble pas téméraire, malgré la pauvreté des documents, d’affirmer qu’ils produisirent un bien. Certains jeunes plus disposés et des mieux doués recevront au moins deux fois par semaine un supplément d’instruction religieuse. le Frère Raphaël-louis Rafiringa est chargé de ce cours. D’ailleurs, ce travail cadre parfaitement avec ses goûts et ses aptitudes. Fréquentant le milieu intellectuel de l’époque. le Frère Raphaël-louis Rafiringa a su allier la sainteté et la science. ecrivain hors pair, historien, poète et davantage, il a été toujours consulté par les intellectuels de toutes tendances et de toutes confessions. il a su allier en lui la simplicité, la science et la sainteté de vie. Un état heureux qui lui a valu l’admiration des scientifiques de l’époque. la Revue de Madagascar, publiant une étude posthume du poète malgache Jean-Joseph Rabearivelo sur «Poésie et folklore malgache» citait: «Parallèlement, la fidélité plus ou moins stricte aux traditions ancestrales était conseillée dans ces régions par les missionnaires catholiques. L’histoire littéraire rapporte, avec œuvres à l’appui, que Raphaël Rafiringa en était le promoteur». Membre correspondant du Bulletin de l’Archiconfrérie du Très Saint-Enfant-Jésus, il produit de nombreux articles à l’intention des missionnaires. le nom du Frère Raphaël–louis Rafiringa est cité parmi quelques personnalités marquantes des Frères des ecoles chrétiennes dans le Dictionnaire historique de l’Education chrétienne d’expression française, Paris 2001.


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11. Précurseur du mouvement œcuménique au printemps de l’Eglise à Madagascar?

on a dit du Frère Raphaël–louis Rafiringa qu’il savait donner une large place à l’inculturation - dont on ne parlait pas encore à son époque. C’est affirmer qu’il était éducateur chrétien pleinement qualifié. sa foi, ses convictions de religieux rayonnaient autour de lui, dans les écoles et la vie sociale. son influence s’étendait dans tous les milieux, catholiques, protestants et païens. ila contribué avec persévérance à promouvoir la culture vraie, celle qui se nourrit de l’evangile, comme aussi de l’expérience des sociétés évoluées (Mgr victor sartre, 19 Janvier 2000). l’élément protestant qui vient d’arriver dans les écoles des Frères demande à être suivi de près. il y avait là d’assez nombreux enfants de bonnes familles, et il en viendra sûrement d’autres. or, former un enfant au christianisme, surtout s’il appartient à une famille influente, c’est à coup sûr jeter des bases pour un avenir religieux. il fallait donc renforcer, pour ainsi dire, l’esprit chrétien chez les enfants nouveaux venus. il est bien vrai que le Frère Raphaël-louis Rafiringa ne se contentait pas non plus d’enseigner la lecture, le calcul et le reste. il visait toujours la formation des consciences pour en faire des hommes, des citoyens instruits, des hommes de devoir. Pour lui, le chrétien doit être prêt pour servir l’eglise et son pays. Pendant toute l’année, les dimanches et les jours de fête, c’était le Frère Raphaëllouis Rafiringa qui faisait les instructions aux fidèles, matin et soir. les protestants et les païens venaient aussi à lui. il les instruisait et les éclairait, leur prouvant l’existence d’une autre vie après celle-ci, d’un lieu de tourments pour les méchants, de bonheur pour les bons et dont la durée sera éternelle.

12. Conclusion

Quelle est donc l’influence de l’action menée par le Frère Raphaël-louis Rafiringa pour l’inculturation à son époque et dans le monde d’aujourd’hui à Madagascar? il va sans dire que la naissance de l’eglise et son enracinement en milieu malgache ont été aux XiXème et XXème siècles le fruit du travail des laïcs dont victoire Rasoamanarivo, le Frère Raphaël–louis Rafiringa et les jeunes de l’Union Catholique. a leur retour en 1886, les missionnaires ont été non seulement ravis de voir rassemblée la communauté chrétienne catholique, après trois ans d’absence, mais de la voir encore plus nombreuse et dynamique. sans oublier les vertus du religieux modèle attaché profondément à l’eglise que fut le Frère Raphaël-louis Rafiringa, il aura apparu, par ses services d’éducateur chrétien qui éveille, une grande figure malgache, comme étant promoteur d’une culture chrétienne et d’une civilisation nourrie de la lumière et de la sève de l’evangile.


l’œuvre culturelle et pedagogique de Frère Raphael-louis Rafiringa (1856 – 1919)

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si, toutefois de par les vicissitudes de l’histoire socio-culturelle et politico-religieuse qu’a vécues la nation malgache, son influence n’a pas apparemment réalisé ce qui faisait son rêve et celui de tous les missionnaires dans la vie de l’eglise et du pays, il ressort nettement que le citoyen comme le chrétien malgache sauront trouver en lui un nouveau modèle «d’inculturateur» à la fois proche et interpelant pour une nouvelle mission éducative audacieuse, au service et pour un meilleur avenir de la jeunesse et de la société malgache. Sources bibliographiques

Bulletin de l’Académie Malgache, notamment les années 1902-1904 et 1957; Roland MaRtin, Le Cher Frère Raphaël-Louis Rafiringa, Université de Madagascar, antananarivo 1970; J.l.C RaMaHeRY, Le Cher Frère Raphaël-Louis Rafiringa, imprimerie Catholique, antananarivo 1994; ilF & bFR, Le Frère Raphaël-Louis Rafiringa, Académicien, Ecrivain, Orateur, Traducteur, Poète, Grammairien, Linguiste, Historien, Visionnaire, édité par imprimerie lasallienne, Faravohitra et bureau «Frère Rafiringa», s.i.d.; Jean Rabenalisoa RavaliteRa, ny very tadiavina hita ao amin’ny Sanganasan’i Sefrera Raphaël-Louis Rafiringa, FlsH, antananarivo 2008 (thèse de Doctorat). Mgr victor saRtRe, Mémoires, Pour l’Histoire de Madagascar… (1933-1990), ambozontany/Karthala, 2008. bruno HUbsCH, L’Eglise catholique à Madagascar, Esquisse d’une histoire du XXè siècle, Coll. Foi et Justice, série «Recherches historiques».


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esPeRienze e testiMoni

Jean Rabenalisoa Ravalitera

FRATEL RAPHAEL-LOUIS RAFIRINGA GENIO DELLA LINGUA MALGASCIA E MODELLO DI VITA CRISTIANA E RELIGIOSA (Sintesi*)

Figlio di un fabbro e sprovvisto di ogni cultura e di ogni altra religione se non quella degli antenati malgasci del XiX secolo, Raphael-louis Rafiringa è diventato un genio della lingua malgascia e un modello di vita cristiana e religiosa, preso da grande passione per la cultura e per la fede, dichiarato beato dalla Chiesa Cattolica nell’anno 2009. “Ma Fratel Raphael-Louis è soprattutto un santo, che ha amato Dio con tutte le sue forze mettendosi al suo servizio ed ha amato il suo Paese con tutto il suo cuore, valorizzando le ricchezze della cultura e le bellezze della lingua malgascia” (a. amato).

Degno discepolo di Giovanni battista de la salle, Fondatore dei Fratelli delle scuole Cristiane, e degno figlio della sua terra, ha saputo assemblare i valori della cultura malgascia a quelli del cristianesimo per iniziare un dialogo fecondo fondato sul vangelo, al servizio dell’uomo e del popolo malgascio. Pensatore e comunicatore, poeta, scrittore e drammaturgo, Raphaellouis Rafiringa non è da meno come educatore vicino ai giovani nella scuola e agli adulti fuori della scuola, intento a far assimilare nei loro cuori la fede cristiana mediante il sapere, il saper essere e il saper vivere.

il suo messaggio, consegnato ad un Paese alle prese con la civilizzazione coloniale dominante dell’epoca, resta attuale ancor oggi per un Madagascar in affannosa ricerca di identità e di vita nuova per il suo sviluppo in piena era di globalizzazione.

Malgrado la sua ricca personalità, egli ha saputo dare al suo insegnamento l’unità e la coerenza richieste dalla sua vita religiosa. Pertanto Raphael-louis Rafiringa non sarebbe un poeta se la sua musa non fosse stata proprio la fede; non si sarebbe distinto dalla matrice della lingua malgascia e francese se l’attuazione della sua fede non glielo avesse richiesto. Fede e cultura, in un contesto malgascio critico come era quello del XiX secolo, permeato di evangelizzazione e di storia coloniale, sono stati per Raphael-louis Rafiringa un vero campo di ricerca e di impegno, il più propizio per poggiarvi le fondamenta di una nuova identità e tracciarne il cammino.

* traduzione dalla lingua francese di italo Carugno.


l’œuvre culturelle et pedagogique de Frère Raphael-louis Rafiringa (1856 – 1919)

Ciononostante egli non è vissuto senza difficoltà. lungo la vita è stato travagliato da dure prove: l’incomprensione dei suoi stessi familiari rimasti pagani, le critiche infondate dei suoi avversari, le calunnie, le minacce di morte, la prigione, il peso delle responsabilità affidategli ad ogni partenza forzata dei missionari… Ma lui è rimasto forte e tenace, sostento da un’incrollabile fede.

Raphael-louis Rafiringa oggi è celebrato come una delle più grandi figure della storia coloniale, religiosa e letteraria del Madagascar. senza dubbio per il suo esemplare patriottismo, per la sua ammirevole erudizione - fu uno dei primi autoctoni membri dell’accademia Malgascia – per i suoi talenti di oratore e di poeta, per le sue eccezionali qualità nel campo dell’educazione.

Un autore contemporaneo, che aveva deciso di avventurarsi in una biografia documentata su Raphael-louis Rafiringa, scriveva all’inizio della sua opera che era un personaggio perlomeno difficile da inquadrare; e terminava con queste parole: “Dallo studio che ne ho fatto, posso affermare che Fratel Raphael-Louis Rafiringa era un autentico malgascio, un patriota, un ardente figlio di malgasci, accorto, protettore degli orfani, amico dei poveri, intrepido difensore della fede cattolica e lasalliano fin nelle midolla” (J.l.C. Ramahery).

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Rivista Lasalliana 80 (2013) 3, 405-430

RECENSIONI E NOTE

Pavel Florenskij. Un grande scienziato alla ricerca del noumeno nei fenomeni.

S. TAGLIAGAMBE, Il cielo incarnato. Epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij, Aracne, Roma, 2013, pp. 1-190, e 12,00.

1. Nato in Azerbaigian il 9 gennaio 1882, Pavel Florenskij trascorre l’infanzia e l’adolescenza in Georgia, dove la famiglia si era trasferita. A Tbilisi frequenta le scuole primarie e il ginnasio. Figlio di un ingegnere delle ferrovie, nel 1900 si iscrive alla Facoltà di fisica e matematica dell’Università di Mosca, dove si laurea in matematica nel 1904 con un lavoro dal titolo Sulle caratteristiche delle curve piane come luoghi di violazione del principio di continuità. La tesi viene molto apprezzata negli ambienti matematici, tanto che non sarebbe stato difficile per Florenskij intraprendere la carriera accademica. Egli, tuttavia, nonostante i suoi spiccati e vasti interessi scientifici, si incammina su di una strada differente da quella accademica. Fu, infatti, l’incontro con il vescovo Antonij Florensov e con il monaco Isidoro Gruzinsky a fargli prendere la decisione di iscriversi all’Accademia Teologica di Mosca. Qui, per ben quattro anni, Florenskij sviluppa un progetto di ricerca consistente in una approfondita analisi della tradizione teologica russa. Nel 1910 ottiene la licenza in teologia e si sposa con Anna Giacintova (1889-1973) che gli darà cinque figli.

Ordinato prete ortodosso, sempre nel 1910 viene nominato docente di filosofia e l’anno dopo gli viene affidata la direzione del «Messaggero teologico» – rivista dell’Accademia Teologica di Mosca. È nel 1914 che appare la sua opera di maggior rilievo: La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere. Va in ogni caso precisato che gli studi filosofici e teologici andarono di pari passo con l’impegno nella ricerca scientifica, specialmente in ingegneria elettrotecnica, oltre che in fisica e matematica. Fu Lenin a sentenziare che «il socialismo è la dittatura del proletariato, con l’aggiunta della più vasta introduzione del più moderno macchinario elettrico». E avvenne, allora, che dopo la rivoluzione, proprio a motivo delle sue competenze in elettrologia, Florenskij venne chiamato a collaborare nell’Amministrazione centrale per l’elettrificazione della Russia e all’Istituto Elettrotecnico di Stato. Nel frattempo, nel 1919, era stato nominato responsabile della Commissione per la salvaguardia dei monumenti della Lavra di San Sergio – incarico che costituì per lui una preziosa occasione di riflessione artistico-teologica. Ancora nel 1927, Florenskij è redattore della Grande Enciclopedia Tecnica. Intanto, però, il regime stalinista stringe sempre più le maglie del controllo totale sulla vita delle persone e diventa così impossibile la collaborazione con le istituzioni da parte di un intellettuale che, in tutte le riunioni, si presen-


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RECENSIONI E NOTE

tava in abito talare, nonostante il chiaro divieto delle autorità politiche. Arrestato nel maggio del 1928 e condannato a tre anni di confino come soggetto socialmente pericoloso, Florenskij venne liberato non molto tempo dopo, grazie all’interessamento dell’ex-moglie di Gorkij, la quale era a capo della Croce Rossa. Di nuovo, a Mosca, nel 1930 lavora in qualità di vicedirettore dell’Istituto Elettrotecnico K.A. Krug, e nel 1931 entra a far parte della Direzione Centrale per lo studio del materiale elettroisolante. Prosegue anche nei suoi studi filosofici e teologici. Nuovamente arrestato nel 1933, viene condannato a dieci anni di lavori forzati. Passa sei mesi nel carcere della Lubjanka per poi venir trasferito, nella Siberia occidentale, nel Lager di Skovorodino; e da qui, nel 1934, nelle isole Solovki, in quello che fu il primo Lager sovietico. Condannato alla pena di morte dalla trojka speciale di Leningrado, venne fucilato nella notte dell’8 dicembre 1937 in un bosco non lontano dalla città. Ed ecco il commento di Sergej Bulgakov allorché venne a sapere della morte di Pavel Florenskij: «Di tutti i contemporanei che ho avuto la ventura di conoscere nel corso della mia lunga vita, egli è il più grande. E tanto più grande è il delitto di chi ha levato la mano su di lui, di chi lo ha condannato a una pena maggiore della morte, a un lungo e tormentoso esilio, a una lenta agonia [...]. Padre Pavel per me non era solo un fenomeno di genialità, ma anche un’opera d’arte [...]. L’attuale opera di padre Pavel non sono più i libri da lui scritti, le sue idee e parole, ma egli stesso, la sua vita». 2. Sette anni dopo la pubblicazione di Come leggere Florenskij, Silvano Tagliagambe torna ad occuparsi di questo “straordinario pensatore” con il volume Il cielo incarnato. Epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij. Si tratta di un lavoro

istruttivo e prezioso dove, tramite la ricostruzione dell’itinerario speculativo di Florenskij, si aprono squarci su quel contesto scientifico e filosofico della Russia di allora in gran parte ancora ignorato dalla cultura occidentale, e dove si mostra come le idee di Florenskij, quali quelle di “simbolo” e di “confine” siano in grado di gettar luce su alcuni dei più rilevanti temi del dibattito epistemologico contemporaneo. Così è, per esempio, per il problema della verità e del rapporto tra “oggetto reale” e “oggetto della conoscenza”, per la relazione tra scienza e tecnica, per il nesso tra pensiero e volontà, per il posto dell’uomo nell’evoluzione del cosmo. Dunque: epistemologia del simbolo. In una pagina della raccolta Ai miei figli. Memorie di giorni passati Florenskij scrive: «Il simbolo è una finestra verso un’altra essenza che non è data direttamente [...] Per tutta la vita ho pensato, in sostanza, a una sola cosa: al rapporto tra fenomeno e noumeno, al rinvenimento del noumeno nei fenomeni, alla sua manifestazione, alla sua incarnazione. Sto parlando del simbolo. E per tutta la vita ho riflettuto su un solo problema, il problema del simbolo». Ancora Florenskij in La venerazione del nome come presupposto filosofico: «Il simbolo è un’entità che manifesta qualcosa che esso stesso non è, che è più grande e che perciò si rivela attraverso questo simbolo nella sua essenza [...] Il simbolo è una realtà la cui energia cresciuta insieme o, meglio, confluita insieme con un altro essere più prezioso rispetto a lui, contiene in sé quest’ultimo». Ed ecco, allora, commenta Silvano Tagliagambe, che il simbolo non si contrappone al concetto, non è l’“altro” del concetto, quanto piuttosto è «il concetto stesso che, preso atto dei propri limiti, si apre al suo al di là, cercando di “forzare” in qualche modo i


Dario Antiseri

confini del pensiero razionale». Ebbene, proprio sulla base di simile ardito tentativo di epistemologia del simbolo, Florenskij spezza le inferriate dell’ergastolo scientista e si apre la via per superare la scissione tra realtà empirica e realtà ulteriore, tra mondo e Dio. È nel culto, nella preghiera, nell’esperienza mistica (sia artistica che onirica) – vale a dire nelle varie manifestazioni del simbolo – che Florenskij trova «una finestra nella nostra realtà, una breccia nell’esistenza terrena dalla quale irrompono le correnti dell’altro mondo nutrendola e rinvigorendola». Questo nostro mondo resterebbe un assurdo lacerato da contraddizioni se non potesse vivere delle energie dell’altro mondo: «Negli umori, tendenze contrastanti; nella volontà, desideri contrari; nei pensieri, idee contraddittorie. Le antinomie frazionano tutto il nostro essere, tutta la vita creata. Dappertutto e sempre contraddizioni! Viceversa la fede che vince le antinomie della coscienza e tra esse riesce a respirare, ci offre il fondamento di pietra sulla quale possiamo lavorare per superare le antinomie della realtà». Nella vita tutto si agita e la disperazione è in agguato, sempre dietro l’uscio, «ma dal profondo dell’anima – leggiamo nella prima delle dodici lettere che compongono La colonna e il fondamento della verità – si innalza la necessità ineluttabile di appoggiarci alla “colonna e fondamento della verità”, non di una verità particolare, umana, minuta, che si contorce e poi vola lontano come polvere spinta verso i monti dal soffio del vento; della verità integra ed eterna nei secoli, una e divina, luminosa e sovraluminosa, di quella veridicità che secondo un antico poeta è “sole al mondo”». E qui è sulla scia di Dostoevskij – nota Tagliagambe – che Florenskij pone al centro della sua riflessione l’idea di “rinascita da Dio” a

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una “vita nuova”, vale a dire del “vivere in Cristo” come “nuova creatura”. Certo, tra la conoscenza scientifica e la verità che include in sé la propria fondazione «sta un abisso che non si può affatto aggirare». Siamo condannati a scegliere tra l’assurdo e la speranza. E «il ponte che conduce da qualche parte, forse sull’orlo dell’abisso, forse all’Eden delle perenni gioie spirituali, oppure da nessuna parte, è la fede. Dobbiamo o morire nell’agonia sulla nostra sponda dell’abisso, o andare verso l’ignoto e cercare la “Terra nuova” dove “abita la giustizia”. Siamo liberi di scegliere, ma dobbiamo deciderci per l’uno o per l’altro». 3. Originale – sottolinea Tagliagambe – è la prospettiva con cui Florenskij si cimenta con i problemi affrontati: è questa una prospettiva nella quale Florenskij ignora e frantuma ogni barriera tra filosofia, teologia, matematica, fisica, biologia, storia e critica dell’arte, tecnologia, sempre muovendosi con rigore e competenza all’interno di ciascuno di questi campi. Il ricercatore, infatti, è solutore di problemi e non studioso di una disciplina; e la soluzione di un problema può attraversare i confini di più discipline. Così è, per esempio, per le necessarie conoscenze logiche, epistemologiche e di storia della scienza, di psicoanalisi e di neuroscienze richieste nei tentativi di soluzione del problema della relazione tra “oggetto reale” e “oggetto della conoscenza”, cioè del problema della verità. O come è il caso delle competenze che entrano in gioco nella questione relativa alla continuità e circolarità tra la materia inerte e la vita, per un verso, e tra la vita e la cultura, per l’altro. O ancora: come si dà per la diversità di argomenti con i quali Florenskij sviluppa il pensiero di Vernadskij con la proposta di passaggio dal-


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l’idea di “noosfera” a quella di “pneumatosfera”, dove cerca di integrare la dimensione culturale che per Vernadskij costituisce una formidabile forza propulsiva che accelera in maniera spettacolare il ritmo di sviluppo dell’evoluzione naturale, con un esplicito riferimento alla sfera spirituale e all’incidenza che essa ha non solo nella vita dell’uomo, ma anche nei destini dell’ambiente, naturale e sociale, in cui vive. E c’è un altro tratto distintivo della figura di Florenskij sulla quale Tagliagambe ha voluto insistere: la vita di Florenskij come testimonianza coerente e costante di “valori più alti”. Per Florenskij, fa presente Tagliagambe, si è realizzati nel modo più pieno e si può ambire ad essere felici solo se si comprende che la ricompensa al dono non è il contraccambio, ma la felicità dell’altro e la vita che attorno a te risorge. Una sorta di divina follia che, con Gesù, ci fa capire, scrive Florenskij, che «retaggio della grandezza è la sofferenza, sofferenza che viene dal mondo esterno, e sofferenza interiore, che viene da noi stessi. Così è stato, è, e sarà [...]. Sì, la vita è fatta in modo che si può dare qualcosa al mondo solo pagandone il fio con sofferenze e persecuzioni. E più il dono è disinteressato, più crudeli sono le persecuzioni, e dure le sofferenze [...]. Per il dono della grandezza è l’uomo che deve pagare con il proprio sangue». Commenta Tagliagambe: «Apprendere l’“arte di vivere”, riempire ogni ora di contenuto sostanziale, esercitare la gratuità, essere disponibili al sacrificio senza alcuna contropartita significa, a giudizio di Florenskij, realizzare in pieno le potenzialità insite nella natura umana, saper vivere la propria vita per intero, rinunciare alle opportunità maggiormente a portata di mano e apparentemente più vantaggiose». L’“arte di vivere”, la più difficile e la

più importante delle arti: «quella di riempire ogni ora di un contenuto sostanziale, pensando che quell’ora non tornerà mai più [...] E l’arte della gratuità». E di quest’“arte di vivere” Florenskij seppe dare testimonianza concreta anche con la decisione di non lasciare il suo Paese, dopo la rivoluzione, pur nella consapevolezza dei pericoli ai quali andava incontro – pericoli ai quali erano sfuggiti tanti suoi amici e colleghi con la scelta dell’esilio. Ricorderà, a tal proposito, Sergej Bulgakov: «È come se la vita gli avesse offerto la scelta tra le Solovki e Parigi, ma egli scelse la Patria, benché si trattasse delle Solovki, volle fino alla fine condividere la sorte del suo popolo. Padre Pavel non poteva e non voleva intimamente diventare un emigrato, nel senso di un distacco volontario o involontario dalla Patria. Lui stesso e il suo destino sono la gloria e la grandezza della Russia, e nello stesso tempo il suo più grande delitto». Ed ecco di seguito come lo stesso Florenskij traccia una sorta di bilancio del suo cammino terreno: «Io che sono un uomo, non trovo motivo di tormentarmi in cerimonie cinesi che si spiegano come pure e semplici convenzioni e che non danno alcun contributo alla conoscenza. Io non ho né tempo né forza di studiarli, perché la vita non aspetta. La vita esige attenzione e sforzo: vivere una volta non è come passeggiare in un campo. Ecco, se si vuole fare un bilancio, io, uomo diciamo degli anni Quaranta del XX secolo, non voglio caricarmi del peso delle vostre controversie prive di azione, delle vostre incertezze e perfezionismi. Le vostre costruzioni sono magnifiche, tanto magnifiche quanto un tempo era l’etichetta presso il re Sole: ma a me, cosa importa di questo, che cosa importa delle vostre finezze, e delle finezze di Versailles? La mia casa è piccola, la mia


Dario Antiseri

vita è breve, e la mia misura è quella dell’uomo. Senza amarezza e senza ira, ubbidendo semplicemente alle esigenze della vita e della mia responsabilità verso la vita, io volto le spalle alla vita intesa come puro divertimento e vivo come ritengo giusto». 4. Questo, ad avviso di Tagliagambe, il significato dell’opera di Florenskij: «Pavel Aleksandrovicˇ Florenskij è il pensatore che incarna, interpreta ed esprime come nessun altro sia la complessità e la varietà della cultura del XX secolo, sia l’anima del popolo russo nei suoi aspetti più profondi e specifici. Filosofo della scienza, matematico, fisico, ingegnere elettronico, teorico dell’arte e di filosofia del linguaggio, studioso di estetica, di simbologia e semiotica, filosofo della religione e teologo, è veramente una figura la cui esistenza può essere legittimamente considerata emblema degli splendori e delle miserie del Novecento». E allo stesso tempo egli costituisce un anello della grande catena dei più significativi pensatori cristiani, come, poco prima delle sue dimissioni, ha fatto presente Benedetto XVI e come, prima di lui, aveva sottolineato nella Fides et ratio Giovanni Paolo II. Nella convinzione che «il rapporto che deve opportunamente instaurarsi tra la teologia e la filosofia sarà all’insegna della circolarità», il Papa fa presente che simile prospettiva «vale sia per i Padri della Chiesa, tra i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio Nazianzeno e sant’Agostino, sia per i Dottori medioevali, tra i quali emerge la grande triade di sant’Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino». E prosegue: «Il fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per l’ambito occidentale, perso-

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nalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov’ev, Pavel A. Florenskij, Pëtr Cˇ aadaev, Vladimir N. Lossky [...]. C’è da sperare che questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi continuatori per il bene della Chiesa e dell’umanità».

Dario Antiseri

FABRICE HADJADJ, Come parlare di Dio oggi? Anti-manuale di evangelizzazione, Ed. Messaggero, Padova, 2013, pp.179. e 13,00.

Il lettore è ormai da tempo abituato allo stile travolgente ed accattivante di Hadjadj1, saggista, filosofo, drammaturgo francese, esemplarmente convertito al cattolicesimo provenendo da un giovanile orientamento di pensiero materialistico, ateo, anarchico e nichilistico. Invitato al Pontificio Consiglio per i Laici ad esporre il tema “Come parlare di Dio oggi?”, si accorse che la fedele trascrizione della sua conferenza

La fede dei demòni. Ovvero il superamento dell’ateismo, Marietti, Ge, 2010; Il paradiso alla porta, Lindau, To, 2013; Réussir sa mort, 2005; L’agneau mystique, 2008; Massacre des innocentes, 2006; Pasiphaé, 2009; Mistica della carne. La profondità dei sessi, Medusa, 2009; L’utopia di Francesco d’Assisi, EMP, Pd, 2013; Traité de Bouddhisme zen à l’usage du bourgeois d’Occident (sotto lo pseudonimo di TetsuoMarcel Kato), Éditions du PARC, 1998; Et les violents s’en emparent, Éditions Les Provinciales, 1999; La terra strada del cielo, Torino, Lindau, 2010 (La terre chemin du ciel, Éditions du Cerf, 2002); Réussir sa mort: Anti-méthode pour vivre, Presses de la Renaissance, 2005 (Grand Prix catholique de littérature); Che cos’è la verità (con Fabrice Midal), Torino, Lindau, 2011 (Qu’est ce que la vérité ?, Salvator, 2010). 1


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conteneva “tutto, tranne che me” e che lo scritto doveva essere completamente rivisitato per non tradirne la vera intenzione. Ecco, dunque, tra le nostre mani il testo ripensato e scoppiettante, non facile alla lettura ma indimenticabile da chiunque ne abbia con pazienza conquistato e meditato pienamente il contenuto. Dato il titolo, del resto ricorrente anche in altre pubblicazioni catechetiche degli ultimi vent’anni, il testo, che si snoda con la classica impostazione dei documenti pontifici e quindi procede per paragrafi numerati progressivamente, sfuggendo all’obbligo della citazione per pagine e capitoli, offre nella conclusione la risposta alla questione: ”Come parlare di Dio oggi?” Il paragrafo 99 scandisce la perenne risposta evangelica: “Non si tratta di trovare una retorica sublime o di vantarsi di non avere nessuna retorica. L’essenziale sta nell’essere, con Cristo, una parola viva e consegnata agli altri, e quindi sta meno nell’avere una parola su Dio che nell’essere, gli uni per gli altri, una parola di Dio”. Posta la domanda, intercettata la risposta, viene da chiedersi a che cosa serva il laborioso contenuto delle restanti 174 pagine dell’opera. Come in un classico e rispettabile romanzo giallo, il palesarsi dell’“assassino” all’ultima pagina, condanna tutto il racconto a mera suspence preparatoria, intrigo certamente necessario ma ora, inutile. È forse così? No di certo. L’opera di Hadjadj non è un mini catechismo che si prefigga di dispensare sapienza teologica attraverso le classiche “domanderisposte”, ma un complesso, attentissimo viaggio attraverso i sensi ed i controsensi di questo “parlare di Dio” e di questo “parlarne necessariamente nell’oggi”. L’analisi di Hadjadj non ha

solo il pregio della perspicacia filosofica e fenomenologica del linguaggio, ma possiede la ricchezza dell’esperienza radicale di un convertito alla fede, provenendo da quel grido disperato: «Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?» che già l’Innominato manzoniano pronunciava davanti al Cardinale, prima di quell’illuminante: “Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino?». L’Autore narra come Dio gli apparisse un’inaccettabile strumentalizzazione della razionalità, la posticcia “soluzione finale” con cui abilmente veniva camuffata dalle religioni la ricerca della verità filosofica, mentre ora, nel nuovo sguardo di fede cristiana Dio gli appare come l’ “apri abisso”, la risposta evidente a ciò che ci sfugge, l’esigenza ineliminabile di ciò che ci supera (n. 29). Parlare di questa “risposta” all’uomo d’oggi, angosciato dalla certezza della morte come non mai, grazie alle ferite inguaribili aperte da Hiroshima e da Auschwitz (n. 75), significa correre rischi altissimi nascosti in pur legittime posizioni filosofiche come il fondamentalismo, che giura che tutto sia a tutti i costi espressione di Dio, “supremo talismano” (n. 44); o l’agnosticismo che propone di vivere come se Dio non esistesse e non avesse senso, o fosse l’hobby creativo personale; o l’ateismo anonimo che considera il Dio di Gesù Cristo inutile ed alienante; o l’ateismo propriamente detto che, in buona fede, trasforma l’ateo militante in un fondamentalista religioso. Tutti questi éscamotages razionalistici presuppongono il pregiudizio che Dio sia come una cappa di piombo sull’uomo mentre, al contrario, la Parola di Dio è come l’aria che respiriamo, come l’alba annunciatrice di ogni giorno. Ci


Franco Savoldi

viene offerta la possibilità di respirare quest’aria, di credere nel giorno che nasce. L’Autore, con un sussulto aggiunge: “Mi chiedo se il supplizio delle generazioni a venire non sia di venir torturati dalle parole che mentono al loro senso originario, dalle idee che si sono rivoltate contro Dio” (n. 44). Si deve parlare di Dio andando al cuore della questione, si deve vivere il presente senza illusioni che l’oggi sia migliore di ieri o possa esserne peggiore, si deve credere che Dio chiami a testimoniarlo e che l’ora sia questa, non altra. Il lettore avrà la possibilità di commuoversi profondamente interiorizzando la preghiera che l’Autore incastona nella sua conferenza per esprimere il senso dell’atto di fede nell’oggi, di fronte ad innumerevoli contraddizioni esistenziali. La meditazione occupa i paragrafi dal 57 al 61 ed è veramente significativa. Impossibile non parlare di Dio (n. 26) ma necessario verificare i modi, i tempi, le circostanze di questo “parlare a chi?” e “come?” (nn. 22, 26) perché il servizio dell’annuncio sia autentico. Dio ha promesso di suggerire le parole giuste, ma la migliore parola è l’esempio della “sequela Christi” che traspare dalla vita vissuta e che non mancherà di scandalizzare gli avversari che “non potranno resistervi. Il che sembrerà loro decisamente insopportabile. Non potendo inchiodarvi il becco, cercheranno di inchiodarvi tutti interi. Per questo, con un po’ di fortuna, vi condanneranno a morte. Il linguaggio della Croce, allora, raggiungerà il massimo della sua efficacia, perché i vostri uccisori, porteranno a termine, malgrado loro, la vostra conformazione alla Parola crocifissa” (n. 99). Franco Savoldi Istituto “Gonzaga” (Milano)

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S. PARONETTO, Tonino Bello maestro di nonviolenza. Pedagogia, politica, cittadinanza attiva e vita cristiana, Paoline, Milano 2012, pp. 314, euro 20).

Il prof. Sergio Paronetto è vicepresidente di Pax Christi Italia. Di questo volume sul vescovo di Molfetta “don Tonino” (come lui amava chiamarsi), il vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi ha voluto curare la prefazione, mentre un “allievo” ed amico di don Tonino, il prof. Salvatore Leopizzi, parroco di Gallipoli, ha steso una significativa “postfazione” (pp. 239258). Tutto intessuto di continui riferimenti agli scritti del vescovo pugliese, con le sue suggestive reinterpretazioni dei misteri principali delle fede cristiana, il libro è pure arricchito di numerose e puntuali note, relative non solo alle opere e a documenti d’archivio del vescovo, ma anche a testi di vari altri “maestri di nonviolenza” italiani e stranieri. Vedi anche le pagine della “Scheda biografica” (pp. 233-237), del “Panorama bibliografico” (pp. 259-295) e dell’ “Indice dei nomi” (pp. 296-309), nonché l’inserto di 43 interessanti fotografie. Ma chi era don Tonino, per il quale è stata avviata la “causa di beatificazione”, che ha visto già, il 30 aprile 2010, la prima “seduta pubblica” nella cattedrale di Molfetta? Egli apparteneva ad una «famiglia molto modesta, ma molto amante del Signore», come lui diceva. Era nato ad Alessano (Lecce), il 18 marzo 1935, da Maria Imperato, sposa di un maresciallo dei carabinieri, rimasto vedovo con due figli. Sia il padre che i primi figli erano morti durante la II guerra mondiale, quando Tonino era ancora piccolo. Compiuti in seminari pugliesi i primi studi, studiò teologia nella Bologna del card. Giacomo Lercaro, fino a divenire sacerdote l’8 dicembre 1957.


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RECENSIONI E NOTE

Conseguita nel 1961 la “licenza” (di insegnamento) in Teologia nella Pontificia Facoltà dell’Italia settentrionale a Milano, accompagnò come segretario il suo vescovo al Concilio ecumenico Vaticano II (1962-1965). Ciò non gli impedì di continuare gli studi fino ad ottenere il “dottorato” presso l’Università Lateranense. Divenne poi parroco e vicario episcopale per la pastorale, fino a far parte, fra l’altro, del Comitato diocesano per il primo Convegno ecclesiale italiano del 1976 “Evangelizzazione e promozione umana”. Il 10 agosto 1982 fu nominato vescovo di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo. Scelse come motto episcopale un versetto del salmo 34 («Ascoltino gli umili e si rallegrino») e decise di adattare per il suo anello vescovile la fede nuziale della madre, intendendo anche dare più importanza, rispetto al pastorale, all’anello, con cui voleva esprimere la sua scelta di fedeltà alla Chiesa, alla Trinità Divina e alla Comunità dei fedeli. «Apostolo – com’era, secondo una definizione di don Leopizzi (p. 250) - con i piedi per terra e mistico con la testa per aria […] maestro originale di vita “contempl/attiva”» - fondava intanto le sue «case di accoglienza e solidarietà» e a Molfetta anche una «casa per la pace», fino a divenire, nel 1985, presidente nazionale di Pax Christi (movimento sorto in Francia nel 1945). Invitante è il titolo del capitolo VII del libro «Poesia, lotta, bellezza», dedicato alla «Lotta nonviolenta alle mafie», con particolare attenzione alle modalità di intervento di preti come don Luigi Ciotti e della sua organizzazione «Libera», di vescovi come Giancarlo Bregantini (stimmatino d’ origine trentina, ma di formazione veronese) o come lo stesso Bello, che vide il sindaco di Molfetta vittima di agguato mafioso nel luglio 1992, che fu anche l’anno dell’uccisione di Giovanni

Falcone (maggio) e di Paolo Borsellino (luglio), con tante persone al loro fianco. Ben presente è anche il ricordo degli incontri all’Arena di Verona del movimento «Beati i costruttori di pace», ad alcuni dei quali Bello partecipò con i suoi grandi estimatori p. Ernesto Balducci e p. David Maria Turoldo (entrambi venuti a mancare nel 1992), e con decine di migliaia di persone, laici e preti, come don Giulio Battistella, che a don Tonino ha voluto dedicare il libro Nuovi stili di vita (Emi, Bologna 1995), dopo aver partecipato alla “marcia” di Sarajevo. Pure da poco operato per un tumore maligno, Bello aveva voluto partire il 7 dicembre 1992, con circa 500 persone, credenti e “non credenti”, di diverse nazionalità, per la costa dalmata, da dove iniziava la “marcia” fino a Sarajevo – città destinata ad un crudele assedio, nell’indifferenza dell’Europa, dal 5 aprile 1992 al 26 febbraio 1996 - per perorare la causa della pace, cercando di incarnare – come diceva – l’azione di un’auspicabile «O.N.U. dei popoli». Si trattava di realizzare una forma di “intervento” - come aveva chiesto Giovanni Paolo II, con cui si era incontrato nel febbraio 1992 - non certo “armato”, ma di «vera ingerenza umanitaria» (vedi pp. 193 e 197, con n. 10). Paronetto ricorda pure che il 6 dicembre 1992 si era svolta a Milano con il card. Carlo Maria Martini una «Preghiera per Sarajevo» di sostegno alla “marcia”, affinché «la saggezza della pace, la forza della giustizia e la gioia della fraternità vincano il rumore delle armi e l’orrore della violenza e dell’odio fratricida». Ritornò, «con cicatrici profonde nell’anima» a Molfetta, dove morì di lì a poco, il 20 aprile 1993, dopo aver concelebrato l’ultima Messa con il vescovo Bettazzi e altri sacerdoti, fra cui Salvatore


Emilio Butturini

Leopizzi. All’amico vescovo volle far donare la stola multicolore avuta dal vescovo ecuadoriano Leonìdas Proaño e la piccola tovaglia tessuta e ricamata dalle donne serbe e croate, ricevuta in dono a Sarajevo (vedi p. 237 e pp. 257258). Poco dopo le tre del pomeriggio si spegneva e «fu spontaneo – dice don Leopizzi – con lacrime di ineffabile gioia, recitare subito e insieme il cantico del Magnificat».

Educazione alla pace e alla “nonviolenza attiva” come “convivialità delle differenze”

L’educazione alla pace, come ogni educazione a valori generali (libertà, giustizia, democrazia, ecc.), rischia di divenire esercitazione retorica, se si tende ad averne un concetto statico, quello per cui si dice – spiegava don Tonino - «quell’uomo riposa in pace, medita in pace» e non «lavora, ricerca, lotta in pace». La pace richiama più «la vestaglia da camera che il grembiule della massaia o lo zaino del viandante» – amava dire il vescovo – ricordando che l’unico paramento sacerdotale registrato dal Vangelo di Giovanni (13,4) è il grembiule di cui Gesù si cinse per lavare i piedi ai discepoli. Si tratta – come egli diceva, evocando espressioni di Bonhöffer – di «osare la pace per fede», poiché «una via alla pace che passi per la sicurezza non c’è, […] essendo la pace il contrario della garanzia. Esigere garanzie significa diffidare e questa diffidenza genera nuove guerre. Pace significa affidarsi interamente al comandamento di Dio, […] porre nelle Sue mani, in un atto di fede e di obbedienza, la storia dei popoli». Quello della pace è per lui «un discorso teologico che affonda le sue radici nel cuore del mistero trinitario». Non tanto “assenza di guerra”, quanto “pienezza di vita”, mai da

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intendere come “remissività”, semmai come modalità privilegiata di dirimere le controversie (Vedi il libro a più mani, Don Tonino. Vescovo secondo il Concilio, La Meridiana, Molfetta 2004, p. 108). A questo fine egli amava commentare a suo modo, la parabola del buon samaritano, parlando del samaritano dell’ora giusta e di quello dell’ora dopo e dell’ora prima. Con quello dell’ora giusta egli intendeva indicare la necessità di sanare subito le ferite della violenza e della guerra, prestando cure di “pronto soccorso”. Con quello dell’ora dopo voleva spiegare la necessità di completare l’opera, affidando le vittime a qualcuno che si facesse carico di ulteriori cure. Insisteva poi sul “samaritano dell’ora prima”, impegnato in opere di prevenzione della violenza e della guerra, sempre, comunque, badando non a “passare oltre” (come aveva fatto il sacerdote e il levita della parabola), ma a “farsi vicino” alle persone in difficoltà. (Vedi il testo sopra citato, Don Tonino. Vescovo secondo il Concilio, p. 106 e il volume Scritti di mons. Antonio Bello. Scritti di pace, vol. IV, Luce e Vita, Molfetta 1997, p. 81). Per il vescovo di Molfetta occorre saper coniugare le opere di misericordia e le cure di “pronto soccorso” con la formazione e con l’attività politica, a partire anzitutto dalle classi popolari, tendendo così a costruire la pace, considerata da lui non una “utopia”, ma una “eutopia”, termine in lui ricorrente per indicare la “buona terra”, fonte di vita per gli uomini e le donne e per i loro figli, a cominciare dai primi anni di vita, quando essi sono «maestri di pace per natura». La famiglia deve perciò divenire «un laboratorio trinitario di pace», tendendo non ad una dissoluzione, ma ad una «convivialità delle differenze», analogamente alla Trinità divina, mistero primo della


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nostra fede e «principio architettonico della morale». Compito primo degli adulti sarà allora per don Tonino quello di curare specialmente le modalità di rapporto che si instaurano con i figli, evitando atteggiamenti che possano fare assorbire violenza e promuovendo capacità di giudizio critico, da un lato, e di senso di solidarietà ed accoglienza, dall’altro. Occorre mettersi «accanto al piccolo con timore e tremore, preoccupati di non introdurre nel suo vergine mondo le schegge erranti della logica del grande», in modo che i piccoli maestri di pace non divengano «scolari di una disciplina di segno contrario». Emilio Butturini (Università di Verona)

LUCIA CAPUZZI, Coca rosso sangue. Sulle strade della droga da Tijuana a Gioia Tauro, San Paolo ed., 2013, pp. 234. e 14,00.

Tra le innumerevoli pubblicazioni attuali che cercano di decifrare il complesso ed intricato mondo del commercio internazionale di droga, spicca l’attualissimo studio-réportage di Lucia Capuzzi, giovane giornalista cagliaritana, laureata in scienze politiche e specializzata sui temi attinenti l’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra.1 Le numerose pubblicazioni curate recentemente dall’Autrice2 le hanno consentito di focalizzare sempre meglio la propria analisi sulle pungenti questio1 La frontiera immaginata. Profilo politico e sociale dell’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra, Franco Angeli, 2006. 2 Colombia. La guerra (in)finita, Marietti, Genova, Milano 2012; Adios Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro, Torino, 2011; Haiti. Il silenzio infranto, Marietti, Genova, Milano, 2010.

ni latinoamericane e ne fanno una delle maggiori e competenti rappresentanti della riflessione internazionale su questi vasti, variegati e tormentati territori. Tutti sanno che la foglia di coca è di un verde brillante ma solo pochi sanno che il vero colore di questa foglia è dato dallo squallido, inimmaginabile ed irrefrenabile commercio che se ne fa nel mondo, in azione coordinata con altri tipi di esecrabile traffico che, in misura insospettabile interessano da vicino anche l’Italia: sequestri di persona (desaparecidos) calcolabili in centinaia di migliaia, prostituzione, mercato di organi, schiavitù clandestina in vari settori economici sommersi, racket delle estorsioni, produzione e vendita di armi, condizionamento delle politiche nazionali, omicidi su commissione, vendette trasversali, riciclaggio di denaro sporco attraverso il racket industriale e commerciale, gioco clandestino, tratta di donne, di uomini e di migranti, spaccio di merce contraffatta,… Il vero colore della coca è, in verità, il “rosso sangue” del crimine organizzato su di essa e l’Autrice dedica la propria opera alla speranza che ciò divenga sempre più motivo di consapevolezza ed orrore. Sì, perché per concepire l’orrore dovuto a tale carneficina in atto, è necessario averne certa contezza ed entrare in settori criminali per lo più sconosciuti alla maggior parte della gente. Diversamente non sarà possibile coglierne le dimensioni e queste transazioni, questi commerci, questa “morte su commissione da parte della domanda di droga” continuerà a passare sulle nostre teste inconsapevoli. Il libro è un viaggio rosso sangue che “racconta la distruzione e la morte che le mafie organizzate non esitano a compiere pur di ottenere ricchezza, lusso e piacere, per


Franco Savoldi

placare l’ansia e la sete di potere che pervadono non solo chi è direttamente parte del crimine, o dei cosiddetti cartelli, ma anche chi si piega al loro disegno criminale. Il libro denuncia chiaramente l’impunità e la complicità da parte dello Stato, in cui gli alti indici di corruzione sono una costante nell’intera struttura politica, nella totalità dei servizi pubblici e in ognuna delle istituzioni che compongono la democrazia messicana”;3 situazioni che ora, pur tra immense difficoltà e rischi personali, suscitano in molti una disperata richiesta di giustizia, “sollevando i corpi prostrati e la voce rotta dal pianto,… per se stessi, per i familiari, i migranti, le figlie e i figli, le sorelle e i fratelli, i padri e le madri; per tutti coloro che sono stati assassinati, fatti sparire, sequestrati, minacciati, derubati, cacciati dalle proprie terre”.4 Il Messico non ha solo un problema di criminalità organizzata; “il Messico è una nazione in guerra: un conflitto formalmente non riconosciuto – in primis dal governo – e per questo ancora più estremo, brutale, feroce”5, mentre “tra piccoli trucchi di sopravvivenza, stragi – alcune sbandierate, altre cancellate dai media – annunci di super boss arrestati e altri fuggiti, il Messico convive con l’orrore come se fosse la normalità”.6 L’analisi delle cause storiche di tutto ciò impegna l’Autrice in veloci ma chiarissime retrospettive sulle forze politiche che hanno gestito il potere messicano in passato ed a lungo (1929-2000) mediante un corrotto Partido Revolucionario Institucional (PRI), necessariamente espressione di corruzione già a partire dall’anomalo ed esagerato periodo di prevalenza, 3 Prefazione di Mons. Raúl Vera López, candidato al premio Nobel per la pace 2012, Vescovo di Saltillo, città capitale dello stato del Coahuila, p. 8. 4 Idem, p. 9. 5 Introduzione, p. 16. 6 Idem, p. 18.

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prima ancora di qualsivoglia documentazione di eventi particolari. Il “PRI” aveva forti rapporti con la criminalità organizzata, ma un sistema di equilibri studiati e pianificati consentiva un reciproco vantaggio e sostanziali compensazioni sociali. Finito il predominio del PRI, tutto ciò è venuto meno e le istituzioni si sono indebolite progressivamente. Ora, “Il potere giudiziario è un simulacro: basti pensare che c’è un tasso di impunità del 98%, ovvero il 98% dei delitti resta senza un colpevole. In tale contesto, le organizzazioni criminali non si limitano più a curare i propri affari illeciti ma cominciano a catturare lo Stato, pezzo dopo pezzo. Con le armi più potenti: violenza o corruzione”.7 “L’accaparramento di brandelli di istituzioni consente ai narcos di diventare ancora più potenti e di diversificare il business illecito, … gestendo gran parte degli affari criminali del paese: dalla tratta alla rete di estorsioni, al furto sistematico di ogni tipo di proprietà ai piccoli contadini e allevatori. … I cartelli messicani sono ben più di semplici gruppi di trafficanti: sono imperi del crimine. … Se la coca, in qualche modo è stata l’origine del problema, ora ne rappresenta solo una parte”.8 Chi paga amaramente il conto di tale conflitto è la popolazione civile. “Nessuno sa quanto degli oltre 100.000 morti ammazzati tra il 2007 ed il 2012 siano innocenti malcapitati. … Nessuno sa da quali dati l’amministrazione tragga tanta sicurezza, nell’affermare che il 90% dei morti sono narcotrafficanti. Il 98% dei crimini è irrisolto; il che significa che colpevole, movente e dinamica del delitto restano sconosciuti. Per i giudici, per i familiari delle vittime, per tutti. Anche per il governo”.9 Edgardo Buscaglia, esperto internazionale di narcotraffico e guerriglia, Professore alla Columbia Law School di New York, testimonianza p. 30. 8 Idem, pp. 32-37. 9 Idem, p. 45. 7


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Il viaggio continua e descrive il sistema del “femminicidio” in atto, portando l’emblema di Ciudad Juarez: la città delle donne scomparse, quale testimonianza dello sfruttamento brutale e sistematico attraverso la prostituzione e l’omicidio impunito. “25 gennaio 1993: Angelina Luna Villalobos, sedicenne incinta, ebbe il tragico onore di inaugurare la lista, tuttora infinita di femminicidi”10 che “non sono finiti quando gli studiosi hanno smesso di contarli. Semplicemente, il sangue delle donne si è mescolato nella mattanza generale”.11 Si, perché il governo, per porre rimedio, compie a questo punto un passo drammaticamente sbagliato e, delegittimando la polizia locale, accusata di corruzione, sostituisce le forze di polizia cittadine con l’esercito, del tutto incompetente per un’azione civile di anti-criminalità e privo di esperienza e conoscenza della città e delle sue dinamiche. I narcos si sono sentiti improvvisamente più liberi. Ne è nata una guerra ancora più feroce che nelle battaglie svoltesi in pieno centro cittadino ha fatto 5000 morti ammazzati e sviluppato innumerevoli casi di tortura e omicidi di massa. “L’elenco dei morti di Juárez (dal 2008 al 1° settembre 2011) va avanti per 138 pagine”.12 Ora è la volta del capitolo dedicato al ballo dei Rarámuri, di delicata bellezza quanto di struggente tragicità: “vivere, morire, danzare”, trinomio di sopravvivenza nelle mani rapaci degli sfruttatori; mentre nel capitolo successivo apprenderemo le storie di sangue e di morte dei migranti: esseri ingannati, illusi con la speranza della libertà ma inconsapevolmente destinati e condotti alla morte, Idem, p. 65. Idem, p. 73. 12 Cap. 3°: Oltre i confini della violenza, p. 87. 10 11

lungo viaggi infarciti di paure, rischi ed incubi, secondo indicazioni e tragitti appositamente pianificati al fine di non dare loro scampo dal “buco nero” della desaparición cui sono cinicamente destinati.13 Nel capitolo settimo ci si imbatte nella devozione alla Santa Muerte, rivestita come la Madonna ma scheletrita come le sanguinarie divinità atzeche, dea protettrice scelta dai narcos per esorcizzare il fatto che da un momento all’altro ciascuno di essi può essere ammazzato. La Santa Muerte, protettrice invocata, non chiede però conversione al bene, pentimento per la barbarie delle proprie azioni, riparazione ai delitti commessi, no! Essa si accontenta di laute offerte, di candele accese, incenso e “tanto liquore”.14 È dunque tutto immerso nel crimine e senza speranza il popolo messicano? No, una speranza matura progressivamente nel cuore e nelle organizzazioni civili e fin dal 1984 si inizia a lottare per difendere sistematicamente i diritti della persone, a cominciare dalle più deboli: gli indigeni, le donne, i giovani, i poveri, gli emarginati.15 È in onore di questo sofferto raggio di speranza che il nostro viaggio volge alla conclusione, citando i sentimenti dello scrittore Pino Cacucci quando descrive la sfida alla morte (la “Pelona”) da parte di una ragazzetta, schiantata da un incidente grazie al quale si trova un palo di ferro conficcato nell’addome e la schiena ridotta a poltiglia: “La morte mi ha fissato negli occhi, ha osservato il mio corpo nudo, insanguinato, coperto di polvere d’oro, e quando stava per protendere le braccia verso

Cap. 6°, pp. 151-173. Cap. 7°, p. 186. 15 Idem, p. 190. 13 14


Franco Savoldi

di me, quando ho sentito il suo alito gelido … ho lanciato quell’urlo che non poteva uscire dalla gola di una moribonda, un urlo di rabbia, un urlo di amore per la vita che non volevo abbandonare a diciott’anni, ho urlato il mio “Viva la vida”, e la “Pelona”, assordata, è rimasta stupefatta almeno quanto i vivi che mi si accalcavano intorno”.16 In questo grido, capace di far trasalire la stessa arcigna “Santa Muerte”, si prefigura la lotta per la giustizia del popolo messicano, martire della violenza. Il libro di Lucia Capuzzi riporta anche un sottotitolo curioso, cui l’Autrice dedica una spiegazione nella parte conclusiva del suo scritto: Sulle strade della droga da Tijuana a Gioia Tauro. “Già - chiede - che cosa c’entra l’Italia del porto di Gioia Tauro con il Messico?”. In ventisei “pagine verità” successive si percepisce attraverso la narrazione, un avvertimento severo per tutti, primi noi italiani, a non sottovalutare la criminale e silenziosa penetrazione di queste stesse organizzazioni criminali nella nostra terra. Sono gli stessi personaggi, gli stessi cartelli, gli stessi metodi, la stessa strategia di erosione dello Stato tutte le volte che lo Stato si indebolisce, làtita, tollera la corruzione. In questo momento di debolezza di liquidità delle Banche, costrette per tante ragioni a contenere, se non addirittura a negare credito ai cittadini, alle imprese, alla produttività, queste organizzazioni internazionali si fanno avanti con passi felpati e mani stracolme di capitali generosamente prospettati a chi è in difficoltà finanziaria, pianificando nell’ombra il Racket aziendale ed il riciclaggio di

16 PINO CACUCCI, Viva la vida, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 10 ss.

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ingenti somme di denaro sporco, frutto del narcotraffico. Il denaro sporco agisce come un cancro del sistema economico, strangolando poco per volta, inesorabilmente, l’economia legale: e loro lo sanno bene! “Coca rosso sangue”, un libro importante, intelligente e necessario. Franco Savoldi Istituto “Gonzaga” (Milano) ANTONIO ROSMINI, La buona educazione. Antologia commentata delle “Opere Pedagogiche” (a cura di G. Chimirri), Bonomi Editore, Pavia 2013, pp. 124. e 12,00.

Francesco Paoli, segretario e primo biografo di Rosmini (1797-1855), curò una raccolta di scritti sull’educazione del beato di Rovereto, intitolandola Pedagogia e Metodologia, da poco ristampata in A. ROSMINI, Scritti pedagogici, Stresa 2009. Questo volume, complesso e corposo (quasi 1000 pagine), può scoraggiare molti dall’intraprenderne la lettura, ma per rimediare a ciò e per offrire a tutti la possibilità di conoscere le ricchezze di un grande classico, il Chimirri ci propone un’antologia, compilata come segue: 1) trasposizione dei testi in italiano corrente, 2) selezione delle parti più importanti, che salvano il perpetuo e tralasciano molti aspetti amministrativi e didattici oggi superati, 3) introduzione storico-teoretica con amplia bibliografia ragionata, 4) numerose note critiche di commento. Elenchiamo per informazione le opere pedagogiche di Rosmini qui presenti: 1) Del principio supremo della metodica e di alcune sue applicazioni in servizio dell’umana educazione (una sorta di didattica generale e di psicologia dell’età


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evolutiva); 2) Sull’unità dell’educazione (sui rapporti religione/educazione e società/educazione; 3) Della libertà d’insegnamento (sui soggetti che hanno il diritto e il dovere di insegnare: chiesa, stato, comuni, benefattori, saggi, padri di famiglia); 4) Regolamenti scolastici (secondo gli ordini di scuole, forniscono istruzioni sull’organizzazione dei corsi e le materie da insegnare); 5) Dell’educazione cristiana (scritta affettuosamente per la sorella Gioseffa, religiosa canossiana, direttrice di collegi femminili); 6) Frammenti (abbozzi di lavori incompiuti). Ma quali sono i punti salienti della proposta rosminiana? Per Rosmini, tutta la filosofia non è altro che una «pedagogia dello spirito, ossia, una ricerca delle ragioni ultime capaci di rispondere ai bisogni dell’essere umano e che gli svela il Bene, come già disse Platone» (pp. 1920). La pedagogia deve sempre avere di mira l’educazione integrale dell’uomo, e non solo di qualche sua facoltà, altrimenti avremo formato «individui che bamboleggiano ancora in età senile» (p. 15), individui confusi e squilibrati, «non veri uomini, ma mostri» (p. 70)! Per Rosmini, non può darsi una seria educazione senza un’antropologia di fondo e senza un conato spirituale che dia un senso all’esistenza. L’educazione s’identifica quindi con il progresso civile e morale dei popoli, se non vogliamo che questi rimangano fanciulli e di questi ne conservino i limiti e i difetti! Rosmini domanda che tipo di educazione sarebbe quella rivolta a formare solo il semplice cittadino, mirata solo alle cose materiali, contingenti, relative, ecc.; e risponde: «sarebbe un’educazione idolatra, che confonde e sostituisce il finito per l’infinito», il temporale per

l’eterno, la parte col tutto, sbarrando le porte a quel mistero del soprannaturale che tutti fin da bambini portiamo in noi (p. 59). Un volume molto utile per tutti gli educatori, genitori, insegnati che vogliono spingersi oltre l’istruzione, oltre le tecniche didattiche, oltre le scienze; per concepire l’«arte pedagogica» – dice Rosmini – come autentica missione, come dedizione al bene di tutti quelli che dobbiamo accompagnare nella consapevolezza della vita. D.P. GIOVANNI CHIMIRRI, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori, Mimesis, Milano 2012, pp. 310. e 24,00.

Secondo F. Nietzsche, il nichilismo è lo «smarrimento dei valori tradizionali (Dio, Verità, Bene) e lo scivolamento verso il trivellante sentimento del proprio nulla». In un mondo frutto del caso, l’uomo si ritrova senz’anima, destinato al niente della morte e senza un fine soprannaturale. Contro questo modo di concepire l’esistenza, si espongono a livello multidisciplinare (teologia, filosofia, psicologia, morale) non solo le contraddizioni interne del nichilismo, ma anche quelle dei suoi precursori (agnosticismo, materialismo, ateismo, scientismo, laicismo). Guidano lo studio il realismo e il pensiero cristiano, due prospettive che offrono risposte per superare le precarietà della vita (divenire, vuoto, male, angoscia) e intravedere la presenza dell’Assoluto. Nel cap. 1 si ripercorrono sotto il profilo storico (dai greci alla teologia contemporanea) le varie accezioni del termine «nulla», e si conclude – in forza del


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principio di non contraddizione – che l’«essere non può non essere» e che il mondo è una creazione dell’Essere Uno e Assoluto. Nel contempo sono superati il materialismo e l’ateismo, espressione di «vuoti di trascendenza». Nel cap. 2 si affrontano vari temi concreti e si discutono, confutandoli, il «relativismo etico» e l’«edonismo» oggi imperanti; contestando insieme la validità dell’«etica laica» chiusa ad ogni finalità meta-empirica («la grazia perfeziona la natura»; «la libertà umana non è assoluta ma rimanda al suo Donatore»; la «carità cristiana è il segreto di ogni filantropia»). Nel cap. 3 si affronta il nulla secondo altre quattro prospettive: a) quella gnoseologica (critica di agnosticismo e scetticismo come «vuoti del sapere»); b) quella teologica (misticismo esagerato, Dio come Nulla, teologia negativa); c) quella psicologica (disagio spirituale, angoscia, pessimismo, dolore, senso del mondo); d) quella antropologica (la morte come passaggio ad una vita trasfigurata e non come annichilimento della persona). In Appendice, le classiche «dimostrazioni dell’esistenza di Dio» (introdotte e commentate) esemplificano la perenne validità di una «metafisica dell’essere» profondamente anti-nichilista. D.P. MARINELLA ATTINÀ, La scuola primaria. L’anima della tradizione, le forme della modernità, Mondadori Università, Milano, 2012, pp. 244. e 20,50.

L’autrice, professore associato di Pedagogia generale e Storia della scuola, presso la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università degli Studi di Salerno, con questa pregevole pubblica-

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zione si propone di rispondere in modo critico ed esaustivo alle problematiche più rilevanti che hanno animato il dibattito sulla scuola primaria, già scuola elementare. Un tipo di scuola che ha da sempre creato le basi per una dovuta continuità educativa. Nel testo ci si chiede, senza alcuna edulcorazione, quale sia la vera essenza della scuola primaria, che cosa resti della sua anima tradizionale e popolare, quali siano oggi i problemi che essa deve affrontare e quali le sfide che possano darle i giusti valori qualitativi. L’interrogativo più inquietante e difficile è quello in cui l’Autrice riflette sull’adattamento di questo tipo di scuola nel contesto attuale, caratterizzato da molteplici innovazioni tecnologiche. Questa istituzione ha finito forse per discostarsi e tradire la propria anima originaria? In questo saggio non vengono assunte posizioni drastiche o banalmente quelle di un laudator temporis acti , bensì con molta oggettività si parte dalla “convinzione che la sagoma della scuola elementare/primaria può essere assunta come paradigma interpretativo per cogliere lo spirito di un tempo, teso dialetticamente fra tradizione e innovazione”. E se l’analisi condotta è quella critica, si tratta sostanzialmente di una critica construens che partendo dai primordi della legge Casati, condicio sine qua non per un processo di alfabetizzazione esteso a tutta l’Italia, tratteggia il suo evolversi postbellico della II guerra mondiale, ai programmi Ermini del 1955 ed a quelli del 1985. Emerge un tipo di scuola che storicamente ha saputo in buona parte essere al passo con i tempi ed in continua evoluzione, capace di diversificarsi nel senso che: “l’asse epistemologico e programmatico degli


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anni Ottanta in poi si svolge in luoghi teorico-pratici assegnati dall’enciclopedia scientifica e dalle forme ormai postmoderne dell’educazione di massa”. Siamo così oggi, come constata l’Autrice, di fronte ad una scuola più complessa e, quindi, affidare soltanto alla pedagogia scolastica scelte determinanti è da ritenersi sbagliato, soprattutto in una società dove tutto cambia con ritmo vertiginoso. Emerge alla fine un messaggio chiaro non solo per gli operatori della scuola ma anche per i genitori: “coniugare anima e forme è forse il prossimo compito non solo della scuola elementare/primaria, ma di ciò che resta dell’idea di una scuola nella transizione dalla pienezza della modernità al suo attorcigliamento nella modernità stanca e tarda”. Il volume appare un ottimo supporto nell’ambito scolastico e ciò che lo distingue, caratterizzandolo, sono le ampie note che illustrano quei protagonisti (pietre miliari) che hanno dato alla scuola il proprio contributo pedagogicodidattico quali: Aristide Gabelli, Giovanni Gentile, John Dewey, Jean Piaget, J. Seymour Bruner, H. Gardner, E. Morin, Fröbel, Montessori, Agazzi ed altri. L’excursus storico è quanto mai innovativo, perché mentre si delinea la storia di questa grande e meritoria scuola, nel contempo non mancano le dovute riflessioni su quei concetti che sono pane quotidiano a livello didattico. Ci riferiamo all’autonomia, alla sussidiarietà, alla responsabilità, al piano dell’offerta formativa, all’autonomia vista nella sua criticità, sino ad arrivare alla Riforma Moratti ed ai ritocchi di Fioroni. Il lettore si trova condotto quasi per mano a quelle riflessioni che hanno caratterizzato la scuola degli ultimi

decenni. Ci riferiamo a termini quali portfolio, maestro unico, scelta quest’ultima suffragata a livello ministeriale da una mera razionalizzazione economica ammantata dall’idea pedagogica “più funzionale all’innalzamento degli obiettivi di apprendimento, con particolare riguardo all’acquisizione dei saperi di base...”. Attinà sa dare una chiarificazione in merito ritenendo che la scelta del maestro unico della Riforma Gelmini “tende a privilegiare, nelle scelte curricolari, le aree disciplinari di base e la necessità di non frammentare l’azione di insegnamento-apprendimento [...] e sottolinea la necessità di rafforzare una modalità relazionale scuola-famiglia che possa dare coerenza ad un progetto educativo che non può essere delegato, oggi , solo all’istituzione scolastica”. Dovute riflessioni pedagogiche vengono tratteggiate alla luce dei più illustri pedagogisti, che hanno saputo dedicare gran parte dei loro studi al bambino quale uomo in formazione. Ci riferiamo qui a Fröbel, a Maria Montessori, alle sorelle Agazzi, in sostanza alle scienze dell’educazione e alle immagini che esse hanno offerto del bambino a cominciare dal bambino cognitivo di Piaget, al bambino sociale di L.S. Vygotskij, al bambino costruzionista di Bruner, a quello “ambiguo” di S. Freud. Lo studio del bambino è condotto, in queste pagine, a vari livelli: da quello psico-pedagogico a quello socio-pedagogico. Non mancano, poi, pagine esclusive per l’insegnante di cui ci si domanda: chi sia, oggi, a quale compito è chiamato, su quali categorie si fonda il suo ruolo, e com’è visto nell’immaginario collettivo. Quello della professionalità docente è un ruolo complesso, delicato, per niente statico ma anzi sempre in


Alberto Mirabella

costruzione e che non può prescindere dalle basi etiche come traspare dallo studio L’insegnante etico (2007) di Elio Damiano. L’insegnante deve possedere elementi imprescindibili quali sapere ed aspetti relazionali, ed il sapere non si può non costruire che in un campo pedagogico. Ma, in sostanza, cosa mai deve qualificare un “Maestro” per essere veramente tale? “L’insegnante appare sempre il promotore dell’intelligenza umana, un ‘ricercatore’ di soluzioni, ed il suo lavoro assume una valenza fondamentalmente ‘liberante’ di energia e creatività nei suoi allievi”. George Steiner nel suo volume La lezione dei maestri, Garzanti 2004, giunge a conclusioni interessanti quando scrive che il vero insegnamento non può non essere anche una cura dell’anima. Ed è inconcepibile una società nella quale non si coltivi tale attenzione. Insegnare sul serio significa imporre le mani su ciò che c’è di più vitale in un essere umano. Il maestro è un taumaturgo. In questo corposo saggio di Attinà niente è trascurato, perché è noto come la scuola sia una realtà complessa in cui sono protagonisti l’alunno, l’insegnante ma anche la famiglia, che deve collaborare proficuamente con gli organi preposti all’istruzione-educazione dei propri figli. Alla luce dei molteplici studi del pedagogista Giuseppe Acone, l’Autrice parla della paideia introvabile (2004) e della critica serrata che viene mossa a quelli che hanno ridotto il ruolo paterno nella figura patetica di un Geppetto “che cerca il figlio per tutto il giorno e la notte”. Nell’ultimo capitolo, il IV, si parla delle sfide educative e della tematica dell’interculturalità vista come base per una possibile convivenza con gli altri, senza rinunciare alla propria. Tutti gli argomenti esposti sono suffragati da

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studi puntuali come quando si cita Derrida e del problema dell’altro, o di Ricoeur e della difficile relazione dialogica, o ancora del bullismo e dei problemi legati all’adolescenza. Molte le riflessioni didattiche inerenti la progettualità, il piano dell’offerta formativa, le forme della valutazione che non dev’essere mai di tipo sanzionatorio e certificativa bensì formativa, distinzione sottolineata da M. Scriven (2009) che parla di “attribuzione di valore” . Corrobora il volume una ricca selezione antologica di scritti , che vanno da Gabelli ai giorni nostri e tutto l’impianto giuridico-legislativo su cui si regge la scuola primaria. Una ricca, puntuale bibliografia completa il volume dell’Attinà, utile a quelli che operano nella scuola primaria e ai giovani che aspirano a diventare futuri insegnanti.

Alberto Mirabella

Comunicazione e spettacolo.

GIOVANNI ANTONUCCI, Storia del teatro italiano contemporaneo, Studium, Roma 2012, pp. 298. e 19,50.

Giovanni Antonucci è un attento osservatore degli eventi teatrali. Docente di storia del teatro, critico militante, drammaturgo, traduttore di testi (Terenzio, Shakespeare, Anouilh), autore di studi sul teatro d’ogni tempo, dalla Storia del teatro greco e latino (2008) alla Storia del teatro italiano del Novecento (1986, più volte ristampata da “Studium”). La cultura teatrale è l’orizzonte ampio entro cui si muove con agilità, padronanza, capacità di sintesi e di riferimento a correnti e momenti della drammaturgia europea e americana e a ogni ambito della vita. Nella Storia del teatro italiano


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contemporaneo (1), la sua più recente fatica, che riprende e approfondisce l’opera del 1986, scrive capitoli densi rigorosi e puntuali. Dal primo, ”Il teatro di poesia di Gabriele D’Annunzio”, all’ultimo, il XXIV, “Dagli anni Novanta a oggi” il discorso di Antonucci conduce il lettore a esplorare e, talvolta, a riscoprire un mondo fatto di impegno intellettuale e di fascino. Lo storico e il critico informa, ricostruisce un contesto, chiarisce, aiuta a mettere da parte incrostazioni e pregiudizi. Sin dal saggio su D’Annunzio, ”figura controversa” (p. 7), ma da rileggere. Antonucci ricorda che il D’Annunzio, quando si accosta al teatro, a trent’anni, ”lo fece con impegno e rigore” (p. 9) e, citando Emilio Mariano, critico valente e studioso del Vate, aggiunge che per lui la scoperta del palcoscenico “fu un evento essenziale” (p. 10). La sua importanza nel teatro del Novecento, “sia a livello drammaturgico che scenico, è fondamentale e difficilmente contestabile” (p. 11). D’Annunzio, “una ventata nuova” (p. 12), sottolinea il rapporto letteratura-teatro, che hanno “caratteristiche assai diverse” (13), anticipa Pirandello, mira a liberare “il teatro italiano dalla prigione del documento” (p. 17). Antonucci ne esamina testi e rappresentazioni (si pensi a La figlia di Iorio), successi e insuccessi, l’interpretazione fornita da grandi attori. “Le suggestioni del D’Annunzio pesarono sulla nostra scena per molti anni, e non sempre negativamente, come spesso si è detto senza cognizione di causa” (ivi). Specialista del teatro futurista, a “La rivoluzione del teatro futurista” Antonucci dedica un capitolo (il III). Il teatro è visto “come la sede più diretta e più adatta a realizzare il discorso estetico, politico e sociale del futurismo” (p. 23). Ricco di notizie, di osservazioni, di

spunti critici il discorso su Pirandello (cap. IV). Suggestive e appassionanti le pagine sul teatro del grottesco e in particolare su Luigi Chiarelli e il suo La maschera e il volto, significative quelle su Rosso di San Secondo e su Marionette, che passione!; avvincenti come un romanzo i capitoli su Bontempelli e il “realismo magico”, su Dario Niccodemi, su Italo Svevo, sul teatro intimista, su Ettore Petrolini, su Achille Campanile, su Ugo Betti, sulla drammaturgia di Mario Federici, sull’opera di Eduardo De Filippo. Meritevole d’ogni attenzione la parte riservata al teatro “delle rose scarlatte e dei telefoni bianchi”, alla scena nell’età del fascismo, analizzata con impegno e su cui Antonucci richiama il parere di uno storico di robusta statura, Federico Doglio (“il teatro italiano dell’era fascista, indirizzato soprattutto al popolo, in una prospettiva storica risulta, paradossalmente, essere stato politicamente neutrale o indifferente, e infine, rivolto in massima parte ai ceti colti delle grandi città, piuttosto che alle masse”, p. 107). Il teatro del dopoguerra, Ennio Flaiano, il cabaret, gli ultimi decenni del Novecento e il teatro dei nostri giorni sono pagine di una storia e di un romanzo, piene di eventi, di protagonisti, di trame, di spunti, di riflessioni. Antonucci parla di scenografia, di ideologie, di costume, di giornalismo: ma sa restituire al teatro quello che è teatro; e lo fa con linguaggio denso e limpido. Non mancano schizzi di profilo di attori tra i più celebrati nel corso del XX secolo (è citato Vincenzo Tieri, drammaturgo, non il figlio Aroldo, attore e interprete di gran classe). Storia del teatro italiano contemporaneo è un lavoro prezioso nella sua essenzialità, stimolante coi suoi spunti narrativi e critici, apprezzabile per chiarezza espositiva, per stile, per la compe-


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tenza che lo governa. Antonucci sa risvegliare nel lettore l’amore per il teatro e per il dibattito culturale, per le cose belle e per la storia. Sa condurre il lettore, e lo spettatore, sui sentieri della spiritualità o dei rapporti spiritualità-drammaturgia: il capitolo su Diego Fabbri (e sul suo “cristianesimo inquieto”) è un saggio di storia e di psicologia, una lezione di umanesimo, una lezione sul mistero dell’uomo.

Francesco Pistoia

LAURA-LUISA-MORANDO MORANDINI, Il Morandini 2013. Dizionario dei film, Zanichelli, Bologna 2012, pp. 2050. e 37,60.

Il noto Dizionario dei film di Laura, Luisa e Morando Morandini (con la collaborazione di Michele Morandini Tassi), che la Zanichelli puntualmente presenta ai lettori e agli appassionati di cinema, è informato, ricco, limpido nella struttura, nella grafica, nelle schede. La consultazione è agile; il lettore dispone pure di un DVD che gli permette di soddisfare rapidamente ogni esigenza. Il grosso volume contiene i film, i corti, la serie TV. La sezione Indici comprende autori letterari e teatrali, registi, attori principali. In appendice: premi Oscar, i migliori film, Mostra del cinema di Venezia 2012. Il Dizionario comprende, come le edizioni precedenti, brevi schede di film di tutti i tempi e di tutti i Paesi, fatte di informazioni e di giudizi critici. Il cinema degli ultimi anni ha una sua maggiore evidenziazione nello spazio più ampio della scheda. Nella Presentazione leggiamo: ”Anche per questa quindicesima edizione del dizionario comin-

ciamo dalle cifre, che sono un po’ noiose, ma concrete, verificabili. I film ‘nuovi’, cioè quelli che prima non c’erano, sono circa 450. Tra loro i documentari sono 70, in gran parte di produzione italiana; 12 i film muti; 67 i film ‘vecchi’, cioè anteriori al 2010; un centinaio i ‘rifacimenti’, cioè le schede completamente riscritte, oltre alle solite correzioni e aggiunte, fatte anche grazie alle segnalazioni di lettori fedeli o nuovi; una decina i film in 3D (quasi sempre 3D+2D); una ventina i film di animazione, nazionali e stranieri”. Laura e Morando Morandini richiamano l’attenzione sulle pagine dedicate alla serie TV, settore che non può essere ignorato perché spesso alcuni titoli raggiungono “ottimi livelli qualitativi”. Il Dizionario va segnalato non solo ai cinefili. Va segnalato alla biblioteche, ai circoli del cinema, soprattutto alle scuole. Il cinema è arte, è linguaggio, è narrativa, è strumento di cultura. Alunni e docenti vi leggono pagine di storia. Le ricerche su letteratura e cinema sono rese possibili e anche attraenti. E così il rapporto tra cinema e geografia, tra cinema e ambiente, tra cinema e territorio, tra cinema e antropologia. La valenza didattica e pedagogica del Dizionario è enorme. Qualche scheda. Gli ultimi, 1963. In occasione del ventennale della morte di Turoldo, poeta e intellettuale, religioso e promotore di iniziative culturali e sociali, da più parti si è fatto cenno al film Gli ultimi, dimenticato da critici e giornalisti. Sulle pagine della rivista del Centro editoriale dehoniano di Bologna Tomaso Subini dedica a Turoldo un articolo ricco di significato: ”Gli ultimi”: povertà come grazia. Il film che Turoldo fece all’indomani del Concilio (“Il Regno-Attualità”, 2/2013). Il Dizio-


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nario dedica al film una buona scheda, esauriente e controllata. Il film è detto di Vito Pandolfi, regista, intellettuale laico e marxista, ma tratto dal racconto autobiografico di frate Turoldo Io non ero un fanciullo, è dallo stesso frate promosso e organizzato: è, si può ben dire, il film di Turoldo. Uomini di Dio, 2010. La scheda racconta in breve la storia dei “martiri” di Tibhirine, il successo del film in Francia (più di due milioni di spettatori), l’apprezzamento della critica (premio al festival di Cannes 2010) esprime un giudizio positivo sul piano estetico (”La sua scrittura ha un ritmo morbido, lento e grave come i canti religiosi che scandiscono il racconto”) e sul piano dei contenuti e del messaggio (“riesce a conciliare i Vangeli col Corano, la fede cristiana sino al martirio con la denuncia antimilitarista”). Il film di Xavier Beauvois è bello e interessante, pedagogicamente intenso. A scuola è da vedere e la storia dei martiri di Tibhirine si può approfondire con la lettura de I sette uomini di Dio edito da Ancora. Non solo un profilo storico, c’è il Testamento di Christian M. de Chergé, priore del monastero di Notre Dame dell’Atlas a Tibhirine, Algeria, seguito in Epilogo da un commento sobrio e puntuale che lo colloca tra le pagine più belle della spiritualità contemporanea. Popieluszko di Rafal Wieczynski, 2009. L’autore della scheda ne coglie il senso più profondo: il prete polacco “emblema del coraggio nella lotta per la libertà e la verità”. Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismaki, 2011. “E non c’è una virgola, un colore, un gesto, un’inquadratura, una parola che non sia dove dovrebbe essere”. City of God di Ferdinando Mirelles (dal romanzo di Paulo Lins), 2001. Un

giudizio, nella sua brevità, inappuntabile: ”Nella sua estrema violenza è un film che trascina lo spettatore sull’orlo dell’abisso del Male”. Cristiada di Dean Wright, 2012. Speriamo di trovarlo nella prossima edizione (insieme con altri film che fanno riferimento al pensiero religioso o a valori umano-religiosi: Duns Scoto, La bottega dell’orefice, Octoberbaby. Francesco Pistoia

ARMANDO FUMAGALLI-LUISA COTTA RAMOSINO, Scegliere un film 2012, Ares, Milano 2012, pp. 470, e 19,00.

Dal 2004 l’Ares pubblica puntualmente ogni anno Scegliere un film, un volume di limpide recensioni cinematografiche, opera di specialisti, in buona parte giovani, ricchi di titoli (laurea, diplomi, master), di esperienze professionali (radio, cinema, teatro, giornalismo, didattica), di cultura, di entusiasmo. Lavorano per orientare nella scelta, guidati soprattutto da intenti pedagogici, che non escludono interessi estetici. Per ogni film: dati, esposizione del contenuto, saggio critico, elementi problematici per la visione, valutazione (in stelline). In appendice: Brevi profili degli autori, I 50 maggiori incassi della stagione (al 31 maggio 2012), Indice alfabetico dei registi, Indice alfabetico dei film, Indice di merito, Indice tematico (comprendente tre sezioni: I migliori film per tutti, I migliori film per i più giovani, I migliori film per discutere). Scegliere un film 2012 presenta 119 pellicole, esaminate da 16 critici, col coordinamento di Armando Fumagalli e Luisa Cotta Ramosino. Fumagalli insegna all’ Università Cattolica del Sacro Cuore semiotica ed etica della comunicazione e


Francesco Pistoia

dirige il Master in scrittura e produzione per la fiction e il cinema. Consulente di aziende di produzione audiovisiva, invitato presso università straniere, autore di saggi critici. È anche autore del libro Scegliere la tv (Ares 2007). Luisa Cotta Ramosino, laurea in filosofia, diplomi di specializzazione in scienze dello spettacolo e in tecniche di scritture per la fiction, dottorato in linguistica applicata e linguaggi della comunicazione, svolge attività didattica e di ricerca presso l’Università Cattolica, è impegnata come sceneggiatrice in Rai e in Mediaset, ha lavorato nel team di Distretto di polizia. Meritano d’essere ricordati, e con spirito elogiativo, i collaboratori: Paolo Braga, Emanuela Canonico, Raffaele Chiarulli, Laura Cotta Ramosino, Niccolò Dal Corso, Daniela Delle Foglie, Chiara Ferla Lodigiani, Eleonora Fornasari, Emanuela Genovesi, Ilaria Giudici, Eleonora Recalcati, Maurizia Sereni, Cecilia Speri, Andrea Valagussa. Gli autori si rivolgono a genitori, insegnanti, sacerdoti, a istituzioni educative, agli appassionati. Il loro linguaggio è semplice e la pagina scorrevole. Ogni articolo è firmato, ma tutti gli articoli nel loro insieme obbediscono a un criterio, stabilito dal team, improntato a spirito unitario. Il discorso convince, esalta valori umani e spirituali, conduce sulla via di una fruizione del bello e del buono. Ci si trova di fronte a una sobria comunità culturale, che crede nello strumento dell’informazione come veicolo di messaggi educativi e ne approfondisce momenti e dimensioni. Scegliere un film 2012, come si legge nelle pagine di premessa, fa il punto sulla stagione cinematografica 2011-2012, indica tendenze, attese, successi, anche delusioni: un quadro chiaro che permette di muoversi con agilità, di capire, di discutere.

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E la cosa vale soprattutto per i film destinati ai giovanissimi, ai quali è dedicata attenzione particolare. Il nono volume della serie si muove sulla scia dei precedenti, si arricchisce dell’esperienza accumulata, lascia intravvedere un cammino felice, il costituirsi di una buona biblioteca del film.

Francesco Pistoia

FRANCO MONTINI-VITO ZAGARRIO (a cura di), Istantanee sul cinema italiano, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012, pp. 230. e 14,00.

Un discorso sul cinema,come fabbrica del prodotto filmico, è in Istantanee sul cinema italiano, che pubblica Rubbettino. Franco Montini e Vito Zagarrio presentano un’antologia di saggi dedicati a “film, volti e idee del nuovo millennio” e scritti da critici e saggisti che conoscono bene il mondo del cinema, i suoi risvolti, le sue cadute, le sue riprese. Il contesto economico, l’assetto produttivo, attori, caratteristi… Il libro della Rubbettino introduce in un mondo variegato, ricco, multiforme. Un libro di storia,di cultura; un libro che fa il punto sui problemi del cinema e della comunicazione cinematografica. Teorie, generi, commedia, documentario, film d’autore, cinema e realtà, cinema e politica, cinema di ieri e di oggi. I curatori sono esperti di alto livello: Montini è critico di un importante quotidiano ed è attivamente impegnato nel sindacato dei critici cinematografici; Zagarrio insegna al Dams dell’Università Roma Tre, è storico, regista, autore di non pochi studi. Gli autori dei vari saggi, da Barbara Corsi a Pier Paolo De Sanctis, scrivono limpide pagine su cinema e dintorni, segnalano problemi, indi-


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cano soluzioni, spaziano con padronanza tra storia cinema teatro e televisione, tra arte e industria, tra cultura e critica. Un corso di cultura cinematografica concepito con serietà e costruito con impegno; un corso di educazione al cinema, stimolante, ricco di sensibilità, anche di ironia, non alieno da spunti polemici, sempre dettato da passione. Un libro per gli appassionati, per studiosi e per studenti, soprattutto per le biblioteche scolastiche, per i giovani, per i cineforum. Francesco Pistoia Globalizzazione, cosmopolitismo ed educazione

La parola globale è una delle più usate (e abusate) dell’età contemporanea. È anche un catalizzatore per nuovi o vecchi (e rivisitati) problemi che necessitano nuove soluzioni a un livello morale e politico: è il “campo da gioco” della politica globale. Il modello cosmopolita è uno dei paradigmi interpretativi e normativi più esaminati per affrontare questo fenomeno. Il primato che la globalità va assumendo, infatti, porta alla ribalta l’idea dell’appartenenza alla comunità umana come il fondamento finale di concetti come legittimità e sovranità. In questo contesto la nozione di cittadinanza cosmopolita assume un ruolo fondamentale, ed è, allo stesso tempo, conseguenza e soluzione alla globalizzazione. L’idea di cittadinanza cosmopolita si insidia, inoltre, nel dominio dello Stato-Nazione, di cui il concetto di cittadinanza è tradizionalmente appannaggio. Perché tale idea si affermi, tuttavia, non è necessario rigettare il classico concetto di cittadinanza: è possibile ipotizzare una conciliazione tra i

vari elementi, e diverse zone di azione e competenza.1 La cittadinanza cosmopolita va di pari passo con l’esigenza di un tipo di educazione che prepari l’individuo ad essere cittadino del mondo.

Globalizzazione e cosmopolitismo

Da un lato il cosmopolitismo è spesso considerato come il mezzo più efficace per affrontare la globalizzazione. Dall’altro, le trame e gli effetti della globalizzazione hanno determinato le condizioni materiali che permettono di parlare di cittadinanza trans-nazionale. La globalizzazione ha alterato la distinzione, o – meglio – il significato della distinzione tra domestico e estero, territoriale e non territoriale. Obbliga alla riconcettualizzazione di nozioni come auto-determinazione e legittimità politica. La relazione tra locale e globale è diventata frenetica: azioni locali possono avere un impatto globale immediato e viceversa. Cos’è la globalizzazione? La globalizzazione, nella sua versione moderna, “embodies elements in common with past phases, but is distinguished by some unique organizational features, creating a world in which the extensive reach of human relations and networks is matched by its relative high intensity, high velocity and high impact propensity across many facets of social life”.2 Questa prossimità su molteplici livelli è una delle ragioni di essere delle moderne teorie cosmopolite. 1 Vedi PAINTER J., Multi-level Citizenship, Identity and Regions in Contemporary Europe in Transnational Democracy: Political Spaces and Border Crossings, a cura di Anderson, J. Routledge, London, 2002. 2 HELD D., (2003) Cosmopolitanism: Globalization tamed? «Review of International Studies», 29, 465–480, p. 466.


Emma Franchini

Il cosmopolitismo è una nozione antica, articolata ed estremamente complessa.3 È possibile identificare un nucleo tematico, le cui caratteristiche sono: individualismo morale, universalismo, l’idea che la giustizia abbia uno scopo universale. Eguale cura e rispetto va tributato ad ogni singolo individuo, in quanto membro morale, ed eventualmente anche politico, della comunità umana. Questo, se considerato come modello ideale nel campo della politica globale, si articola su cinque principi di base: globalismo; una visione comprensiva dell’umanità; universalismo; equità procedurale; partecipazione, che comporta lo status di una cittadinanza mondiale, transnazionale.4 Nel modello cosmopolita diritti e obblighi sorgono indipendentemente dai confini nazionali e identità e sovranità nazionali sono riconfigurati in funzione di questo paradigma più ampio. Il problema è che questo paradigma può essere declinato in molti modi diversi: anche nel caso in cui si giunga ad un accordo sul fatto che la soluzione cosmopolita al fenomeno della globalizzazione sia la più adatta, sorgono disaccordi teoretici sui criteri definitori del cosmopolitismo e su come strutturare un progetto politico per una società cosmopolita.

3 Per una disamina approfondita della questione, si veda, per esempio, C. Lu (2000), The One and many Faces of Cosmopolitanism, «The Journal of Political Philosophy», Vol. 8, n. 2, 244-267, oppure NUSSBAUM M., (2007) The Capabilities Approach and Ethical Cosmopolitanism: A response to Noah Feldman «Yale Law Journal», vol. 117. 4 MARCHETTI R., (2009) Mapping Alternative Models of Global Politics, «International Studies Review», 11(1), 133-156

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Potrebbe essere utile identificare tre principali tipi di cosmopolitismo:5 un cosmopolitismo etico, che è focalizzato sull’idea di obblighi etici personali e universali; un cosmopolitismo incentrato sull’idea di giustizia distributiva, che si concentra su diritti e obblighi universali della giustizia distributiva; il concetto di una democrazia cosmopolita, che ha il suo punto focale nell’idea di diritti politici e partecipazione politica. Un minimo comune denominatore di natura critica può essere trovato nell’accento sul fatto che si tratta, in fondo, di posizioni di natura utopica, e che non esistono, allo stato attuale, forti strumenti di global governance che possano applicare le istanze cosmopolite e riempirle, praticamente, con un contenuto. Il tentativo di stabilire un cosmopolitismo istituzionale cerca di rispondere a questo tipo di critiche. Il cosmopolitismo istituzionale è fortemente sostenuto dal cosmopolitismo democratico e in misura minore dalle posizioni cosmopolite in merito alla giustizia distributiva. È strutturato su due livelli: da un lato, tenta di dare un significato cosmopolita alle istituzioni di governance globale che già esistono, teorizzando sulle possibili evoluzioni in chiave ancora più marcatamente cosmopolita; dall’altro lato si occupa di elaborare teoreticamente un nuovo apparato per la preminenza dell’ordine globale ad un livello politico ed economico. Questo potrebbe portare, anche se non necessariamente, a una qualche forma di governo mondiale.

ARMSTRONG C. (2009), Global Citizenship: Cosmopolitan Future, http://www.southampton.ac.uk /ccd/events/SuppMat/Global Citizenship Cosmopolitan Futures.doc 5


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Probabilmente la strada cosmopolita è più efficace quando il cosmopolitismo viene considerato un progetto di mediazione, espressione utilizzata in modo appropriato da Seyla Benhabib. “Ciò su cui ho lavorato ultimamente è la difesa di una posizione mediana tra quella dei «confini aperti» e la nozione westfaliana della sovranità statuale. […] Ma soddisfare le esigenze di una comunità politica pur mantenendo il consenso elettorale credo sia un processo che chiamerei «imparare a mediare» tra gli impegni morali di tipo universalistico e le pretese di autodeterminazione.”6 Si tratta di una mediazione che è finalizzata, da un lato, alla legalizzazione delle giuste pretese universali degli esseri umani, senza che vengano prese in considerazione le varie particolari appartenenze a una data comunità. Dall’altro lato è importante sottolineare, come abbiamo visto, che le categorie di nazionale e locale, di identità culturale, non sono negate, anche se necessitano di una rivisitazione: national jurisdictions are drawn by an overarching authority and national boundaries remain secondary when issues of global justice arise.7 La cittadinanza cosmopolita

Potremmo prendere in considerazione, di conseguenza, una concezione di cittadinanza che comprenda molteplici livelli.8 Una concezione di cittadinanza cosmopolita, in altre parole, che si integri e si fonda con le concezioni esistenti, 6 BENHABIB S., in Diritti, confini e cosmopolitismo, a cura di Mariano Croce, in «Internazionale», Marzo-Aprile 2009, n. 112, p. 23. 7 MARCHETTI R. (2009), Mapping Alternative Models of Global Politics, «International Studies Review», 11(1), 133-156, p. 14.

e non ne comporti l’eliminazione, ma venga considerata nel momento in cui entrano in gioco tematiche inerenti alla giustizia globale. Il concetto, tuttavia, è tutt’altro che semplice. Le due principali versioni del concetto classico di cittadinanza legato alla concezione statale sono quella liberale e quella civico-repubblicana. Il concetto moderno di cittadinanza è stato, inoltre, plasmato da diversi fattori:9 la globalizzazione è l’ennesimo elemento di ri-definizione. Possono essere individuati, tuttavia, elementi comuni legati alle varie accezioni della cittadinanza: la nozione dei diritti, di responsabilità, la partecipazione e il senso di identità.10 Educazione e cittadinanza cosmopolita

Perché l’individuo possa vivere efficacemente in un mondo globalizzato, occorre un tipo di istruzione che lo prepari all’acquisizione della cittadinanza cosmopolita, ad essere cittadino del mondo. Martha Nussbaum propone a proposito un tipo di educazione che definisce liberale; liberale nel senso che renda l’uomo libero, che plasmi una

Vedi PAINTER J., Multi-level Citizenship, Identity and Regions in Contemporary Europe in Transnational Democracy: Political Spaces and Border Crossings, a cura di J. Anderson, Routledge, London 2002. 9 While the evolution of modern citizenship has been closely associated with the development of capitalism, Bryan Turner has pointed out that the concept has also been fashioned by other influences- by war, migration, and a variety of social movements. Hartley D. (2001) Green Citizenship, «Social Policy and Administration», 35(3), 490-505, p. 491. 10 Vedi, per esempio, VALENCIA SÁIZ Á. (2004), Globalization, Cosmopolitism and Ecological Citizenship, Paper presentato allo European Consortium on Political Research Joint Session Workshop “Citizenship and the Environment”, Uppsala, April 13th-18th 2004. 8


Emma Franchini

mente aperta. Un’educazione di stampo liberale rende necessaria, anche se non sufficiente, la componente umanistica della formazione. Un’educazione di stampo liberale, sottolinea Martha Nussbaum, porta a coltivare l’umanità negli individui. E coltivare l’umanità implica il considerarsi cittadini del mondo. Martha Nussbaum richiama Seneca: un’educazione liberale è un’educazione adatta alla libertà, è quella che forma uomini liberi, in grado di operare come cittadini del mondo. Uomini in grado di assumere un atteggiamento critico verso le proprie tradizioni. Martha Nussbaum sostiene un cosmopolitismo “debole”, che non trascuri la pluralità dei punti di vista nella formazione dei piani di vita individuali, ma che riconosca l’importanza della comune appartenenza al genere umano, che si esplicita con il riconoscimento della condivisione di forme di vita, di capacità e problemi comuni tra persone altrimenti distanti geograficamente e per formazione culturale. Le persone devono sviluppare tre capacità anche attraverso un determinato tipo di educazione umanistica, capacità fondamentali perché si possa coltivare la loro umanità, e perché possano assurgere allo status di cittadini del mondo: la capacità di avere un atteggiamento socratico, di autoesame critico verso se stessi e le proprie tradizioni. Questo è possibile solo attraverso l’uso della ragione critica. La capacità di concepirsi come membri non solo di una nazione o di un gruppo, ma anche e soprattutto come esseri umani legati ad altri esseri umani da comuni interessi e bisogni, con la necessità di riconoscersi reciprocamente. Lo sviluppo dell’immaginazione narrativa, che implica il saper comprendere la posizione dell’altro, il significato che un determinato atto, un’azione, rive-

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ste per esso, pur mantenendo un certo senso critico. Questo è fondamentale per poter formulare una critica e attuare un giudizio. Come poter giudicare, infatti, se non si agisce su un piano di comprensione dell’altro? Tale educazione è finalizzata a dare all’individuo uno sguardo critico verso la propria cultura e ideali di appartenenza, rendendolo in grado di operare paragoni trans-culturali e di apprezzare l’appartenenza alla comunità umana. Tutto ciò, come abbiamo detto, non avviene a completo detrimento delle appartenenze locali. Scrive Martha Nussbaum: “Per diventare cittadini del mondo non è necessario abbandonare completamente i legami particolari, che spesso sono fonte di arricchimento. A questo proposito gli stoici propongono di figurarsi l’uomo avvolto in una serie di cerchi concentrici. […] Il cerchio più ampio racchiude l’umanità presa come un tutto indistinto. Il nostro compito come cittadini del mondo, e come educatori che indirizzino i giovani su questa strada, sarà […] di fare in modo che tutti gli uomini diventino in qualche modo nostri concittadini. In altre parole, non è necessario rinunciare alle identità che ci hanno plasmato e ci hanno dato un’identità nazionale, etnica o religiosa; ma dobbiamo impegnarci a rendere tutti gli esseri umani parte di una comunità al cui interno si possa dialogare e avere a cuore gli interessi altrui, rispettando qualsiasi espressione di umanità e lasciando che questo rispetto limiti e guidi le scelte politiche nazionali o locali.”11 In un mondo sempre più globalizza-

NUSSBAUM M., Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo e l’educazione contemporanea, Carocci, 2006, Roma, p. 77. 11


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RECENSIONI E NOTE

to, sotto tutti gli aspetti, dove la risonanza di azioni locali è globale, il concetto di cittadinanza cosmopolita, per quanto utopico, può offrire interessanti spunti di riflessione. Il cosmopolitismo può essere considerato come un processo di mediazione tra istanze globali e locali, e la cittadinanza cosmopolita come un tipo di cittadinanza che si integri con la concezione classica statale, creando un modello che operi a più livelli, che prenda in considerazione le varie sfere di interesse e di azione, diversificandosi di conseguenza. Perché si possa parlare di cittadinanza cosmopolita, tuttavia, occorre un tipo di educazione che formi

un uomo che possa definirsi cittadino del mondo. Martha Nussbaum sostiene come questo sia possibile attraverso un tipo di “educazione liberale”, volta a coltivare l’umanità delle persone e a renderle consapevoli della loro appartenenza a una realtà globale, appartenenza che non avviene a detrimento delle loro identità particolari, ma le integra, nella consapevolezza di essere umani, di condividere forme di vita comuni, di avere comuni caratteristiche e bisogni che assumono importanza in una concezione cosmopolita e nella realtà globale. Emma Franchini


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RIVISTE ITALIANE DI CULTURA E FORMAZIONE PEDAGOGICA (a cura di Michele Cataluddi)

Biblion, Rivista di pedagogia e delle scienze dell’educazione, semestrale, F. Angeli. Cadmo, Giornale italiano di Pedagogia sperimentale, semestrale, F. Angeli. Cooperazione educativa, trimestrale, Erickson. Educazione, Giornale di pedagogia critica, Editoriale Anicia. Encyclopedia, Rivista di fenomenologia pedagogia formazione, quadrimestrale, Università di Bologna. Giornale di pedagogia, Federazione italiana pedagogisti, quadrimestrale, Azzano San Paolo. I problemi della pedagogia, semestrale, Anicia. La vita scolastica, La rivista dell’istruzione primaria, mensile, Giunti. Nuova Secondaria, Mensile per la scuola secondaria superiore, La Scuola Editrice. Orientamenti pedagogici, Rivista internazionale di scienze dell’educazione, bimestrale, Edizioni Erickson. Pedagogia e vita, annuale, La Scuola Editrice. Pedagogia oggi, mensile, Società Italiana di Pedagogia. Pedagogia più didattica, Teorie e pratiche educative, quadrimestrale, Edizioni Erickson,. Professione pedagogista, periodicità variabile, Associazione nazionale dei Pedagogisti Italiani. Rivista di pedagogia religiosa, Editrice LAS. Rivista di Scienze dell’Educazione, quadrimestrale, Pontificia Università Auxilium. Scuola e didattica, Problemi e orientamenti per la scuola secondaria di primo grado, mensile, La Scuola Editrice. Scuola Italiana Moderna, mensile per la Scuola Primaria, Editrice La Scuola. Topologik, Collana di studi internazionali di scienze filosofiche e pedagogiche, semestrale, Pellegrini. www.Educare.it, Rivista telematica sui temi dell’educazione, mensile. www.Pedagogika.it, Rivista di educazione, formazione e cultura, trimestrale.


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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.



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ISSN 1826-2155

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°A N N IV ER SA RI

trimestrale di cultura e formazione pedagogica

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Donato Petti Una nuova alleanza per l'educazione

Francesco Trisoglio Come deve parlare chi annunzia la fede, secondo S. Agostino

Giovanni Chimirri Educazione e politica rosminiana: eticità, laicismo, libertà di insegnamento Vincenzo Rosito La reciprocità come fondamento dell’esperienza educativa

Dario Antiseri Versioni di greco e di latino quali momenti formativi di una mente critica Raimondo Murano La funzione ispettiva e la promozione degli insegnanti

Marina Pescarmona La teoria dell’evoluzione e le sue implicazioni pedagogico-didattiche Cesare Trespidi Lasalliani autori di libri di preghiera - IV

Matthieu Fontaine Un épisode de la vie des Frères avant la Révolution (1742-1743) Óscar A. Elizalde Prada Volver a Vaugirard

Jean Rabenalisoa Ravalitera - Hilaire Raharilalao L’œuvre de Frere Raphael-Louis Rafiringa (1856 – 1919) LUGLIO - SETTEMBRE 2013 • ANNO 80 – 3 (319)


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