Rivista lasalliana 4 2013

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Rivista lasalliana Direzione: 00149 Roma - Via dell’Imbrecciato, 181  06.552.100.243 - E-mail: donato.petti@tiscali.it Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56 Sito web: www.lasalliana.com

Rivista lasalliana

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Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.

2013

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”

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ISSN 1826-2155

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

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Donato Petti Enciclica “La luce della fede” Francesco Trisoglio S. Basilio legge il primo capitolo della Genesi dal Covolo Enrico Alle origini della vita consacrata Jaume Pujol i Bardolet La perennità della spiritualità lasalliana Dario Antiseri Per evitare i danni di una didattica delle scienze priva della loro storia Marco Camerini Scrivere, oggi. A vent’anni Giovanni Chimirri Formazione filosofica e prevenzione del nichilismo Carlo Rubinacci Persona, bisogni educativi speciali e inclusione nelle scuole autonome Antonio Gentile Una pedagogia della libertà: il carme “Ad Astrolabium filium“ di Abelardo Eugenio Guccione Libertà di scelta educativa in Luigi Sturzo Philippe Moulis I Fratelli delle Scuole Cristiane a Boulogne-sur-Mer (1710-1724) Edgar Genuino Nicodem La missione del discepolo: andare verso le periferie OTTOBRE - DICEMBRE 2013 • ANNO 80 – 4 (320)


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www.lasalliana.com Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole Cristiane da lui istituite. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un Comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie.


RIVISTA LASALLIANA

Trimestrale di cultura e formazione pedagogica fondato nel 1934 Anno 80 • numero 4 • ottobre-dicembre 2013 Direttore

DONATO PETTI

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GABRIELE DI GIOVANNI (Direttore “Sussidi per la catechesi”)

EDGAR GENUINO NICODEM (Studi lasalliani)

GILLES BEAUDET (Ricerche lasalliane)

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LUCIANO CHIAPPETTA (Legislazione scolastica)

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MARIO CHIARAPINI (Direttore “Lasalliani in Italia”)

PHILIPPE MOULIS (Ricerche storiche)

LORENZO TÉBAR BELMONTE (Pedagogia lasalliana)

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DIEGO MUÑOZ (Ricerche e Studi lasalliani)

ENRICO TRISOGLIO (Storia e Letteratura patristica)

ENRICO DAL COVOLO (Letteratura cristiana antica)

RAIMONDO MURANO (Formazione tecnico-professionale)

ROBERTO ZAPPALÀ (Antropologia filosofica)

Comitato di Redazione Luca Amati - Marco Camerini - Stefano Capello - Michele Cataluddi - Giovanni Decina - Francesco Decio Antonio Iannaccone - Annalisa Malatesta - Sara Mancinelli - Virginio Mattoccia - Alberto Rizzi - Enrico Sommadossi - Biancamarta Tammaro - Monica Zanchini Di Castiglionchio.

Collaboratori Edwin Arteaga Tobón, Antonio Augenti, Gilles Beaudet, Bruno Bordignon, Graziella Bussoni, Emilio Butturini, Angelo Piero Cappello, Italo Carugno, Umberto Casale, Giovanni Chimirri, Terry Collins, Robert Comte, Sergio De Carli, Paulo Dullius, Paolo Fichera, Matthieu Fontaine, Andrea Forzoni, Emma Franchini, Antonio Gentile, Oreste Gianfrancesco, Pedro Gil, Mariachiara Giorda, Eugenio Guccione, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Léon Lauraire, Lino Lauri, Herman Lombaerts, Anna Lucchiari, Matteo Mennini, Vito Moccia, Patrizia Moretti, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Raffaele Norti, Laura Pappone, Marina Pescarmona, Francesco Pesce, Massimo Pisani, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Bérnard Pitaud, Óscar A. Elizalde Prada, Jaume Pujol, Hilaire Raharilalao, Vincenzo Rosito, Carlo Rubinacci, Filippo Sani, Marica Spalletta, Antonella Susanna, Giuseppe Tacconi, Cesare Trespidi, Joan Carles Vázquez, Ciro Vitiello.


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Rivista lasalliana 80 (2013) 4

SOMMARIO EDITORIALE 443 Donato Petti

Enciclica “La luce della fede”

L’Enciclica Lumen fidei, la prima di Papa Francesco, concepita e in larga misura redatta da Benedetto XVI, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi si definisce un non credente, interessato e affascinato dalla persona e dal messaggio di Gesù di Nazareth. Per tutti rappresenta un’occasione privilegiata per riflettere sulla crisi di senso, che attraversa il “villaggio globale” ed affonda le sue radici nell’intera parabola della modernità. Encyclical “The Light of Faith” Lumen fidei is the first Encyclical of Pope Francis. It was conceived of and mostly drawn up by Pope Benedict XVI. It aims to confirm in their faith those who believe in Jesus Christ and also to provoke a sincere and rigorous dialogue with those who declare themselves to be non-believers but are fascinated by the person of Jesus of Nazareth and by his message. For all of us, it is an excellent opportunity to reflect on the crisis of meaning which is running through the ‘global village’ and sinking its roots deep into the story of modernity.

STUDI 451 Francesco Trisoglio

La catechesi davanti alla creazione: S. Basilio legge il primo capitolo della Genesi Dio parlò ed agì; il resoconto della Genesi ce lo presenta, con incisiva trasparenza, in entrambi i momenti. Questa constatabilità molti lettori l’hanno notata, alcuni esperti l’hanno esaminata, ma nessuno l’ha inquadrata in ampiezza e scandagliata in profondità come S. Basilio. Verrebbe da dire che, dinanzi a quelle scarne paginette, si incagli, non per le difficoltà ma per l’abbondanza; sono finestre angustissime che danno su orizzonti illimitati.


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Catechesis and Creation: St Basil reads the first chapter of Genesis God spoke and took action. The Genesis account presents this very clearly in two phases. Many readers have noticed this fact, and some scholars have studied it, but nobody has presented it in its full extent in the way St Basil has. That means that when considering these few pages, we run up against not against their difficulty but against their richness; very narrow windows open out onto a limitless horizon.

457 dal Covolo Enrico

Alle origini della vita consacrata. Il monachesimo cristiano dei primi secoli La vita e l’esperienza spirituale dei monaci hanno esercitato lungo i secoli un rilevante influsso sulla spiritualità cristiana. L’Autore tratta in maniera sintetica due aspetti della storia del monachesimo: la questione delle sue origini e le “idee-forza” (o “archetipi”) che mostrano la cospicua diversità dell’ideale monastico ma non ne altera l’unità essenziale. Il monaco cristiano è una persona che in vari modi cerca la conoscenza, l’adorazione e il servizio di Dio. At the origins of consecrated life. Christian monasticism of the first centuries A.D. The life and spiritual experience of monks have exerted a considerable influence on Christian spirituality. The author deals with two aspects of the history of monasticism: its origins and the archetypes that show the conspicuous diversity of the monastic ideal but which does not alter its essential unity. The Christian monk is a person who, in various ways, strives after the knowledge, worship and service of God.

461 Jaume Pujol i Bardolet

La perennità della spiritualità lasalliana

Tutte le persone si muovono e agiscono a partire da una “spiritualità”, cioè secondo uno “spirito”, un principio di azione, una filosofia; per dirla in altro modo, è normale che ogni persona agisca in vista di un “perché” e di un “per che cosa”. E in questo consiste la spiritualità che anima una persona e costituisce la propria identità. In relazione alla spiritualità lasalliana il “perché” e il “per che cosa” è determinato da un costante riferimento a Gesù e al suo Vangelo, cioè dallo “spirito di fede”, secondo il carisma di La Salle. Lo spirito di fede agisce come una “forza propulsiva” all’interno della persona, per usare un’espressione di Emmanuel Mounier. The durability of lasallian spirituality All people move and act from a “spirituality”, that is, as a “spirit”, a prin-


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ciple of action, a philosophy that governs them, in other words, it is normal for every person to have a “why” and “for what” in their life and performance. And herein is the spirituality that motivates and constitutes its own identity. In Lasallian spirituality this “why” and “for what” is governed by a constant reference to Jesus and his Gospel from the “spirit of faith”, according to the charism of La Salle. The spirit of faith acts as an “ascensional force” in the person, in terms of Emmanuel Mounier.

PROPOSTE 475 Dario Antiseri

Per evitare i danni di una didattica delle scienze priva della loro storia In sostanza, e in linea generale, l’educazione manualistica distrugge l’idea che la scienza sia una realtà storica, inculca l’immagine di una scienza dogmatica. Occorre dare un’immagine della scienza come fatto essenzialmente storico in cui la verità di oggi sarà verosimilmente l’errore di domani, mostrare che la scienza è frutto di tentativi ed errori, di congetture e confutazioni, e che progredisce proprio perché apprende dai propri errori; far vedere che le teorie scientifiche sono smentibili, che sono cose umane e quindi non assolute, ma perfettibili. La pratica della ricerca scientifica si risolve tutta in tentativi di soluzioni di problemi. Avoiding the bad effects of teaching science divorced from history In general, textbook teaching effectively destroys the idea that science is an historical phenomenon and conveys the notion of science as dogmatic. We need to give the image of science as something that is essentially historical and in which the truths of today may quite possibly be the errors of tomorrow, showing that science is the result of trial and error, of conjectures and refutations, and that it progresses precisely because it learns from its mistakes, indicating that scientific theories are disprovable, that they are human creations and therefore not absolute but capable of improvement. The exercise of scientific research comes down to a question of our efforts at problem-solving.

487 Marco Camerini

Scrivere, oggi. A vent’anni

Si moltiplicano concorsi di scrittura creativa, festival di poesia, iniziative e siti on line che promuovono giovanissimi esordienti, sui quali anche importanti gruppi editoriali sono pronti a investire per dare fiato al mercato in crisi e tentare di rianimare un malato in condizioni decisamente gravi: un lettore italiano sempre più frettoloso, distratto ed apatico. Tentare di capire cosa significhi scrivere oggi, tracciando


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un rapido profilo delle principali tendenze della narrativa contemporanea, può servire anche a comprendere i motivi per cui molti adolescenti sentono l’esigenza di trasformare in scrittura il proprio vissuto, le proprie attese, magari le loro (in)consce paure. Writing today. Twenty years on. There is an abundance of competitions in creative writing, poetry festivals and new on-line sites encouraging young beginners, and large publishing firms are quick to invest in them in order to breathe new life into a very sick patient, namely the Italian reader who is more and more impatient, distracted and apathetic. By trying to understand what it means to be a writer today and sketching a rapid profile of the main tendencies in contemporary narration, we can begin to understand the reasons why many adolescents feel the need to translate into writing their own experiences, their expectations, even their (un)conscious fears.

495 Giovanni Chimirri

Formazione filosofica e prevenzione del nichilismo

La profezia di F. Nietzsche si è avverata, e l’uomo occidentale è pervenuto ad una visione nichilistica del reale, dove l’essere non ha più consistenza, dove i valori sono infondati e la vita risulta priva di senso. Eppure, a partire da Aristotele, l’essere non si può negare (principio di non contraddizione), se non vogliamo cadere nell’agnosticismo, nell’ateismo e nel relativismo. La Chiesa (in vari documenti riportati) valorizza l’apporto della ragione umana (filosofia, metafisica); una ragione utile alla stessa teologia e indispensabile per dialogare con l’odierna civiltà laicizzata. Affermando filosoficamente l’essere, si ottiene un duplice risultato: si chiude la strada al nichilismo e si mantiene il reale aperto al trascendente contro ogni assolutizzazione del mondo, della finitezza, dell’uomo stesso con tutte le sue illusioni. The study of philosophy and the prevention of nihilism Nietzsche’s prediction has come true, and Western man has reached a nihilist vision of reality, in which being no longer has consistency, where values are without foundation and so life is devoid of meaning. However, if we follow Aristotle, being cannot be denied (on the principle of non-contradiction), if we want to avoid falling into agnosticism, atheism and relativism. The Church (in various documents) gives value to human reason (philosophical, metaphysical); reason which is useful even for theology and which is indispensable for dialogue with today’s secular society. The philosophical affirmation of being produces a twofold result. It closes the way to nihilism and keeps reality open to the transcendent against any absolutising of the world, or of finiteness, or of man himself with all his illusions.


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507 Carlo Rubinacci

Persona, bisogni educativi speciali e inclusione nelle scuole autonome L’inclusione scolastica richiede principalmente un ripensamento del senso e degli scopi dell’istruzione per tutti gli studenti, una rifondazione del modo ordinario di fare scuola. L’istruzione e la formazione dovrebbero essere finalizzate a promuovere lo sviluppo della personalità e dei talenti degli allievi, compresi quelli con bisogni educativi speciali. In sintesi, una scuola inclusiva è un luogo che accoglie ciascuno: gli insegnanti hanno il compito di riconoscere i diversi stili di apprendimento e di assicurare loro l’aiuto di cui hanno bisogno per avere successo nell’apprendimento permanente. Person, special educational needs and inclusion in the autonomous schools Inclusive education involves fundamentally re-thinking the meaning and the purpose of education for all children and young people, a restructuring of ordinary schools. Education should be directed to developing the child’s personality and talents, included students with special educational needs. In a word, an inclusive school is a welcoming place for everyone: teachers must recognise the diverse learning styles of their students and provide them with the support they need to succeed as long life learners.

RICERCHE 521 Antonio Gentile

Una pedagogia della libertà: il carme “Ad Astrolabium filium“ di Abelardo Astrolabio è l’uomo di ogni tempo, sempre proteso alla ricerca della verità e sempre costretto a difendersi da quanti pretendono di cercarla per lui, trasferendogliela in nome di una non ben definita autorità. Abelardo gli ricorda che la verità non può essere regolata da leggi esterne, ma solo cercata, vissuta e verificata nel proprio tessuto umano. Un autentico dialogo educativo si realizza quando la persona educata riesce a passare dall’autorità passivamente accettata, alla maturata consapevolezza che quanto ricevuto abbia un senso di cui farsi carico. Educating for liberty: the poem “Ad Astrolabium filium“ of Abelard Astrolabius is the man of all ages, forever in search of truth and always obliged to be on his guard against those who claim to have found it for him, transmitting it in the name of a not very well defined authority. Abelard reminds him that the truth cannot be governed by external laws; it can only


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be searched for, seen and verified in the texture of man himself. An authentic educational dialogue takes place when the person being educated succeeds in going beyond a passive acceptance of authority to a mature knowledge which, once received, has a meaning that needs to be shouldered.

533 Eugenio Guccione

Libertà di scelta educativa in Luigi Sturzo

Non può esserci un’effettiva educazione senza libertà. Questa è indispensabile come l’aria che si respira. Sturzo non chiede allo Stato di rinunciare al diritto-dovere di organizzare un proprio sistema scolastico. Egli reclama che lo Stato riconosca e allarghi quel diritto a persone e ad enti che, nel rispetto della legge, vogliono contribuire al processo educativo e formativo della Nazione. Lo Stato democratico, a giudizio del sacerdote siciliano, deve fare un concreto passo avanti rispetto allo Stato liberale e, a differenza di quest’ultimo, deve mettere le scuole e gli istituti esistenti, statali e non, nelle condizioni di potere offrire un servizio gratuito alla comunità e consentire alle famiglie, alle quali spetta il primato educativo, di scegliere liberamente per i propri figli il tipo e il corso di studi. Free Choice in Education according to Luigi Sturzo There can be no effective education without freedom. It is as indispensible as the air we breathe. Sturzo does not ask the State to renounce its right and duty to provide its own school system. He asks that it recognise and extend that right to people and organisations who want to contribute, in keeping with the law, to the nation’s system of education and training. According to this Sicilian priest, the democratic state should take a concrete step forward in relation to the liberal state, and while different from the latter it should place the existing schools and establishments, state schools or otherwise, in a position to provide a gratuitous service to the community and allow the families, which have priority in education, to make a free choice in the course of study for their own children.

543 Philippe Moulis

I Fratelli delle Scuole Cristiane a Boulogne-sur-Mer (1710-1724)

Una delle ultime fondazioni realizzate da Giovanni Battista de La Salle fu quella di Boulogne-sur-Mer nel 1710. Gli anni che vanno dal 1710 al 1713 furono dedicati a rafforzare, sistemare e garantire la sicurezza dei Fratelli. Poi le relazioni tra il vescovo giansenista Pierre de Langle e i Fratelli si deteriorarono fino al punto che il prelato giansenista tentò di sostituire i Fratelli con altri maestri provenienti da Parigi.


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The Brothers of the Christian Schools in Boulogne-sur-Mer (1710-1724) One of the last foundations made by John-Baptist de La Salle was the one in Boulogne-sur-Mer in 1710. The years between 1710 and 1713 were devoted to strengthening, organising and ensuring the safety of the Brothers. After that the relations between the Brothers and the Jansenistic Bishop Pierre de Langle deteriorated, and the prelate sought to replace the Brothers with schoolmasters from Paris.

ESPERIENZE E TESTIMONI 549 Edgar Genuino Nicodem

La missione del discepolo: andare verso le periferie Durante le Giornate Mondiali della Gioventù 2013, Papa Francesco ha illustrato alcuni aspetti importanti del nuovo volto della Chiesa che desidera presentare. Una Chiesa, secondo Bergoglio, povera con i poveri, samaritana, misericordiosa e capace di camminare nella notte con la gente. Il posto del cristiano è nelle periferie per far rifiorire la civiltà dell’amore. L’invito del Papa comporta cogenti implicazioni per la vita e la missione lasalliana. Esso rappresenta un improrogabile appello a riprendere, in modo mistico e profetico, il cammino esodale del Santo Fondatore, Giovanni Battista de La Salle. The task of the missionary disciple is to go to the fringes During the World Youth Days of 2013, Poe Francis presented the major features of the new face of the Church which he would like to promote. The Church according to Bergoglio is poor with the poor, a Samaritan, merciful and able to walk with people through the night. The place for the Christian is on the fringe, so as to help a society of love to flourish. The Pope’s invitation has important implications for the missionary life of Lasallians. It is in essence an insistent call to take up again the Exodus journey of the Founder, spiritually and prophetically.

RECENSIONI E NOTE 559 HADJADJ F., Il paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda. Lindau, Torino 2013, pp. 472. e 29,00 (Umberto Casale).

565 BERNARDI P.- MONDUCCI F., Insegnare storia. Guida alla didattica del labora568

torio storico, UTET, Novara 2012, pp. 332. e 25,00 (Michele Cataluddi). LAURI L., Competenze. Programmazione didattica e valutazione, Etas, Milano 2013. e 12,00 (Donato Petti)


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SEGNALAZIONE LIBRI

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INDICE ANNATA 2013


Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 443-450

EDITORIALE

ENCICLICA “LA LUCE DELLA FEDE” DONATO PETTI SOMMARIO: 1. La fede è luce per la vita dell’uomo. - 2. La fede è dono soprannaturale di Dio. - 3. Gesù centro e pienezza della fede. - 4. La salvezza mediante la fede. - 4.1. Fede e verità. - 4.2. La conoscenza della fede: indissolubilità tra verità e amore. - 5. La fede è “ascoltare”, “vedere” e “toccare”. - 6. Il dialogo tra fede e ragione. 6.1. La fede genera comunione ecclesiale. - 6.2. La fede e il bene comune. - 6.3. La fede è forza consolante nella sofferenza.

L’

Enciclica Lumen fidei, la prima di Papa Francesco, concepita e in larga misura redatta da Benedetto XVI, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi si definisce un non credente, interessato e affascinato, tuttavia, dalla persona e dal messaggio di Gesù di Nazareth.1

1. La fede è luce per la vita dell’uomo Per Papa Francesco, la luce della fede è capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo perché è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, e luce per il nostro futuro, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte.2 Tanti contemporanei hanno veduto nella fede come una luce illusoria, che impedisce all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Per essi, il credere si oppone al cercare. Altri, fidando soltanto nella luce della ragione, hanno inteso la fede come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può pro-

1 2

FRANCESCO, Lettera a Eugenio Scalfari, La Repubblica, 11 settembre 2013. FRANCESCO, Enciclica “Lumen fidei”, 29 giugno 2013, nn. 4-6.


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EDITORIALE

Donato Petti

porsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada, di distinguere il bene dal male. E allora, cosa fare? Rassegnarsi alla sola capacità della razionalità, della scienza, all’onnipotenza dell’uomo? Com’è questa via che la fede schiude davanti a noi?

2. La fede è dono soprannaturale di Dio La fede non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, dall’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, che ci precede e su cui possiamo poggiare per costruire la nostra vita. Nella storia della rivelazione di Dio, Abramo è il prototipo della fede. Abramo non vede Dio, ma sente la sua voce. La fede, dunque, è legata all’ascolto e assume un carattere personale; è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome. Ad Abramo viene chiesto di affidarsi a questa Parola, come roccia sicura sulla quale si può costruire con solide fondamenta. Per Abramo la fede in Dio illumina le più profonde radici del suo essere, gli permette di riconoscere la sorgente di bontà che è all’origine di tutte le cose, e di confermare che la sua vita non procede dal nulla o dal caso, ma da una chiamata e un amore personali. La storia del popolo d’Israele, nel libro dell’Esodo, prosegue, poi, sulla scia della fede di Abramo. L’opposto della fede è l’idolatria. L’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani. La fede, in quanto legata alla conversione, è l’opposto dell’idolatria; è separazione dagli idoli per tornare al Dio vivente, mediante un incontro personale. Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di trasformare la storia della nostra vita.3

3. Gesù centro e pienezza della fede La rivelazione di Dio nell’Antico Testamento trova il suo compimento nella vita di Gesù Cristo e, in particolare, nella sua passione, morte e risurrezione, in cui risplende l’altezza e l’ampiezza del suo amore per noi.4 Per Papa Francesco, la nostra cultura rischia la perdita della percezione della presenza concreta di Dio e della sua azione nel mondo. Preferiamo

3 4

FRANCESCO, Idem, nn. 9-10. FRANCESCO, Idem, nn. 15-16.


Enciclica "La luce della fede"

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pensare che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, lontano e separato dal rapporto con noi. Credere o non credere in Lui appare del tutto indifferente.5 Le cose per Papa Francesco stanno in maniera diversa: Cristo non è soltanto Colui in cui possiamo credere, ma anche Colui al quale possiamo unirci per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù. Gesù si presenta come Colui che ci spiega Dio (cfr Gv 1,18). San Giovanni ha espresso l’importanza del rapporto personale con Gesù per la nostra fede attraverso vari usi del verbo credere. Insieme al “credere che” è vero ciò che Gesù ci dice (cfr Gv 14,10; 20,31), l’Apostolo ed Evangelista usa anche le locuzioni “credere a” Gesù e “credere in” Gesù. “Crediamo a” Gesù, quando accettiamo la sua Parola, la sua testimonianza, perché egli è veritiero (cfr Gv 6,30). “Crediamo in” Gesù, quando lo accogliamo personalmente nella nostra vita seguendolo lungo la strada (cfr Gv 2,11; 6,47; 12,44). La fede cristiana è fede nell’Incarnazione del Verbo e nella sua Risurrezione nella carne; è fede in un Dio che si è fatto così vicino da entrare nella nostra storia. Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di Sé.6 Maria, la madre di Gesù, è icona perfetta di fede perché, nella pienezza dei tempi, ha accolto nel suo cuore la Parola incarnata di Dio, compiendo il pellegrinaggio della sequela di suo Figlio.7

4. La salvezza mediante la fede “Abbà, Padre” è la parola che diventa centro dell’esperienza di fede (cfr Rm 8,15). La vita nella fede può riassumersi nella frase di san Paolo ai Corinzi: «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto?» (1 Cor 4,7). La salvezza attraverso la fede consiste nel riconoscere il primato del dono di Dio: l’”io” del credente si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Altro.8 L’immagine della Chiesa-corpo sottolinea l’unione vitale di Cristo con i credenti e di tutti i credenti tra loro (cfr Rm 12,4-5). I cristiani sono “uno” (cfr Gal 3,28), senza perdere la loro individualità. Fuori da questo corpo, la fede perde la sua “misura”, il suo equilibrio, lo spazio necessario per sorreggersi. La fede ha una forma necessariamente ecclesiale, si confessa come comunione concreta dei credenti. Per questo, essa non è un fatto privato, una con-

FRANCESCO, Idem, n. 17. FRANCESCO, Idem, n. 18. 7 FRANCESCO, Idem, nn. 58-59. 8 FRANCESCO, Idem, nn. 19-21. 5 6


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cezione individualistica, un’opinione soggettiva, ma un concerto corale, destinata a diventare annuncio.9

4.1. Fede e verità L’uomo ha bisogno di verità, perché senza di essa non si sostiene, non va avanti. La fede, senza verità, non salva, non rende sicuri i passi degli uomini. Resta una bella fiaba, la proiezione di desideri di felicità, qualcosa che accontenta solo nella misura in cui ci si vuole illudere; oppure si riduce a sentimento, che consola e riscalda, ma resta soggetto al mutarsi dell’animo, incapace di sorreggere un cammino costante nella vita.10 Nella cultura contemporanea si tende spesso ad accettare come verità solo quella della tecnologia: è vero ciò che l’uomo riesce a costruire e misurare con la sua ragione; è vero tutto ciò che funziona. La verità grande, la verità che spiega l’insieme della vita personale e sociale, è guardata con sospetto. Rimane allora solo un relativismo in cui la domanda sulla verità di tutto, che è in fondo anche la domanda su Dio, non interessa più. È logico, in questa prospettiva, voler togliere la connessione della fede con la verità. La domanda sulla verità, invece, riguarda l’origine di tutto, alla cui luce si può guardare alla meta e acquista significato il cammino umano.11

4.2. La conoscenza della fede: indissolubilità tra verità e amore San Paolo afferma: «Con il cuore si crede» (Rm 10,10). Il cuore, nella Bibbia, è il centro dell’uomo, dove s’intrecciano tutte le sue dimensioni: il corpo e lo spirito; l’interiorità della persona e la sua apertura al mondo e agli altri; l’intelletto, il volere, l’affettività. Se, dunque, il cuore è capace di tenere insieme queste dimensioni, è perché esso è il luogo dove ci apriamo alla verità e all’amore. La fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre all’amore. È in questo intreccio della fede con l’amore che si comprende la forma di conoscenza propria della fede. L’amore risulta oggi un’esperienza legata al mondo dei sentimenti incostanti e non più alla verità. In realtà, l’amore non si può ridurre a sentimento perché esso tocca, sì, la nostra affettività, ma per aprirla alla persona amata e iniziare così un cammino, che è un uscire dalla chiusura nel proprio io e andare verso l’altra persona, per edificare un rapporto duraturo; l’amore mira all’unione con la persona amata. Si rivela allora in che senso l’amo-

FRANCESCO, Idem, n. 22. FRANCESCO, Idem, nn. 23-24. 11 FRANCESCO, Idem, n. 25. 9

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re ha bisogno di verità. Solo in quanto è fondato sulla verità l’amore può perdurare nel tempo. Se l’amore non ha rapporto con la verità, è soggetto al mutare dei sentimenti e non supera la prova del tempo. Senza verità l’amore non riesce a portare l’”io” al di là del suo isolamento. D’altro canto, se l’amore ha bisogno della verità, anche la verità ha bisogno dell’amore. Amore e verità non si possono separare. Senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona. Chi ama capisce che l’amore è esperienza di verità, che esso stesso apre i nostri occhi per vedere tutta la realtà in modo nuovo, in unione con la persona amata. In questo senso, secondo san Gregorio Magno, l’amore stesso è una conoscenza, porta con sé una logica nuova. La ragione credente e l’amore diventano un solo occhio per giungere a contemplare Dio.12

5. La fede è “ascoltare”, “vedere” e “toccare” Nella Bibbia la conoscenza della fede è legata all’alleanza di un Dio fedele, che intreccia un rapporto di amore con l’uomo. Essa è presentata dalla Bibbia come un ascolto, associata al senso dell’udito. San Paolo userà una formula diventata classica: «La fede viene dall’ascolto» (Rm 10,17). La fede è “udire” e “vedere”: all’ascolto della Parola di Dio si unisce il desiderio di vedere il suo volto. L’udito attesta la chiamata personale e l’obbedienza; la vista offre la visione piena dell’intero percorso e permette di situarsi nel grande progetto di Dio. La connessione tra il vedere e l’ascoltare, come organi di conoscenza della fede, appare con la massima chiarezza nel Vangelo di Giovanni. A volte, la visione dei segni di Gesù precede la fede, come con i giudei che, dopo la risurrezione di Lazzaro, «alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui » (Gv 11,45). Altre volte, è la fede che porta a una visione più profonda: « Se crederai, vedrai la gloria di Dio » (Gv 11,40). Alla fine, credere e vedere s’intrecciano: « Chi crede in me […] crede in colui che mi ha mandato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato » (Gv 12,44-45). Il vedere diventa sequela di Cristo. E così, il mattino di Pasqua, si passa da Giovanni che, ancora nel buio, davanti al sepolcro vuoto, “vide e credette” (Gv 20,8). In questo senso, san Tommaso d’Aquino parla della fede che vede.13 Insieme all’ascoltare e al vedere, la fede è, per san Giovanni, un toccare, come afferma nella sua prima Lettera: «Quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto […] e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita…» (1 Gv 1,1). Sant’Agostino, commentando il passo dell’emorroissa che tocca Gesù per essere guarita (cfr Lc 8,45-46), afferma: « Toccare con il

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FRANCESCO, Idem, n. 26. FRANCESCO, Idem, nn. 29-30.


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cuore, questo è credere ». La folla si stringe attorno a Lui, ma non lo raggiunge con il tocco personale della fede.14

6. Il dialogo tra fede e ragione I primi cristiani trovarono nel mondo greco, nella sua fame di verità, un partner idoneo per il dialogo che favorì una feconda interazione tra fede e ragione, che si è andata sviluppando nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Sant’Agostino è un esempio significativo di questo cammino in cui la ricerca della ragione è stata integrata nell’orizzonte della fede. La verità oggi è ridotta spesso ad autenticità soggettiva del singolo. Se però la verità è la verità dell’amore, allora resta liberata dalla chiusura nel singolo e può fare parte del bene comune. Nascendo dall’amore può arrivare al cuore, al centro personale di ogni uomo. La luce della fede, in quanto unita alla verità dell’amore, risveglia il senso critico e invitando alla meraviglia davanti al mistero del creato allarga gli orizzonti della ragione per illuminare meglio il mondo che si schiude agli studi della scienza.15 Poiché la fede è una luce, ci invita a inoltrarci in essa per conoscere meglio ciò che amiamo. Da questo desiderio nasce la teologia cristiana. La teologia, infatti, è impossibile senza la fede. Nella teologia non si dà solo uno sforzo della ragione per scrutare e conoscere, come nelle scienze sperimentali e la fede retta orienta la ragione ad aprirsi alla luce che viene da Dio, affinché essa, guidata dall’amore per la verità, possa conoscere Dio in modo più profondo. Fa parte allora della teologia l’umiltà che si lascia “toccare” da Dio, che riconosce i suoi limiti di fronte al Mistero. La teologia poi condivide la forma ecclesiale della fede; la sua luce è la luce del soggetto credente che è la Chiesa. Ciò implica che la teologia sia al servizio della fede dei cristiani, per custodire e approfondire il credere di tutti, soprattutto dei più semplici.16

6.1. La fede genera comunione ecclesiale La persona vive sempre in relazione. E anche la propria conoscenza, la stessa coscienza di sé, è di tipo relazionale, ed è legata ad altri che ci hanno preceduto: in primo luogo i nostri genitori, che ci hanno dato la vita e il nome. La conoscenza di noi stessi è possibile solo quando partecipiamo a una memoria più grande. Il passato della fede ci arriva nella memoria di altri testimoni, conservato vivo in quel soggetto unico di memoria che è la

FRANCESCO, Idem, n. 31. FRANCESCO, Idem, n. 34. 16 FRANCESCO, Idem, n. 36. 14 15


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Chiesa. L’Amore, che è lo Spirito, mantiene uniti tra di loro tutti i tempi e ci rende contemporanei di Gesù, diventando così la guida del nostro camminare nella fede.17 È impossibile credere da soli. La fede non è solo un’opzione individuale che avviene nell’interiorità del credente, non è rapporto isolato tra l’”io” del fedele e il “Tu” divino, tra il soggetto autonomo e Dio. Essa si apre, per sua natura, al “noi”, avviene sempre all’interno della comunione della Chiesa. Quest’ultima perpetua e trasmette a tutte le generazioni ciò che essa crede per mezzo dei Sacramenti. Per questo la fede ha una struttura sacramentale. Per Papa Bergoglio, dunque, il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana.18 L’unità della Chiesa è collegata all’unità della fede: « Un solo corpo e un solo spirito […] una sola fede » (Ef 4, 4-5). Anche se risulta molto difficile concepire un’unità nella stessa verità, l’esperienza dell’amore ci dice invece che proprio nell’amore è possibile avere una visione comune. Perché, secondo san Leone Magno, « se la fede non è una, non è fede». La fede è “una”, in primo luogo, per l’unità del Dio conosciuto e confessato; inoltre, perché si rivolge all’unico Signore, alla vita di Gesù, alla sua storia concreta che condivide con noi. La fede è una sola, perché passa sempre per il punto concreto dell’Incarnazione e perché è condivisa da tutta la Chiesa, che è un solo corpo e un solo Spirito.19 Proprio perché la fede è una sola, deve essere confessata in tutta la sua purezza e integrità.20 Il magistero del Papa e dei vescovi, successori degli Apostoli, è a servizio dell’unità e dell’integrità della fede.21

6.2. La fede e il bene comune La fede non si configura solo come un cammino personale e interiore ma come una luce che illumina e valorizza la ricchezza delle relazioni umane e l’impegno concreto degli uomini.22 Il primo e privilegiato ambito in cui la fede illumina la città degli uomini è la famiglia, accompagnandola in tutte le età della vita,23 fino a rischiarare tutti i rapporti sociali. Per Papa Francesco, la tendenza, oggi diffusa, a relegare la fede nella sfera del privato contraddi-

FRANCESCO, Idem, n. 38. FRANCESCO, Idem, n. 40. 19 FRANCESCO, Idem, n. 47. 20 FRANCESCO, Idem, n. 48. 21 FRANCESCO, Idem, n. 49. 22 FRANCESCO, Idem, nn. 50-51. 23 FRANCESCO, Idem, nn. 52-53. 17 18


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ce la sua stessa natura. In un mondo in cui l’individualismo sembra regolare i rapporti fra le persone, rendendole sempre più fragili, la fede ci chiama ad essere Chiesa-Popolo di Dio, portatori dell’amore e della comunione di Dio per tutto il genere umano.24

6.3. La fede è forza consolante nella sofferenza Nell’ora della prova, la fede ci illumina, e proprio nella sofferenza e nella debolezza si rende chiaro come « noi […] non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore » (2 Cor 4,5). Il cristiano sa che la sofferenza non può essere eliminata, ma può ricevere un senso, può diventare atto di amore, affidamento alle mani di Dio che non ci abbandona e, in questo modo, essere una tappa di crescita della fede e dell’amore. Perfino la morte risulta illuminata e può essere vissuta come l’ultima chiamata della fede pronunciata dal Padre. Dio, la Verità e l’Amore in persona, ha voluto soffrire per noi e con noi; si è fatto uomo per poter com-patire con l’uomo, in modo reale, in carne e sangue. In ogni sofferenza umana, allora, è entrato Uno che condivide la sofferenza e la sopportazione; in ogni sofferenza si diffonde la con-solatio, la consolazione dell’amore partecipe di Dio per far sorgere la stella della speranza.25

FRANCESCO, Idem, n. 55. BENEDETTO XVI, Messaggio per XIX Giornata Mondiale del Malato, 21 novembre 2010. Cfr. Spe salvi, 39.

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LA CATECHESI DAVANTI ALLA CREAZIONE: S. BASILIO LEGGE IL PRIMO CAPITOLO DELLA GENESI FRANCESCO TRISOGLIO Professore emerito di Storia e Letteratura Patristica (Università di Torino) SOMMARIO: 1. Bibbia e Genesi. - 1.1. Dinanzi al testo. - 1.2. Dinanzi al mondo. - 1.3. Di fronte ai suoi ascoltatori. - 1.4. Didattica.

S.

Agostino nacque a Cesarea di Cappadocia nel 329/330, da una famiglia socialmente ed economicamente distinta e di antiche e salde convinzioni cristiane. Si procurò un’ampia e ricca cultura frequentando i centri più prestigiosi dell’epoca, Cesarea, Costantinopoli, Atene, dove visse in un sodalizio spirituale con Gregorio di Nazianzo. Al ritorno si ritirò presto ad Annesi, in un monastero fondato su un possesso di famiglia, sulle sponde dell’Iris. Nel 364 fu ordinato sacerdote da Eusebio, vescovo di Cesarea, il quale lo chiamò presso di sé, perché lo assistesse in un dibattito con l’imperatore Valente, che condivideva simpatie ariane. Vi si recò, ma poi vi rimase come ausiliare di Eusebio, esplicando una vivace opera di rianimazione dei fedeli e di rinsaldamento dell’ortodossia, finché alla morte di Eusebio, nel 370, gli fu eletto a successore. Operò con indefesso zelo per purificare i costumi, per illuminare la fede, per sovvenire alle angustie di forestieri e di ammalati, per i quali fondò alla periferia di Cesarea una cittadella della salute, che la gente, in riconoscente ammirazione, denominò Basiliade. S’impegnò con alacre interesse per ricucire il malaugurato scisma d’Antiochia che deturpava il volto della Chiesa d’Oriente. A questo scopo aperse trattative con Papa Damaso e con i Vescovi Occidentali; nonostante il loro scarso successo, Basilio non desistette dai tentativi. Gracile di costituzione, logorato dalle austerità e dagli attacchi degli eretici, esausto dalle sistematiche e capziose critiche di ortodossi, morì il 1° gennaio 379; nei funerali gli si strinse attorno una straordinaria ressa di popolo. Come scrittore ci ha lasciato un’ampia varietà di opere, distribuite in vari generi letterari. Tra esse emer-


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gono due trattati teologici, il Contro Eunomio, che ne confuta l’arianesimo integrale, e Sullo Spirito Santo, contro gli pneumatomachi. Compose 46 omelie, tra le quali hanno un’importanza particolare le 24 (23) di carattere morale e dogmatico e le 18 sui Salmi. Frutto del suo intenso impegno esegetico sono le 9 omelie sull’Hexaémeron, tenute a Cesarea attorno al 378, che costituiscono quindi un po’ il suo testamento spirituale; sono qui presentate nell’edizione critica curata da St. Giet per le Sources Chétiennes 26, Paris 1950. Quale esito della sua forte passione ascetica, propose ai monaci due serie di Regole, una prima in forma estesa (55) ed una seconda in redazione succinta (313). Durante il suo soggiorno ad Annesi, in collaborazione con Gregorio Nazianzeno, compilò la Filocalia, antologia origeniana. I suoi assidui interventi spiccioli in ogni settore, ci sono documentati nelle Lettere, presentate in edizione critica da Y. Courtonne, delle quali 325 sono ritenute autentiche; sono un repetorio di altissimo pregio dal punto di vista personale, sociale, storico e letterario.

1. Bibbia e Genesi Si chiama Bibbia perché è il libro per antonomasia; nessun altro è stato tanto diffuso e tanto sfogliato ed in nessun angolo è stato così appassionatamente scrutato come lo sono stati i tre primi capitoli della Genesi. Tutte le generazioni vi si sono chinate; rispondeva infatti alle domande più persistentemente urgenti ed essenziali: perché c’è il mondo in cui sono e perché io sono al mondo? Sono interrogativi che sfidano. Si possono eludere per paura o per trascuratezza, ma riemergono e lasciano sul fondo dell’animo un sedimento di insoddisfazione che facilmente sale ad angoscia. In tutti i tempi, e soprattutto nel nostro, sono rari i cattivi per proposito, sono invece folla i vuoti per esaurimento; sono pochi quelli che contraddicono la morale oppugnandola, sono innumerevoli quelli che la ignorano. È infatti arduo credere alle parole di un Dio che non si vede nel volto, ma è inevitabile accoglierlo quando se ne vedono le mani. Dio parlò ed agì; il resoconto della Genesi ce lo presenta, con incisiva trasparenza, in entrambi i momenti. Questa constatabilità molti lettori l’hanno notata, alcuni esperti l’hanno esaminata, ma nessuno l’ha inquadrata in ampiezza e scandagliata in profondità come Basilio. Verrebbe da dire che, dinanzi a quelle scarne paginette, si incagli, non per le difficoltà ma per l’abbondanza; sono finestre angustissime che danno su orizzonti illimitati. 1.1. Dinanzi al testo Basilio lo prende tenacemente sul serio; sa benissimo che le parole scorrono su due livelli, quello semasiologico immediato e quello traslato (cate-


La catechesi davanti alla creazione: S. Basilio legge il primo capitolo della genesi.

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na, come vincolo e come serie di montagne; aquila, come volatile e come uomo di alta intelligenza); non rifiuta l’allegorismo insito nelle parole (rosa per bellezza), respinge quello che alle parole viene imposto e sa che alla tentazione di tracimare parecchi esegeti cedettero; nell’ansia di vedere fino in fondo finirono col travedere in tutto; per capire le parole di Dio le svuotarono, sostituendo loro le proprie; in nome della devozione divagarono nel capriccio. Basilio si contrappone reciso; dichiara: «Io conosco le leggi dell’allegoria; se non le ho trovate io personalmente, le ho incontrate nei lavori altrui; quegli esegeti non accolgono i concetti come sono abitualmente espressi; dicono che l’acqua non è acqua ma qualche cosa d’altro; le parole pianta, pesce le interpretano come pare loro; rassomigliano a quelli che spiegano i sogni. Per conto mio, quando sento parlare di erba penso all’erba e così pure per pianta, pesce, belva; io prendo tutte le cose come sono dette» (Om IX,1, pp. 478480). Sono dichiarazioni tanto categoriche quanto ricche di effetti. Basilio, per trovare ammaestramenti interessanti, non ha bisogno di evadere dal testo, gli basta approfondirlo. Lo prende come punto di riferimento assoluto e non fa fatica a fare così, perché, lungi dall’incontrarvi ostacoli, gli si dischiudono panorami di una sapienza infinita che fiorisce in bellezza. 1.2. Dinanzi al mondo Basilio lo contempla nella sua straordinaria complessità, che gli viene dischiusa da un eccellente parco di conoscenze che si estendono a tutti i settori, dalla geologia alla zoologia, alla botanica, all’astronomia, alla meteorologia... Egli non si accinge all’esegesi con l’avventatezza di un’attrezzatura culturale dilettantistica; non si fida dell’estro improvvisativo; prima di porsi a maestro si è fatto discepolo diligentissimo; ha compulsato, per quanto gli era possibile, le fonti scientifiche più autorevoli in contatto diretto e le integrò col ricorso a manuali che si era procurati con solerzia. Gli animali gli sfilano dinanzi in una processione interminabile, ma non li elenca, li vede e li scopre vettori di meraviglie: sanno, prevedono. Osserva, stupito ed attratto, le gru che, durante la notte, organizzano turni di guardia per garantirsi una sicurezza vicendevole (VIII, 5, p. 452); rileva l’assistenza che le cornacchie prestano alle cicogne tutelandole dalle aggressioni degli uccelli predatori (ibid.) e quella che la Provvidenza esercita sulle uova delle alcioni abbandonate sulla spiaggia del mare (VIII, 5, pp. 456-458) ed una forma di Provvidenza è anche che, sugli stormi rovinosi delle cavallette, piombino i merli, che le divorano con un’insaziabile avidità (VIII, 7, pp. 464-468). S’interessa dei processi anatomici per i quali gli storni possono impunemente ingoiare la cicuta, basandosi su attestazioni di Galeno, e richiama come, anche per gli uomini, la medicina sia talora riuscita a ricavare rimedi dai veleni (V, 4, p.


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294). Tutto nel mondo gli appare testimonianza di una sapienza che traspare dovunque; tutto gli si illumina di una genialità che è sollecitudine e Provvidenza.1 Tutto è penetrato di sapienza, ma molto è anche cosparso di bellezza. Tra gli animali il leopardo si mostra elegante nei suoi balzi flessuosi (IX, 3, p. 490) e squisitamente pittoreschi sono certi spettacoli naturali. Basilio si ferma ad ammirare una pianura fitta di spighe che fluttuano a guisa di un mare (V, 5, p. 298) ed una notte serena trapunta di stelle (VI, 1, p. 326); considera ed invita a considerare «gli ornamenti della natura, messi che ondeggiano nelle valli, prati che verdeggiano d’erba e brulicano di fiori d’ogni colore, estensioni boscose floride nel loro rigoglio, vette di colline dense di ombre» (II, 3, p. 152). La Bibbia fonda la fede comunicandoci i precetti di Dio ed informandoci sulle sue azioni storiche, la creazione ce la conferma con la Sua irrecusabile presenza e con la sapienza che tiene schermata in ogni suo anfratto. Filosofi e scienziati possono escogitare teorie inconsistenti che si confutano a vicenda, ma il mondo ha una sua persuasività apologetica che non si può rifiutare: «Noi dobbiamo glorificare l’eccellente Artefice di quanto è stato prodotto con sapienza e perizia e dalla bellezza delle cose visibili dobbiamo immaginarci Colui che supera ogni bellezza; dalla grandezza di questi corpi percepibili dai sensi e circoscritti, dobbiamo congetturare per analogia, colui che è infinito, superiore ad ogni grandezza» (I, 11, p. 134). È la perorazione della prima omelia e serve da antifona a tutte le altre. Fondamento di ogni catechesi è insegnare a leggere il mondo; esso ha una potenza argomentativa che si impone; per essere capaci di leggerlo è però necessario formarsi una buona attrezzatura di conoscenze scientifiche. Basilio lo ha fatto, in rapporto ai suoi tempi, e tacitamente ci stimola a fare anche noi altrettanto in rapporto ai nostri. 1.3. Di fronte ai suoi ascoltatori Basilio dimostra uno sveglio senso della misura ed un comprensivo riguardo. Li esorta a venire ad ascoltare la sua parola, ma con la sua parola si premura di non soverchiarli; vuole offrire il cibo, ma anche lasciare loro l’agio di digerirlo con una meditazione raccolta (III, 10, pp. 240-242). Riconosce le loro esigenze psicologiche, ma si mostra anche consapevole di quelle pratiche: debbono vivere e quindi debbono accudire ai loro mestieri (ibid.). Se però si cautela dalla sovrabbondanza oratoria (VII, 6, p. 424), propone

Per un’esemplificazione più completa puoi confrontare la traduzione commentata dell’Exaemeron di Basilio, che uscirà nella Collana diretta da G. Reale nelle edizioni Bompiani di Milano. 1


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una saggia composizione: ricuperare e valorizzare i tempi neutri, che altrimenti verrebbero sviliti nel loro valore: «Anche quando prendete cibo, discorrete a tavola su quello che questa mattina e questa sera vi ho esposto; possiate essere occupati in questi pensieri durante il sonno e godere, anche dormendo, della gioia che avete provata questo pomeriggio» (VII, 6, p. 426). È una pratica che ha il vantaggio confluente di essere molto fruttuosa e poco faticosa, per cui vi insiste: adesso andate a casa e «in luogo di manicaretti sontuosi, ornate e santificate le vostre tavole con il ricordo di quanto vi ho detto» (IX, 6, p. 522). Riflettano i suoi uditori sul messaggio che invia loro la creazione, «nella quale non c’è nulla senza motivo, nulla che provenga dal caso, ma tutto manifesta in se stesso una sapienza inesprimibile» (V, 8, p. 314); però, per percepire la voce del mondo, bisogna esservi predisposto, bisogna prima meditare in solerte raccoglimento su di sé, compito arduo, perché «tra tutte le cose la più difficile è conoscere e stesso» (IX, 6, p. 512). È pertanto necessario un dinamismo psicologico che, per essere autentico, deve trapassare dall’argomento all’oratore. Esorta quindi il suo pubblico a superare una recettività passiva, per collocarglisi accanto in una sorta di comunanza nella proclamazione, in analogia a quanto avviene nella passione sportiva: come nelle gare dello stadio gli spettatori partecipano, con i loro incitamenti, agli sforzi degli atleti che si contendono la vittoria, così i suoi ascoltatori gli si facciano collaboratori (VI, 1, p. 324). 1.4. Didattica Basilio si compiace della bella assemblea che era affluita ad ascoltarlo, nella quale sentiva mescolarsi, in affettuosa concordia, voci di uomini, di donne, di ragazzi (IV, 7, pp. 274-276). Era un bel successo, ma se lo era preparato porgendo lezioni culturalmente rivelatrici ed esposte in una lingua signorilmente distinta. Evitava quindi che il clima dell’omelia stagnasse nella monotonia, risvegliando l’immaginazione anche inserendo opportune similitudini. Se vuole rappresentare l’efficacia onnipotente della parola divina che creò tutto all’inizio, imprimendo poi alla natura una prosecuzione che si protraesse per l’illimitata prosecuzione dei tempi, pone sotto agli occhi degli ascoltatori una palla, che se, dopo una spinta iniziale, trova un declivio, da se stessa, continua il suo percorso e non si arresta finché non incontra una superficie pianeggiante (IX, 2, p. 484). L’idea si è fatta spettacolo e si è efficacemente impressa nella memoria. Le meraviglie della creazione, messe in moto, si susseguono nel cosmo e si presentano alla sua mente per cui incalzano anche il suo discorso, come un’onda che sospinge l’altra, tanto da sommergerlo (VII, 6, p. 424). Le meraviglie, se sommergono il suo discorso di specialista, tanto più smarriscono chi non è esperto, per cui Basilio si fa guida alla sua gente:


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«Vieni dunque; come si conducono attorno, prendendoli per mano, i forestieri che non conoscono la città, così anch’io vi condurrò come forestieri lungo le bellezze nascoste di questa grande città» (VI, 1, pp. 326-328). E, al termine della tappa, Basilio si accommiata rivolgendo ai suoi ascoltatori - un invito: ringrazino Dio che li ha nutriti con l’elementare pane d’orzo della sua povera parola (VI, 11, p. 388); - un programma: «Se impariamo bene queste cose, capiremo noi stessi, conosceremo Dio, adoreremo il nostro Creatore, serviremo il nostro Signore, glorificheremo il Padre, ameremo colui che ci nutre, ossequieremo il nostro benefattore, non cesseremo di venerare l’autore della nostra vita presente e futura» (VI, 1, p. 328); - una rassicurazione: «Negli esseri non c’è nulla che sia senza un ordine e senza una determinazione; tutti portano le tracce della sapienza creatrice» (IX, 4, p. 500); - un voto: «Che Dio, artefice delle grandi cose che ci sono nel mondo, vi dia in tutte la comprensione della verità, che è lui stesso, affinché dagli esseri visibili riusciate a farvi un’idea dell’Invisibile e dalla grandezza e bellezza delle creature vi acquisiate una giusta concezione di colui che ci ha creati» e conclude «in tutte le cose che vediamo, ricordiamo con chiarezza il nostro Benefattore» (III, 10, p. 242).


Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 457-459

ALLE ORIGINI DELLA VITA CONSACRATA IL MONACHESIMO CRISTIANO DEI PRIMI SECOLI ENRICO DAL COVOLO Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense SOMMARIO: 1. La questione delle origini. - 2. “Idee-forza”, o “archetipi”, a cui si sono ispirati i monaci cristiani. - 3. Conclusione.

La vita e l’esperienza spirituale dei monaci hanno esercitato lungo i secoli un rilevante influsso sulla spiritualità cristiana. Qui accenniamo in maniera molto sintetica solo a due aspetti della storia del monachesimo: la questione delle sue origini, e le “idee-forza” (o “archetipi”) che presiedono allo sviluppo del monachesimo cristiano.1

1. La questione delle origini Le origini del monachesimo si perdono nel tempo. Elementi caratteristici del movimento monastico si trovano anche fuori del cristianesimo (esseni, buddisti, culti misterici...). Quali sono gli elementi caratteristici del movimento monastico (anche al di fuori del cristianesimo)? Sono soprattutto: la “separazione” o la clausura, la continenza sessuale, l’esercizio di alcune pratiche religiose, diversi tipi di astinenza da cibi e bevande, la ricerca dell’“unità interiore”. Bisogna poi distinguere tra forma “eremitica” (solitaria) e “cenobitica” (comunitaria). Ebbene, nella forma cenobitica si aggiungono ancora questi elementi comuni: regola di vita, capo, comunione dei beni, “noviziato”. In ambito cristiano, il monachesimo nasce da laici (Antonio per la forma eremitica, Pacomio per la forma cenobitica), e viene “strutturato” da Atanasio, anche per evitare fughe anarchiche extraecclesiali. Ma qual è lo specifico del monachesimo cristiano? La motivazione determinante è chiara, quanto originale: il monaco cristiano motiva la sua scelta con la sequela e l’imitatio Christi. Entra qui il discorso sulle “idee-forza” del monachesimo cristiano. Per una trattazione più diffusa e per un primo orientamento bibliografico, raccomando i due volumi tradotti dallo spagnolo di G. M. COLOMBÁS, Il monachesimo delle origini (= Già e non ancora), Milano 1984-1990. 1


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Enrico dal Covolo

2. “Idee-forza”, o “archetipi”, a cui si sono ispirati i monaci cristiani2 Secondo l’enumerazione proposta da Pierre Miquel, le “idee-forza”, a cui si sono ispirati i monaci cristiani, sono nove. Le elenchiamo qui di seguito.

2.1. Sequela e imitatio Christi Forse non è questa l’idea più sviluppata nelle fonti antiche, ma è quella che fornisce al monachesimo cristiano la sua identità propria. “Gesù Cristo volle obbedire in tutto fino alla morte, e alla morte di croce”, scrive Antonio nella sua quinta Lettera, “perché attraverso la sua morte si compisse la nostra risurrezione, e fosse distrutto il diavolo, che aveva potere di morte. E se noi accogliamo la libertà che ci ha portato la sua venuta, noi siamo discepoli di Gesù, e attraverso di lui otteniamo l’eredità”. Ai suoi discepoli Pacomio “insegnava anzitutto a rinunciare ai loro beni e a se stessi, e a seguire il Salvatore che dà questo insegnamento, perché in ciò consiste il portare la croce” (Vita prima 24); cfr. Vita Antonii 2.

2.2. “Nostalgia” della comunità cristiana primitiva Il riferimento va di preferenza ai “quadretti” lucani dei primi capitoli degli Atti degli Apostoli (Atti 2,42-48; 4,32-37; 5,12-16). “La vita cenobitica”, scrive Giovanni Cassiano nella sua diciottesima Collatio, “nacque al tempo della predicazione apostolica. Noi la vediamo comparire nella moltitudine dei fedeli, di cui il libro degli Atti traccia il quadro”.

2.3. Supplenza (o preparazione) del martirio La fuga nel deserto, favorita forse da situazioni economico-sociali, non è comunque fuga dal martirio. “Si dice spesso: dov’è la persecuzione, per diventare martire? Sii martire nella coscienza, muori al peccato, mortifica le membra terrestri, e sarai martire nell’intenzione” (Apoftegma attribuito a Atanasio). Vedi al riguardo la distinzione origeniana tra “martirio manifesto” e “martirio segreto”, e il cotidie morior nella storia della spiritualità cristiana.

2.4. Lotta contro i demoni Nell’antichità si credeva generalmente che i demoni abitassero nel deserto: così, se il monaco abbandonava la città e i luoghi abitati, non era per cercare la tranquillità, ma per affrontare il nemico sul suo terreno. I demoni si Vedi per questo P. MIQUEL, Monachisme, in Dictionnaire de Spiritualité 10, Paris 1980, coll. 1552-1557. 2


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rivolgevano a Antonio: “Ritirati dalla nostra zona! Cosa fai in questo deserto?” (Vita 13).

2.5. Migrazione ascetica e esodo spirituale Tre modelli biblici presiedono a questa idea-forza, che corrisponde in maniera radicale alla dinamica della libertà chiamata: “lasciare per seguire”, cioè “l’esodo per la sequela”. In ultima analisi, essa si fonda sulla legge fondamentale inscritta nel cuore di Dio e nel cuore dell’uomo. E’ il paradosso evangelico del “perdersi per ritrovarsi”. I tre modelli sono Abramo (soprattutto Abramo incarna l’ideale della xeniteia, cioè dell’“essere straniero, ospite”, di cui – dopo l’A Diogneto – parla anche Giovanni Climaco, a proposito del terzo gradino della sua Scala); Mosè (se ne veda la Vita, scritta da quel santo monaco che fu Gregorio di Nissa); Elia (se ne rileggano l’avventura nel deserto e l’esperienza di Dio).

2.6. Imitazione della vita angelica Gli angeli sono dei contemplativi, dei liturgi, esseri spirituali liberati dalla schiavitù del corpo, messaggeri obbedienti di Dio. “Salmodiare”, scrive Basilio nella sua Omelia sul Salmo 1, “è esercitare l’attività degli angeli, è vivere in una maniera celeste, e bruciare davanti a Dio come un incenso tutto spirituale”.

2.7. Ritorno all’innocenza di Adamo, prima del peccato L’occupazione dei monaci è quella che aveva Adamo agli inizi, prima del peccato, quando, rivestito di gloria, egli si intratteneva familiarmente con Dio. E’ ricorrente il topos della familiarità dell’eremita con le bestie selvatiche.

2.8. Attesa vigilante della Parusia Il servitore fedele, di cui parla Matteo nel suo “discorso escatologico”, è il modello del monaco. Egli veglia nell’attesa del ritorno del Signore.

2.9. La vita monastica, vera filosofia Nella tradizione monastica, spesso il monaco è presentato come il vero filosofo. Infatti egli è “imitatore di Cristo, che ci ha mostrato con le parole e con le opere la vera filosofia” (Nilo, Epistola 54).

3. Conclusione Queste idee-forza – conclude Pierre Miquel – mostrano la cospicua diversità dell’ideale monastico: diversità che non ne altera, peraltro, l’unità essenziale. Il monaco cristiano – seguendo e imitando Gesù – è una persona che in vari modi cerca la conoscenza, l’adorazione e il servizio di Dio.


LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle

trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.

FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle

trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.

ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275

La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.

MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190

L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••

Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net


Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 461-473

LA PERENNIDAD DE LA ESPIRITUALIDAD LASALIANA JAUME PUJOL I BARDOLET Profesor de Teología de la Vida Consagrada RESUMEN: 1. Introducción. - 2. Concepto universal de espiritualidad. - 3. La espiritualidad cristiana. - 3.1. Aproximación a la espiritualidad cristiana. - 3.2. A propósito de la espiritualidad de Jesús. - 4. La espiritualidad lasaliana, como propuesta para todo educador y colaborador lasaliano. - 4.1. Origen de la espiritualidad lasaliana. - 4.2. Hoy: de la «Escuela de los Hermanos» a la «Escuela Lasaliana». - 4.3. Modalidades de pertenencia y participación en la institución lasaliana. - 5. En un contexto secularizado, de postmodernidad e hipermodernidad. - 5.1. En unos tiempos de postmodernidad e hipermodernidad. - 5.2. La espiritualidad lasaliana tiene su actualidad. - 6. Conclusión.

1. Introducción

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l término espiritualidad, no pocas veces, se ve sometido a equívocos y con cierta frecuencia es utilizado de forma parcial y unilateral e incluso tendenciosa, de «espiritualidad» versus «materia o compromiso». Pienso que se hace necesaria una aclaración. A veces se oye decir que “hay espirituales poco comprometidos y comprometidos poco espirituales”. Por lo cual comenzaré intentando aclarar el término «espiritualidad en general», pasando a continuación por concretar la «espiritualidad cristiana» y seguidamente la «espiritualidad lasaliana». Debo precisar que en este escrito he tenido presente, tanto a los Hermanos como a los Laicos, profesores/as, dirigentes, administrativos y personal de servicio, que colaboran, como «Familia Lasaliana» en nuestros centros, ya que todos tenemos los mismos objetivos de escuela cristiana lasaliana.

2. Concepto universal de espiritualidad El concepto de espiritualidad no puede limitarse a espiritualidad religiosa. Es más amplio. Sin creencias religiosas se puede tener una espiritualidad. Todas las personas se mueven y actúan según una «espiritualidad», es decir, según un «espíritu», un principio de acción, una filosofía que les rige, dicho de otra forma, es normal que cada persona tenga un «por qué» y un «para qué» en su vida y actuación. Y en esto consiste la espiritualidad que le motiva y que constituye su propia identidad. Representa la proyección trascendente a su manera de «ser» y de «actuar». La espiritualidad actúa como una «fuerza ascensional»1 en la persona, en términos de Emmanuel Mounier.


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Pero, de hecho, tenemos tendencia a vivir a «dos tiempos»: unas veces seducidos por lo material con olvido de lo espiritual, y otras, inmersos en una espiritualidad que nos deja ajenos a la vida e historia. Nos cuesta la unicidad y armonización de «materia-espíritu». Dios nos creó espíritu y materia, alma y cuerpo. Ambos deben vivirse coordinados, asumidos de manera armónica y equilibrada; nadie debe prescindir de ninguno de ellos, ni tampoco que cada uno acampe por su cuenta. No tiene por qué el espíritu prescindir de la materia, ni la materia sofocar el espíritu. San Francisco de Asís y San Juan B. de La Salle, entre otros muchos, son ejemplos de una existencia unificada de espíritu y materia, de lo espiritual y lo temporal. El espíritu no se opone a la materia, ni viceversa. Mas, sí es cierto que materialismo (como «ismo») se opone a espiritualidad y que el espiritualismo (como «ismo») prescinde de la materia. Cualquier persona que vive con hondura y calidad humana su existencia, vive una determinada espiritualidad que motiva su vida, inspira su comportamiento y configura sus valores y el horizonte de su ser. Por lo cual podemos afirmar que hay una espiritualidad humana y una espiritualidad religiosa, y ésta puede ser cristiana, islámica, budista, etc. Los dos aspectos, humano y religioso hay que vivirlos en unicidad. Asimismo, cada grupo, sea político, social o religioso, bien constituido, tiene su propia filosofía, su propia identidad, su respectiva espiritualidad.

3. La espiritualidad cristiana 3.1. Aproximación a la espiritualidad cristiana Hay que reconocer que, aunque no le sea exclusiva, la espiritualidad es algo muy propio de la experiencia religiosa. La religión sitúa al ser humano frente al misterio último de su existencia, le invita a descubrir el verdadero sentido de la vida y a tomar opciones fundamentales; ¿cuál es nuestro Dios?

MOUNIER E., El personalismo, Ediciones Universitarias, Buenos Aires, 1974, p. 41: “Así como la bicicleta y el avión sólo conservan el equilibrio mientras están en movimiento y por encima de una cierta fuerza viva, igualmente el hombre necesita para mantenerse en pie una cierta fuerza ascensional. Al perder altura no cae en una cierta humanidad moderada, o como se dice en el animal, sino muy por debajo del animal: ningún ser vivo, salvo el hombre, ha inventado las crueldades y las bajezas en que él se complace aún”.

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¿Cuál es el centro de nuestra vida? ¿Dónde ponemos nuestra última esperanza?” Varios autores coinciden en definir la espiritualidad cristiana como vida según el Espíritu de Cristo, según el Evangelio, movida por el Espíritu. Es el talante que tienen los creyentes cristianos de “vivir el Evangelio”. Es decir que por la espiritualidad cristiana se vive una experiencia por la cual el cristiano entra en un proceso de relación con Dios. La Palabra de Dios adquiere su dimensión y realización más plena por la oración y la acción. De ahí que la espiritualidad cristiana tenga, al mismo tiempo, las características de unidad y diversidad. Unidad por tener una misma referencia en Jesús; y diversidad por realizarse de formas diversas, ya que, de hecho, se dan diferentes maneras de experimentar y fomentar la vida en Cristo, dando origen a denominaciones como espiritualidad carmelitana, franciscana, ignaciana, vedruna, teresiana, dominicana, lasaliana, etc., según la orientación y género de vida adoptados por cada entidad religiosa. Esta diversidad constituye una riqueza de espiritualidad cristiana. También, por otra parte, los cristianos hablamos hoy de diferentes escuelas o corrientes de espiritualidad: espiritualidad luterana, calvinista o católica; y dentro de esta última, espiritualidad monástica, laical, familiar, sacerdotal; espiritualidad benedictina, ignaciana, teresiana, lasaliana... Como es obvio, la espiritualidad cristiana consiste en seguir a Jesús de manera que la experiencia de Dios y de su Espíritu configuren la vida del cristiano. Esto es lo que diferencia la espiritualidad cristiana de la budista, de la judía o de la islámica.

3.2. A propósito de la espiritualidad de Jesús Aproximándonos a la espiritualidad de Jesús comprobamos que tuvo una relación muy íntima con su Abbá, desde la incardinación con su pueblo, alimentándose en el espíritu de los profetas de Israel y de los grandes orantes de los salmos; podemos considerar como rasgos principales de su vida: su búsqueda de silencio y de recogimiento, su capacidad de conjugar la dimensión contemplativa y una intensa actividad a favor de los más desfavorecidos, enfermos, lisiados, etc. Jesús no es un hombre disperso, atraído por diferentes intereses, atendidos por turnos diferenciados, sino una persona profundamente unificada en torno a una experiencia nuclear: Dios, el Padre bueno de todos y la liberación humana. Es él quien unifica su intensa actividad, inspira su mensaje y polariza todas sus energías. Hay algo que se percibe enseguida. Para Jesús, Dios no es una teoría, sino una experiencia. Nunca propone una doctrina sobre Dios. Nunca se le ve explicando su idea de Dios. Para Jesús, Dios es una presencia cercana y


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amistosa, que transforma todo su ser y le hace vivir buscando una vida más digna, más amable y más dichosa para todos, empezando por los últimos. Jesús, lo vive así porque después de haber estado intensamente ocupado todo el día “se retiraba a lugares solitarios y oraba” (Lc 5,16). Jesús no pretende en ningún momento sustituir la doctrina tradicional de Dios por otra nueva. Su Dios es el Dios de Israel: el único Señor, creador de los cielos y de la tierra, el salvador de su pueblo querido. Nunca discute Jesús con ningún sector judío sobre Dios. Todos creen en el mismo Dios. La diferencia está en que los dirigentes religiosos del pueblo asocian a Dios con su sistema de ritual religioso y no tanto con la vida y la felicidad de la gente. Lo primero y más importante para ellos es dar gloria a Dios observando la ley, respetando el sábado y asegurando el culto del templo, postergando la asistencia al samaritano herido y las necesidades de los pobres. Jesús, por el contrario, asocia a Dios con la vida: lo primero y más importante para él es que los hijos e hijas de Dios gocen de una vida digna y justa. Lucas ha captado muy bien la espiritualidad de Jesús cuando lo presenta en la sinagoga de Nazaret aplicándole estas palabras del profeta Isaías 61,1-2: “El Espíritu del Señor está sobre mí, porque me ha ungido. Me ha enviado a anunciar a los pobres la Buena Noticia, a proclamar la liberación a los cautivos y la vista a los ciegos, para dar la libertad a los oprimidos y proclamar un año de gracia del Señor” (Lc 4,16-19). Por eso, el centro de la espiritualidad de Jesús no lo ocupa Dios propiamente, sino el «reino de Dios». Jesús no separa nunca a Dios de su reino. No puede pensar en Dios sin pensar en su proyecto de trasformar el mundo. No invita a la gente a buscar a Dios simplemente, sino a «buscar el reino de Dios y su justicia». No llama a convertirse a Dios sin más, sino que pide a todos «entrar en el reino de Dios».

4. La espiritualidad lasaliana, como propuesta para todo educador y colaborador lasaliano 4.1. Origen de la espiritualidad lasaliana El iniciador fue, San Juan B. de La Salle, un hombre, cuya experiencia de Dios, en 1680, le llevó a considerar la situación de desamparo de los niños, sobre todo pobres, debido a que sus padres, “ocupados todo el día en ganar su sustento y el de sus hijos”, no podían atenderlos. La Salle fundó un movimiento educativo desde una espiritualidad integrando, lo espiritual y lo temporal, formando maestros viviendo en comunidad según el Evangelio. Se llamarían «Hermanos», para que sean hermanos entre sí y los hermanos mayores de los niños que debían educar. Además,


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quería que estos primeros maestros, Hermanos, se sintieran «asociados», digamos cohesionados, integrados y corresponsables, para una obra educativa conjunta, según una pedagogía que ellos mismos descubrirían a partir de su experiencia diaria puesta en común. Y así «juntos y por asociación» irían creando una nueva escuela, la escuela lasaliana, con un conjunto de innovaciones y mejoras respecto de la escuela existente en la época. Esta escuela, que ha ido evolucionando, al correr de los tiempos, existe hoy en 82 países y es compartida, no sólo por Hermanos, sino también por numerosos educadores laicos profesores/as, administrativos/as y personal de servicio. Y todos «juntos y por asociación», todos mutuamente solidarios. Todos son invitados a regirse por una misma espiritualidad, la «espiritualidad lasaliana».

4.2. Hoy: de la «Escuela de los Hermanos» a la «Escuela Lasaliana» La denominada «escuela de los Hermanos», era regentada exclusivamente, o casi, por los Hermanos; así fue durante algo más de tres siglos. Hoy, con algunos Hermanos y numerosos seglares, se continúa la escuela de La Salle, con la denominación de «escuela lasaliana», en la que numerosos seglares ejercen funciones de enseñanza, de gobierno y de administración. Pero siempre «escuela cristiana» con la identidad que le da la espiritualidad lasaliana, aun teniendo en cuenta que cada escuela puede ser pluricultural y plurireligiosa, tanto respecto del alumnado como del profesorado. Además de seglares cristianos los puede haber musulmanes, hindúes, budistas… e incluso acaso algunos poco creyentes. Todos son tratados con el máximo respeto por parte de la institución, pero a ellos, por su parte, les corresponde respeto a la identidad y espiritualidad lasalianas. Incluso estos mismos pueden sentirse en completa sintonía con la pedagogía y características lasalianas. Todos inspirados por el «Carácter Propio» de los centros lasalianos, ya que la espiritualidad del centro es la misma. Por lo que respecta al sentido de comunidad, ésta se vive y se acentúa mediante reuniones de Claustro y otras diversas de seguimiento y evaluación, además de otros medios de formación permanente. La intuición de La Salle al respecto es válida y necesaria en nuestros tiempos. Cada cual debe considerarse comprometido con la institución lasaliana con relaciones de amistad, de colaboración y formativas conjuntas, incluso en el ámbito internacional. Además de las modalidades de formación permanente establecidas en cada Distrito y cada Sector, hay que añadir las siguientes a las que confluyen, conjuntamente, Hermanos y Laicos: CIL (Centro Internacional Lasaliano) o SIEL (Sesión Internacional de Estudios Lasalianos), en Roma, AIUL (Asamblea Internacional de Universidades Lasalianas), en Roma durante


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dos semanas Máster para formación de Directivos lasalianos, ASSEDIL (Asociación de Directores de Centros Lasalianos de Europa), reunión europea de Directores Lasalianos durante una semana en un lugar que se precisa cada año, Cursos y sesiones catequísticas diversas para profesores de religión. Y ahora se podría añadir un largo etcétera… Esta inmersión de formación permanente facilita el seguimiento y acompañamiento de los centros La Salle, tanto en su dimensión cristiana lasaliana, como pedagógica, exigidas por las actuales nuevas situaciones.

4.3. Modalidades de pertenencia y participación en la institución lasaliana Los Hermanos, quienes habiendo recibido una vocación religiosa, han tenido una formación adecuada y se vinculan a la institución mediante un voto de asociación. Los Seglares, unos como colaboradores/as y otros como asociados/as:  «Colaboradores/as» son todos cuantos trabajan en la institución La Salle, sea como profesores/as, sea como administrativos/as o personal de servicio, si bien considerando que hay diversas sensibilidades posibles, tanto a nivel de fe, como de cohesión comunitaria y de integración pedagógica. La veteranía en la institución lasaliana favorece que cada vez más consideren la institución lasaliana como cosa suya.  «Asociados/as» son quienes han formulado un compromiso de asociación institucional, acentuando su sentido de colaboración desde una vida de fe, de sentido de vocación, de espíritu comunitario, de misión educativa sobre todo con los más necesitados y de apertura universal, tanto desde el interior del Instituto como de sensibilidad respecto de las situaciones de nuestro mundo. A todos les concierne la identidad y espiritualidad lasalianas expresadas en el carácter propio, siempre desde su respectiva identidad de religioso o de laico.

5. En un contexto secularizado, de postmodernidad e hipermodernidad 5.1. En unos tiempos de postmodernidad e hipermodernidad Cierto que el contexto del siglo XXI que nos circunda y que estamos viviendo, es muy distinto al de los siglos XVII y XVIII, de fundación del Instituto. Por ello, puede haber quien se pregunte si la espiritualidad lasaliana es posible vivirla hoy. Vayamos por partes y primero tratemos de definir el contexto social que nos circunda. Surge ahora la cuestión: en nuestro hoy,


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cómo situar y vivir, de hecho, la espiritualidad lasaliana, teniendo en cuenta la situación de indiferencia religiosa, de agnosticismo, de materialismo… Nuestra sociedad de hipermodernidad, en expresión de Gilles Lipovetsky,2 es de la modernidad al superlativo: hipercapitalismo, hiperpotencias, hiperterrorismo, hipervacaciones, hiperindividualismo, hipermercado, hiperpobreza… En nuestra sociedad líquida impera lo efímero. Es la «era del vacío», de la fragilidad y desestabilización emocional, de las depresiones y angustias; la persona hipermoderna es libre y frágil al mismo tiempo. El consumo le procura satisfacción, mas no felicidad. Sentimos fuertemente las crisis económicas, sociales, políticas y religiosas… Se crea riqueza pero no se es capaz de repartirla. Por lo que se refiere a la juventud, constatamos que no ha sido socializada religiosamente, ni parece sienta necesidad de religión, que hay deficiente catequesis familiar y escolar; la pregunta religiosa parece haber desaparecido de su horizonte; la jerarquía de valores es otra, ocupando el último lugar la religión y la política; los hay que son abiertos a Cristo pero críticos con la Iglesia; los «filósofos de la sospecha» (Marx, Freud y Nietszche y sus continuadores), al propio tiempo que ayudan a purificar la religión, también hacen mella en ella, ocasionando aumento de indiferencia religiosa, de agnosticismo y de ateísmo, contrastado con un fervoroso islamismo creciente. Hay pérdida de pasión por lo religioso conjuntamente con el morbo de la crítica, abandono de la Iglesia, etc. Este es el panorama de nuestra sociedad occidental, contrarrestada conjuntamente con un ejemplar fermento de espiritualidad. En los textos del Fundador hay que reparar el lenguaje y el mensaje. Cierto que el «lenguaje» es propio de los siglos XVII-XVIII, pero el «mensaje» está muy de acuerdo con el Evangelio en su aplicación para nuestro hoy.

5.2. La espiritualidad lasaliana tiene su actualidad En efecto, las características esenciales y fundamentales de la espiritualidad lasaliana siguen siendo válidas para hoy. Hay un núcleo de espiritualidad lasaliana totalmente vigente e imprescindible para nuestros días:  La fundación del Instituto se inicia y se consolida por el «espíritu de fe», como espíritu esencial del Instituto. No puede faltar. Sin él pierde sentido nuestro presente y futuro. Hoy, la complejidad de nuestro mundo debe ser discernida a la luz del Evangelio. “No mirar nada sino con los ojos de la fe, no hacer nada sino con la mira puesta en Dios y atribuirlo todo a Dios”

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LIPOVESTKY GILLES, Los tiempos hipermodernos, Anagrama, 2006.


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(RC, 2,2). Partiendo del espíritu de fe se pretende la formación humana y cristiana de los alumnos. El espíritu de fe hace mirar y ver a los alumnos, en su realidad infantil o adolescente, desde la óptica cristiana. Según La Salle, por el espíritu de fe el Hermano hace “mover” el corazón de los alumnos para su educación humana y cristiana. Por ello, La Salle insiste en el ejercicio de la «presencia de Dios», lo que significa estar en relación con un Dios cercano. Esta convicción condujo a La Salle a recordar a sus Hermanos, en varios de sus escritos, que deben ver a Jesús en todos sus alumnos, y no únicamente en los más favorecidos o más abnegados. Exhortaba a rezar y ocuparse sobre todo de los alumnos que plantean mayores problemas. El celo, como desborde del espíritu de fe. A este fin, el Fundador recomienda a los Hermanos que, como los Apóstoles, se recojan y se den a la lectura y a la oración con el fin de instruirse sobre cuanto tienen que enseñar e inculcar a los alumnos, y desde allí atraer las gracias de Dios para ejercer el ministerio que la Iglesia les ha encomendado (MTR, 8,1), ya que los educadores son cooperadores de Dios por el ministerio que ejercen (MTR, 13,1). La espiritualidad lasaliana es una espiritualidad de compromiso. El espíritu de fe no se queda en la intimidad de cada persona, sino que desborda, con toda normalidad, en un celo ardiente por educar a los niños, sobre todo a los más desfavorecidos. Para La Salle existe una relación intrínseca entre fe y celo; éste último es lógica consecuencia del primero. Para La Salle este celo encuentra su expresión en la actitud de presencia con los alumnos. Presencia (prae-essentia) que significa «estar-con» y «serpara» ellos. Y, por esta cercanía, «ganar y mover» su corazón.  El sentido de comunidad educativa, con la que el Fundador partió para la fundación del Instituto. El Fundador partió de una comunidad de vida y de escuela. Les aloja en su casa, les acompaña espiritual y pedagógicamente. Es insistente en su Cartas a los Hermanos y en diversas meditaciones 65, 72,73 y 74. Para La Salle la comunidad es, ciertamente, medio privilegiado de formación y de acción. Las comunidades serán interdependientes entre sí. Todas ellas y cada Hermano están «asociados» en la institución. Todos corresponsables. Cada uno se encuentra vinculado al «juntos y por asociación». La asociación produce la interacción de las diversas comunidades, a partir de las cuales se evalúa el dinamismo del ministerio que se ejerce y se llega a auténticas innovaciones.  Un distintivo: la fraternidad. La Salle fundó el Instituto de «Hermanos» con la intención de que la fraternidad se viva y se ejerza entre todos y sea su distintivo. Hoy La Salle estaría de acuerdo en que, como dice la Regla,


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todos nuestros colaboradores sean considerados como hermanos, y todos hermanos mayores de los jóvenes que se nos confían, según la terminología de la Regla art. 53. El sentido de ministerio en el ejercicio de la misión. La Salle reúne frecuentemente a los Hermanos y para el Retiro anual escribe 16 meditaciones sobre el ministerio del Hermano. Suscita la colaboración de los Hermanos, de tal manera que, tanto la Regla como la Guía de las Escuelas, vienen a ser la experiencia a la que han llegado los Hermanos en su régimen de vida y de acción ministerial. El Fundador no tiene reparo en emplazarnos como «embajadores y ministros de Jesucristo y representantes suyos», hasta decir que “Jesucristo mismo es quien desea que los discípulos os miren como le mirarían a El; y que reciban vuestras instrucciones como si Él en persona se las diera, persuadidos de que la verdad de Jesucristo habla por vuestra boca, que sólo en su nombre los enseñáis” (MTR, 3,2). Atención a los pobres.... Trabajáis para los pobres: Fue claro y contundente el Fundador al escribir en las Reglas Comunes: “Amarán tiernamente a todos sus alumnos... Manifestarán a todos los alumnos igual afecto, y más aún a los pobres que a los ricos, por estarles aquéllos mucho más encomendados por su Instituto que éstos.” (RC, 7,13-14). “Vosotros tenéis todos los días niños pobres a quienes instruir: amadlos tiernamente… siguiendo en ello el ejemplo de Jesucristo.” (MF, 166,2,2). Jesucristo dio su mensaje desde los pobres y hoy ciertamente sabemos que el Reino de Dios debe surgir desde los pobres. El sentido de vocación. La Salle tenía la convicción de que la educación de los niños hay que ejercerla desde un sentido de «vocación»: “Vosotros sois los que Él ha escogido para ayudarle en esta obra, anunciando a esos niños el Evangelio de su Hijo y las verdades en él contenidas” (MF, 193,3). “Vosotros sois los elegidos de Dios para dar a conocer a Jesucristo y para anunciarlo (MF, 87,2). “Es Dios quien os llamó y destinó a este empleo” (MF, 201,1). El sentido de asociación, surge desde los inicios fundacionales y hoy se da un despertar providencial sobre ella, muy coherente con el proceso de refundación al que nos sentimos obligados. La Asociación supone cohesión entre sus miembros, disponibilidad para el intercambio de personas en bien de la escuela cristiana. Hoy, los Hermanos hemos recuperado la Asociación como primer voto y creemos que nos pide proyectarlo a favor de nuestros seglares colaboradores. Las actuales circunstancias hacen pasar de una asociación de sólo entre Hermanos a una proyección para con los seglares. Va cundiendo el sentido de asociación entre nuestros colaboradores seglares, formulando un «compromiso público de asocia-


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ción», lo cual representa una excelente contribución a la escuela lasaliana.  La apertura a los laicos. Habiendo pasado de la escuela de rudimentos de los inicios a la actual escuela más compleja, se hace necesario recurrir a los laicos como colaboradores e incluso para el ejercicio de responsabilidades y, corrigiéndose a sí mismo, el Fundador también hoy admitiría a mujeres y la coeducación; todo ello parece exigido por la evolución de los tiempos y para el buen servicio de las escuelas. Hay que reconocer que el servicio de mujeres en nuestro Instituto ha favorecido la escuela, por sus aportaciones de intuiciones y detalles que les son propias. La apertura a los laicos está en consonancia con la definición sobre los mismos dada por el Concilio Vaticano II: “Los laicos están llamados por Dios, para que, desempeñando su propia profesión guiados por el espíritu evangélico, contribuyan a la santificación del mundo como desde dentro, a modo de fermento” (LG, 31). Y además, la Iglesia les insta a la responsabilidad como consecuencia del Bautismo y Confirmación recibidos, llegando a decir que “si el no comprometerse ha sido siempre algo inaceptable, en el tiemplo presente aumenta la culpa. A nadie le es lícito permanecer ocioso” (Christi Fideles laici, 3).  La Salle tuvo sumo interés en la formación de los Hermanos y también de los maestros rurales. En la situación actual de nuestros centros el Fundador apostaría por una buena formación de nuestros Laicos y Hermanos, conjuntamente, con el fin de que tengan el espíritu propio del Instituto y estén animados de celo en el ejercicio de la misión, para la continuidad de la «Escuela lasaliana». Hay que reconocer que el sentido de formación ha calado hondamente en el Instituto, ciertamente urgido por la evolución acelerada de los tiempos.

6. Conclusión He intentado exponer una «espiritualidad cristiana-lasaliana integral»: todo lo que Dios ha creado es base de tota espiritualidad. Debe armonizarse «materia-espíritu». La espiritualidad constituye un principio vital que da sentido a nuestra vida, como personas humanas y cristianas. Y desde ahí, siguiendo a Cristo, trabajamos conjuntamente para la venida del Reino inaugurado por Jesucristo. La espiritualidad lasaliana es el alma de nuestro Instituto de presente y de futuro.


La perennidad de la espiritualidad lasaliana

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LA PERENNITÀ DELLA SPIRITUALITÀ LASALLIANA* (sintesi)

È bene per prima cosa, chiarire il concetto di «spiritualità in generale», per poi rendere più concreto quello di «spiritualità cristiana» e quindi quello di «spiritualità lasalliana». È mia intenzione riferirmi a tutta la «Famiglia Lasalliana», Fratelli e Collaboratori laici. 1. Il concetto universale di spiritualità Il concetto di spiritualità non appartiene esclusivamente a nessuna religione. È di ampio respiro. Anche senza una fede religiosa si può possedere una spiritualità. Ogni persona si muove ed agisce secondo una “spiritualità”, cioè, secondo il proprio “spirito”, un principio di azione, una filosofia che la dirige, in altre parole, normalmente ogni persona si domanda “perché” e “a che pro” vive ed agisce. Ciò rappresenta la proiezione trascendentale del suo modo di “essere” e di ”agire”. La spiritualità agisce come una “forza ascensionale” nella persona, secondo quanto esprime Emmanuel Mounier. 2. La spiritualità cristiana 2.1. Avvicinamento alla spiritualità cristiana Bisogna riconoscere che la spiritualità è qualcosa di molto legato alla esperienza religiosa, anche se non è sua unica esclusiva caratteristica. La religione pone l’essere umano di fronte al mistero ultimo della sua esistenza, lo invita a scoprire il vero senso della vita ed ad operare scelte fondamentali. Vari autori convengono nel definire la spiritualità cristiana come vita secondo lo Spirito di Cristo, secondo il Vangelo, mossa dallo Spirito. È il modo che i credenti cristiani hanno di “vivere il Vangelo”. Il modello, il punto di riferimento della spiritualità cristiana è la spiritualità di Gesù nella sua intima unione con il Padre e la sua attenzione verso chi è in difficoltà. La spiritualità cristiana possiede nello stesso tempo, le caratteristiche di unità e diversità. Unità dovuta all’unico riferimento in Gesù; diversità per il fatto che si realizza in forme differenti. In realtà ci sono differenti modi di sperimentare ed incoraggiare la vita in Cristo, che danno origine a denominazioni come spiritualità carmelitana, francescana, ignaziana, carmelitana, vedruna, teresiana, domenicana, lasalliana…; monastica, laicale, familiare, sacerdotale ecc. D’altra parte, anche noi cristiani parliamo di differenti scuole o correnti di spiritualità: spiritualità luterana, calvinista o cattolica.

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Traduzione dalla lingua spagnola di Giovanni Decina


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3. La spiritualità lasalliana, quale proposta per ogni educatore e collaboratore lasalliano, Fratello o Laico 3.1. Origine della Spiritualità Lasalliana La Salle ha fondato, a partire dal 1680, un movimento educativo originato da una spiritualità, attraverso l’integrazione dello spirituale con il temporale, la formazione di maestri e la vita in comunità secondo il Vangelo. Si sarebbero chiamati “Fratelli”, per essere fratelli tra di loro e fratelli maggiori dei ragazzi che dovevano educare. 3.2. Oggi: dalla “Scuola dei Fratelli” alla “Scuola Lasalliana” La situazione di oggi nei nostri centri educativi, con pochi Fratelli e molti collaboratori laici, ha dato inizio al passaggio dalla “scuola dei Fratelli”, alla “scuola lasalliana”, in cui numerosi laici secolari esercitano l’insegnamento, la direzione e l’amministrazione. La “scuola cristiana” però, resta sempre tale con l’identità che le conferisce la spiritualità lasalliana. C’è inoltre da considerare che ogni scuola può essere multiculturale e multireligiosa, sia per gli alunni che per i professori, perché tutti traggono ispirazione dallo “Specifico carattere lasalliano”. 3.3. In tempi di postmodernità e di ipermodernità È assodato che il contesto del XXI secolo in cui viviamo è differente da quello dei secoli XVII e XVIII. Nasce dunque la questione sul come poter vivere oggi, effettivamente, la spiritualità lasalliana, considerando la situazione di indifferenza religiosa, di agnosticismo, di materialismo e che la gioventù non è più impregnata di principi religiosi… in una società di ipermodernismo caratterizzato dall’ “epoca del vuoto” e dell’ “effimero”. 3.4. Le caratteristiche essenziali e fondamentali della spiritualità lasalliana sono valide ancora oggi. Anche al giorno d’oggi esiste un nucleo di spiritualità lasalliana sempre valido ed imprescindibile.  Lo “spirito di fede”, come spirito necessario e vitale dell’Istituto. Non deve venir meno. Senza di esso non ha senso il nostro presente e nemmeno il futuro. Al giorno d’oggi, la complessità del nostro mondo deve essere vagliata alla luce del Vangelo. A partire dallo spirito di fede si costruisce la formazione umana e cristiana degli alunni.  Lo zelo, come sovrabbondanza dello spirito di fede. Proprio per questo, il Fondatore dice che gli educatori sono cooperatori di Dio per il ministero che esercitano (MTR, 113,1).  Il significato di comunità educativa, da cui il Fondatore dette inizio alla fondazione dell’Istituto. Il Fondatore considerò necessaria, allo stesso tempo, una comunità ducante ed operante nella vita. Le comunità saranno interdipendenti tra loro. Tutti corresponsabili e vincolati dall’ “insieme e per associazione”.  Una distinzione: la fraternità. La Salle fondò l’Istituto dei “Fratelli” con


La perennidad de la espiritualidad lasaliana

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l’idea che la fraternità, vissuta ed esercitata da tutti, fosse il suo distintivo. Consideriamo i nostri collaboratori come fratelli, e tutti come fratelli maggiori dei giovani a noi affidati, come dice la Regola all’art. 53. Il senso del ministero così ben espresso nelle 16 meditazioni per il tempo del ritiro. Il Fondatore non ha timore di definirci quali “ambasciatori e ministri di Gesù e suoi rappresentanti”. L’attenzione ai poveri... lavorate per i poveri: il Fondatore lo dice chiaramente e marcatamente nelle Regole Comuni: “Ameranno teneramente tutti i loro alunni ... a maggior ragione i poveri più dei ricchi, perchè quelli sono più raccomandati di questi ultimi, dal loro Istituto ” (RC, 7,13-14). Il senso di vocazione. La Salle era convinto che bisogna educare i fanciulli per vocazione. “Voi siete gli scelti da Dio per far conoscere ed annunciare Gesù” (MF, 87,2). “È Dio che vi ha chiamati e destinati a questo compito” (MTR, 201,1). Il senso di associazione, nasce fin dall’inizio della fondazione ed oggi c’è un provvidenziale risveglio su di essa, coerente con il processo di rifondazione a cui ci sentiamo avviati. La Associazione suppone coesione tra i suoi membri, disponibilità allo scambio di persone per il bene della scuola cristiana. Noi Fratelli oggi abbiamo recuperato la Associazione come primo voto e siamo convinti che ci viene richiesto di estenderlo anche ai nostri collaboratori laici. L’apertura verso i laici. Le circostanze di oggi rendono necessario ricorrere ai laici come collaboratori ed anche come responsabili. Il Fondatore, correggendo se stesso, ammetterebbe anche donne come insegnanti e la coeducazione nell’alunnato; tutto ciò sembra al pari con l’evoluzione dei tempi e per il buon andamento delle scuole. È anche una risposta positiva a quanto richiesto dal Vaticano II (cfr. LG, 31). Viene raccomandato inoltre ai laici di sentirsi corresponsabili in forza del Battesimo e della Confermazione ricevuti, arrivando ad affermare che “se il non impegnarsi è stato sempre qualcosa di inaccettabile, oggi diviene ancor più colpevole. A nessuno è permesso rimanere a guardare” (Christi Fideles laici, 3). La Salle ebbe sommamente a cuore la formazione dei Fratelli ed anche dei maestri di campagna. Proprio per questo è indispensabile da parte di Fratelli e Laici l’immersione nella formazione permanente, fatta anche insieme, per facilitare l’accompagnamento ed il sostegno delle istituzioni lasalliane, sia per quanto riguarda la dimensione cristiana lasalliana, come pure di quella pedagogica ed umana. Tale formazione è quindi auspicabile in ogni opera attraverso riunioni dei collegi docenti o altre forme più puntuali, anche a livello di Distretto, di Settore o di Istituto (CIL, SIEL, AIUL, ASSEDIL, Master ecc.).

4. Conclusione La spiritualità costituisce un principio vitale che dà significato alla nostra vita, come cristiani e uomini di questo mondo. La spiritualità lasalliana è l’anima ed il fondamento del nostro Istituto nel presente e nel futuro. Si tratta di una “spiritualità cristiano-lasalliana integrale”.


LA SALLE BIOGRAFIE DI GIOVANNI BATTISTA DE LA SALLE CHARLES LAPIERRE, FSC Giovanni Battista de La Salle - cammina alla mia presenza Città Nuova, Roma 2006, pp. 234

L’autore ricostruisce l’itinerario del La Salle nel realizzare la vita che Dio gli ha chiesto “camminando alla sua presenza” e risponde a quanti desiderano conoscerlo come pedagogista e istitutore di grande attualità, ma anche a genitori ed educatori, che vedono in lui un modello da incarnare e un ideale da trasmettere ai giovani.

TERESIO BOSCO, SDB Giovanni Battista de La Salle – la forza di donare la vita Elledici, Leumann (To) 2004, pp. 44

Tratteggia la figura e l’opera del La Salle, pioniere dell’educazione in un tempo decisamente diverso dalla nostra epoca, specie in ambito scolastico ed educativo. La lettura del breve ritratto rende attuale la passione che il santo ebbe per la gioventù dell’epoca. E che i Fratelli delle scuole cristiane continuano a vivere oggi.

MANUEL OLIVÉ, FSC Giovanni Battista de La Salle – una vita per i giovani Istituto Gonzaga, Milano s.d., pp. 96

Biografia agile, incisiva, essenziale. Ricca di illustrazioni, è quanto mai adatta anche ai preadolescenti per iniziare un percorso di conoscenza di un santo educatore che per dedicarsi alla promozione dei ragazzi più poveri ha lasciato il ceto dei benestanti coinvolgendo nell’avventura altri giovani generosi per istituire le scuole gratuite.

LEO C. BURKHARD, FSC Un birichino di Parigi

trad. it. di Camillo Coffano, Editrice A.&C., Milano 1961, pp. 160 Una storia romanzata alla gloria del pioniere e santo protettore delle scuole popolari. Tutte le vicende richiamano dei fatti storici. Al fine di garantire l’unità del racconto, l’autore ha ideato il personaggio del narratore attribuendogli dei fatti accaduti a molti. È lui – questo birichino di Parigi trascinato nella scia dell’eroe – che vi parla.

Giovanni Battista de La Salle

Fondatore dei FSC e Patrono degli educatori fumetto di G. Signori e F. Pescador – Prov. Italia FSC, Roma 2008, pp. 207 I disegni, il testo e la sceneggiatura del fumetto, mentre non impediscono l’accostamento degli adulti alla vicenda storica e all’opera del La Salle, favoriscono invece un interessante e attento approccio all’opera del santo anche ai più piccini. •••

Per informazioni e ordinazioni: Viale del Vignola, 56 - 00196 Roma tel. 06.322.94.503 - E-mail: gabriele.pomatto@gmail.com tel. 06.322.94.235 - E-mail: fedoardo@pcn.net


Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 475-485

PROPOSTE

PER EVITARE I DANNI DI UNA DIDATTICA DELLE SCIENZE PRIVA DELLA LORO STORIA DARIO ANTISERI Professore di Metodologia delle Scienze Sociali SOMMARIO: 1. Una didattica antiscientifica della scienza. - 2. Ragioni “umanistiche” e ragioni “tecniche” dell’imprescindibilità della storia della scienza nel lavoro dello scienziato. - 3. Pierre Duhem: «Fare la storia di un principio fisico significa farne l’analisi logica». - 4. La storia della scienza quale strumento di motivazione all’apprendimento delle scienze. - 5. Per una didattica delle scienze «più proficua, più gradevole, più efficace e più attraente».

«Fare la storia di un principio fisico significa farne l’analisi logica» Pierre Duhem «La didattica delle scienze ha patito più delle altre di una persistente retorica delle conclusioni e di un perfezionismo modellato sul trattato sistematico, che hanno spento in genere i più potenti stimoli della curiosità e della ricerca per sostituirvi la stanza ripetizione» Mauro Laeng

1. Una didattica antiscientifica della scienza

P

er motivi professionali e didattici, l’immagine della scienza che la gran parte di studenti e ricercatori hanno è quella che essi traggono dai manuali scientifici, dai quali ogni nuova generazione di allievi impara la pratica del proprio mestiere. «E però inevitabile – fa notare Thomas S. Kuhn – che libri di tal genere abbiano uno scopo persuasivo e pedagogico: una concezione della scienza ricavata da essi non è verosimilmente più adeguata a rappresentare l’attività che li ha prodotti di quanto non lo sia l’immagine della cultura di una nazione ricavata da un opuscolo turistico o da una grammatica della lingua».1 «I manuali mirano a comunicare il voca1

TH. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it., Einaudi, Torino, 1969, p. 20.


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Dario Antiseri

bolario e la sintassi di un linguaggio scientifico contemporaneo»:2 essi ridanno quella scienza (insieme di problemi standard, di teorie accertate, di prove tipiche, di applicazioni esemplari) che la comunità degli scienziati accetta come valida a quel tempo. Ed essi, in tutto o in parte, vanno via via riscritti e, conseguentemente, «una volta che siano stati riscritti, inevitabilmente celano non soltanto il ruolo ma anche l’esistenza stessa delle rivoluzioni che li hanno prodotti».3 Ogni generazione, quindi, esce dalla scuola con l’idea che la scienza consista in un tessuto di teorie assodate e invulnerabili, dietro alle quali c’è solo una preistoria di errori, e il cui futuro sarà dato forse soltanto da sempre migliori applicazioni. In sostanza, e in linea generale, l’educazione manualistica distrugge l’idea che la scienza sia una realtà storica, inculca l’immagine di una scienza dogmatica. Ed è così che la più antidogmatica tra le attività umane, vale a dire la ricerca scientifica, si trasforma facilmente nel supporto del dogmatismo ideologico. La scienza è, piuttosto, il frutto di discussioni e di controversie (e se la discussione viene bloccata, si blocca anche il progresso del sapere), di fantasie ardite e di critiche severe; e, tuttavia, quanti, attraverso l’immagine della scienza tratta dai loro manuali, desiderano, per esempio, imporre la loro ideologia (e fare così violenza morale), diranno (come dicono e come hanno detto) che la loro ideologia è scientifica, intendendo con ciò che la loro ideologia – visione del mondo e tavola dei valori – è indiscutibile e incontrovertibilmente vera, proprio... come la scienza. Sennonché, sebbene sia vero che de gustibus non disputandum, è pur vero che de scientia disputandum. Non possiamo (e non dobbiamo) confondere il linguaggio della scienza con quello dell’ideologia: ma il crampo mentale, direbbe Wittgenstein, generato dalla confusione dei due giuochi di lingua trova non di rado una sua scaturigine primaria in una dogmatica educazione manualistica che ad ogni generazione offre l’idea di una scienza senza futuro e con un passato da cancellare. Ecco, dunque, una prima funzione – e una funzione di primo piano – dell’introduzione, nell’insegnamento della scienza, della storia della scienza: dare un’immagine della scienza come fatto essenzialmente storico in cui la verità di oggi sarà verosimilmente l’errore di domani, mostrare che la scienza è frutto di tentativi ed errori, di congetture e confutazioni, e che progredisce proprio perché apprende dai propri errori; far vedere che le teorie scientifiche sono smentibili, che sono cose umane e quindi non assolute, ma perfettibili. «La scienza – commenta Enriques – è uno sviluppo di idee, che nasco-

2 3

Op. cit., p. 167. Op. cit., pp. 167-168.


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no da idee precedenti ed a quelle si concatenano».4 E ancora: «Ogni scienziato sa, a priori, che le sue conquiste non possono avere che un valore provvisorio e relativo, giacché alla concezione della semplicità della natura, che fu la fede scientifica del Rinascimento, è subentrata quella di una complicazione infinita, effetto della solidarietà universale di tutti i fenomeni. Davanti a questo universo solidale, di cui ogni frammento esprime l’intero, che cosa valgono ora le leggi scientifiche e dove va a finire il concetto stesso della verità?». Di conseguenza, «se la verità è soltanto un passo verso la verità, il valore della scienza consisterà piuttosto nel camminare che nel fermarsi ad un termine provvisoriamente raggiunto. I fatti, le leggi, le teorie, riceveranno il loro senso, non tanto come sistema compiuto e statico, quanto nella loro reciproca concatenazione e nel loro sviluppo».5

2. Ragioni “umanistiche” e ragioni “tecniche” dell’imprescindibilità della storia della scienza nel lavoro dello scienziato Nell’addestramento degli studenti, il manuale (o qualcosa del genere) è «professionalmente» irrimpiazzabile. Gli studenti debbono apprendere le teorie all’epoca valide, impratichirsi di tecniche di prova, imparare a risolvere problemi tipici, saper maneggiare strumenti, costruire esperimenti. La «professione» impone lo studio di «verità» e non l’apprendimento degli errori del passato. Perché, si chiede Kuhn, – dando espressione all’atteggiamento del ricercatore di professione – «dare un valore ed una dignità a ciò che i migliori e più costanti sforzi della scienza hanno reso possibile abbandonare? La svalutazione del fatto storico è profondamente radicata, e ciò probabilmente ha una sua funzionalità, nella ideologia della professione scientifica, quella stessa professione che attribuisce la massima importanza a particolari d’altro genere. Whitehead colse lo spirito antistorico della comunità scientifica quando scrisse: “Una scienza che esita a dimenticare i suoi fondatori è perduta”».6 Ora, è certo che questo atteggiamento «professionale» ha le sue innegabili ragioni. Ma occorre badare che le teorie scientifiche si situano in una tradizione, e se è giusto che, affinché ci sia progresso, si abbandonino teorie e tecniche risultate inadeguate, bisogna però chiedersi se sia anche giusto dimenticarle, come suggerisce l’espressione riportata da Whitehead. Il problema, in sostanza, è di sapere se l’educazione scientifica debba ridursi ad un addestra-

F. ENRIQUES, Il significato della storia del pensiero scientifico, Zanichelli, Bologna, 1936, p. 11. Op. cit., p. 3. 6 TH. KUHN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cit., p. 169. 4 5


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mento di professionisti con «paraocchi» o se piuttosto essa debba servire anche a fare dello scienziato un uomo dalla mente capace di giudicare il valore del suo lavoro in una tradizione, nella storia di una cultura, nella storia di una società. Quindi, in questo senso, l’introduzione della storia della scienza non è una esigenza strettamente tecnica, ma un’urgenza tipicamente «umanistica».7 Esiste, inoltre, un’altra direzione in cui vediamo essere imprescindibile la 7 Cfr., su tale punto, E. AGAZZI, La storia della scienza come punto d’incontro fra riflessione filosofica e ricerca scientifica, in AA.VV., Atti del convegno sui problemi metodologici di storia della scienza, Barbèra, Firenze 1967, p. 48. Su questo argomento, vale a dire sugli intrecci dello sviluppo della ricerca scientifica con altri ambiti della cultura, come, per esempio, quello religioso, Federigo Enriques faceva presente che «i rapporti della scienza colla religione sono più profondi e complessi di quel che appaia d’ordinario a chi paragona la scienza fatta alla religione positiva, domandandosi se si contraddicano. Già la possibilità della contraddizione significa che le due attività, scientifica e religiosa, debbano avere una radice comune. E di fatto l’attività costruttiva del reale, che cerca ovunque qualcosa d’invariante nel flusso delle cose sensibili, si rivela come un’attività d’ordine religioso, mossa nella sua origine da quella stessa tendenza che conferisce valore durevole a tutto ciò che amiamo [...]. Più generalmente, il postulato di razionalità del reale, che importa di proiettare fuori di noi le esigenze del nostro pensiero, appare connesso ai motivi ispiratori del misticismo: tendenza a realizzare nelle cose le associazioni delle nostre idee o dei nostri affetti» (F. ENRIQUES, Il significato della storia del pensiero scientifico, cit., pp. 34-35). Ciò permette di comprendere la ragione per cui «lo spirito religioso, scaldato al soffio della Verità eterna e delle eterne speranze degli uomini, è spesso - nella storia - generatore del più alto sforzo scientifico. Ciò si vede nella speculazione dei Pitagorici e degli Eleati, per cui le esigenze razionali stranamente confuse col misticismo, assumono un valore, che sfida, nei più arditi paradossi, le apparenze sensibili. E di nuovo la mistica pitagorica, il senso sacro dell’armonia dei numeri, ispira la ricerca di Keplero, e lo guida alla ricerca della sua terza legge. D’altra parte è interessante scorgere – prosegue Enriques – come il pensiero religioso dei Greci si purifichi e si elevi sotto l’influsso delle idee elaborate nella scienza. Giacché la scoperta del “relativo”, che risale all’argomento già citato di Anassimandro implicante la relatività dell’“alto” e del “basso” rispetto alla Terra, informa largamente la speculazione dei filosofi che vengono dopo di lui, come Eraclito e Senofane, che da essa assurge ad una critica dell’antropomorfismo teologico. E questi esempi non sono isolati» (Op. cit., pp. 35-36). E ancora Enriques: «Il filosofo troverà nella storia del pensiero scientifico, non soltanto i criteri per giudicare il valore della scienza, sì anche la spiegazione dell’ordine e del significato dei problemi della filosofia. Giacché nella storia della civiltà occidentale codesti problemi sorgono appunto sul terreno della ricerca naturalistica» (Op. cit., p. 37). In effetti, la storia delle teorie filosofiche diventa come spesso è stato e come talvolta ancora lo è – una insipida e irrilevante serie di opinioni (apparentemente campate per aria), cioè di risposte per le quali sembra che nessuno abbia mai posto una domanda – se non si vanno a cercare quelle radici extra-filosofiche che alimentano i problemi cui i filosofi tentano di dare risposta. Certo, tra queste radici della filosofia ci sono urgenti questioni per esempio religiose o politiche; ma esistono pure profonde radici scientifiche di questioni e teorie filosofiche. Il posto dell’uomo nella natura, la natura degli assiomi dei sistemi formali, la questione del determinismo sono autentici problemi filosofici; ma essi si radicano rispettivamente nello sviluppo della biologia, delle ricerche logico-matematiche o della fisica. E, in ogni caso, è una questione di fondo comprendere che «la scienza non è l’opera di ricercatori isolati dal


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storia della scienza, ma in questo caso non per ragioni umanistiche quanto piuttosto per motivi puramente scientifici. E su questo punto ha insistito, a mio avviso giustamente, Paul K. Feyerabend, con l’indicare almeno due motivazioni per l’imprescindibilità della storia della scienza nel lavoro dello scienziato. Innanzi tutto, nella scienza «nulla è mai deciso, nessuna concezione può mai essere lasciata fuori da un’esposizione generale».8 E ciò può venir giustificato dal fatto che «il progresso fu spesso conseguito attraverso “critiche attinte dal passato” [...]. Dopo Aristotele e Tolomeo l’idea che la terra si muova – quella strana, antica e “del tutto ridicola” opinione pitagorica – fu gettata nell’immondezzaio della storia, solo per essere richiamata in vita da Copernico, che ne fece un’arma per la sconfitta di coloro che l’avevano temporaneamente sconfitta. Gli scritti ermetici ebbero una parte importante nella ripresa dell’idea del moto della Terra, cosa che non è ancora compresa sufficientemente, e furono studiati con estrema cura dallo stesso grande Newton. Tali sviluppi non sorprendono. Nessuna teoria viene esaminata in ogni ramificazione e a nessuna opinione vengono mai concesse tutte le possibilità che merita. Talune teorie sono abbandonate e soppiantate da spiegazioni più fortunate molto tempo prima che abbiano l’opportunità di rivelare le loro virtù».9 Nella scienza, dunque, nulla è mai deciso. Per cui «Plutarco o Diogene Laerzio, non Dirac o von Neumann, sono i modelli per la presentazione di una conoscenza di questo genere in cui la storia di una scienza diventa parte imprescindibile della scienza stessa: la storia è essenziale non solo per dare un contenuto alle teorie che una scienza comprende in ogni momento particolare, ma anche per promuoverne gli sviluppi successivi. Esperti e profani, professionisti e dilettanti, cultori della verità e mentitori, sono tutti invitati a partecipare alla contesa e a dare il loro contributo all’arricchimento della nostra cultura».10 D’altro canto, mentre va richiamata l’attenzione sul fatto che «i pregiudizi vengono identificati per contrasto, non per analisi»,11 c’è pure da dire che mondo nell’isola di Laputa. E come la verità costeggia l’errore, così anche lo sforzo verso la verità mal si comprende astrattamente dalle passioni, dagli interessi o dai motivi pratici di diversa indole, che agitano l’uomo e si intrecciano nel gran dramma della vita. Non vi è dubbio, la contemplazione scientifica si lega strettamente a tutte le circostanze che determinarono la civiltà e la cultura dell’ambiente in cui si svolge il pensiero degli scienziati. Condizioni economiche, sociali e politiche, e, ancora in rapporto con esse, motivi artistici e religiosi, determinano o dirigono o rallentano ad ora ad ora codesto sviluppo. La ricchezza degli scambi commerciali, gli agi della vita e la frequenza dei rapporti con popoli diversi, porge spesso occasione o incremento all’intelligenza» (Op. cit., p. 32). 8 P.K. FEYERABEND, Contro il metodo, trad. it., Feltrinelli, Milano, 1979, p. 27. 9 Op. cit., pp. 41-42. 10 Op. cit., p. 27. 11 Op. cit., p. 28.


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«uno scienziato che sia interessato ad avere un contenuto empirico il più esteso possibile, e che desideri comprendere il maggior numero possibile di aspetti della sua teoria, adotterà perciò una metodologia pluralistica, confronterà teorie con altre teorie anziché con l’esperienze, con “dati” o “fatti” e cercherà di perfezionare anziché rifiutare le opinioni che appaiono uscire sconfitte dalla competizione. Le alternative di cui egli ha bisogno per mantenere in piedi il contrasto possono essere tratte anche dal passato. In effetti possono essere prese dovunque si riesca a trovarne: da miti antichi e pregiudizi moderni; dalle elucubrazioni di esperti e dalle fantasie di persone eccentriche. L’intera storia di un argomento può essere utilizzata nell’intento di migliorare il suo stadio più recente e più “avanzato”. La separazione fra la storia di una scienza, la sua filosofia e la scienza stessa non ha alcuna consistenza effettiva e lo stesso vale per la separazione fra scienza e non scienza».12 Quindi: la storia della scienza (ed anche delle teorie metafisiche e dei miti) è necessaria per la ricerca scientifica. E lo è sia perché la scoperta è impossibile senza la proliferazione di teorie in competizione («abbiamo bisogno di un mondo di sogno al fine di scoprire i caratteri del mondo reale in cui pensiamo di vivere»13), sia perché la valutazione di una teoria (del suo potere esplicativo, cioè del suo contenuto informativo) non avviene in vacuo né si effettua in assoluto. La valutazione di una teoria, vale a dire il giudizio sulla sua bontà o progressività, è sempre relativa: una teoria è buona non tanto in se stessa ma relativamente ad altre teorie meno buone; una teoria è progressiva sempre in relazione ad altre teorie (che, nei confronti di essa, saranno più o meno regressive). Ed è ovvio che più sono le teorie in competizione maggiormente interessante si fa il confronto. Più sono le teorie (vecchie e nuove) che una teoria supera, più questa teoria risulta forte (anche se mai, per motivi logici, dovrà venir considerata ultima e definitiva e quindi mitizzata). Più sono le teorie (vecchie e nuove) in competizione con una teoria dominante, maggiore diventa la possibilità di trovarne una migliore di quella dominante (o la possibilità che quest’ultima addirittura si rafforzi). In realtà, Collingwood aveva ragione quando scriveva che «il rivoluzionario può vedere nella sua rivoluzione un progresso solo nei limiti in cui è anche uno storico».

12 13

Op. cit., p. 40. Op. cit., p. 28.


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3. Pierre Duhem: «Fare la storia di un principio fisico significa farne l’analisi logica» E sempre per quanto riguarda gli effetti che la conoscenza della storia della scienza può avere sul lavoro effettivo dello scienziato, E. Mach ha scritto: «La storia della meccanica fornisce un esempio semplice ed istruttivo del processo attraverso il quale generalmente si forma la scienza naturale. Inoltre la conoscenza di questa storia giova ad una più perfetta comprensione della struttura che la meccanica ha assunto attualmente».14 E ancora: «Chi conosce l’intero corso dello svolgimento della scienza valuterà l’importanza di un qualsiasi movimento scientifico odierno in modo molto più libero e corretto di quanto possa fare colui che, limitato nel suo giudizio al periodo di tempo che egli stesso ha vissuto, vede solo la direzione che la scienza ha preso momentaneamente»15. Da parte sua, Pierre Duhem ha precisato: «Il solo modo di collegare le asserzioni formali della teoria alla materia dei fatti che esse devono rappresentare, e ciò evitando la furtiva penetrazione di idee false, è quello di giustificare ogni ipotesi essenziale con la sua storia. Fare la storia di un principio fisico significa farne l’analisi logica. La critica dei processi intellettuali messi in gioco dalla fisica si lega indissolubilmente all’esposizione della graduale esposizione attraverso cui la deduzione perfeziona la teoria facendone ogni giorno un’immagine più precisa, più ordinata delle leggi rilevate dall’osservazione. Soltanto la storia della scienza può salvaguardare il fisico dalle folli ambizioni del dogmatismo come anche dalle disperazioni del pirronismo. Descrivendo la lunga serie degli errori ed esitazioni che hanno preceduto la scoperta di ogni principio, lo mette in guardia contro la falsa evidenza; ricordando le vicissitudini delle scuole cosmologiche, facendo riemergere dall’oblio dove giacciono le dottrine che un tempo trionfarono lo costringe a ricordare che i sistemi più seducenti altro non sono che rappresentazioni provvisorie e non già spiegazioni definitive [...]. Ogni qualvolta lo spirito del fisico – afferma Duhem – è sul punto di cadere in qualche eccesso, lo studio della storia lo raddrizza con appropriate correzioni. Per definire il suo ruolo nei confronti del fisico la storia potrebbe prendere a prestito il pensiero di Pascal: “... dando motivo di tremare a quelli che giustifica e confortando quelli che condanna”. Essa lo mantiene così in stato di perfetto equilibrio in cui può apprezzare correttamente l’oggetto e la struttura della teoria fisica».16 E. MACH, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, trad. it., Boringhieri, Torino, 1977, p. 35. 15 Op. cit., p. 40. 16 P. DUHEM, La teoria fisica: il suo oggetto e la sita struttura, trad. it., il Mulino, Bologna, 1978, p. 303. 14


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4. La storia della scienza quale strumento di motivazione all’apprendimento delle scienze La didattica delle scienze (tra le altre difficoltà come quella, per esempio, di teorie altamente astratte espresse in linguaggio «tecnico», il cui apprendimento esige concentrazione, esercizio e quindi tempo e fatica) è tanto spesso ostacolata dal fatto che i ragazzi non si sentono, tante volte, affatto motivati a studiare teorie che sono appunto astratte e difficili. Ora dobbiamo subito notare che questi ragazzi non è che si sentano immotivati perché non vedono – come spesso si dice – l’utilità pratica della scienza.17 Tutti sanno, dal più al meno, quanti servigi ci hanno reso, e possono renderci, per esempio, la chimica, la biologia, o la fisica. È a tutti noto che la nostra vita è immersa in un mondo artificiale, in quel mondo di “artifici” o di prodotti tecnologici che ci circondano dentro e fuori di casa. Certo, l’apprendimento di “linguaggi tecnici” è costellato di difficoltà da superare, e su questo punto nessuno va illuso. Ma il più delle volte è sicuramente demotivante la stessa didattica delle scienze, allorché la si fa consistere nella comprensione (immotivata e quindi costrittiva) di teorie scritte sul manuale, in fondo al quale (stampati in corpo minore) stanno i «problemi» concepiti come banco di prova di quanto di teorico l’alunno avrebbe dovuto apprendere spinto non si sa da quale soffio dello spirito. E qui – chiedendo venia per la ripetizione – è necessario insistere ancora una volta sulla distinzione tra «problemi» ed «esercizi»: un problema è una domanda per la quale chi se la pone non ha ancora la risposta (che va trovata tramite tentativi ed errori); un «esercizio» è una domanda per la quale è già disponibile la risposta. I «problemi» di non pochi dei nostri testi scolastici sono, in realtà, «esercizi». E, mentre il problema scatena la ricerca, gli esercizi (che pur vanno «eseguiti») la bloccano. In realtà, non si danno risposte se non si pongono domande; ma noi, nella didattica delle scienze, pretendiamo o abbiamo preteso che si studino ed apprendano risposte difficili, senza neppure aver suscitato la domanda. Qui non si tratta quindi di andare a cercare motivazioni “utilitaristiche” per l’insegnamento delle scienze; si tratta invece di cercare innanzi tutto (senza peraltro escludere altre motivazioni, se ci sono e sono efficaci) le motivazioni teoriche. Le teorie sono risposte a domande, a problemi, e il primo compito, nella didattica delle scienze, è proprio quello di ricostruire i problemi, o meglio gli stati problematici (cioè i problemi con il loro sfondo teorico e pratico), per i quali le teorie sono appunto risposte. Ma un problema è sempre

Sull’insufficienza di queste «motivazioni materiali», cfr. C.F. MANARA, Dimensione storica nell’insegnamento delle scienze, in «Didattica delle scienze», XIV, 82, 1979, p. 18.

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una contraddizione scoppiata all’interno di un quadro teorico tra ipotesi ovvero tra un’ipotesi e i «fatti». E questo quadro teorico o questa ipotesi in crisi è, a sua volta, il tentativo di risposta ad altri problemi. Ecco, dunque, il luogo privilegiato dove trovare le motivazioni teoriche per l’apprendimento delle teorie (esposte in forma logica magari ineccepibile e «professionalmente» funzionale nei manuali); questo luogo è proprio la storia della scienza. È camminando per i sentieri della storia della scienza che i ragazzi incontrano i problemi che hanno richiesto soluzioni pur sempre provvisorie. E una volta che lo studente o una comunità scolastica avranno inciampato in un problema, allora le difficoltà «intrinseche» dell’apprendimento di “linguaggi tecnici” resteranno, ma almeno si sarà capito per che cosa una teoria è funzionale, perché è nata, perché i manuali ce la propongono. E capire questo è un motivo molto più trainante che comprendere per che cosa una teoria sia praticamente utile (quando lo è - giacché in linea generale una teoria prima di essere utile deve essere vera; l’ambito del possibilmente «vero» è maggiore di quello del fattualmente «controllabile» e questo non si identifica con quello dell’«utile»). Date siffatte premesse, si comprende come avesse perfettamente ragione Mauro Laeng a dire che: «La didattica delle scienze ha patito più delle altre di una persistente retorica delle conclusioni e di un perfezionismo modellato sul trattato sistematico, che hanno spento in genere i più potenti stimoli della curiosità e della ricerca per sostituirvi la stanca ripetizione»18. Soffocare i perché, ovvero non saperli suscitare e farli “rivivere” «vuol dire sottrarre all’impegno pedagogico la sua legittimazione e la sua forza segreta».19 H. G. Gadamer ha insistito sulla connessione essenziale tra «domandare» e«sapere».20 E Karl Popper fa notare che «l’insegnante il quale suggerisse al giovane scienziato desideroso di far scoperte “Va in giro e osserva”, darebbe un cattivo consiglio; mentre lo guiderebbe esattamente se gli dicesse: “Cerca di imparare quali sono i temi dibattuti oggi dalla scienza e di scoprire dove insorgono le difficoltà e interessati delle divergenze di opinioni. Sono i problemi che devi affrontare”».21 Se per far progredire la scienza di domani dobbiamo affrontare i problemi di oggi, per comprendere realmente la scienza di oggi dobbiamo capire i problemi di ieri.

M. LAENG, Educazione alla domanda, in AA.VV., Il problema della domanda, a cura di E. Castelli, Cedam, Padova, 1968, p. 72. 19 Ibidem. 20 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, trad. it., Fratelli Fabbri, Milano, 1972, p. 422. 21 K.R. POPPER, Per una teoria razionale della tradizione, in Congetture e confutazioni, trad. it., il Mulino, Bologna, 1972, p. 222. 18


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5. Per una didattica delle scienze «più proficua, più gradevole, più efficace e più attraente» La pratica della ricerca scientifica si risolve tutta in tentativi di soluzioni di problemi. Lo scienziato, il ricercatore, in qualsiasi ambito egli sia impegnato, è sempre in lotta con difficoltà, cioè con problemi. «Ricordo – scrive Robert Oppenheimer – cosa disse Wolfgang Pauli quando era molto giovane [...]. Mentre studiava a Copenhagen, la moglie di Niels Bohr gli chiese: “Pauli, Pauli, perché sei così infelice?”. Ed egli la fissò rabbiosamente e disse: “Perché mai non dovrei essere infelice? Non riesco a capire l’effetto anomalo di Zeeman”».22 Ma è chiaro che, se le cose stanno così nel campo della ricerca militante, sarà compito dell’insegnante, in ambito didattico, mostrare come, cioè per quali vie, attraverso quali precedenti problemi, congetture, errori e strumentazione, si sia pervenuti al problema la cui soluzione viene ora presentata quale teoria consolidata nel manuale di scienze. È soltanto in questo modo che lo studente potrà capire la rilevanza di una teoria e delle conseguenti applicazioni, cioè le ragioni degli “esercizi”. Che la storia della scienza sia il luogo privilegiato della motivazione teorica degli studenti l’aveva sperimentato e ben compreso Giovanni Vailati, il quale in un acuto saggio Sull’importanza delle ricerche relative alla storia delle scienze (1896) ebbe a dire: «A nessuno che abbia avuto occasione di trattare in scuola, davanti a dei giovani, qualunque soggetto che si riferisca alle parti astratte e teoriche della matematica, può essere sfuggito il rapido cambiamento di tono che subisce l’attenzione e l’interessamento degli studenti ogni qualvolta l’esposizione, discostandosi per una circostanza qualsiasi dall’ordinario andamento dottrinale e deduttivo, lascia luogo a delle considerazioni d’indole storica, a considerazioni, per esempio, che si riferiscano alla natura dei problemi e delle difficoltà che hanno dato origine allo svolgimento di una teoria o all’introduzione di un metodo, alle ragioni per le quali determinati concetti o determinate convenzioni sono state adottate, o ai diversi punti di vista dai quali un dato soggetto fu considerato da quelli che maggiormente contribuirono ad avanzarne la trattazione scientifica. Di questo appetito sano e caratteristico delle menti giovani per quella parte degli alimenti intellettuali loro presentati che istintivamente riconoscono come facilmente assimilabile e più confacente al normale sviluppo delle loro facoltà, è certamente desiderabile trarre il maggior partito possibile. Utilizzar-

R. OPPENHEIMER, L’intimo e il comune, in M. ROUZÉ, Oppenheimer: la vita, il pensiero e i testi esemplari, trad. it., Sansoni, Firenze, 1973, p. 192. 22


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lo intelligentemente vuol dire rendere l’insegnamento più proficuo e nello stesso tempo più gradevole, più efficace ed insieme più attraente».23 In realtà, come sentenziò David Hilbert nel 1900 in un celebre discorso sul futuro della matematica, «la mancanza dei problemi è un segno della morte o della fine dello sviluppo di una certa branca delle scienze. Come in ogni ramo dell’attività umana è necessario avere un fine da raggiungere, così nella matematica è necessario avere dei problemi da risolvere».24 E questo vale per ogni disciplina. E vale pure per l’insegnamento: la mancanza dei problemi, possiamo parafrasare, è un segno della morte o della fine dell’interesse per l’insegnamento e l’apprendimento di una disciplina. Di mancanza dei problemi muore la ricerca e muore la didattica. Ed ecco come Karl Popper ricorda i suoi professori di matematica all’Università di Vienna: «Solo il dipartimento di matematica offriva in realtà lezioni affascinanti. I professori erano, in quel tempo, W. Wirtinger, P. Furtwängler e Hans Hahn. Tutti e tre erano matematici creativi di fama mondiale. Wirtinger, che le voci che circolavano nell’ambito del dipartimento davano come il massimo genio fra i tre, lo trovai difficile da seguire. Furtwängler era meraviglioso per la sua chiarezza e la padronanza della materia (algebra, teoria dei numeri). Ma di più imparai da Hans Hahn. Le sue lezioni toccavano un livello di perfezione che io non ho mai più incontrato. Ogni lezione era un’opera d’arte: drammatica nella struttura logica; non una parola di troppo; chiarezza perfetta; ed era presentata in un linguaggio bello e colto. L’argomento, e talvolta i problemi discussi, erano introdotti da uno stimolante profilo storico. Tutto era vivo, sebbene un po’ freddo a causa della sua estrema perfezione».25

G. VAILATI, Sull’importanza delle ricerche relative alla storia delle scienze, rist. in Il metodo della filosofia, a cura di F. ROSSI-LANDI, Laterza, Bari, 1967, pp. 53-54. 24 In Compte-rendu du deuxième congrès international des Mathématiciens – Paris, 6-12 anôt, 1900, Gauthier-Villars, Paris, 1902. 25 K.R. POPPER, La ricerca non ha fine, trad. it., Armando, Roma, 19973, pp. 52-53. Corsivo mio. 23


LETTERE PASTORALI DI FRATEL ÁLVARO RODRÌGUEZ ECHEVERRÌA Superiore Generale dei Fratelli delle Scuole Cristiane 01. Il volto del Fratello oggi (Dicembre 2000). 02. Essere Fratelli in comunità: nostra prima associazione (Dicembre 2001). 03. Associati al Dio vivente. La nostra vita di preghiera (Dicembre 2002). 04. La vocazione del Fratello oggi (Aprile 2003). 05. Associati al Dio dei poveri. La nostra vita consacrata alla luce del 4° voto (Dicembre 2003). 06. Associati al Dio del Regno e al Regno di Dio. Ministri e servitori della Parola (Dicembre 2004). 07. Associati per cercare insieme Dio, seguire Gesù Cristo e lavorare per il Regno. La nostra vita religiosa (Dicembre 2005). 08. Associati al Dio della storia. Il nostro itinerario formativo (Dicembre 2006). 09. Consacrati da Dio Trinità come comunità di Fratelli, per rendere visibile il suo amore gratuito e solidale (Dicembre 2007). 10. Essere segni vivi della presenza del Regno, in comunità di Fratelli consacrati da Dio Trinità (Dicembre 2008). 11. Consacrati da Dio Trinità come comunità di Fratelli. Messaggeri e apostoli inviati dalla Chiesa per rendere presente il Regno di Dio (Dicembre 2009). 12. Consacrati da Dio Trinità come comunità profetica di Fratelli appassionati di Dio e dei poveri (Dicembre 2010). 13. Consacrati da Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sottopongono al giudizio di Dio il loro ministero (Dicembre 2011). 14. Consacrati da Dio Trinità, come comunità di Fratelli che sono ringiovaniti dalla speranza del Regno (Dicembre 2012).


Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 487-493

SCRIVERE, OGGI. A VENT’ANNI MARCO CAMERINI Docente di lingua e lettere italiane presso il Liceo Classico dell’Istituto paritario “Villa Flaminia” (Roma) SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Cosa si scrive: fra iceberg e sottosuolo. - 3. Come si scrive: “ingenui” anglo-americani e “riflessivi” europei? - 4. Patti con la realtà, patti con il lettore. 5. Conclusioni (provvisorie) e un augurio.

1. Premessa

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rendo spunto dal moltiplicarsi di concorsi di scrittura creativa, iniziative editoriali e siti on line che promuovono giovani – spesso giovanissimi – esordienti, per tentare un discorso più ampio.1 Avviare una pur breve riflessione sullo stato della narrativa oggi, per molti addetti ai lavori, significa, probabilmente, se non stendere un referto, comunque monitorare un malato in condizioni abbastanza gravi. Dovendo, tuttavia, esaminare un fenomeno che coinvolge le giovani generazioni, non ci si può esimere da alcune considerazioni. Al di là della struttura tecnica e della tipologia testuale (racconto breve, racconto, romanzo) scrivere oggi obbliga a confrontarsi e a ridefinire alcune categorie di fondo, che si possono individuare nel cosa, come e (la più importante?) perché si scrive.

2. Cosa si scrive: fra iceberg e sottosuolo Semplificando moltissimo, riflettere sulla materia grezza, sull’oggetto primo della scrittura significa distinguere le due fondamentali correnti di scrittura creativa del ‘900, quella (mittel)-europea e quella anglo-sassone e lo faremo partendo da una delle rarissime riflessioni teoriche di un indiscusso caposcuola della prosa americana, straordinario proprio nel respiro breve della narrazione, E. Hemingway. Lo scrittore coltivò sempre una cronica avversione per le teorie della letteratura e per i loro promotori, i critici: di

1 Interessante, fra le molte, una raccolta di racconti da poco nelle librerie, edita da una casa editrice emergente e coraggiosa, i cui autori hanno tutti meno di vent’anni: AA.VV., Tempo vuoto, Ambrosini, Padova, 2013.


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fatto, per lui scrivere e analizzare e/o giudicare chi scrive risultavano dimensioni incompatibili: vocazione naturale ed istintiva (“ingenua” direbbe Pamuk, ma su questo torneremo) la prima, attività riflessa e, alla fine, sterile la seconda. Premesso ciò, fu George Plimpton ad “estorcere” all’autore dei “49 racconti” – si avverte palpabilmente l’insofferenza dello scrittore, immaginiamo alleviata da più di un daiquiri – una bella, a tratti sconclusionata, intervista-riflessione nel 1963, pubblicata sul “The Paris review” e recentemente ristampata. Alla domanda – infelice per la sua astrusità, visto l’interlocutore – su quale fosse la miglior preparazione intellettuale per un aspirante scrittore, Hemingway rispose: “Diciamo pure uscire di casa e impiccarsi, perché scrivere bene è quasi impossibile. Poi, se qualcuno lo stacca dalla corda, allora, per tutta la vita, il poveretto dovrebbe costringersi a scrivere al meglio. Ma almeno avrà la storia dell’impiccagione con cui cominciare”.2 Brutale ma importantissima affermazione, densa proprio di implicazioni “teoriche”: il modello anglo-americano di prosa sceglie di narrare storie del tutto credibili, che abbiano “il sapore delle lagrime e del sangue che scorre nelle vene” (è il nostro Verga, non Roth o Cunningham!),3 in una sorta di iper-realismo viscerale - di ambientazione urbana – comunque sempre assolutamente percepibile dal lettore come vero, aperto alla condivisione “di” tutti, passibile di essere vissuto “da” tutti. Strada obbligata per questa esperienza totalizzante? Sperimentare, sempre e comunque, ciò che si scrive, non smettere mai di osservare (“se uno scrittore smette di osservare è finito”,4 rimarca ancora Hemingway), rescindere, come un cancro insidioso, la facoltà immaginativa, perché in questo consiste il dovuto, supremo atto di rispetto verso il lettore. Che Zolà avesse voluto vivere in un reparto ospedaliero riservato agli alcolisti per prepararsi a comporre “L’assommoir” non può che far riflettere come questa opzione narrativa (con buona pace del Minimalimo carveriano) non sia prerogativa del “nuovo mondo”, ma vanti un credito vistoso con il miglior Naturalismo francese. Nella medesima intervista, lo scrittore americano ricorse alla famosa “metafora dell’iceberg”, sostenendo che la massa sommersa – il solido ed ineludibile bagaglio di vissuto che supporta l’atto creativo – va lasciato sott’acqua, per conferire veridicità assoluta a ciò che emerge nella pagina conclusa: “Il vecchio e il mare avrebbe potuto essere lungo più di mille pagine, avrei potuto sviluppare gli abitanti del villaggio, spiegare come sbarcano il lunario […] ma io ho cerca-

ERNEST HEMINGWAY, Il principio dell’iceberg (intervista sull’arte di scrivere e narrare), Il melangolo, Genova, 1996, pp. 33-34. 3 GIOVANNI VERGA, Prefazione all’amante di Gramigna, Principato, Milano, 1986, p. 118. 4 ERNEST HEMINGWAY, Op. cit., p. 60. 2


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to di provare con qualcosa di diverso. Prima di tutto eliminare le parti superflue e trasmettere al lettore un’esperienza che potesse entrare a far parte della sua, come quelle reali”.5 Chiarissimo. Rischiando veramente di semplificare, crediamo che proprio questa sia la tendenza “programmatica” cui aderisce il romanzo americano del ‘900; per quello più propriamente inglese bisognerà pur affrontare il “caso Joyce”, in realtà caposcuola indiscusso anche della “tendenza europea” e al quale, per questo, dedicheremo un discorso a parte. In antitesi evidente a quanto detto, il cosa della narrativa (mittel)-europea coincide proprio con i sette/ottavi sommersi dell’iceberg: scandagliare – con una scrittura che si fa inevitabilmente labirintica, complessa, intessuta di echi e allusivi rimandi interiori – il percorso psichico delle emozioni, nel contesto di trame narrative dissolte, è l’impervio obiettivo di una scommessa letteraria costantemente “altra”, in cui proprio il lettore con estrema difficoltà riesce ad identificarsi, salvo saper discendere nel proprio personale “sottosuolo”. Schnitzler direbbe forse poco ad un narratore americano, e questo, si potrebbe osservare, depone non poco a sfavore del secondo.

3. Come si scrive: “ingenui” anglo-americani e “riflessivi” europei? Il come si scrive, ci sembra strettamente correlato all’oggetto della scrittura, ed è un aspetto che si può risolvere in una veloce osservazione: a contenuti del tutto plausibili corrisponde, nel romanzo anglo-americano, uno stile essenziale, asciutto, referenziale, intessuto di dialoghi serrati, nominale (mal tollerati avverbi, ma anche aggettivi), mimetico di una realtà che, per i suoi connotati spesso drammatici, non tollera preziosismi di sorta, tanto meno prolissità, divagazioni, sospensioni, analessi ed altri espedienti narratologici. Le tematiche più “sommerse”, care alla narrativa (mittel)-europea, esigono, al contrario, una tecnica di scrittura metaforica, ipotattica, sontuosa nel lessico, tendente spesso al monologo (a diversi livelli di interiorità, sino alla dissoluzione logico-grammaticale del flusso di coscienza, “colata di parole, categoria psichica più che letteraria”,6 secondo De Benedetti), quasi programmaticamente ostile ad una fruizione intellegibile ed immediata da parte del lettore. Certo andrebbe sottolineata la vistosa eccezione dell’europeo Kafka, che ricorre a “trecento parole”7 e ad una sintassi elementare – nella sua splendida, definitiva nitidezza – per sviluppare il personalissimo percorso narrativo sulla incomprensibilità del reale e l’assurdità delle nostre

Op. cit. p. 61. GIACOMO DEBENEDETTI, Il personaggio uomo, Garzanti, Milano, 1970, p. 80. 7 LADISLAO MITTNER, Letteratura tedesca del ‘900, Einaudi, Torino, 1975, p. 190. 5 6


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straniate esistenze, ma proprio verso di lui la narrativa ebraico-americana del ‘900 nutre reverente ammirazione. Prima di esaminare la questione fondamentale del “perché” si scrive, non si può fare a meno di constatare come J. Joyce sia l’indubbio iniziatore di entrambe le prospettive che ho cercato di definire: inevitabilmente anglo-americano nei magistrali racconti dublinesi – minimalisti spaccati di esistenze la cui trama si rarefà in lenti, credibilissimi frammenti di quotidianità – tutto europeo nel prospettare, in questi stessi racconti, improvvise epifanie simboliche che autorizzano letture più recondite e profonde; lo sperimentale ”Ulisse” è, alla fine, la sfida più estrema di un realismo assoluto, ma qui il discorso si amplierebbe. Torna, a questo punto, utilissima la distinzione di Orhan Pamuk fra autori “ingenui (“non consapevoli delle tecniche che usano, scrivono in modo spontaneo, come se stessero compiendo un gesto del tutto naturale”8) e autori “riflessivi, affascinati, al contrario, “dalla componente artificiosa del testo, dalla sua mancata adesione alla realtà, dai metodi della scrittura”:9 è evidente che non si può generalizzare, ma possiamo definire (e ne sarebbero probabilmente lusingati) ”ingenui” gli scrittori anglo-americani – termine che non ha alcuna valenza negativa per Pamuk, anzi – e ”riflessivi” quelli di matrice europea, nella convinzione di quest’ultimo che “essere romanziere è l’arte di essere nello stesso tempo ingenuo e riflessivo”. Clamorose ed immediate le eccezioni, a conferma che il discorso è complesso e non tollera schematismi: il P. Auster di “Trilogia di New York” (e del misconosciuto “Il libro delle illusioni”…quanto poco americano il titolo!), l’ultimo J.Coe de “I terribili segreti di Maxwell Sim”, lo straordinario “Espiazione“ di MacEwan sono tutti romanzi connotati da un raffinato ed elaboratissimo meccanismo narratologico, che di ingenuo non ha proprio nulla. D’altra parte gli ipnotici, mimetici ritmi narrativi di Simenon “senza Maigret” e certi esiti del mai troppo citato Pavese e di una eccezionale affabulatrice come la Morante hanno la stimmate di un vissuto istintivo, viscerale, pienamente ”ingenuo”.

4. Patti con la realtà, patti con il lettore Inevitabilmente siamo giunti ad evadere la terza, provocatoria domanda, la più impegnativa, forse. Perché si scrive un romanzo, quale il suo scopo (se c’è), intendendo questo come un fine etico “alto”, che non si limiti alla semplice fruizione estetica di una storia che avvince? In un recente intervento al Festival della Letteratura di Mantova, nel settembre 2012, Filippo La Porta,

8 9

ORHAN PAMUK, Romanzieri ingenui e sentimentali, Einaudi, Torino, 2012, p. 30. Ibidem.


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riflettendo sul senso della scrittura oggi, cita le riflessioni di Martha Nussbaum circa il valore morale ed educativo delle opere letterarie e di Elian Scarry sul potere etico della letteratura che, nell’Occidente, sollecita all’empatia con l’altro, educa alla disputa, ci offre una “anticipazione della giustizia sociale” – come, aggiungiamo noi, voleva Franco Fortini negli anni ’60 – ma obietta che “l’essere umano può benissimo identificarsi con la sofferenza di un altro e, al tempo stesso, vivere in una beata indifferenza […] la letteratura umanizza solo se glielo permettiamo”.10 Vero, e a conferma di ciò George Steiner sottolineava come la cultura umanistica non sia riuscita ad evitare la barbarie nell’Europa novecentesca: “un uomo può leggere Goethe e Rilke e, il giorno dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz”11. Riflessioni significative, che vorremmo brevemente cercare di applicare alla nostra precedente distinzione; sicuramente un fine programmaticamente eticopedagogico è più marcatamente presente nella linea europea del romanzo: rinviando, per uno stimolante approfondimento, al numero 6/2013 della rivista Micromega - interamente dedicato all’intellettuale e l’impegno, con un inedito di Camus - ci limitiamo qui a ricordare l’intervento di J. P. Sartre alla conferenza tenutasi a Parigi nel 1946 in occasione della prima riunione dell’Unesco (inedito sinora in Italia, è stato stampato nel febbraio 2012): “Lo scrittore fa della letteratura, ossia scrive, perché in un mondo in cui la libertà è costantemente minacciata, si assume il compito di ribadire l’affermazione della libertà e l’appello alla libertà”;12 se già Dostoevskij aveva sostenuto, nei Karamazov, che ognuno è responsabile di tutto di fronte a tutti, l’intellettuale deve vivere in modo più responsabile e profondo tale compito; il potere persuasivo unico della scrittura non gli consente né di ignorare né di tacere sulle problematiche essenziali del consesso umano, salvo farsi corresponsabile della barbarie e delle violenze che contro di esso si esercitano. Ecco, crediamo che, per vocazione e coordinate storico-sociali, la narrativa europea non abbia, anche inconsciamente, mai smesso di tenere presente questo scopo, certamente con infiniti distinguo. Quanto tale fine etico sia presente, o solo percepibile, nella “Recherche” di Proust – probabilmente la più potente e straordinaria scommessa narrativa della letteratura del ‘900, soprattutto per il lettore che vi si avventura – è evidentemente tutto da verificare, ma questo è l’altro essenziale carattere correlato a tale tipo di prosa: scrivere per sondare l’intimità più nascosta di ognuno (il rothiano “everyman”), i sedimenti delle pulsioni celate o rimosse che è esclusiva facoltà della scrittura

FILIPPO LA PORTA, Il Messaggero, 22 settembre 2012. Ibidem. 12 JEAN PAUL SARTRE, La responsabilità dello scrittore, Archinto, Milano, 2012, pp. 27-28. 10 11


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portare alla superficie della coscienza. In entrambe i casi, letteratura di engagement o di raffinatissima auto-analisi, i romanzieri europei rientrano nella categoria degli scrittori definiti da Pamuk “riflessivi”, con molti altri esempi, fra i quali vogliamo ricordare proprio le sperimentazioni dei nostri Gadda e Calvino, quest’ultimo nella sua opera per molti più significativa, “Se una notte d’inverno un viaggiatore”: “In questo iper-romanzo, il mio intento era di dare l’essenza del romanzesco, concentrandolo in dieci inizi di romanzi, che sviluppano nei modi più diversi un nucleo comune e agiscono su una cornice che li determina e ne è determinata”.13 Sperimentalismo narratologico allo stato puro, impegno civile, auto-analisi: categorie tutte europee, nessuna delle quali ammissibile e condivisibile tout court dalla potente narrativa americana, che pure, si pensi a Ph. Roth, sa mirabilmente scendere nei meandri del comportamento umano, con immediatezza e linearità istintive e non riflesse, lontane dal cerebralismo a tratti snervante della narrativa (mittel)-europea. Crediamo, al contrario, che lo scrittore, in particolare americano, nutra l’inconscio timore che narrare per veicolare un contenuto ideologico o un groviglio di pulsioni interiori non immediatamente percepibile dal lettore – se non come totalmente proprie, comunque reali – possa compromettere l’istanza programmatica (qualcosa in più di una semplice esigenza) di (de)scrivere con referenziale asciuttezza una realtà sino in fondo credibile. Lo ribadiamo: il fruitore di una tale pagina non deve pensare per un istante che quanto legge non possa accadere anche a lui: se poi ciò si è già verificato, il patto narrativo con il suo autore ne uscirà rafforzato per sempre e la letteratura avrà vinto la sua scommessa più ambiziosa. Narrare, quindi, per essere creduti e ritenuti attendibili, perché chi scrive non deve barare e falsare ciò che è davanti agli occhi di ognuno, come singolo e come parte di una comunità. E questo sarebbe piaciuto anche a Sartre. “La cosa più difficile” – sosteneva ancora Hemingway – “è scrivere una cosa assolutamente onesta sugli esseri umani”14 e allo stesso, malcapitato ma evidentemente tenace Plimpton, durante una conversazione avuta a Madrid nel 1954, confidò, dopo avergli chiesto se si recava alle corse di cavalli: “Legga i programmi delle corse…quella sì che è arte narrativa”;15 certo nessuno scrittore sottoscriverebbe tale affermazione, provocazione più che attestato di poetica. E’ evidente, poi, come proprio da questa disposizione narrativa sia scaturita quella sin troppo famosa “corrente minimalista” di cui l’acclamato antesignano, R. Carver (vicinissimo anche in questo al suo maestro Hemin-

ITALO CALVINO, Lezioni americane, Mondadori, Milano, 2002, p.131. ERNEST HEMINGWAY, Op. cit., p. 31. 15 Op. cit., p. 15. 13 14


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gway), negava l’esistenza, nutrendo una altrettanto viscerale intolleranza per le classificazioni: si scrive ciò che si vive, perché questo rende migliore l’opera letteraria. Per correttezza, prima di concludere questa sommaria panoramica, dobbiamo, anche in questo caso, rendere conto delle innumerevoli ed autorevoli eccezioni: uno sperimentalismo “riflessivo” ed il gusto per l’asimmetria narratologica e spazio-temporale dell’intreccio (più evidente negli scrittori inglesi contemporanei del ‘900) sono costitutivi delle poetiche di narratori unici come i citati MacEwan, Coe, Auster, ma anche Ishiguro o Cotzee mentre, d’altro canto, è evidente come non manchino affatto, nell’attuale narrativa americana, il respiro storico e la volontà di costruire un affresco socio-politico della multiforme realtà di questa nazione: “Pastorale americana” di Roth, lo spettacoloso “Underworld” di D. De Lillo e l’opera migliore di J. Franzen – quasi tutta, data la modesta prolificità dello scrittore, garanzia dell’alto livello della sua produzione – lo confermano inequivocabilmente.

5. Conclusioni (provvisorie) e un augurio Tornando ai tanti giovanissimi autori che tentano l’avventura della scrittura, il loro “cosa” e “come” scrivere potrà essere ricondotto all’una o all’altra di queste due tendenze che – semplificando forse troppo, e ne chiediamo scusa alle tante “narrative” emergenti e/consolidate come la ricca produzione ebraico-palentinese dei Yehoshua e degli Oz…maestri della pagina – abbiamo delineato nelle loro caratteristiche essenziali. Il “perché” scrivano crediamo spetti solo a loro dircelo: certo è che lo fanno in numero sempre crescente, con semplicità ed un pizzico di sana incoscienza: prendendo una penna in mano e decidendo di “distaccarsi dalla molteplicità delle storie possibili per rendere raccontabile una singola storia”16 …che sarà, comunque, la “loro” storia, in cui hanno trasfuso il proprio vissuto, le proprie attese, magari quelle paure cui la scrittura dona il privilegio di assumere veste estetica, certamente (assurdo se non fosse così) il portato delle personali letture, scolastiche e non. L’auspicio è che riescano a comunicare, a tanti lettori “adulti”, un’emozione profonda e permanente: che poi sia stato un’adolescente a trasmetterla la renderà ancora più preziosa e costituirà una prova schiacciante ed inconfutabile della vitalità della letteratura. Ce n’è bisogno, oggi.

16

ITALO CALVINO, Op. cit., p. 138.


Mario Chiarapini, Dove sono gli adulti? - Assenti ingiustificati, Paoline, Milano 2013. “Se il pianeta giovanile è stato sempre problematico e se i giovani di oggi non sono peggiori di quelli del passato, vuol dire che il momento di regresso culturale e di deriva comportamentale ed esistenziale che stiamo vivendo, che comunemente definiamo emergenza educativa, non è da attribuirsi a loro, ma, molto probabilmente, all’impreparazione e alla latitanza degli adulti” (dalla Presentazione del libro). Su questa asserzione, confortata da un’abbondante e trasversale letteratura sul mondo dei giovani, prende le mosse il libro di Mario Chiarapini, religioso dei Fratelli delle Scuole Cristiane, una persona che per missione ha avuto e continua ad avere una costante frequentazione con i giovani. Il titolo provocatorio e inquietante del libro nasce dall’osservazione attenta e dalla diretta esperienza. Nella prima parte del libro si effettua un’ampia fotografia della realtà giovanile, senza mai cadere nei soliti luoghi comuni; nella seconda vengono offerti alcuni stimoli per condurre un’azione educativa serena e propositiva. Nel libro si parla “di un rapporto intergenerazionale malato e di un dialogo interrotto, molto probabilmente per l’assenza di adulti che disattendono il loro ruolo educativo”. Le cause che hanno portato a questa drammatica situazione sono molteplici. L’autore ne fa una sintesi, affermando che “il rapporto fra le generazioni si ammala nella misura e nel momento in cui degenera il corretto approccio con tre importanti realtà, cioè con la tradizione, con il principio di autorità e con il principio di libertà”. Il presente volume rappresenta in qualche modo la continuazione del precedente da parte dello stesso autore, “Non date le dimissioni Genitori alle prese con l’educazione dei figli”, uscito un paio d’anni fa, con cui veniva affrontato il tema della grande responsabilità educativa dei genitori, molte volte disattesa, al punto che molti di loro arrivano addirittura a dare le dimissioni dal loro ruolo di primi educatori dei figli.


Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 495-505

FORMAZIONE FILOSOFICA E PREVENZIONE DEL NICHILISMO* GIOVANNI CHIMIRRI Università dell’Insubria – Varese SOMMARIO: 1. L’avvento del nichilismo (Nietzsche, Heidegger, Vattimo). – 2. L’impossibile negazione dell’essere. – 3. Magistero e formazione filosofica. – 4. Metafisica come apertura al Trascendente. – 5. Definizioni e superamento del nichilismo. – 6. Precursori del nichilismo. – 7. Conclusioni: il riconoscimento oggettivo del reale.

1. L’avvento del nichilismo (Nietzsche, Heidegger, Vattimo)

«C

iò che racconto è la storia di ciò che verrà. Il nichilismo è davanti alla porta [...] Esso è la convinzione dell’assoluta insostenibilità dell’esistenza [...] Noi non abbiamo più il diritto di porre un “al-di-là” divino delle cose».1 Trascorso più di un secolo da quelle parole, bisogna costatare da un lato che la profezia di Nietzsche si è avverata e che il nichilismo è oggi una filosofia comune; ma bisogna costatare dall’altro lato che egli arrivò tardi, registrando una «morte-di-dio» già in atto da tempo grazie alle filosofie materialiste dell’illuminismo, che contenevano la negazione di ogni trascendenza e ri-divinizzavano l’uomo sul piano del progresso storico-politico. L’uomo contemporaneo non riesce più a dare un senso alla propria esistenza, ed assume visioni del mondo decisamente anti-metafisiche e anti-religiose: «ciò che ha contribuito allo sfaldamento e alla disgregazione della civiltà moderna, è stato il pensiero nichilistico [...] La cultura moderna, con la pretesa di fare dell’uomo l’essere supremo, lo ha privato di quella dimensione trascendente che costituiva il pilastro dei valori spirituali. Il risultato conseguito è l’opposto di quello sperato: non l’uomo sul trono di Dio, ma l’uomo sul trono (abisso) del Nulla»!2

* Rielaboro qui con vari adattamenti, quanto esposto nell’«Introduzione» al nostro Teologia del nichilismo (Milano 2012, pp. 9-22), volume al quale rimandiamo coloro che desiderano continuare la riflessione ed approfondire tutto quanto viene qui solo accennato. 1 F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, Milano 1995, pp. 5-9. 2 B. MONDIN, L’assurdo di un’Europa senza radici, in «Città di Vita», n. 2/2006, p. 140.


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Per G. Reale, i valori propugnati dalla modernità sono solo «travestimenti nichilisti degli antichi valori». Ecco i mali dell’uomo d’oggi: «1) scientismo e tecnologismo, 2) ideologismo e dimenticanza del vero, 3) prassismo e oblio della contemplazione, 4) proclamazione del benessere materiale come surrogato della felicità, 5) violenza, 6) smarrimento della bellezza, 7) riduzione dell’eros platonico all’aspetto fisico, 8) individualismo, 9) perdita del fine delle cose, 10) materialismo e oblio dell’essere».3 In vero, lo spettro del nichilismo (perdita dei valori, sentimento di vacuità, disordine esistenziale, rifiuto della verità, ideologie immanentiste) ha sempre accompagnato la storia dell’umanità, a partire da tutti quelli che, lontani da Dio, non possono che «inseguire il nulla» (Os 5,11); da tutti quelli che scambiano il mondo con l’assoluto e si votano all’empietà: «ecco, tutti costoro sono niente, e nulla sono le loro opere, vento e vuoto i loro idoli» (Is 41,29); da tutti quelli che si lasciano vincere dalla deficienza: «chi sragiona dice che non c’è rimedio alla morte, dice che siamo nati per caso e che dopo saremo come se non fossimo mai stati. Spento il cuore, lo spirito svanirà e il corpo diventerà cenere. Nessuno ricorderà le nostre opere e la nostra vita si dissolverà come nebbia. La nostra esistenza è il passaggio di un’ombra, dunque non ci resta che godere dei beni presenti, saziarci di vino, opprimere il giusto, il povero e l’anziano» (Sap 2,1-20)! Per M. Heidegger, il «nichilismo è l’ospite più inquietante che c’è in noi: non serve metterlo alla porta, perché da tempo si aggira per la casa. Ciò che occorre fare, è solo guardarlo bene in faccia»!4 Heidegger ha riflettuto sul nichilismo, ma ha voluto tenerselo in casa, rimanendo per lo più sul piano della fenomenologia o sconfinando (sul finire della sua vita) in una specie di mistica. La concezione stessa dell’essere disegnata da Heidegger, è quella di un essere che appare con modalità evanescenti e infondate. Anche secondo alcuni filosofi contemporanei nostrani, «non c’è alcuna necessità di uscire dal nichilismo: si tratta solo di prendere atto di un certo gioco della negazione»; il nichilismo non può essere corretto o negato, perché «rinasce sempre dalle proprie ceneri»!5 Secondo A. Caracciolo, «il nichilismo è la posizione che assume l’esperienza-limite del niente come assoluta assenza di senso, come esperienza fondamentale dell’esistere non superabile».6

G. REALE, Sul nichilismo radice di tutti i mali, in AA.VV., Da Cartesio a Hegel o da Cartesio a Rosmini?, Stresa 1997, pp. 25-26. 4 M. HEIDEGGER, «La questione dell’essere», in Segnavia, Milano 2002, p. 337. 5 F. D’AGOSTINI, Logica del nichilismo, Bari 2000, p. 30 e p. 372. 6 A. CARACCIOLO, Nichilismo ed etica, Genova 1983, p. 45. 3


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Per G. Vattimo, dobbiamo «sfondare le ragioni forti e tuffarci nell’ontologia del declino», abituarci «a convivere col niente», «de-realizzare e de-costruire l’essere, vivere fino in fondo l’esperienza della dissoluzione dell’essere»!7 «L’uomo moderno non è ancora abbastanza nichilista», e per questo vive con disagio e nevrosi!8 L’unica salvezza è per Vattimo la sostituzione della vecchia filosofia con una «nuova ermeneutica non-metafisica e perciò come ontologia nichilista»!9 Per V. Vitiello, «al nichilismo non si risponde negativamente, ma accettandolo fino in fondo; e questo, non per governarlo (neutralizzandone gli effetti negativi), bensì per farne emergere la sua religiosità [...] Dunque la religione è nichilismo, come ha insegnato Cristo annichilendosi»!10

2. L’impossibile negazione dell’essere Ma a noi non piace giocare col nulla, né tanto meno flirtare con l’assurdo, l’irrazionalità della storia, il caos, il depotenziamento della ragione, le retoriche pessimistiche, i paradossi tendenziosi e in malafede, la mistificazione della teologia cristiana, ecc.! Non bisogna solo guardare in faccia il nostro «ospite inquietante», ma altresì metterlo alla porta, reagire e criticare l’epoca in corso, satura di fedi nichiliste, agnostiche, materialiste, relativiste, ecc.: «il nichilismo non è un tempo vuoto da colmare in qualche modo, né una novità per liberarsi dalla noia, né una fase di transizione, perché invece è una conclusione [...] Così l’uomo moderno si abbandona al divertimento, allo spettacolo, al lassismo e al mito del progresso, abolendo la naturale coscienza tragica della vita».11 Ma l’«uomo, la fede, la ragione, non muovono mai dal-nulla, ma da-qualcosa e da-qualcuno che li precede e orienta. Nella vita umana non esiste un punto zero di partenza che non sia già una presenza oggettiva dell’essere. Resettare l’essere e la ragione è proprio la pretesa di una modernità in contraddizione con se stessa».12 Il nichilismo è certo un problema, ma non è l’insuperabile destino dell’Occidente, come vogliono in troppi, becchini di una metafisica che usano loro malgrado e portantini di una bara dentro la quale

A. MARCHESI, G. Vattimo nuovo Padre della Chiesa?, in «Per la Filosofia», n. 1/2005, p. 81. G. VATTIMO, Apologia del nichilismo, in «Belfagor», n. 36/1981, pp. 213-219. 9 G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione, Bari 1994, p. 68. 10 V. VITIELLO, Religione e nichilismo, in AA.VV., Il Dio della ragione e le ragioni di Dio, vol. 1, Milano 2009, p. 113. 11 A. DEL NOCE, in AA.VV., Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, Milano 1971, pp. 208-209. 12 L. SANTORSOLA, Dogma cattolico, ragione e principio di realtà, in «La Società», n. 4/2011, p. 655. 7 8


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non c’è nulla! Molti oggi criticano la teologia, la filosofia e la morale, ma il rifiuto di queste forme di pensiero non ha natura teoretica ma solo pratica, ideologica, economica, politica, ecc. La nostra posizione anti-nichilistica e fondativa, è semplicemente quella di una ragione umana che desidera capire, cercare cause, aprirsi al trascendente, porre relazioni, mettere ordine alle cose, costruire impalcature all’esistenza (senza cadere certo in un razionalismo che pietrifica la ricchezza dell’anima ed esaurisce il senso del mistero). Il nichilismo contemporaneo è stato preparato da una lotta serrata contro le capacità della ragione di elevarsi oltre il mondano-che-si-vede (la materia) e quindi contro la possibilità stessa della meta-fisica (l’«oltre» della fisica), ormai scarsamente insegnata o confinata in «ontologie regionali». Eppure, dal punto di vista cattolico, il magistero impone obbligatoriamente a tutti, laici e clero, una «solida preparazione filosofica», se si vuole essere competenti anche sul piano culturale!13

3. Magistero e formazione filosofica Se il credente non vuole sminuire la propria fede in «mera declamazione, mistica, sentimento e prassi, si rivela necessario e legittimo l’esercizio della razionalità».14 Scrive un vescovo: «noi abbiamo bisogno di un’ontologia per la teologia»!15 Ma già il Sillabo di Pio IX condannava la pretesa che «la chiesa non deve occuparsi di filosofia»;16 seguito dall’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, che affermava: «non bisogna trascurare gli aiuti naturali benevolmente somministrati agli uomini dalla divina sapienza, tra cui il principale è il retto uso della filosofia, ovvero della ragione, che perfeziona e accresce le potenzialità della fede. Dio manifestò alcune cose divine anche alla ragione, affinché fossero palesi a tutti [...] La filosofia è richiesta affinché la stessa teologia assuma natura e carattere di vera scienza [...] Tocca alla filosofia difendere con cura le verità rivelate e opporsi a coloro che ardiscono confutarle, e per questo motivo è gran vanto della filosofia essere considerata baluardo della religione. La dottrina del Salvatore è certo perfetta in sé, tuttavia la filosofia rende deboli le argomentazioni dei sofisti e vanifica le insidie alla verità, e perciò la filosofia fu chiamata “siepe della vigna” e “trincea di difesa”».17

Cfr. Optatam totius 16, Apostolicam actuositatem 29, CJC 250. I. BIFFI, Cultura cristiana, Milano 1983, p. 104. 15 K. HEMMERLE, Tesi di ontologia trinitaria, Roma 1986, p. 12. 16 DENZINGER 2911. 17 DENZINGER 3135-3138. 13 14


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Teologia e filosofia, fede e ragione, sono due strade complementari di ricerca del vero e di apertura alla totalità del reale, che insieme denunciano sia la negazione di Dio (= ateismo) e sia la negazione dell’essere, della verità, del reale (= varie forme di nichilismo). Ricordiamo queste cose a tutti quei cristiani che, ignorando il Magistero e contagiati dal pensiero debole, non credono più alla forza della ragione naturale (= filosofia), la quale non solo predispone e favorisce l’annuncio della verità cristiana, ma può costituirsi finanche come arma difensiva della fede stessa (Fides et Ratio 38); e si limitano o rifugiano così nella storia, nelle scienze umane, nella sociologia, nella bioetica, nell’ecologia, nella liturgia, nell’assistenza sociale, ecc. Ora, siamo perfettamente coscienti che il cristiano vive nel mondo e deve quindi preoccuparsi anche di questo mondo, come pure siamo coscienti che per salvarsi è sufficiente credere nel Risorto e portare il proprio contributo nell’edificazione della comunità credente, ma rimane in ogni caso ingiustificato il rifiuto della filosofia e l’eccessivo dispendio di energie e preoccupazioni per le cose solo mondane (verso le quali sono magari più competenti altri), non essendo del resto il cristiano (come il suo Signore) «del mondo» (Gv 17,14-16) e non dovendo egli prendersene cura oltre misura, almeno in tutto quello che ha di transitorio, effimero, concupiscibile (Mc 4,19; 1 Gv 2,15): «chi vuole essere amico del mondo si fa nemico di Dio» (Gc 4,4)! Non è forse poi l’intelletto uno dei sette doni dello Spirito (dono evidentemente disprezzato dal fideismo)? Non espose pacificamente Filone d’Alessandria la fede ebraica attraverso la filosofia greca? E non fecero la stessa cosa, con la fede cristiana, Giustino (servendosi dello stoicismo) e molti Padri della Chiesa (servendosi del platonismo)? E non si servirono di Aristotele molti santi medioevali, primo fra tutti il nostro san Tommaso d’Aquino? E non prese tutto quello che di buono offriva la filosofia moderna il beato A. Rosmini nell’esporre la sua teologia, denunciando nel contempo l’ignoranza del clero come una delle «cinque piaghe della santa chiesa cattolica»? Quindi, anche da parte cristiana, è quanto mai legittimo l’uso della filosofia anche in questioni religiose: «la metafisica si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica. Una teologia priva dell’orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l’analisi dell’esperienza religiosa e non permetterebbe alla fede di esprimere con coerenza il valore universale della verità rivelata [...] La metafisica è la strada obbligata per superare la situazione di crisi che pervade oggi grandi settori della filosofia e per correggere così vari comportamenti erronei diffusi nella nostra società [...] Se l’intelligenza della fede vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve ricorrere alla filosofia dell’essere, fondata sull’atto stesso dell’essere che premette l’apertura globale verso tutta la realtà» (Fides et Ratio 83, 97).


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4. Metafisica come apertura al Trascendente «Apertura globale verso la realtà»! Infatti, pur ammettendo che la ragione non può arrivare a Dio o negando validità alle prove della sua esistenza (bastando appunto la fede)18, non si può escludere la possibilità che la filosofia, arrivando a porre dapprima un’idea generale dell’essere, seguita da un essere comune, e infine ponendo un essere sussistente che tolga le contraddizioni del mondo e ogni ruolo fondativo del nulla (= ecco il superamento speculativo del nichilismo), non possa servire (da preziosa «ancella» e «trincea della fede» qual è) come «prefigurazione di quel Tu che la fede chiama Dio Padre».19 Parlando dell’essere, l’uomo fa in qualche modo un’«esperienza trascendentale che è in un certo senso un’esperienza di Dio».20 Secondo Rosmini, l’idea dell’essere innata nell’uomo, gli permette di attingere al divino implicito in quell’idea: «l’uomo si abbevera dapprima alla verità dell’essere, innamorandosi del dolce sapore di questo cibo divino che ispira e alimenta tutto il suo sapere, e dappoi, essendo quell’essere un aspetto dello stesso essere divino, si cimenta nella teologia razionale che tratta dell’essere nella sua assolutezza e pienezza», ragione per cui coloro che «si privano dell’ontologia – la teoria generale dell’essere – lasciando da sola la teologia, cadono in un falso misticismo surrogato dai sogni di un’immaginazione fanatica»!21 Visto Ma dice il Concilio Vaticano I: «Se qualcuno dice che l’unico e vero Dio, signore e creatore nostro, non può essere conosciuto con certezza grazie al lume naturale della ragione, attraverso le cose create, sia anatema [= maledetto, espulso, scomunicato]»! (DENZINGER 3026). E dice il Concilio Vaticano II, riprendendo il Vaticano I e la lettera ai Romani: «Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale dell’umana ragione dalle cose create» (DV 6); e ancora: «l’intelligenza non si restringe all’ambito dei fenomeni, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera certezza» (GS 15). Posizioni queste, che sono già di Sapienza 13: «stolti sono quegli uomini che, dai beni visibili, non riconobbero l’Essere, Coluiche-è, non riconobbero l’artefice, ma considerarono come reggitori del mondo il fuoco, il vento, l’aria, l’acqua e le stelle [...] Ma dalla potenza e bellezza di queste creature, per analogia si conosce l’autore. I cercatori di Dio si lasciarono sedurre dall’apparenza e bellezza delle cose vedute, però non sono scusabili, perché se molto poterono sapere dell’universo, come mai non trovarono presto il Creatore?». 19 J.B. LOTZ, Esperienza trascendentale, Milano 1993, p. 155. Non è detto però, che ogni metafisica trascendentistica, pur essendo compatibile con la fede religiosa, sia poi disposta ad accoglierla effettivamente; come non è detto, d’altra parte, che una metafisica atea o immanentistica, pur essendo direttamente avversaria della fede, non nasconda tuttavia conati di religiosità. Se la vera filosofia – in quanto parla dell’essere e in ultima analisi dell’Essere assoluto – è già un trascendimento del mondo, la fede si pone come un ulteriore trascendimento, poiché apre la porta ad una maggiore qualificazione dell’essere come Rivelatore, Redentore, Salvatore, Amore (tutti contenuti, questi, che non sono razionalmente evidenti ma accolti per fede). 20 B. WEISSMAHR, Teologia filosofica, Cinisello Balsamo 1997, p. 47ss. 21 A. ROSMINI, Teosofia, Milano 2011, p. 269 e 272. 18


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che le strade che portano a Dio sono molte, allora anche la ragione metafisica può essere un valido percorso che predispone alla dimensione del sacro, del divino, del Dio creatore. «Si esce dal nichilismo quando ottiene il suo giusto spazio la domanda del senso della vita personale e universale [...] Nichilistica, è ogni risposta al senso della vita che ne limita il senso stesso alla ragione storica o alla ragione scientifica. Si esce dal nichilismo quando, superato il senso ingenuo di un’esistenza naturalistica, ci si apre a quel mistero di senso assoluto che è vitale per la storia umana».22 L’atteggiamento anti-nichilistico è l’atteggiamento di chi non vuole rassegnarsi alla piccolezza, insignificanza, contingenza, banalità e temporalità della vita (Cfr. 1 Cor 7, per il quale i tempi sono ormai consumati, maturi e opportuni, per cui bisogna vivere e agire in prospettiva escatologica e liberi da preoccupazioni); atteggiamento al quale si sono invece fermati ad esempio tutti gli scienziati atei: «ho sempre pensato di essere insignificante. Conoscendo le dimensioni dell’universo, non faccio che rendermi conto di quanto lo sia davvero! E penso che anche il resto dell’umanità dovrebbe rendersi conto di quanto l’uomo sia insignificante: siamo solo un po’ di fango su un pianeta che appartiene a un sole tra miliardi di altri»!23

5. Definizioni e superamento del nichilismo Ascoltiamo ora come alcune (buone) voci hanno definito il nichilismo. Esso «è la distruzione della ragione come orizzonte e fondamento dell’esistenza [...] Il nichilismo è l’età dello spirito in cui lo spirito è negato»!24 Fides et Ratio (n. 1), dopo aver osservato che è dalle domande sempre emergenti dalla storia dell’uomo, «“chi sono, da dove vengo e dove vado, perché la presenza del male, cosa ci sarà dopo questa vita”, che scaturisce la richiesta di senso che urge nel suo cuore e dalle quali dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza», afferma che molte culture e filosofie hanno oggi «preso congedo dal senso dell’essere», come avviene nel nichilismo, definito come il «rifiuto di ogni fondamento e negazione di ogni verità [...] Il nichilismo è la negazione dell’umanità dell’uomo [...] L’oblio dell’essere comporta la perdita del fondamento su cui poggia la dignità umana» (n. 90). Per R. Guardini «il nichilismo si riferisce ad una situazione spirituale in cui nulla ha più importanza. Si tratta di un’umanità in cui la nullità dell’esistenza arriva alla coscienza e dove si compie un annientamento della vita, nonostante l’uomo continui a vivere [...] Nel nichilismo scompaiono i gran-

A. ARDIGÒ, cit. da B. MONDIN, Filosofia della cultura e dei valori, Milano 1994, p. 227. R. STANNARD, La scienza e i miracoli, Milano 1998, p. 21. 24 K. LÖWITH, Il nichilismo europeo, Bari 1999, p. XII. 22 23


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di sentimenti che giustificano l’esistenza e nascono quelli di disgusto e d’insensatezza».25 Per F. Buzzi, «il nichilismo è la consapevolezza dell’incombenza del nulla, dove l’uomo, svincolatosi da ogni teologia e orgoglioso di essere divenuto maggiorenne, vuole difendere e celebrare il proprio limite fino a negare la propria creaturalità».26 Per G. Samek Lodovici «il nichilismo speculativo è una concezione che afferma l’inesistenza (il non-essere) di certi aspetti dell’essere (compresi i valori) ritenuti erroneamente reali in precedenza; il nichilismo pratico è una prassi di denigrazione o distruzione o indifferenza verso di essi».27 Osservava V. Jankélévitch, che «il nichilista desidera il nulla non come non-essere ma come una forma dell’essere; non come non-senso ma come una forma di senso; non come vuoto, ma come una forma di pienezza: un ordine intelligibile si ricostituisce all’infinito e nell’assurdo»!28 Più che negare l’essere, ci sono in giro dunque delle tipologie di nichilismo che desiderano tuffarsi in qualche modalità dell’essere, non tanto per annientarsi in lui, quanto per ritrovare paradossalmente se stessi ed allontanare quell’angoscia radicale che turba l’uomo fin dal taglio del cordone ombelicale. La vita è lotta per la vita, travaglio di pensiero, ricerca della verità, affermazione del valore. Senza queste tendenze, essa non sarebbe diversa da quella che conduce l’animale e il vegetale, e noi ci sentiamo modestamente superiori ad essi! Solo «la verità rende liberi» (Gv 8,32), e noi non vogliamo essere schiavi di nessuno, né tanto meno di qualche ideologia. Oggi in troppi si accontentano di semplici opinioni e di verità parziali, ma se (solo) queste sono le nuove verità (che farebbero le veci delle vecchie), allora si nega gratuitamente ogni fondazione metafisica del reale (ecco il nichilismo). La filosofia dell’essere, opposta alla filosofia del nulla, critica nel contempo ogni assolutizzazione del mondano, ogni esaltazione della finitezza e della contingenza, ogni negazione della trascendenza, ogni mistificazione dei valori, ogni «perdita della speranza che fa presto cadere nel nulla» (Benedetto XVI, Spe Salvi 2).

6. Precursori del nichilismo Tanto va combattuta questa malattia spirituale dell’uomo (con tutti i suoi vuoti), che non si deve tralasciare nulla d’intentato, specialmente laddove il

R. GUARDINI, Etica, Brescia 2001, p. 1011 e 1015. F. BUZZI, Nichilismo, Milano 1998, p. 23. 27 G. SAMEK LODOVICI, in AA.VV., Una nuova apologetica per un nuovo millennio, Roma 2011, pp. 87-118. 28 V. JANKÉLÉVITCH, Trattato delle virtù, Milano 1987, p. 235. 25 26


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nichilismo si fa subdolo ed agisce in modo nascosto, fecondando e riempiendo di sé molte dottrine qualificabili come precursori o derivati del nichilismo stesso, come ad esempio: agnosticismo (non possiamo conoscere la verità); scetticismo (non ci sono dottrine certe, ma solo opinioni provvisorie); materialismo (negazione di ogni dimensione spirituale della realtà); scientismo (limitazione empirica del sapere, riduzione dell’essere ai fenomeni); ateismo (negazione dell’esistenza di Dio); relativismo etico (negazione di valori forti e riduzione dei principi morali alle scelte individuali)29; filantropismo (l’amore privo di valenza religiosa); laicismo (anticlericalismo); misticismo esagerato (Dio come Nulla ed eccessi della teologia negativa); forme di psicopatologia distruttiva (angoscia, noia, pessimismo, suicidio). Come si vede, le facce del nichilismo sono quanto mai gravi ed hanno ormai intriso la nostra cultura; ma «solo tornando ai valori primari del cristianesimo, gli europei usciranno dall’individualismo, dall’edonismo, dal soggettivismo e dal nichilismo, che sono diventati i principi ispiratori della loro esistenza e che sono nello stesso tempo la causa principale della loro insicurezza, della nausea e della disperazione [...] La nuova cultura europea deve recuperare il valore della verità. Contro il relativismo e il nichilismo moderno essa deve ricreare nell’uomo una nuova fiducia nella ragione e nella sua capacità di attingere la verità, sia essa di natura metafisica, morale o religiosa».30 Da parte sua, la chiesa partecipa attivamente al dibattito in corso, ed è pienamente cosciente della situazione in cui versa l’Europa, quando ricorda «lo smarrimento dell’eredità cristiana, accompagnato da agnosticismo e indifferentismo, per cui molti europei danno l’impressione di vivere senza retroterra spirituale [...] Ne sono segni preoccupanti, tra gli altri, il vuoto interiore che attanaglia molte persone e la perdita di significato della vita [...] Alla radice dello smarrimento, c’è il tentativo di far prevalere un’antropologia senza Dio [...] per cui non c’è da stupirsi se in questo contesto si è aperto un vasto spazio per lo sviluppo del nichilismo in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico e morale, del pragmatismo e dell’edonismo nella vita quo-

29 30

Cfr. il nostro Relativismo morale e teologia del bene, Napoli 2013. B. MONDIN, L’assurdo di un’Europa senza radici, art. cit., p. 145 e 147.


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tidiana».31 O quando afferma che «senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, non interessata a cogliere i valori con cui orientarla».32

7. Conclusioni: il riconoscimento oggettivo del reale Il lavoro che abbiamo svolto nel nostro Teologia del nichilismo (citato in apertura) si è dedicato all’approfondimento di quei concetti che abbiamo sottolineato in questi documenti, dove essi compaiono senza le dovute delucidazioni, rimandate appunto a quel discernimento culturale che è compito di tutti gli uomini teologicamente raziocinanti. J.G. Fichte scriveva: «non bisogna far valere la totalità del mondo e della vita come la vera esistenza, ma bisogna ammettere un’altra esistenza superiore oltre il mondo. Chi disprezza il soprasensibile, o non sa cosa vuole, o disprezza la religione». Se ci si è liberati dalla «prigionia dei fenomeni» e dalla «vita temporale», si è giunti alla religione, «la cui massima è quella di non porre il fondamento del mondo né nel caso (che significa ammetterlo e non ammetterlo!), né nella cieca necessità (che significa ammettere un fondamento inconcepibile e inerte!), né in una causa viva (ma ostile all’uomo e capricciosa), ma nell’esistenza divina, buona, eterna».33 Secondo il beato Rosmini, la riflessione sull’essere (definito nientemeno che «cibo divino»), conduce necessariamente al riconoscimento dell’oggettività del reale (ecco il realismo, tipico della filosofia cristiana), che a sua volta conduce al riconoscimento di quell’Essere Assoluto nel qual l’uomo deve porre il suo fondamento, se vuole evitare ogni deriva nichilista ed agnostica della propria esistenza. Sant’Anselmo d’Aosta affermava che «se qualcuno, per non averne mai sentito parlare o per non volervi credere non ammette l’esistenza di un’unica natura superiore a tutti gli enti [= l’Essere assoluto, Dio], sappia che di ciò può persuadersi con la sola ragione, anche se di modesto ingegno». La questione dell’esistenza di Dio, non è solo una questione di scelta, di fede e di grazia, ma anche una questione di verità che unisce indissolubilmente filosofia e teologia (le «due ali del pensiero», come vuole la Fides et Ratio). Essendo la verità null’altro che l’esplicitazione dell’essere-che-è (sant’Agostino: «la verità è il riconoscimento di quello-che-è»), e in definitiva di quell’essere che è Uno e Assoluto, la questione ultima non è tanto quella di affer-

Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa 7-9. BENEDETTO XVI, Caritas in Veritate 9. 33 J.G. FICHTE, I tratti fondamentali dell’epoca presente, Milano 1999, pp. 356-357. 31 32


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mare o negare Dio (quasi si trattasse di una lotteria o di una convenienza!), ma è quella tra l’esistenza stessa della verità o no! Quindi, dire che «Dio non esiste» o dire che «tutto è nulla», non sono affatto affermazioni che possono avere un valore di verità, ma sono la semplicistica rinuncia ad essa! Il problema della verità, dell’essere, dell’intelligibilità metafisica del reale, del significato del mondo, della fondazione del bene, del senso ultimo della vita, ecc., è risolvibile solo all’interno dello stesso problema dell’essere-che-nonpuò-non-essere (= principio di non contraddizione), e in ultima analisi dell’essere come Essere Sussistente e Personale (che i credenti chiamano Dio).



Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 507-519

PERSONA, BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E INCLUSIONE NELLE SCUOLE AUTONOME CARLO RUBINACCI Dirigente scolastico – Esperto di inclusione nei sistemi educativi SOMMARIO: 1. L’inclusione come cultura e valore. - 2. Inclusione e normalità delle differenze. - 3. La valorizzazione delle diversità degli studenti. - 4. Lo sguardo sulla persona. - 5. Radici e memoria dell’inclusione nelle scuole italiane. - 6. Rifondare un’etica di scuola inclusiva. 7. Piano dell’offerta formativa e Piano annuale per l’Inclusività. - 8. Ruoli e funzioni per l’inclusione. - 9. Per una scuola capace di risposte inclusive. - 10. Inclusione e personalizzazione. - 11. La valutazione come risorsa per l’inclusione. - 12. Considerazioni conclusive.

1. L’inclusione come cultura e valore

L’

inclusione è uno degli strumenti con cui le scuole contribuiscono a rendere militanti i principi di equità e di uguaglianza della nostra Costituzione. Scuole dell’infanzia, primarie, secondarie di primo grado, istituti tecnici, professionali e licei condividono in tal senso una vocazione comune, quella di promuovere l’inclusione intesa come: – sfondo culturale e valoriale del piano dell’offerta formativa, dei comportamenti professionali di tutto il personale della scuola ed anche della corresponsabilità educativa scuola-famiglia-territorio; – impegno instancabile della scuola in qualità di comunità professionale autorevole e credibile, sorretta da un’intelligenza collettiva orientata alla ricerca continua delle condizioni fattibili per progettare, realizzare e monitorare didattiche inclusive per tutti e per ciascuno;1 – opportunità per valorizzare la singolarità, la creatività e il senso di appartenenza degli studenti alla scuola, che dovrebbe essere vissuta come “tirocinio formativo attivo” per l’esercizio dell’autorealizzazione gratificante e della cittadinanza attiva e responsabile; – espressione di sussidiarietà: l’inclusione non rappresenta un impegno che appartiene soltanto alla scuola, ma si propone come ambito di eserci-

1 Per la conoscenza approfondita di percorsi e strumenti didattici/organizzativi per l’inclusione si rinvia a: BOOTH T., AINSCOW M., L’Index per l’inclusione. Promuovere l’apprendimento e la partecipazione nella scuola, Erickson, Trento, 2008.


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zio delle collaborazioni interistituzionali e della solidarietà sociale. Ce lo ricorda a chiare lettere la nostra Costituzione: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118). È questo il principio che conferisce senso ed efficacia ai modelli cooperativi di intervento disegnati nella direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica: le “architetture” istituzionali per la realizzazione dell’inclusione prevedono interazioni e reti tra scuole, Centri Territoriali di Supporto (CTS) e Centri Territoriali per l’Inclusione (CTI) nell’ottica di una sinergia che assicuri una presa in carico trans-istituzionale dei bisogni educativi speciali. L’inclusione diventa così cultura e valore anche per i territori, condizione essenziale per favorire l’inclusione scolastica, che a pieno titolo diventa oggetto di rendicontazione e di bilancio sociale, poiché “la domanda di educazione chiede alla scuola una risposta precisa e impegnativa: che la scuola sia capace di operare come comunità educante, fortificata da riferimenti valoriali autentici e condivisi su cui costruire la propria identità strategica e organizzativa, nel quadro di un’alleanza educativa con tutte le forze sociali e culturali che portano responsabilità in questo importante settore della nostra società”.2

2. Inclusione e normalità delle differenze Un approccio convincente al tema dell’inclusione è rinvenibile in una ricerca svolta congiuntamente dall’Associazione TreeLLLe, dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Giovanni Agnelli: “L’inclusione rappresenta una disponibilità ad accogliere preliminare, si potrebbe dire ‘incondizionata’, in presenza della quale è possibile pensare all’inserimento come diritto di ogni persona e all’integrazione come responsabilità della scuola. Non scatta come conseguenza di qualche carenza, come risposta a provocazioni problematiche, ma costituisce lo sfondo valoriale a priori, che rende possibili le politiche di accoglienza e le pratiche di integrazione. Così intesa, l’inclusione diventa un ‘paradigma’ pedagogico, secondo il quale l’accoglienza non è condizionata dalla disponibilità della ‘maggioranza’ a integrare una ‘minoranza’, ma scaturisce dal riconoscimento del comune diritto alla diversità, una diversità che non si identifica solamente con la disabilità, ma comprende la molteplicità delle situazioni personali, così che è l’eterogeneità a diveni-

PALETTA A., BONAGLIA C., BORACCHI C., PECCOLO L., La scuola rende conto. Idee e strumenti per la costruzione del bilancio sociale, Bruno Mondadori, Milano, 2001, p. 3. 2


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re normalità”.3 L’inclusione, dunque, riguarda tutti gli studenti e non esclusivamente i “casi problematici”: un approccio peraltro coerente con le sollecitazioni rivolte dal Consiglio dell’Unione Europea ai sistemi educativi dei Paesi membri, che sono chiamati a “promuovere approcci all’istruzione efficaci ed inclusivi per tutti gli alunni, compresi quelli con esigenze particolari, trasformando le scuole in comunità di apprendimento in cui sia alimentato il senso dell’inclusione e del sostegno reciproco e siano riconosciuti i talenti di tutti gli alunni”.4

3. La valorizzazione delle diversità degli studenti Progettare una scuola inclusiva significa riconoscere la centralità e la diversità degli studenti nell’elaborazione e nell’attuazione del piano dell’offerta formativa. Oggi i giovani si misurano con i vortici provocati dai mutamenti e dalle incertezze degli scenari sociali, economici e culturali: il rischio è quello di perdersi nella complessità di un mondo non facilmente decifrabile, rispetto al quale si può sperimentare un vissuto di esclusione e di inutilità esistenziale. Anche i sistemi educativi risentono di queste trasformazioni, che comportano una perdita di quei baluardi inespugnabili che erano rappresentati dall’autorevolezza indiscussa delle istituzioni scolastiche e dalla fiducia incondizionata nell’operato dei docenti. Per questa ragione occorre vigilare perché la scuola non rinunci al mandato che la nostra Costituzione ha indicato all’art. 3: “… È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Proprio per dare attuazione al dettato costituzionale, ciascuna istituzione scolastica può far tesoro di quello che ha opportunamente evidenziato la Commissione De Toni: “L’universo giovanile è attraversato da una grande differenziazione di stili cognitivi, motivazioni, livelli di apprendimento, lingue, identità personali, in un politeismo dei valori, generato anche dal superamento delle ideologie e dalla crescita del pluralismo culturale. Per integrare in una visione sistemica questa cultura del frammento, la scuola deve offrire proposte interessanti e anche attraenti che rispondano alla domanda di senso dei giovani, trasmet-

ASSOCIAZIONE TREELLLE, CARITAS ITALIANA E FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI, Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, Erickson, Trento, 2011, pp. 29-30. 4 CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, Conclusioni del Consiglio sulla dimensione sociale dell’istruzione e della formazione, 2010. 3


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tendo saperi e competenze, ma anche aiutandoli a costruire progetti personali di vita e di lavoro coerenti con le loro attese”.5 Inclusione è anche questo: orientare i giovani a vivere nel mondo, a partire dalla valorizzazione delle diversità e dei bisogni educativi di tutti e di ciascuno.

4. Lo sguardo sulla persona Siamo realmente pronti ad accogliere e valorizzare le diversità di tutti i nostri studenti in una scuola realmente inclusiva? Una riflessione utile in tal senso proviene dalle parole di M.Schianchi sulle disabilità: “Da anni studiosi di scienze sociali, e oggi anche la Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, sostengono che la causa iniziale dell’emarginazione di chi è disabile non è l’handicap, la menomazione in quanto tale, ma lo sguardo che posiamo, a livello individuale e collettivo, sulla disabilità. A interporsi tra il disabile e la vita non c’è l’handicap, ma lo sguardo su di esso … La totalità delle persone definisce le persone con un handicap solo attraverso l’handicap stesso, designando la parte per il tutto, e in questo modo le riduce, le offende, le umilia. Meglio usare la parola ‘disabile’, inteso come aggettivo relativo a una persona e non come sostantivo. Benché possa ancora sembrare un termine non particolarmente bello, resta meno marchiante, ed è certo da preferire ad alcune espressioni oggi in voga, un po’ buoniste e compassionevoli come ‘diversamente abile’ (abbreviata in ‘diversabile’) o ‘altrimenti abile’. Le difficoltà rispetto ai termini da adottare sono già un chiaro indice del disagio che emerge quando ci si confronta con questa realtà”.6 Affrontare gli impegni richiesti dall’inclusione richiede la capacità di andare oltre gli stereotipi e i pregiudizi. La riflessione di M. Schianchi ci aiuta ad essere consapevoli del fatto che assumere l’inclusione come sfondo valoriale di riferimento mette inevitabilmente a soqquadro diffusi approcci interpretativi: approcci che tendono a posare lo sguardo sulle persone in base alla cosiddetta “normalità” e che ricorrono ad un uso rigido dei profili diagnostici per riconoscere e comprendere le situazioni problematiche nell’apprendimento e nel comportamento degli studenti. Occorre abbandonare l’attaccamento all’idea di alunno “desiderabile” - che rientra nei parametri della cosiddetta “normalità” - e superare il pregiudizio secondo cui ad occuparsi dei bisogni educativi speciali debbano essere quasi esclusivamente i

COMMISSIONE MINISTERIALE PER LA RIORGANIZZAZIONE DEGLI ISTITUTI TECNICI E PROFESSIONALI, Persona, Tecnologie e Professionalità. Gli Istituti Tecnici e Professionali come scuole dell’innovazione, Documento finale, 3 marzo 2008. 6 SCHIANCHI M., La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà, Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 14-15. 5


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docenti di sostegno, gli esperti e le istituzioni che si occupano del disagio. Come precisa F. Dovigo, “è la cultura (e l’insieme delle microculture che la compongono) a creare quell’insieme di norme più o meno visibili che definiscono la normalità, e così facendo facilitano o impediscono l’accesso a determinati gruppi di persone, trasformando le differenze in devianze”.7 Tale tendenza a definire la persona in base all’idea dominante di normalità, se da un lato può apparire rassicurante nella rappresentazione della realtà scolastica, può condurre ad una lettura riduttiva dei bisogni educativi speciali: si corre il rischio, infatti, di vedere quasi esclusivamente i limiti, le difficoltà, le disabilità, non tenendo conto della totalità della persona e, dunque, delle sue potenzialità e aree di sviluppo. Il problema, pertanto, non è il disturbo del comportamento, la difficoltà di apprendimento, la disabilità, la provenienza culturale e linguistica, ma lo sguardo che poniamo sui bisogni formativi dei singoli, sulle differenze di ciascun allievo, sulla totalità della persona degli studenti. È la ragione per la quale nell’ICF-CY (International Classification of Functioning, Disability and Health – Children and Youth) si precisa che “la disabilità non è la caratteristica di un individuo, ma piuttosto una complessa interazione di condizioni, molte delle quali sono create dall’ambiente sociale”.8

5. Radici e memoria dell’inclusione nelle scuole italiane L’attenzione ai bisogni educativi speciali e all’inclusione nel nostro sistema educativo non rappresenta un fatto recente. Infatti, già nella Relazione della commissione parlamentare sui problemi scolastici degli alunni handicappati (1975), presieduta dall’On. Franca Falcucci, che diventerà poi ministro della pubblica istruzione, si legge quanto segue: “Anche i soggetti con difficoltà di sviluppo, di apprendimento e di adattamento devono essere considerati protagonisti della propria crescita. In essi esistono potenzialità conoscitive, operative e relazionali spesso bloccate dagli schemi e dalle richieste della cultura corrente e del costume sociale. Favorire lo sviluppo di queste potenzialità è un impegno peculiare della scuola”. Due anni dopo, la legge 4 agosto 1977, n. 517 insiste su un’idea di scuola come ambiente educativo di integrazione per tutti gli allievi attraverso le classi aperte, l’articolazione flessibile della/e classe/i, l’interdisciplinarità e l’individualizzazione didattica. L’integrazione diventa, dunque, un requisito irrinunciabile per la formazione armonica della personalità di tutti gli studenti ed è proprio in un contesto 7 BOOTH T., AINSCOW M., L’Index per l’inclusione. Promuovere l’apprendimento e la partecipazione nella scuola, Erickson, Trento, 2008, p. 19. 8 ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ, ICF-CY Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Erickson, Trento, 2007, p. 45.


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attento all’integrazione che si creano le condizioni favorevoli all’apprendimento personalizzato. In tal senso, è utile rammentare quanto precisa, in riferimento all’attuazione della legge n. 517/1977, la circolare ministeriale n. 199/1979: “Le esperienze positive si verificano soprattutto dove la responsabilità dell’integrazione è assunta non dalla singola classe ma da tutta la comunità scolastica. Altro elemento determinante è la precisa individuazione degli handicap veri e propri e dei bisogni educativi specifici dell’alunno. Terza condizione è l’esistenza di insegnanti (congiuntamente di classe e di sostegno) capaci di rispondere ai bisogni educativi degli alunni con interventi calibrati sulle condizioni personali di ciascuno”. E successivamente, la circolare ministeriale n. 250/1985 evidenzia che “dal punto di vista dell’azione educativa che la scuola deve compiere, non ha importanza tanto la classificazione tipologica dell’handicap quanto l’analisi e la conoscenza delle potenzialità del soggetto che ne è portatore e la definizione dei suoi ‘bisogni educativi’”. La legge 5 febbraio 1992, n. 104 rappresenta poi una pietra miliare nel percorso verso l’integrazione scolastica e sociale delle persone con disabilità, in quanto disegna le condizioni finalizzate al superamento degli ostacoli che determinano l’emarginazione e l’esclusione sociale, in ottemperanza all’art. 3 della Costituzione. Tra le modalità evidenziate, ci sono anche quelle che fanno riferimento “all’organizzazione dell’attività educativa e didattica secondo il criterio della flessibilità nell’articolazione delle sezioni e delle classi, anche aperte, in relazione alla programmazione scolastica individualizzata”: un evidente richiamo alla legge n. 517/1977 e, al contempo, una significativa anticipazione dell’art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59 e del Regolamento dell’autonomia scolastica (D.P.R. n. 275/1999). E l’elenco potrebbe continuare con ulteriori riferimenti normativi fino alla legge n. 170/2010 e alle disposizioni applicative: un lungo e ininterrotto cammino verso la ricerca di risposte per assicurare il riconoscimento dei bisogni educativi speciali, la tutela del diritto alla personalizzazione dell’apprendimento e la piena realizzazione dell’inclusione nella vita ordinaria della scuola.

6. Rifondare un’etica di scuola inclusiva La condizione principale per la promozione e lo sviluppo dell’inclusione diventa la cooperazione convinta dei docenti nella realizzazione di un progetto di scuola aperto alla possibilità di pensare per “differenze” (e non per “casi problematici”) - differenze che appartengono a tutti gli studenti - al fine di valorizzare l’unicità e l’irripetibilità della persona di ciascun allievo. In tal modo, la complessità e la pluralità dei bisogni formativi fanno sì che gli studenti stessi diventino risorsa per l’inclusione, specialmente attraverso l’applicazione diffusa dell’apprendimento cooperativo e dell’articolazione flessibile del gruppo classe. L’approccio all’inclusione non può essere allora


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un problema esclusivo del singolo insegnante di classe o del singolo insegnante di sostegno, bensì di natura comunitaria e fondata su un’etica di scuola attenta ai bisogni reali degli alunni: “Cosa facciamo come scuola, come comunità professionale di docenti, come intelligenza collettiva di fronte alle diversità che accogliamo nelle nostre classi?”. Definire e condividere un progetto di scuola inclusiva significa interrogarsi sul contributo e sulla responsabilità che ciascun docente mette in gioco verso obiettivi formativi comuni e condivisi: sono scelte ineludibili nell’approccio all’inclusione e risultano peraltro coerenti con gli impegni richiesti dall’attuazione dell’autonomia scolastica, che “è garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale e si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo, coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento” (art. 1, comma 2 D.P.R. 8 marzo 1999, n. 275).

7. Piano dell’offerta formativa e Piano annuale per l’Inclusività “Si è detto che vi è una sempre maggiore complessità nelle nostre classi, dove si intrecciano i temi della disabilità, dei disturbi evolutivi specifici, con le problematiche del disagio sociale e dell’inclusione degli alunni stranieri. Per questo è sempre più urgente adottare una didattica che sia ‘denominatore comune’ per tutti gli alunni e che non lasci indietro nessuno: una didattica inclusiva più che una didattica speciale”.9 Ciò comporta in primis l’ideazione, la progettazione e la realizzazione di un piano dell’offerta formativa esplicitamente ed efficacemente orientato all’inclusione. Le scelte e le decisioni che caratterizzano la vita della scuola (curricolari, extracurricolari, gestionali ed organizzative, finanziarie eccetera) - nel rispetto delle specifiche competenze e responsabilità dei soggetti e degli organi coinvolti dovranno essere ripensate e rifondate per attivare tutte le risorse disponibili verso l’inclusione: “La scuola è inclusiva quando sa accogliere tutte le diversità e riformulare a tal fine le proprie scelte organizzative, progettuali, metodologiche, didattiche e logistiche”.10 9 Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012: Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica. 10 ASSOCIAZIONE TREELLLE, CARITAS ITALIANA E FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI, Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte, Erickson, Trento, 2011, p. 29.


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Inoltre, la circolare ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013, tra le indicazioni operative per l’attuazione della direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012, individua nel Piano Annuale per l’Inclusività (PAI) una delle azioni strategiche delle scuole per la valorizzazione dei bisogni educativi speciali e la promozione dell’inclusione. Il PAI è parte integrante del Piano dell’offerta formativa (POF): non può e non deve trasformarsi in un ulteriore adempimento burocratico delle scuole. Si tratta sostanzialmente di definire in modo chiaro gli impegni che la scuola si assume per passare dalle parole ai fatti in materia di inclusione. In tal modo, il POF e il PAI rappresentano la cornice di riferimento per l’elaborazione del Piano Educativo Individualizzato (PEI) e del Piano Didattico Personalizzato (PDP): questo al fine di evitare frammentazione, sovrapposizione e dispersione di interventi ed energie.

8. Ruoli e funzioni per l’inclusione In concreto, spetta al consiglio d’istituto valorizzare l’inclusione come uno degli indirizzi generali per le attività della scuola e delle scelte generali di gestione e di amministrazione (da definire ai sensi dell’art. 3, comma 3 del D.P.R. n. 275/1999), di cui deve tener conto il collegio dei docenti chiamato all’elaborazione del piano dell’offerta formativa, che “esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia”. Progettazione che deve risultare esplicitamente orientata a farsi carico dei bisogni educativi speciali e dell’inclusione: questo comporta nel piano dell’offerta formativa la descrizione delle didattiche inclusive e dei modelli cooperativi d’intervento che le scuole intendono adottare - come assunzione d’impegno da parte di tutti i docenti e non dei “soliti noti” di buona volontà - in modo particolare a favore degli allievi con disabilità, con disturbi specifici dell’apprendimento, con lingue e culture non italiane. Questo significa che l’inclusione non è uno dei progetti della scuola, bensì un progetto di scuola: l’inclusione diventa così connaturata all’identità culturale e progettuale delle istituzioni scolastiche. Per questa ragione, i consigli d’intersezione, d’interclasse e di classe hanno la funzione di dare vita ad una progettazione di scuola inclusiva, avvalendosi soprattutto del lavoro di équipe verso un team teaching strutturato intenzionalmente per consentire a ciascun allievo di esprimere la migliore edizione di sé. Non sono da meno i dipartimenti, che nelle loro diverse articolazioni hanno il compito di far sì che – nel rispetto della pari dignità delle discipline – le attività di insegnamento siano calibrate sulla valenza inclusiva dei saperi, in modo tale che le conoscenze e le competenze che gli alunni devono costruire contribuiscano a promuovere la cittadinanza e l’inclusione. Una valida indicazione in tal senso viene offerta dalle Linee guida per l’attuazione dell’Obbligo di istruzione (decreto ministeriale


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n. 139 del 22 agosto 2007), soprattutto laddove si evidenzia il fatto che gli assi culturali rappresentano la trama su cui si definiscono le competenze chiave per la cittadinanza attiva (imparare ad imparare, progettare, comunicare, collaborare e partecipare, agire in modo autonomo e responsabile, risolvere problemi, individuare collegamenti e relazioni, acquisire ed interpretare l’informazione): l’attenzione alla costruzione delle competenze di cittadinanza dalla scuola dell’infanzia all’istruzione secondaria superiore rappresenta, pertanto, un impegno ineludibile per lo sviluppo di ambienti di apprendimento inclusivi. Infine, la regia di un contesto così complesso appartiene al dirigente, che è chiamato a svolgere una funzione dirompente nella gestione delle innovazioni che un’inclusione reale - e non semplicemente dichiarata - richiede.

9. Per una scuola capace di risposte inclusive Come spiega D.Ianes, “il Bisogno Educativo Speciale è qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e/o apprenditivo, che consiste in un funzionamento (frutto dell’interrelazione reciproca tra i sette ambiti della salute secondo il modello ICF dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale individualizzata”.11 Si tratta di una concettualizzazione finalizzata a superare il rischio di un uso rigido e stabile dei profili clinico-diagnostici e a promuovere la fiducia nelle possibilità e nella partecipazione attiva degli alunni con bisogni educativi speciali alla vita della scuola. Peraltro, la direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 sottolinea opportunamente che “il modello ICF consente di individuare i Bisogni Educativi Speciali (BES) dell’alunno prescindendo da preclusive tipizzazioni. In questo senso, ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. Va quindi potenziata la cultura dell’inclusione, e ciò anche mediante un approfondimento delle relative competenze degli insegnanti curricolari, finalizzata ad una più stretta interazione tra tutte le componenti della comunità educante”. Coerentemente con le tre grandi categorie sovranazionali individuate dall’Ocse nel definire i BES (Special Educational Needs), la sopracitata direttiva si sofferma sulle disabilità, sui disturbi evolutivi specifici e sullo svantaggio socio-eco-

IANES D., CRAMEROTTI S., a cura di, Usare l’ICF nella scuola. Spunti operativi per il contesto educativo, Erickson, Trento, 2011, p. 149.

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nomico, linguistico, culturale. Ma non solo: prende in considerazione anche le situazioni di quegli alunni, per i quali - pur non ottenendo la certificazione ai sensi della legge n. 104/1992 – “è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”, ai sensi della legge n. 53/2003 (piani di studio personalizzati) e della legge n. 170/2010 (misure educative e didattiche di supporto): “Possiamo cominciare a prefigurare e ad ipotizzare una scuola comune capace di dare risposte specializzate. A questo risultato si può giungere non solo liberando gli interventi speciali dal condizionamento della vincolante certificazione dell’handicap, ma considerando normali e rivolti a tutti i ragazzi quegli interventi particolarmente qualificati”.12 Un’eterogeneità che diventa normalità, non disuguaglianza ed esclusione. Per questa ragione, occorre soffermarsi sulla costruzione di un curricolo aperto all’inclusione e alla personalizzazione didattica.13

10. Inclusione e personalizzazione “Un punto fermo sarà rappresentato dalla capacità di ridurre drasticamente le discriminazioni sociali rispetto all’istruzione, ossia dalla capacità di rendere i sistemi scolastici equi e giusti … i servizi scolastici pubblici, statali o paritari che siano, avranno una ragione d’essere in futuro solo e soltanto se riusciranno a eliminare tali discriminazioni”.14 Così N.Bottani sottolinea il ruolo che compete ai sistemi educativi: equità e qualità devono rappresentare un binomio inscindibile per coloro che si occupano di politiche dell’istruzione. La personalizzazione dell’apprendimento e dell’insegnamento è considerata un’opportunità da privilegiare per assicurare equità e qualità della formazione, che rappresentano le caratteristiche irrinunciabili di un ambiente educativo connotato dall’inclusione. Numerose attività di studio e di ricerca convengono sul fatto che l’ambiente più adatto alla personalizzazione sia quello cooperativo: “l’interdipendenza positiva è l’essenza dell’apprendimento cooperativo; gli studenti devono capire cosa significa ‘uno per tutti e tutti per uno’. Altri elementi base dell’apprendimento cooperativo sono la responsabilità individuale (ogni studente è responsabile sia di apprendere il materiale assegnato, sia di aiutare gli altri ad apprendere), l’interazione costruttiva che promuova il successo di tutti, l’uso appropriato di

12 Per lo studio e l’approfondimento di modalità operative d’intervento si rinvia a: IANES D., CRAMEROTTI S. (a cura di), Alunni con BES. Indicazioni operative per promuovere l’inclusione scolastica sulla base della DM 27/12/2012 e della CM n. 86/3/2013, Erickson, Trento, 2013. 13 MONTUSCHI F., Fare ed essere. Il prezzo della gratuità nell’educazione, Cittadella, Assisi, 2002, p. 176. 14 BOTTANI N., Requiem per la scuola? Ripensare il futuro dell’istruzione, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 11.


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abilità interpersonali e di piccolo gruppo e infine la capacità di valutare il funzionamento effettivo del gruppo. La ricerca ha ampiamente dimostrato che la cooperazione produce negli studenti un maggiore impegno e migliora le loro relazioni interpersonali e il loro benessere psicologico, molto più di quanto non facciano i metodi competitivi o individualistici ... L’uso del metodo cooperativo in classe richiede uno sforzo disciplinato: non è facile, ma ne vale la pena”.15 Occorre far sì che gli alunni possano collaborare tra loro per costruire le conoscenze e le competenze, avvalendosi di modalità diversificate di apprendimento, supportarsi reciprocamente e agire in autonomia: insegnare agli studenti a “dirigere” il proprio apprendimento e dunque ad imparare ad imparare, condizione essenziale per il lifelong learning, è un compito nobile e indifferibile per tutti i docenti. Inoltre, in un contesto favorevole allo sviluppo dell’apprendimento cooperativo, dell’autonomia degli alunni e dell’inclusione, i docenti possono approfondire la conoscenza dei singoli allievi, cogliere le loro “vocazioni”, difficoltà e aspettative: possono, pertanto, personalizzare gli interventi formativi. Come sostiene D.Hopkins, l’idea di apprendimento personalizzato “richiede che l’organizzazione scolastica, d’un lato, sia predisposta in funzione dei bisogni, degli interessi e delle attitudini dei singoli studenti e che, dall’altro lato, l’insegnamento sia modellato in relazione ai vari modi in cui l’apprendimento viene realizzato … l’apprendimento personalizzato rappresenta uno degli snodi più significativi dell’attuale dibattito educativo e scolastico. Esso offre una via di uscita per affrontare la questione dello svantaggio e per porre ogni allievo nella condizione di realizzare tutto il suo potenziale … Generalizzare le migliori pratiche di apprendimento personalizzato costituisce uno degli obiettivi più importanti per l’educazione del nostro tempo”.16 Personalizzare gli apprendimenti richiede almeno cinque aspetti, come spiega D.Miliband: 1) la conoscenza reale dei punti di forza e di debolezza di ciascun alunno; 2) il riconoscimento delle intelligenze multiple e il coinvolgimento motivazionale degli alunni perché imparino a gestire gli apprendimenti e ad assumersene la responsabilità; 3) l’offerta di un ampio ventaglio di itinerari formativi affinché gli alunni siano stimolati a scegliere le opportunità di arricchimento; 4) un’organizzazione scolastica centrata sui bisogni degli allievi: dunque, un’etica della scuola in cui i docenti e i dirigenti condividono l’orientamento a migliorare la qualità e l’equità dell’offerta formativa; 5) il sostegno della comunità locale all’operato della scuola. Occorre allora permeare di inclusione gli ambienti di apprendimento, i linguaggi della scuola, gli strumenti JOHNSON D.J., JOHNSON R.T., HOLUBEC E.J., Apprendimento cooperativo in classe. Migliorare il clima emotivo e il rendimento, Erickson, Trento, 1996, pp. 160-161. 16 CERI e OCSE, Personalizzare l’insegnamento, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 10. 15


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di lavoro e i contenuti, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Il Piano Scuola Digitale rappresenta un’altra opportunità per trasformare la realtà scolastica in un laboratorio per l’innovazione, funzionale a facilitare la personalizzazione didattica, l’apprendimento cooperativo ed un’efficace presa in carico dei bisogni educativi speciali, nell’ottica di una scuola sempre più accogliente ed inclusiva. Non si può fare a meno di rilevare che proprio nel Regolamento dell’autonomia (D.P.R. n. 275/1999) c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno per realizzare la personalizzazione e l’inclusione: un’autonomia, purtroppo, che resta ancora incompiuta.

11. La valutazione come risorsa per l’inclusione La progettazione e la realizzazione dell’inclusione richiedono una raccolta rigorosa di dati e informazioni attendibili per una valutazione del suo stato di avanzamento e per la pianificazione delle azioni di miglioramento: la conoscenza affidabile, approfondita e continuamente aggiornata dello stato di attuazione delle pratiche inclusive costituisce, infatti, una condizione ineludibile per la promozione e lo sviluppo delle innovazioni. In tale direzione di senso, il Regolamento del Sistema nazionale di valutazione (D.P.R. n. 80/2013) prevede un articolato procedimento - autovalutazione delle istituzioni scolastiche, valutazione esterna, azioni di miglioramento, rendicontazione sociale delle istituzioni scolastiche - che potrebbe supportare le scuole nell’assunzione delle decisioni didattiche ed organizzative favorevoli ad uno sviluppo efficace dell’inclusione a livello d’istituto, nella consapevolezza che “perseguire un’alta qualità organizzativa, didattica, culturale e perciò formativa della scuola è impossibile senza un controllo continuo, un monitoraggio delle più importanti variabili quali-quantitative che nei processi di formazione entrano in campo, al fine di ri-orientare strategie e tattiche, procedure e risultati a livello di macro e di microsistema”.17 Per quanto riguarda poi gli apprendimenti, la valutazione deve fondarsi sulla convinzione che ciascun alunno possa migliorare: per questa ragione, la valutazione ha la finalità di assicurare interventi didattici capaci di promuovere l’apprendimento, di valorizzare le diversità e i bisogni educativi speciali degli studenti come risorse e non come ostacoli per l’apprendimento, di offrire un feedback efficace in modo tale che gli studenti siano protagonisti responsabili della costruzione di conoscenze e competenze in un contesto inclusivo. La valutazione per l’apprendimento si rivela, pertanto, uno struDOMENICI G., a cura di, Progettare e governare l’autonomia scolastica, Tecnodid, Napoli, 1999, p. 15. 17


Persona, bisogni educativi speciali e inclusione nelle scuole autonome

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mento per assicurare l’individualizzazione e la personalizzazione, poiché incide positivamente sui livelli motivazionali e di autostima degli studenti, li incoraggia a condividere con i docenti gli obiettivi di apprendimento e le strategie per il miglioramento continuo: “I buoni insegnanti sanno che è così. Conoscono l’importanza dell’incoraggiamento e del senso di auto-realizzazione. Conoscono l’effetto deleterio che anche un commento informale in fondo a un compito può avere. Si sforzano di creare un clima positivo di apprendimento per i propri allievi”.18 È così che la valutazione entra a far parte a pieno titolo dei processi di insegnamento-apprendimento, aiutando docenti e allievi a riflettere con un approccio critico sui progressi compiuti, ma soprattutto per chiarire agli studenti quali siano gli obiettivi da raggiungere e che cosa fare per raggiungerli, fornendo loro adeguate strategie per l’autovalutazione in armonia con gli stili di apprendimento adottati e coinvolgendoli attivamente, agendo soprattutto sulla loro motivazione e fiducia in sè per aiutarli ad essere alunni più impegnati e più efficaci.

12. Considerazioni conclusive “La scuola dovrebbe sviluppare nei giovani quelle qualità e quelle capacità che rappresentano un valore per il benessere della comunità … l’obiettivo deve essere l’educazione di individui che agiscano e pensino indipendentemente, i quali, tuttavia, vedono nel servizio alla comunità il loro più alto problema di vita”.19 In queste parole di A.Einstein possiamo rinvenire l’essenza dell’impegno delle scuole per l’inclusione. Le difficoltà non mancano, ma non è un motivo per “gettare la spugna” e dire che la personalizzazione e l’inclusione sono inattuabili se mancano le risorse umane, finanziarie eccetera. Valorizzare pienamente le risorse umane e professionali disponibili e costruire modelli cooperativi di intervento sono azioni strategiche che vale la pena implementare. Avere fiducia nella scuola, nei docenti e nei dirigenti ancor di più. Come afferma D. Antiseri, “Goethe ha ancora ragione: ‘Nulla è più funesto dell’ignoranza attiva’. E se all’ignoranza si aggiungono arroganza e irresponsabilità, la tragedia è assicurata. Per tutto ciò schierarsi dalla parte della funzione sociale e dell’impegno formativo degli insegnanti vuole essere un segno di speranza nel futuro di una comunità più libera, più operosa, più inclusiva ed accogliente”.20

18 WEEDEN P., WINTER J. E BROADFOOT P., Valutazione per l’apprendimento nella scuola. Strategie per incrementare la qualità dell’offerta formativa, Erickson, Trento, 2009, pp. 31-32. 19 EINSTEIN A., Pensieri degli anni difficili, Einaudi, Torino, 1965, p. 79. 20 ANTISERI D., Dalla parte degli insegnanti, La Scuola, Brescia, 2013, p. 20.



Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 521-532

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UNA PEDAGOGIA DELLA LIBERTÀ IL CARME “AD ASTROLABIUM FILIUM” DI ABELARDO ANTONIO GENTILE Docente a contratto (Università “Federico II” - Napoli) SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. I contrasti del XII secolo e la figura di Pietro Abelardo. - 3. Un carme per educare alla libertà. - 4. L’etica dell’intenzione. - 5. Insegnamento e apprendimento. - 6. Conclusione.

1. Introduzione

P

uò sembrare del tutto gratuito rispolverare un autore del XII secolo, Pietro Abelardo, e curiosare tra le righe di un suo scritto, per altro minore, il Carmen ad Astrolabium filium. Eppure, avendo questo piccolo testo fra le mani, ci si accorge che vale la pena perderci sopra un po’ di tempo. Leggendolo si può constatare come una linea di verità è sempre presente nella storia, una linea che supera i vari momenti culturali, e che ritorna nel tempo degli uomini per ribadire, pur nella diversità dei linguaggi, l’irriducibile diritto di ognuno ad essere se stesso. Una verità non facile da gridare quando, in pieno secolo XII, i grandi cambiamenti in atto nel cuore dell’Europa cristiana spingevano illustri maestri a sostenere che lo status quo era il migliore stato possibile e che la norma, e la sottomissione ad essa, erano garanzia di benessere e di pace sociale. Una verità non facile da gridare nemmeno oggi quando, mentre da un lato si afferma il diritto ad ogni possibile libertà, dall’altro si lavora a un processo di totale omologazione, per cui resta difficile dissentire da un pensiero comune, rompere con gli schemi culturali di riferimento. Il carme in esame, sottaciuto e trascurato dalla cultura dell’epoca, si presenta apparentemente come una raccolta di massime di vita, un modello letterario tipico del tempo; uno scritto didascalico, a tratti ripetitivo, senza alcuna particolare valenza poetica, comunque molto lontano dalla ricchez-


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za, vivacità e irruenza degli altri scritti dell’autore. Ma proprio in questo sta la sua originalità: far trasparire, fra le tenebre di un pensiero comune, spiragli di luce nuova; ogni tanto un verso, alcuni versi, come frecce scagliate in mezzo alla pedissequa e opaca sequela dei moniti. È come se negli ultimi giorni della sua vita, vissuta all’insegna dell’eterodossia, Abelardo, stanco di gridare una verità in contrapposizione a quella dei grandi maestri del tempo, fiaccato dalle condanne e dalle continue richieste di abiura, avesse voluto riconciliarsi con la cultura cristiana del tempo, senza togliersi però la possibilità di sussurrare al figlio le verità nelle quali aveva sempre creduto e per le quali aveva sempre lottato.

2. I contrasti del XII secolo e la figura di Pietro Abelardo Il XII secolo presenta agli occhi dello storico i segni di un’epoca nuova. Più fatti concorrono a determinare mutamenti inaspettati quanto ineludibili, che finiscono col segnare il volto della società.1 Si dilatano gli spazi riservati alla cultura, si amplificano le articolazioni delle attività intellettuali, per cui lo scriptorium dell’abbazia cessa di essere l’unico centro sicuro di lavoro letterario, come il monaco amanuense cessa di essere la principale colonna del sapere.2 Si assiste al rifiorire delle vecchie scuole monastiche, ma soprattutto al sorgere delle nuove scuole vescovili e capitolari, e più tardi al formarsi delle prime Università. Pur permanendo forte il legame con il trascendente, si accentua il bisogno di purificarlo, si impone la necessità di una più approfondita conoscenza del mondo, di una ricerca più critica della verità. A queste nuove esigenze risponde una nuova figura di intellettuale, quella del magister, chiamato all’insegnamento dal vescovo o dai capitoli, non tanto in forza di un suo ruolo ecclesiastico, ma sulla scia della sua fama di conoscenze. È intorno a questa figura, al suo metodo di insegnamento, che le diverse scuole si sviluppano e si caratterizzano, assumendo una propria fisionomia che diventa il proprio marchio di riconoscimento.3 Questo bisogno di cambiamento investe anche la vita interna della chiesa. Siamo nel pieno sviluppo della «riforma gregoriana», avviata nella prima metà del secolo precedente. Già da tempo, soprattutto presso i grandi mona-

1 Scrive Le Goff: «Quella che chiamiamo rinascita del XII secolo, di cui Abelardo è stata una polena, non è un semplice ritorno all’Antichità. È audacia, invenzione, creazione» (J. LE GOFF, Cinque personaggi del passato per il nostro presente, (trad. it. di F. Sircana), Ibis, Como 2002, p. 33). 2 A. H. L. FISHER, Storia d’Europa, vol. I, (trad. it. di A. Prospero), Laterza, Bari 1973, p. 270. 3 Cfr. J. VERGER - J. JOLIVET, Bernardo e Abelardo. Il chiostro e la scuola, (trad. it. di M. R. Pecorara Maggi) Jaca Book, Milano 2002, pp. 37-96.


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steri, era iniziato un cammino di riforma e di conversione verso ideali di piena renovatio, un cammino, a volte segnato da inevitabili momenti di radicalizzazioni e di protesta, che avrebbero prodotto forme diversificate di spiritualità e di modelli di vita, spesso in contrapposizione al clero secolare e alle sue istituzioni. Sulla scia di questo bisogno di purificazione sorgono alcune figure di riformatori convinti di dover difendere la chiesa da qualunque voce potesse turbarne il cammino di rinnovamento interiore, soprattutto quelle voci espressione di una cultura laica capace di accattivarsi gli animi delle nuove generazioni.4 La preoccupazione dei riformatori non riguarda soltanto l’integrità della dottrina, ma soprattutto l’integrità di un modello di vita. Mettere in crisi la supremazia sovrarazionale della fede, sottoponendo la teologia al metodo della dialettica profana, avrebbe potuto significare invalidare sul piano speculativo, ma di riflesso su quello esistenziale, quell’ordine di valori fondato sui canoni della tradizione ecclesiastica, sui quali si era retto lo stesso vivere civile. Il dubbio è legittimo dal momento che le nuove scuole, Reims, Laon, Parigi, Chartres, spesso fuori da ogni controllo istituzionale, favoriscono a volte, con continue diatribe, un clima quasi di rivolta sociale. Malgrado questa forte spinta alla difesa della più pura ortodossia, nulla riesce a frenare lo slancio di ricerca e la voglia di indagine delle menti più aperte. Aristotele viene accettato sempre più facilmente mentre Platone passa in secondo ordine; si sviluppa una grande fede nella dialettica e nel ragionare sillogistico, mobilitato per dimostrare razionalmente i dogmi, almeno fin dove il dogma non renda troppo pericolosa l’indagine. È la linea che emerge dalle opere, ma ancor più dalla vita di Abelardo: la ricerca, per essere proficua, deve «sottrarsi, sia nell’ambito delle discipline umano-filosofiche che nella sfera ben più rilevante della problematica religioso-teologica e della fides, ai condizionamenti delle chiuse ed immobili strutture culturali e delle rigide concezioni tradizionali per aprirsi ad una nuova ed autonoma via, esprimente una nuova concezione speculativa».5 Nel complesso universo culturale del XII secolo, la figura di questo pensatore, mentre rappresenta l’aspirazione di fondo dell’epoca, si pone, per più aspetti, in evidente contrasto col quadro storico-culturale del suo tempo e in generale al di fuori degli schemi standardizzati della tradizione medioe-

4 Cfr. S. BERNARDO, Sermoni sul cantico dei cantici in Opere di S. Bernardo, (trad. it. di A. Stendardi) Città Nuova, Roma 2006, vol. 5, tomo 1; E. FRANCESCHINI, S. Bernardo e il suo secolo, Vita e Pensiero, Milano 1954. 5 A. CROCCO, Abelardo. L’altro versante del Medioevo, Liguori, Napoli 1979, p. 7.


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vale. Bernardo di Chiaravalle non ha difficoltà, infatti, a far condannare, per ben due volte, gli scritti di Abelardo: nel 1121 a Soissons e nel 1141 a Sens. L’interesse di Abelardo non si limita soltanto alla filosofia e alla teologia; il vigore del suo pensiero riesce assai facilmente a varcare i confini di queste discipline e calarsi nella realtà degli uomini del suo tempo. Si fa perciò pedagogo perché a tutti deve essere data la possibilità di incontrarsi col vero dal momento che tutti sono capaci di apprenderlo. Esiste infatti per Abelardo «un sapere fondamentale comune agli uomini di tutti i tempi, di tutte le religioni, di tutte le razze, ma tutti gli uomini, tutti recanti un sigillo divino, una ragione, una libertà ugualmente concessa da natura».6 Spinto da questa convinzione di fondo, che si snoda lungo tutta la sua vita come una vera e propria vocazione, lascia la sua famiglia, il suo mondo, rompe con le strutture sociali del proprio tempo, per catapultarsi nella piena fioritura delle scuole urbane.7 Nato nel castello di Palais o Pallet nel 1079, figlio di un nobile cavaliere bretone, Berengario, vassallo del duca di Bretagna, gli viene dato il nome di Pietro al quale si aggiunse come patronimico quello di Abelardo. Dopo essere stato a Parigi, alunno di Guglielmo di Champeaux, fonda a soli venti anni la sua prima scuola a Melun, per passare a Corbeil e poi nuovamente a Parigi. Seguito da una folla innumerevole di discepoli insegna nelle scuole più prestigiose del suo tempo e altre ne crea dove ha per discepoli giovani che avrebbero di lì a poco ricoperto ruoli di notevole importanza, soprattutto all’interno della chiesa. Alla scuola di Notre-Dame di Parigi incontra come alunna Eloisa, incontro che si rivelerà col tempo tanto ricco di sentimenti e di passione, quanto drammatico, determinando la svolta più importante della sua vita.8 Ma nemmeno questa vicenda fermerà la sua sete di ricerca e di insegnamento. Ritiratosi, dopo l’umiliazione inflittagli dallo zio di Eloisa con l’evirazione, nell’abbazia di Saint-Denis, riprenderà a insegnare trasformando in scuola un piccolo eremo presso Provins e dando vita al suo metodo fondato sull’applicazione dei canoni della dialettica alla teologia. Ritornerà successivamente a Parigi aprendo una nuova scuola sulla collina di Saint Geneviève e da lì, dopo ulteriori peregrinazioni, si rifugerà a Cluny dove finirà i suoi giorni confortato dalla stima e dall’amicizia dell’abate Pietro il Venerabile.9

La filosofia del medioevo, Einaudi, Torino 1966, p. 167. Cfr. P. ABELARDO, Historia calamitatum, (Studio critico e traduzione italiana di Empireo, Napoli 1968, cap. I, pp. 23-24. 8 Cfr. Ivi, cap. V, p. 47. 9 PETRI VENERABILIS, Ep. XXXI, P. L. 189, 351-352. 6 7

E. BREHIER,

A. CROCCO)


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Questo continuo girovagare, che per alcuni è visto come prova dell’instabilità del suo carattere, per altri è il segno più eloquente del superamento dell’immobilismo feudale insieme alla ricerca di un proprio equilibrio interiore.10 Sulla funzione di maestro, ampiamente testimoniata dai suoi contemporanei,11 Abelardo concentra tutto il suo impegno, al punto tale che le stesse sue opere sono pensate e scritte per essere delle lezioni. «Composi (…) ad uso dei miei studenti, che reclamavano ragioni umane e filosofiche; insomma volevano cose che si potessero comprendere, e non semplicemente dire».12 Il suo metodo, che farà scuola, si struttura sulla raccolta dei dati concernenti la questione affrontata, per passare al confronto e alla contrapposizione dialettica delle tesi contrarie e a favore, per arrivare alla sentenza finale. Non più quindi l’autorità indiscussa del maestro, ma l’uso speculativo della ragione; la prima serve spesso solo a nascondere la vacuità dei contenuti come lo stesso Abelardo afferma di aver sperimentato col suo vecchio maestro Anselmo di Laon: «Era simile a un fuoco che quando si accende, invece di illuminare la stanza ti riempie di fumo o come un albero che da lontano, a causa di un gran numero di foglie, ti sembra maestoso e carico di frutti, ma da vicino, se lo guardi bene, scopri che non ne ha neanche uno. Io mi ero accostato a quest’albero per raccogliere qualche frutto, ma capii che era come il fico sterile maledetto dal Signore».13

3. Un carme per educare alla libertà Il carme Ad Astrolabium filium,14 composto da Abelardo molto probabilmente a Cluny, intorno al 1141-42, pochi mesi prima della sua morte, trova la sua ragion d’essere proprio come esplicita e personale dichiarazione della sua sete di libertà e della sua fede nell’uomo, ma insieme come strumento per esternare la sua identità più profonda: quella di maestro che invita a

Cfr. M. D. CHENU, Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, Jaca Book, Milano 1991, p. 75. 11 Così lo ricorda Giovanni di Salisbury: «Chiaro Maestro, fra tutti ammirabile e sommo: ai suoi piedi ricevetti i primi insegnamenti di logica e assorbii con passione tutto ciò che veniva dalla sua bocca» (Metalogicon, P. L. 192, 867). 12 P. ABELARDO, Historia calamitatum, op. cit., cap. VI, pp. 71-72. 13 Ivi, cap. III, p. 37. 14 Nel presente lavoro il testo del carme usato è il manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi, riportato in M. B. HAURÉAU, Notices et extraits des manoscriptis de la Biblioteque National, Paris 1893, tomo XXXIV, parte II, pp. 157 - 186, col titolo P. Abelardi, Carmen ad Astrolabium filium. I versi citati in italiano, secondo una nostra traduzione, fanno riferimento all’edizione cui sopra. 10


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riflettere «sulla ricerca e sul dubbio, sull’uso e la funzione del linguaggio, sull’intenzione e la condotta esterna dell’uomo».15 Lo stile semplice e familiare, il destinatario, la “vis” affettiva, mentre testimoniano l’interesse e l’amore dell’autore per quanto va dicendo, contemporaneamente pongono il tutto al di fuori e al di sopra delle contese dottrinali e ideologiche del tempo, con le quali pure si incrocia attraverso il richiamo alle altre sue opere, che di tanto in tanto affiora nel testo. L’opera, a carattere didascalico ed indirizzata al figlio avuto da Eloisa, ripropone alcuni temi cari all’autore, riprendendo citazioni indirette della Scrittura, massime della tradizione patristica, detti in uso nelle Scuole, momenti della propria vita. Non c’è uno schema continuo né una articolazione del contenuto, solo dei nuclei più o meno ampi senza uno sviluppo logico. Esiste però una specie di leitmotiv: la visione dell’uomo come un essere libero e aperto al sapere, desideroso di conoscere la verità, proteso a raggiungere la saggezza. A quest’uomo l’autore si rivolge ricordandogli innanzitutto che la saggezza non è tanto una dote innata, quanto una qualità che si acquista con l’esperienza. «Nessuno diventa sapiente per l’acume di un grande ingegno ma piuttosto per una sana esperienza di vita».16 Una qualità ben diversa dall’ingegno, la quale prescinde dal livello di studi raggiunto o dalla quantità di informazioni accumulata, indispensabile a tutti gli uomini per vivere bene ma soprattutto a quelli che hanno responsabilità di governo «Un re stolto è un asino che vale per il diadema che porta; egli costituisce un pericolo per se stesso e per tutti».17 Un uomo avviato alla ricerca della Verità, è un uomo che mette a frutto il dono più grande che ha ricevuto da Dio e cioè la sua ragione. Abelardo dedica ampio spazio nelle sue opere maggiori a dimostrare il valore della ragione umana e del suo impiego nella ricerca della verità; ma nel carme gli preme sottolineare come questa si misura sulle scelte di vita, traendo conferma dall’esperienza e non da presupposti teorici, e lo fa invitando Astrolabio a riflettere, tra l’altro, sull’uso della religione. Incomincia parlando di Dio in termini teologicamente noti e comuni: «Solo Dio è degno di essere adorato perché egli è l’unica autorità che sia di per sé adorabile dai suoi fedeli».18 In linea con l’insegnamento della Chiesa cattolica lo presenta come un Dio giusto e provvidente, che dà agli uomini una sua legge alla quale ubbidire anche se in contrasto con le autorità di questo mondo. «Sappi che si devono discutere gli ordini del potere terreno, quelli celesti

P. Abelardo. Insegnamenti al figlio, Armando, Roma 1993, p. 16. Vv. 55 - 56. 17 Vv. 65 - 66. 18 Vv. 965 - 966 15 16

G. BALLANTI,


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devi eseguirli subito. Se ti si ordina qualcosa contro i comandamenti di Dio non lasciarti a nessun costo trascinare contro il Signore».19 Fin qui il suo parlare di Dio sembra scontato. Un contributo particolare lo dà invece quando sostiene che la fede non può essere lasciata al puro sentire, ma va guidata dalla ragione. Il sentimento religioso, senza il controllo della ragione, rischia di degenerare in forme di religiosità sempre meno accettabili fino ad esaurirsi ed estinguersi. «Il sentimento religioso del giovane può essere un leggero eccitamento della mente, può anche assomigliare a un impetuoso torrente; quanto più questo è scrosciante, tanto più presto si essicca, così la religione presto illanguidisce se oltrepassa la misura».20 Un ascetismo rigoroso, tutto impregnato della visione monastica dell’uomo spirituale, alla cui formazione bisognava tendere con una via di sacrificio e di rinuncia, rischia di ottenere l’effetto contrario. «Chi oltrepassa la misura nel digiunare l’oltrepassa nel mangiare; chi veglia troppo dormirà troppo. La nostra fragile conformazione presto cadrà vinta, se un qualsiasi sentimento religioso induce a passare la misura».21 L’uso della ragione serve per questo: purificare la fede, mantenendola costantemente legata ai suoi fondamenti senza farla diventare mera superstizione. L’autore afferma che esiste una fede popolare e una fede dei filosofi, e che la prima va continuamente corretta e guidata: «Mai i filosofi hanno avuto la stessa fede del popolo; per questo il senso ha tenuto sempre il posto della ragione; la sua mente non concepisce altro da ciò che si riferisce al corpo e ai sensi e di tale natura pensa sia anche il Sommo Dio».22 La fede che Abelardo vuole trasmettere al figlio non è la fede del popolo ignorante ma nemmeno quella dei mistici; in cuor suo queste due forme tendono a coincidere perché finiscono col radicalizzare, sia pure in maniera diversa, le proprie posizioni. I versi che seguono, mentre ricordano che proprio una fede irrazionale determina una molteplicità di credenze religiose, d’altro canto ribadiscono, senza alcun legame apparente con quanto detto prima, che solo offendere Dio è peccato, non adorarlo secondo forme diverse. «Il mondo è diviso in tante credenze diverse, per cui non è facile trovare il sentiero della vita. Poiché il mondo ha tanti dogmi di fede in opposizione tra di loro ognuno si comporta secondo la tradizione della propria stirpe. Nessuno osa insomma in questo seguire la ragione, ma si preoccupa di vivere in pace. Solo disprezzando Dio si può peccare, e si ritiene che solo in questo disprezzo consiste la colpa».23

Vv. 433 - 434. Vv. 662 - 665. 21 Vv. 668 - 671. 22 Vv. 644 - 650. 23 Vv. 361 - 368. 19 20


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Sembra che negli ultimi due versi, smorzati dai precedenti, Abelardo voglia dire più di quanto era possibile sostenere ai suoi tempi: non si può chiudere la fede nell’assolutizzazione dei modelli culturali. La religione è una risposta alla domanda di senso, di significato, di affidamento, che nella ricerca libera e attenta si connota come la propria risposta. Per questo Abelardo invita a «Non cercare di costringere qualcuno a credere qualcosa, perché può esservi indotto solo con la ragione. Invano potresti estorcere menzogne in materia di fede; la stessa fede non si raggiunge con la forza, ma con la ragione».24 Sembra sentire in questi versi la polemica a distanza con Bernardo che a proposito di Abelardo così scriveva a papa Innocenzo II: «Pietro Abelardo si sforza di cancellare la specificità della dottrina cristiana, perché ritiene che si può comprendere ogni prerogativa di Dio con la ragione umana».25 Ma per Abelardo una cosa è ricorrere alla ragione per riflettere sulla fede, altra cosa è ridurre la fede alla ragione: «Misura chiunque tu sia, quanta presunzione (…) nel non voler essere soddisfatto finchè non siano manifeste al senso o alla ragione umana le cose che vengono dette; il che è togliere radicalmente la fede e la speranza, le quali, come consta, si riferiscono alle cose non apparenti».26

4. L’etica dell’intenzione La forza della ragione porta l’uomo a vivere in un contesto relazionale con gli altri uomini, maturando una linea etica, delineando una condotta morale. Su questi temi Abelardo sviluppa una sua riflessione, in profonda rottura col suo tempo,27 spinto da una duplice esigenza: opporsi all’ascetismo che considera peccato le stesse inclinazioni cattive radicate nell’animo umano, e attaccare la morale conformistica che tende a identificare il bene e il male con determinati comportamenti esterni. Abelardo propone un’etica dell’intenzione: «Un’azione qualsiasi pertanto non ha proprio nulla a che vedere con un aumento del peccato; niente può in modo alcuno inquinare l’anima se non ciò che procede dall’anima, vale a dire il consenso, che solo si può consentire sia peccato nella volontà, sia che preceda sia che segua l’azione. Infatti sebbene si voglia e si faccia ciò che è illecito, non si deve dire per questo che si pecca, dal momento che spesso simili azioni si compiono senza che ci sia peccato, come anche, per contrario, il consenso può stare solo».28 Vv. 781 - 784. S. BERNARDI, Ep. CXCI, P. L. 182, 385. 26 P. ABELARDI, Teologia christiana, P. L. 178, 1223-1224. 27 Sono proprio alcune posizioni, sostenute nell’Etica composta tra il 1136 e il 1139, che verranno condannate dal Concilio di Sens, cfr. DENZINGER- SCHONMETZER, Enchiridion Symbolorum definitionum, Herder, Barcinone 1965, 721 - 739. 28 P. ABELARDO, Conosci te stesso, o Etica, (a cura di M. Dal Pra) La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 71. 24 25


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Eloisa, che conosceva bene l’insegnamento di Abelardo a riguardo, scrive in una delle sue lettere: «Sono colpevole, colpevole sotto ogni aspetto, ma sono anche innocente, completamente innocente, tu lo sai bene, perché la colpa non sta nelle conseguenze del gesto, ma nelle intenzioni di chi lo compie; la giustizia valuta non l’atto in sé, ma il pensiero che l’ha ispirato».29 Per Chenu la posizione di Abelardo, basata sull’autonomia della propria coscienza, dissolve alla base la disciplina morale e penitenziale in corso.30 San Bernardo, infatti, preoccupato per la gravità di questa posizione, scrive a Innocenzo II: «Se la Tua Santità si degnasse di imporre silenzio al maestro Pietro, proibirgli di insegnare e di scrivere, eliminare i suoi libri pervasi da dogmi perversi, toglierebbe dai santuari le spine e i rovi; la messe di Cristo avrebbe allora la forza di crescere, di fiorire e di fruttificare».31 Nel carme questa posizione viene confermata sia pure in maniera sfumata, tenendo presente che nel frattempo era intervenuta la condanna del Concilio di Sens. Si insiste maggiormente sulla volontà, «Quando non c’è cattiva volontà, non c’è colpa. Infatti solo questa fa essere colpevoli»,32 ma soprattutto sugli effetti che il peccato può produrre nei confronti degli altri. Abelardo afferma a riguardo, senza paura del paradosso, che «Una meretrice umile è più accogliente di una donna morigerata ma superba; questa è spesso causa di turbamento nella propria famiglia. Quella profana la casa, ma questa vi appicca il fuoco; e la fiamma può nuocere alla casa più della sporcizia».33 Ritorna il discorso della saggezza come equilibrio razionale nelle proprie scelte e nel proprio agire. La norma è necessaria per la difficoltà dell’uomo di regolare autonomamente il proprio comportamento, ha quindi un valore strumentale e non può assurgere a criterio universale. «La ragione sia superiore alla legge, la legge alla consuetudine, ciascuna cosa deve essere assegnata al proprio ruolo».34 A conferma di ciò, Abelardo invita il giudice a adattare la norma al variare delle situazioni. «Tu giudice, secondo i tempi, mitiga il rigore della legge, questa infatti è la volontà dei legislatori».35 P. ABELARDO, Storia delle mie disgrazie. Lettere d’amore di Abelardo ad Eloisa, (trad. it. di F. Roncoroni), Garzanti, Milano 1974, II lettera, p. 91. 30 Cfr. M. D. CHENU, Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, op. cit., pp. 28-35. 31 S. BERNARDI, Epistula ad Innocentium papam, in P.L., 182, 535-537. Scrive Brocchieri: «L’interesse (di Abelardo) è prevalentemente diretto al piano della naturalità: i diritti storici, le leggi possono qualificare in maniera diversa la colpa, ma la giustizia è un concetto che Abelardo vuole recuperare al di là dell’esame dell’azione e dei fatti nell’interiorità della coscienza e alla luce discriminante della ratio» (M. T. FUMAGALLI BEONIO BOCCHIERI, Introduzione ad Abelardo, Laterza, Roma-Bari 2006 p. 82). 32 Vv. 748 - 749. 33 Vv. 225 - 228. 34 Vv. 245 - 246. 35 Vv. 247 - 248. 29


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Antonio Gentile

La libertà di fronte alla norma «non autorizza l’invenzione individuale, impone al contrario di assumere ad un tempo la purezza del volere e il rigore delle leggi rivelate»,36 un obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso un cammino di formazione. L’etica giustifica la regola, ne spiega la validità, la pedagogia ne fornisce il criterio operativo.

5. Insegnamento e apprendimento Quando l’agire umano acquista rilevanza e significato personale, i motivi che lo pongono in essere hanno una radice ben più profonda degli stimoli esterni o interni che siano. Si tratta di ideali, o valori, che determinano non solo gli standard di valutazione dell’azione intrapresa, ma la stessa trasformazione della concezione di sé. Questo universo valoriale si struttura all’interno di un sistema di relazioni interpersonali, dove i comportamenti delle persone significative, le argomentazioni sviluppate nei dialoghi informali come in quelli accademici, la comunicazione persuasiva, sono tutte fonti di influenza nello sviluppo e nella modificazione delle azioni, ma anche nel costituirsi della personalità di un individuo. Le azioni, infatti, con i risultati ottenuti, hanno un’influenza di ritorno sia sul piano emozionale (soddisfazione o disagio) sia su quello conativo (orientamento a comportarsi date le circostanze in maniera analoga, o anche più coinvolgente, oppure diversificata), permettendo non solo di accrescere la forza e la centralità di quei valori ispiratori all’interno della concezione di sé, ma anche di strutturarli in maniera sempre più consistente secondo un ordine gerarchico. L’autore del carme ha ben presente quanto l’insegnamento di un maestro può influenzare la vita dei giovani. Abelardo è stato essenzialmente un maestro e come tale si presenta nelle sue opere; ma forse pensando a quanti danni aveva causato in questa veste, sente il bisogno, alla fine della sua vita, di definirne i confini. Raccomanda perciò al figlio: «Non fidare mai ciecamente sulle parole del maestro amato. Non permettere che ti tenga legato a sé con il suo amore».37 E più avanti, sempre per rimarcare l’autonomia personale nella ricerca, ribadisce che bisogna lasciarsi guidare solo dalla bontà degli insegnamenti, non dalla fama del maestro: «Interessati di ciò che vien detto senza voler sapere chi l’abbia detto: Sono le cose buone che conferiscono prestigio a chi le ha dette».38 Il sapere, quindi, si struttura su una rielaborazione personale dei

36

J. JOLIVET,

Vv. 9 - 1. 38 Vv. 7 - 8. 37

Abelardo. Dialettica e mistero, Iaca Book, Milano 1966, p. 90.


Una pedagogia della libertà. Il carme “Ad Astrolabium Filium” di Abelardo

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contenuti proposti, accettati non perché imposti da una fonte autorevole, ma solo in forza della loro riconosciuta validità. A monte di queste osservazioni c’è naturalmente tutto il lavoro di rifondazione metodologica portato avanti da Abelardo nelle sue scuole. Al metodo della “lectio”, che consisteva nell’esposizione della Scrittura e nella enumerazione delle “auctoritates” dei Padri, Abelardo contrappone la “quaestio”: il testo in esame, dopo un’attenta ricerca della documentazione necessaria, viene interrogato e dibattuto. Scrive Antonio Crocco che «i motivi teoretici e le premesse critiche, da cui muove e si sviluppa la metodologia abelardiana, sono fondamentalmente tre e possono essere così enunciate: 1) l’asserzione del “dubium” come stimolo critico alla ricerca e alla susseguente acquisizione della “veritas”; 2) la valorizzazione della dialettica come scienza che appresta gli strumenti logici per la ricerca stessa; 3) l’esaltazione della ragione, come arbitra del giudizio o della sintesi intellettiva, che costituisce il fine della ricerca o analisi e il solo mezzo efficace per giungere alla conquista della “veritas” filosofica».39 Un insegnamento, fondato sull’autorità del maestro, trova poco spazio in una scuola che vede l’esigenza della ricerca come necessità di risolvere in motivi razionali ogni verità che voglia essere tale per l’uomo. «Tutti sappiamo che in ciò che può essere discusso con la ragione non è necessario il giudizio dell’autorità».40 La ricerca della verità comunque non è fine a se stessa. È necessario che il sapere, per non diventare sterile, venga comunicato da chi è in grado di farlo. Ecco perché: «Chi non sa insegnare, pur essendo dotto, sa per sé non per gli altri; dovrà considerarsi come un ignorante».41 Non va negato, quindi, l’insegnamento in quanto tale, va solo svolto adeguatamente perché se è vero che bisogna saper apprendere in maniera libera e responsabile è anche vero che bisogna sapere insegnare con responsabilità e competenza. «Prolunga e consolida il tuo apprendimento, non affrettarti a insegnare, né tanto meno affrettati a scrivere. Non voglio che la tua scienza sia quella di un maestro improvvisato, che sia ancora costretto a fingere di sapere ciò che deve insegnare».42 Una attenta valutazione da un punto di vista pedagogico dell’opera di Abelardo la esprime compiutamente Graziella Ballanti quando afferma che: «I Monita sono un’opera di passaggio dalla precettistica monastica ad una metodologia pedagogica scolastica (…). Per il primo tipo di approccio, Abelardo è un educatore che si inserisce nel filone della trattatistica monastica, con finalità di morale religiosa già accettate e prestabilite; ma per il nuovo tipo di

Antitradizione e metodologia filosofica in Abelardo, Empireo, Napoli 1971, p. 44. Theologia cristiana, III, in P. L. 178, 1224. 41 Vv. 799-800. 42 Vv. 27-30. 39 40

A. CROCCO,

P. ABELARDUS,


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Antonio Gentile

approccio, Abelardo è un pedagogista, che mette alla prova gli obiettivi nella situazione di insegnamento-apprendimento e ne saggia la realizzabilità».43

6. Conclusione Nella stesura del carme Abelardo non ha certo inteso produrre un trattato sistematico di pedagogia; solo ribadire, in un clima di sereno dialogo, l’irriducibile diritto dell’uomo a essere se stesso. Sa bene quanto le sue affermazioni possano dare adito a pericolosi fraintendimenti, ma sa anche che è l’unica eredità degna di essere passata a un figlio.44 Astrolabio è l’uomo di ogni tempo, sempre proteso alla ricerca della verità e sempre costretto a difendersi da quanti pretendono di cercarla per lui, trasferendogliela in nome di una non ben definita autorità. Abelardo gli ricorda che la verità non può essere regolata da leggi esterne, ma solo cercata, vissuta e verificata nel proprio tessuto umano. Di fronte ad essa, ogni individuo rimane con i propri dubbi e le proprie incertezze, sorretto solo dal lume della ragione. Un autentico dialogo educativo si realizza quando la persona educata riesce a passare dall’autorità passivamente accettata, alla maturata consapevolezza che quanto ricevuto abbia un senso di cui farsi carico. Tutta l’opera di Abelardo, della quale il carme rappresenta una sintesi pacata e serena, ci rende testimonianza di ciò, di «una vita vissuta come dialettica esistenziale, come ricerca destinata a rimanere irrisolta perché generata da un amore, quello per la verità, che proprio nell’assolutezza della sua tensione ideale è chiamato a farsi carico del confronto con l’esperienza radicale del limite (…). L’accanimento con cui difende le sue tesi, viene accompagnato da un atteggiamento profondamente autocritico da cui è sollecitato a rivedere continuamente le proprie posizioni, prendendo gradualmente coscienza dell’incommensurabilità fra una Verità che rimane Mistero e la propria illimitata intelligenza. Eppure lo spirito umano non si stanca di tendere a quella Verità, perché è in essa che le è dato di cogliere il suo unico bene, il suo fine più autentico».45 E quella Verità, ricorda Abelardo, non solo non si nega alla ricerca dell’uomo, ma gli va incontro desiderosa di essere ascoltata. «Non siamo noi ad ascendere verso il sole materiale per capirne la luce: piuttosto è la luce che viene infusa su di noi perché possiamo goderne. Allo stesso modo, non siamo noi che ci avviciniamo a Dio: è piuttosto Lui che si avvicina a noi, per infondere in noi dall’alto, la luce e il calore del suo amore».46

P. Abelardo. Insegnamenti al figlio, op. cit., pp. 74-75. Cfr. P. ABELARDUS, Introductio ad theologiam, II, in P:L:, 178, 1040. 45 S. P. BONANNI, Abelardo. Invito alla lettura, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, pp. 11-12. 46 P. ABELARDUS, Dialogus inter Philosophum, Juadeum et Christianum, ed. critica di R. Thomas, Stuttgart-Bad Cannstatt 1970, linee 2701-2704. 43 44

G. BALLANTI,


Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 533-541

LIBERTÀ DI SCELTA EDUCATIVA IN LUIGI STURZO EUGENIO GUCCIONE Ordinario di Storia delle dottrine politiche SOMMARIO: 1. Tra i modelli di educatori anche La Salle. - 2. La libertà indispensabile come l’aria. - 3. Contro i monopoli di qualsiasi genere. - 4. L’assurda distinzione tra insegnamento pubblico e privato. - 5. Come trovare i fondi.

1. Tra i modelli di educatori anche La Salle

N

on esistono dubbi: i presupposti e gli scopi del pensiero politico e dell’impegno sociale di Luigi Sturzo sono essenzialmente pedagogici. Ciò spiega la valenza da lui data, sin dalla sua attività cooperativistica, all’educazione e all’istruzione dei lavoratori. Un’adeguata formazione, a suo giudizio, avrebbe potuto consentire a costoro l’affrancamento dal bisogno e una degna collocazione in seno alla comunità. Egli si ispirava a modelli di educatori, che erano anche modelli di santità, come Girolamo Emiliani, Giovanni Battista de La Salle,1 Antonio Rosmini e Giovanni Bosco.2 A san Giovanni Battista de La Salle era riconosciuto dal fondatore del Partito Popolare Italiano anche il merito d’avere svolto, grazie al suo metodo pedagogico, un’azione mediatrice tra le istituzioni politiche e il popolo.

1 Cfr. L. STURZO - M. STURZO, Carteggio, vol. II, 1929 – 1931, a cura di Gabriele De Rosa, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1985, lettera n. 652, p. 264. In questa lettera del 27 giugno 1930, Luigi, esule a Londra, scriveva, fra l’altro, al fratello Mario, vescovo di Piazza Armerina (Enna): «Ogni epoca ha i suoi educatori, santi o laici, secondo date esigenze e dati modi di sentire, che non si esauriscono mai. Così fra i grandi io metto San Girolamo Emiliani e San Giovanni Battista de La Salle; quest’ultimo credo addirittura grandissimo; ma rispondevano alle esigenze e ai bisogni dei tempi e di determinati ambienti». Per una maggiore conoscenza del problema pedagogico e didattico in Luigi Sturzo cfr.: E GUCCIONE, Scuola e libertà di insegnamento nel pensiero politico e sociale di Luigi Sturzo, Libero Seminario Sturziano, Editrice Palma, Palermo, 1985; e U. CHIARAMONTE, Necessaria in democrazia - Emergenza educativa e questione scolastica negli scritti di Luigi Sturzo, Caltanissetta-Roma, Centro Studi sulla Cooperazione «A. Cammarata», 2009. 2 L. STURZO, Problemi spirituali del nostro tempo, Bologna, Zanichelli, 1961, p. 126. E anche: Idem, Chiesa e Stato – Studio sociologico-storico, vol. II, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, p. 127.


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Sturzo ne fa riferimento nell’opera Chiesa e Stato, allorquando si sofferma ad analizzare la deludente situazione del secolo XVIII in Francia e nel resto d’Europa. Qui, da un lato perduravano «un’inquietudine e una insoddisfazione crescente del razionalismo logico, del naturalismo giuridico, del lassismo morale, del formalismo religioso», dall’altro lato «cleri nazionali, specialmente i vescovi, erano talmente legati al potere monarchico e facevano, come tali, parte integrante delle oligarchie dominanti, da creare un enorme distacco tra essi e la massa dei fedeli, dei quali molti ignoravano completamente le condizioni spirituali e materiali». Di fronte a siffatto stato di cose «l’intermediazione fra il potere e il popolo veniva fatta dagli ordini religiosi attivi, specialmente quelli che venivano formati a scopi educativi, come i Fratelli delle Scuole Cristiane di san Giovanni Battista La Salle e le molteplici istituzioni di carità che avevano origine e ispirazione dall’opera di san Vincenzo de’ Paoli e dei suoi imitatori».3 Sturzo, tra i pedagogisti a lui contemporanei, ebbe una speciale ammirazione per Maria Montessori, della quale condivideva in pieno l’idea di libertà applicata al processo educativo e apprezzava le coraggiose iniziative. I due avevano avuto modo di incontrarsi a Roma nel 1907 e a Londra nel 1925 e di confrontarsi sui loro metodi di educazione. «Mi sono più volte domandato - scriverà nel 1952 Sturzo in pieno regime democristiano - perché da quarantacinque anni ad oggi, il metodo Montessori non sia stato diffuso nelle scuole italiane». La constatazione è amara, perché la ‘risposta egli se l’era data più volte di fronte al problema nazionale della pubblica istruzione ed era stata sempre la stessa: «si tratta di vizio organico del nostro insegnamento: manca la libertà, si vuole l’uniformità; quella imposta dai burocrati e sanzionata dai politici. Manca anche l’interessamento pubblico ai problemi scolastici; alla loro tecnica, all’adeguamento dei metodi alle moderne esigenze».4 Sturzo, condividendo le idee della Montessori, vedeva in effetti sconfessato il suo stesso metodo educativo e svanite le sue speranze di rinnovamento del Paese. E, con molto realismo, proseguiva: «Forse c’è di più: una diffidenza verso lo spirito di libertà e di autonomia della persona umana, che è alla base del metodo Montessori. Si parla tanto di libertà e di difesa della

L. STURZO, Chiesa e Stato – Studio sociologico-storico, vol. I, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, pp. 293- 294.

3

L. STURZO, Ricordando Maria Montessori, in “La Via”, 28 giugno 1952. Ora in L. STURZO, Politica di questi anni – Consensi e critiche (Dal Luglio 1951 al Dicembre 1953), Bologna, Zanichelli, 1966, pp. 243-245.

4


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libertà; ma si è addirittura soffocati dallo spirito vincolistico di ogni attività associata dove mette la mano lo Stato; dalla economia che precipita nel dirigismo, alla politica, che marcia verso la partitocrazia, alla scuola che è monopolizzata dallo Stato e di conseguenza burocratizzata».5

2. La libertà indispensabile come l’aria Non può esserci un’effettiva educazione senza libertà. Questa è indispensabile come l’aria che si respira. Se manca l’aria, tutto è sofferenza. Tutto diventa impossibile, compresa la vita. La libertà, per Sturzo, «bisogna che sia sempre continuamente conquistata ed esperimentata» così come «i valori umani a carattere spirituale». Egli rileva che quel «che accade all’interno della nostra coscienza, accade nel campo vasto della società, perché la società (vita in comune di uomini coscienti) è una proiezione della coscienza nelle mutue relazioni umane». Ci si deve convincere che la libertà, una volta conquistata e sperimentata, «non è per noi un vantaggio politico o di partito, ma un valore morale della personalità umana; non è affatto una concessione degli uomini, ma un dono di Dio».6 Per il politologo siciliano esiste un nesso indissolubile – al pari di un vero e proprio trinomio – tra educazione, libertà e democrazia, considerata quest’ultima come «un sistema politico e sociale che comprende l’intero popolo, organizzato su una base di libertà per il bene comune». Espressione semplice, ma carica di significato. Ed egli stesso spiega che in tale definizione «sta il vero spirito della democrazia, il suo più ampio ideale, così come dovrebbe essere realizzato nei paesi civili e cristiani».7 L’educazione, che è autentica soltanto nella libertà, ha un ruolo fondamentale nella democrazia e per la democrazia, laddove essa è indispensabile «per poter avere élites tratte da ogni classe e categoria, aperte a tutti, sempre rinnovate e portatrici di rinnovamenti».8 Il processo educativo, secondo Sturzo, deve articolarsi su tre piani: a) la cultura, che rischia di diventare sempre più tecnica, specializzata e parziale a danno di quella generale, umanistica e religioso-morale; b) l’esercizio o pratica della vita politica, poiché non si può imparare «a camminare senza camminare» o «a nuotare senza entrare nell’acqua»; c) la convinzione di volersi

5

Ivi, pp. 244-245.

L. STURZO, Politica e morale (1938) – Coscienza e politica, Bologna, Zanichelli, 1972, pp. 323 e 325.

6

7

Idem, p. 326.

8

Idem, p. 331.


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Eugenio Guccione

educare alla democrazia, nel senso che l’educazione deve «giungere al cuore», perché un’«educazione soltanto intellettuale o tecnica, senza educazione dei sentimenti, è impossibile». Egli tiene a sottolineare che l’educazione del cuore, alla quale fa appello «per gli ideali della democrazia, non contiene nulla di torbido, di immorale o fanatico, ma poggia su valori morali permanenti, degni dell’uomo e in armonia con i principi della cristianità».9 Tali riflessioni risalgono al periodo dell’esilio, durato ben 22 anni e vissuto tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Ma esse, seppure sollecitate dalla situazione politica europea degli anni ’30, succube dei regimi totalitari, non sono datate. Assurgono a valore di teorie politiche. Sturzo le riproporrà anche in seguito, tutte le volte che, in Italia, vedrà carente o minacciata la libertà in qualsiasi settore della vita privata e pubblica e, in particolare, in campo scolastico. Battaglie per la libertà è il titolo della raccolta completa degli articoli da lui scritti su «Il Giornale d’Italia» nell’ultimo settennio della sua vita. La prima edizione della raccolta risale al 1969,10 allorquando, nella ricorrenza del decimo anniversario della morte di Sturzo, la direzione de «Il Giornale d’Italia» volle ricordare il proprio illustre collaboratore raccogliendone gli articoli, ben 229, in due corposi volumi, con la prefazione dell’on. Mario Scelba e la presentazione del direttore del quotidiano, Nino Badano. Con Battaglie per la libertà ci troviamo dinanzi a più di mille e cento fitte pagine, che si snodano in un costante avvicendarsi di analisi, osservazioni e avvertimenti. Sturzo si pone a critico e a giudice di una situazione nazionale, che, sebbene favorevolmente introdotta in uno dei più avanzati sistemi democratici del mondo, accusava, a meno di un decennio dalla caduta del fascismo, i sintomi di un malessere generale. L’opera accentua il ruolo di Sturzo come «coscienza critica» della democrazia occidentale e rivela un certo spirito liberale alla Tocqueville, felicemente armonizzato con i principi e le teorie del popolarismo cristiano. Vi si colgono con chiarezza il culto del fondatore del PPI per la libertà, la sua diffidenza per le masse strumentalizzate dai sindacati e dai partiti, l’apprensione da lui nutrita e manifestata per la «tirannide della maggioranza», le sue preoccupazioni per il prevalente atteggiamento di apatia della gente nei confronti delle istituzioni democratiche.

9

Idem, p. 332.

L. Sturzo, Battaglie per la libertà (1952-1959), voll. 2, Prefazione di Mario Scelba, Presentazione di Nino Badano, Roma, Edizioni de «Il Giornale d’Italia», 1969. Una seconda ristampa dell’opera, in copia anastatica, esce nel 1992 con la presentazione di Mario d’Addio e con i tipi della casa editrice palermitana Renzo e Renato Mazzone. 10


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L’illustre vegliardo lanciava i suoi strali dal piccolo studio del convento delle Suore Canossiane, dove, fra pile di libri, giornali e carte varie, trascorreva le sue giornate e da dove usciva molto raramente. Qui riceveva capi di Stato e di governo, leader di partiti e di correnti politiche, prelati, giornalisti, studiosi, parlamentari, amministratori comunali, dirigenti della pubblica amministrazione, imprenditori e anche poveri postulanti in cerca di un aiuto o di un conforto.11

3. Contro i monopoli di qualsiasi genere Al suo rimpatrio Sturzo aveva avvertito subito i sintomi delle disfunzioni presenti e future della politica italiana. E li colse anche alla prima lettura dello schema di Costituzione repubblicana, che, a caldo, gli apparve - sono sue parole - come «una pizza infarcita».12 Tra i problemi che maggiormente lo preoccupavano c’era quello della pubblica istruzione. A suo parere i cattolici, durante la Costituente, avrebbero dovuto «riprendere la vecchia bandiera della libertà scolastica, senza monopoli di qualsiasi genere» e, unitamente ai liberali, avrebbero dovuto «trovarsi d’accordo su questo punto, prendendo gli ultimi esempi di altri paesi scolasticamente più progrediti». Essi avrebbero dovuto tenere in conto l’esperienza dei sistemi scolastici americano, olandese e inglese, mentre, invece, si erano limitati a «ricopiare quello francese di marca napoleonica completamente illiberale, e ancora inficiato da un positivismo di vecchia maniera».13 Non sono messi in luce da Sturzo soltanto i motivi più apparenti del fenomeno, ma anche la loro ragione più profonda, che, nella circostanza specifica, è da lui individuata nell’«ambiente settario e statolatra che si è sviluppato dopo la caduta del fascismo» e che ha fatto chiudere gli occhi a molti». In tanto buio non potevano scaturire migliori risultati. E, così, – Sturzo osserva con amarezza – gli «articoli sulla scuola inseriti nella costituzione hanno lasciato lo stato di fatto del monopolio statale, il sistema delle concessioni di pareggiamento, l’inserzione dell’esame di Stato, a diritto e a rovescio (manca solo l’esame di Stato per gli asili infantili) e finalmente, per codicillo, la dichiarazione polemica e incongrua che la scuola privata non creerà alcun onere per lo Stato».14

11

Cfr. E. GUCCIONE, Luigi Sturzo, Palermo, Flaccovio, 2010, pp. 127-136.

L. STURZO, Una cattiva azione (A Epicarmo Corbino), in «L’Italia », 8 maggio 1947. Ora in L. STURZO, Politica di questi anni (Dal Settembre 1946 all’Aprile 1948), Bologna, Zanichelli, 1954, pp. 231-236 e, in particolare, p. 233. 12

13

Idem, p. 234.

14

Idem, pp. 235-236.


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Nel febbraio del 1950, l’anziano esponente del popolarismo, in polemica con il direttore della rivista milanese “L’illustrazione italiana”, rivendica il diritto-dovere di occuparsi della questione scolastica e così si esprime: «le mie idee sulla libertà scolastica furono note in Italia, dal tempo che dirigevo il segretariato “Pro Scuola”, parecchi anni prima della fondazione del partito popolare, e poscia durante l’ardente polemica dei quattro anni e mezzo del mio segretariato politico, quando alla camera furono contrastati i tre disegni di legge scolastica proposti da Croce, da Corbino e da Anile». E, subito dopo, precisa: «le mie esperienze inglese, olandese, svizzera, belga e americana dal 1924 al 1946 sono state posteriori, e sono servite a confermarmi nella idea che solo la libertà può salvare la scuola in Italia».15 L’insostenibile andazzo nel campo della pubblica istruzione, secondo l’analisi sturziana, è da addebitare all’intolleranza scolastica dei laicisti e al conseguente monopolio statale, ma l’uno e l’altra si basano su due evidenti presunzioni: la prima che soltanto i laicisti siano gli autentici tutori della libertà, mentre questa, in quanto tale, non può essere esclusiva prerogativa di alcuno; e la seconda che «solo lo Stato sia capace di creare una scuola degna del nome, mentre non è riuscito che a burocratizzarla e fossilizzarla».16 Sturzo, anche durante i lavori dell’Assemblea Costituente, non aveva usato mezzi termini nel richiamare i rappresentanti cattolici, che non trovavano la forza per essere coerenti con se stessi e non avevano il coraggio di cogliere le istanze del loro vasto elettorato. E, più che nel passato, consisteva proprio in ciò il suo profondo cruccio, tanto che denunciava la loro tiepidezza per essersi lasciati trascinare dai «bigotti della scuola di Stato, che sotto il fascismo divennero legione» e che ora pretendevano di «monopolizzare l’indirizzo scolastico della repubblica».17

4. L’assurda distinzione tra insegnamento pubblico e privato La libertà di insegnamento, così come intesa da Sturzo, comporterebbe l’esclusione dell’assurda distinzione tra scuola pubblica di Stato e scuola privata, scardinerebbe l’anacronistica opinione statalista secondo cui «è pubbli-

L. STURZO, Lettera al Direttore dell’Illustrazione Italiana, in Politica di questi anni (1950-51), Bologna, Zanichelli, 1957, p.s. La lettera venne pubblicata su «L’Illustrazione italiana» il 5 marzo 1950. 15

16

Ibidem.

L. STURZO, I bigotti della scuola, in «Sicilia del Popolo», 27 febbraio 1948. Ora in L. STURZO, Politica di questi anni (Dal Settembre 1946 all’Aprile 1948), cit., pp. 386-388 e, in particolare p. 388.

17


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co solo ciò che è statale», annullerebbe il valore legale dei titoli di studio, in quanto «ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della repubblica, ma in nome della propria autorità».18 Una tale svalutazione dei certificati di studio legali - o meglio, al contrario, questa rivalutazione sostanziale e in senso meritocratico dell’insegnamento - toglierebbe allo Stato la facoltà di attribuire efficacia ai suoi pezzi di carta e determinerebbe una vasta e profonda bonifica nel settore della scuola. Docenti e alunni sarebbero finalmente stimolati ad una seria impostazione e ad un severo svolgimento dei loro studi e punterebbero al conseguimento effettivo di una preparazione umanistica o tecnico-professionale. C’è in Sturzo il convincimento che il dinamismo della libertà sarebbe salutare per la scuola italiana e arrecherebbe quei vantaggi che, in democrazia, diventano patrimonio comune. «L’esempio, la tradizione e la fama delle scuole migliori – egli sottolinea - fa che molte altre vi si assimilino; la ricerca dei buoni insegnanti accentua l’intesa; il sistema degli esami di ammissione per ogni grado scolastico obbliga ad una naturale convergenza di metodi». Innanzi tutto, in un regime di reale libertà, la scuola italiana verrebbe a godere di tre importanti benefici: «la selezione degli alunni; la selezione dei professori; la gara dei metodi di insegnamento; benefici che arriveranno a dare agli studi quel proprio valore finalistico che oggi hanno in parte perduto».19 Sturzo non chiede allo Stato di rinunciare al diritto-dovere di organizzare un proprio sistema scolastico. Non chiede che esso sia privato di quella stessa libertà che, intanto, nega agli altri e tiene tutta per sé. Egli reclama che lo Stato riconosca e allarghi quel diritto a persone e ad enti che, nel rispetto della legge, vogliono contribuire al processo educativo e formativo della nazione. E precisa: «Intendiamoci: non si parli di “scuola di Stato” che non esiste e non può esistere. Si parli di scuole e di istituti aperti, mantenuti e organizzati dallo Stato e quindi, per certi aspetti, dipendenti dallo Stato. Ma lo Stato, come ogni altro ente amministrativo che tiene scuole, deve avere il senso del limite e del rispetto di sé e della scuola, e non far divenire la scuola un’organizzazione burocratica, e inaridirne le fonti di progresso con una insopportabile regolamentazione e centralizzazione».20

18 Cfr. L. STURZO, Scuola e diplomi, in «L’Illustrazione italiana», 12 febbraio 1950. Ora in L. STURZO, Politica di questi anni 1950-51, cit., pp. 45- 50 e, in particolare, p. 47, in cui si legge: «Son sicuro che il lettore abituato alla concezione di una scuola statizzata, burocratizzata e ... fossilizzata come la presente in Italia, penserà che la mia concezione di una scuola libera e responsabile sia l’anarchia in atto ... ». 19 Idem, pp. 47-48. 20 Idem, p. 49.


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Lo Stato democratico, a giudizio del sacerdote siciliano, deve fare un concreto passo avanti rispetto allo Stato liberale e, a differenza di quest’ultimo, deve mettere le scuole e gli istituti esistenti, statali e non, nelle condizioni di potere offrire un servizio gratuito alla comunità e consentire alle famiglie, a cui spetta il primato educativo, di scegliere liberamente per i propri figli il tipo e il corso di studi. Egli, sostenendo il principio che la scuola riceve la sua legittimazione dalla famiglia, si riallaccia con piena convinzione allo spirito e ai contenuti delle prime battaglie del Partito popolare. E considera che, nonostante la Costituzione della Repubblica Italiana sancisca il diritto-dovere dei genitori di «mantenere, istruire ed educare i figli» (art. 30), tuttavia solo pochi privilegiati godono della possibilità di scelta dell’indirizzo pedagogico e didattico. Così, i ricchi, potendo pagare le onerose rette delle scuole e delle università non statali, sono - come al solito - più liberi dei poveri. Se ciò appariva assurdo nell’età giolittiana e nel ventennio mussoliniano, è, certamente, scandaloso che perduri nell’Italia democratica. Sicché paradossalmente non solo è lesa la libertà di insegnamento, ma anche l’uguaglianza tra i cittadini.21

5. Come trovare i fondi Sturzo si rende conto che la scuola italiana, nel suo complesso, è carente pure di mezzi, ma osserva che «i mezzi senza libertà sarebbero sciupati, mentre con la libertà si riuscirebbe a trovare anche i mezzi».22 E, malgrado tutto, anche in favore della scuola non statale (la cosiddetta scuola privata) si potrebbero trovare i fondi per renderla gratuita e aprirla ai meno abbienti. A tal proposito egli scrive con il consueto realismo: «Se gli industriali, invece di buttare il denaro sussidiando giornali politici (che servono male i loro interessi e peggio gli interessi del paese), fossero spinti dallo spirito di libertà a fondare e a sussidiare scuole; se il fisco adottasse il sistema americano per cui le donazioni a scuole e ad istituti di beneficenza venissero detratte dal netto tassabile annuale; se l’opinione pubblica incoraggiasse i lasciti a tali istituti, l’Italia gareggerebbe con altri paesi civili e liberi nel rialzare il tono della scuola nello spirito della libertà».23 Il ruolo dello Stato, tramite i suoi rispettivi dicasteri, in un regime di libertà di insegnamento, sarebbe, ovviamente, ridotto alle «sue funzioni essenziali». Esso, nella sua qualità di finanziatore e di coordinatore, avrebbe

Cfr. E GUCCIONE, Scuola e libertà di insegnamento nel pensiero politico e sociale di Luigi Sturzo, Libero Seminario Sturziano, Editrice Palma, Palermo, 1985, pp. 37-38. 22 L. STURZO, Scuola e diploma, cit., p. 45. 23 L. STURZO, Lettera al Direttore dell’Illustrazione italiana, cit., p. 51. 21


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l’obbligo di svolgere una funzione ispettiva e, quindi, di «sorvegliare gli enti e i privati che tengono scuole perché siano osservate le leggi (quanto meno possibile inceppanti) che ne regolano l’apertura, il calendario e quegli esami nei quali lo Stato ha diritto di intervento». Ma questo impegno di carattere prettamente amministrativo non deve distoglierlo dall’attività promozionale in quanto rientra sempre nel suo compito preminente «favorire iniziative di scuole e corsi; di metodi e intese nazionali e internazionali, di congressi ed esposizioni; scambi di alunni e di professori con l’estero e quanto serve ad incrementare la scienza, le lettere e le arti».24 Lo Stato, in altri termini, deve rinunciare al suo ruolo di monopolizzatore per intraprendere quello di distaccato coordinatore: allo Stato – riepiloga Sturzo – «il compito propulsivo, integrativo, di garanzia per l’osservanza delle leggi sanitarie e degli obblighi della prima istruzione. Non lo Stato monopolizzatore dei titoli di studio; non lo Stato che impone programmi e limiti scolastici; non lo Stato che accentra tutte le scuole sotto unica disciplina; non lo Stato che mette pastoie al libero insegnamento, lo contrasta e lo degrada. Le offese alla libertà della scuola in Italia durano da un secolo; con il correre degli anni sono aumentate le competenze della burocrazia statale e sono state annullate perfino le competenze civica e municipale in materia di scuole elementari».25 Molta acqua è passata da sotto i vicini ponti del Ministero di viale Trastevere da quando Sturzo, negli anni ’50 dello scorso secolo, conduceva in Italia la sua battaglia per un sistema pedagogico e didattico fondato sulla libertà e capace di dare linfa alla crescita della democrazia. Ma, d’allora a oggi, se qualcosa è cambiata nel mondo della scuola, è stato in peggio provocando gravi conseguenze a scapito delle nuove generazioni: la comunità nazionale, carente nel suo complesso di una solida preparazione e di una formazione civica, non sembra più in grado di esprimere una classe dirigente e di perseguire il bene comune. Di fronte a siffatta situazione tornano premonitrici le parole di Sturzo, secondo il quale lo sviluppo della democrazia presuppone una scuola libera che sappia educare i cittadini alla libertà, al confronto e al senso di responsabilità.

L. STURZO, Scuola e diploma, cit. p. 50. L’articolo, sotto il titolo originario Libertà integrale e indivisibile, fa parte della raccolta L. STURZO, Politica di questi anni – Consensi e critiche (Dal gennaio 1957 all’agosto 1959), a cura di Concetta Argiolas e con introduzione di Gabriele De Rosa, Roma, Editore Gangemi, 1998, pp. 228-230. Per il brano citato, p. 229. 24 25



Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 543-548

LA FONDATION DES FRÈRES DES ÉCOLES CHRÉTIENNES À BOULOGNE-SUR-MER AU DÉBUT DU XVIIIe SIÈCLE PHILIPPE MOULIS Université de Paris 13, Sorbonne Paris Cité, CRESC (E.A. 2356)

P

lusieurs historiens ont retracé les débuts des implantations des Frères des Écoles chrétiennes dans le Nord de la France1. Nous voudrions dans cette étude revenir sur celle de Boulogne. La ville de Calais accueillit la première fondation en 1700. Fort de ce succès, le subdélégué de l’intendant de Picardie, Abot de la Cocherie, sieur de Bazinghen favorisa, en 1710, l’arrivée des Frères dans la Basse-Ville de Boulogne-sur-Mer. Selon Fr. Félix-Paul les Frères connus dans le diocèse de Boulonnais depuis 1700 furent appelés dans la ville épiscopale par M. de la Cocherie mais aussi par Nicolas Bénard, Lazariste, supérieur du séminaire, et quatre Frères y furent envoyés2. Pierre de Langle, évêque de Boulogne de 1698 à 1724 y contribua également et fit loger les quatre Frères dans le séminaire diocésain. En 1712, une seconde école ouvrit dans la Haute-Ville. Les archives départementales du Pas-deCalais ont conservé, sous la cote 4 D 8, un document de quatre folios, daté de 1713, intitulé: Mémoire des fondations faites à l’Hôpital pour les Frères. Boulogne Frères des Écoles Chrétiennes 1710, état des rentes fondées pour la subsistance des Frères des Écoles Chrétiennes, établies à Boulogne en l’année En conséquence de …

1 Georges Rigault, Histoire générale de l’Institut des Frères des Écoles chrétiennes, Paris, Plon, 1938, t. 2, p. 22 ; Yves Poutet, Le XVIIe siècle et les origines lasalliennes, 1970, Rennes, Imprimeries réunies, t. 2, p. 164 ; René Grevet, De l’école d’Ancien Régime aux débuts de l’école contemporaine : la genèse d’un double enjeu (Artois et Boulonnais), fin XVIIe siècle-1815, Thèse de doctorat Lille III, 1988; École, pouvoirs et société (fin XVIIe siècle-1815), Artois, Boulonnais/Pas-de-Calais, Lille, Presses de l’Université de Lille III, 1991, p. 135. 2 Frère Félix-Paul, Les lettres de saint Jean-Baptiste De La Salle, Procure générale, Paris, 1954, p. 151-152. Nicolas Bénard naquit en octobre 1659 à Neuchâtel, au diocèse de Rouen. Il fut reçu à Saint-Lazare le 3 septembre 1679. Placé au séminaire de Bayeux, il devint le premier supérieur de l’annexe de La Délivrande (1692-1697), puis ensuite supérieur du séminaire de Troyes (1697-1703), et arriva à Boulogne-sur-Mer en 1704. Le 10 janvier 1706, en la chapelle de l’évêché, Nicolas Bénard, supérieur du séminaire, âgé de 45 ans, fut interrogé au cours du procès informatif pour la cause de béatification de Vincent de Paul. En 1711, M. Bonnet nomma M. Bénard supérieur à Fontainebleau (1711-1718). Puis il fut supérieur du séminaire de Tréguier (1718-1721) et de celui de St-Brieuc (1721-1724).


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Scavoir Par acte du 14 mars 1710, sur les registres aux délibérations de l’Hôpital de Boulogne, messieurs les administrateurs se sont obligé à payer aux Frères des Écoles Chrétiennes, cent cinquante livres de rente par an pour la pension d’un Frère cy …150 [livres]. Par acte du 25 juillet 1710, messieurs les administrateurs ont accepté la donation de trois cents livres de rente, faite à l’Hôpital par monsieur Abot de La Cocherie, à condition de payer aux dits Frères pareilles sommes de 300 livres par an cy … 300 [livres]. Total 450 [livres]. De l’autre part Par acte du 29 mai 1711, messieurs les administrateurs ont accepté la donation faite à l’Hôpital par la demoiselle Hache de cent livres de rente à condition de payer par chacun an aux dits Frères pareille somme de cent livres cy … 100 [livres]. Par acte du 11 septembre 1711, messieurs les administrateurs ont accepté la donation faite à l’Hôpital de six cents livres de rente au denier 12 sur le clergé de ce diocèse par une personne de piété, qui n’a voulu être nommée, ni connue à condition de payer aux dits Frères la somme de cent livres par an cy … 100 livres. Par acte du 17 mars 1713, messieurs les administrateurs ont accepté la donation faite à l’Hôpital de la somme de six milles livres, par une personne de piété qui n’a voulu être nommée, ni connue, à condition de payer chacun an, aux dits Frères cent cinquante livres cy … 150 livres. Total : 800 [livres]. Jean-Baptiste de La Salle vint à Boulogne en 1716 et visita les classes. Les relations se détériorèrent pour des raisons doctrinales, sur lesquelles nous reviendrons dans une prochaine étude, entre l’évêque janséniste et le fondateur de l’Institut et les Frères des Écoles de Boulogne et de Calais. Jean-Baptiste de La Salle a écrit une lettre, datée de Rouen, le 28 janvier 1719, à Frère Norbert, Directeur de Calais dans laquelle il exprimait clairement son opinion au sujet de la bulle Unigenitus : Je ne crois pas avoir donné lieu à M. le doyen de Calais de dire que je suis du nombre des appelants, mon très cher Frère. Je n’ai jamais pensé à appeler non plus qu’à embrasser la doctrine des appelants au futur concile. J’ai trop de respect pour notre Saint Père le Pape et trop de soumission pour les décisions du Saint-Siège pour n’y pas acquiescer […]. Il me suffit que celui qui est assis aujourd’hui sur la Chaire de


La fondation des Frères des Écoles Chrétiennes à Boulogne-sur-Mer au début du XVIIIe siècle 545

Saint-Pierre se soit déclaré par une Bulle acceptée par presque tous les évêques du monde et ait condamné les cent et une propositions extraites du livre du Père Quesnel, et si après une décision si authentique de l’Église, je dis avec saint Augustin que la cause est finie. Voilà quel est mon sentiment et ma disposition qui n’a point été autre et que je ne changerai jamais3. Pierre de Langle souhaitait remplacer les Frères de Boulogne par les maîtres d’école de M. Tabourin4. Les Archives d’État d’Utrecht, collection PortRoyal, n°1792, ont conservé une lettre de Pierre de Langle à Jean-Baptiste Louail, datée du 1er et du 2 aout 1720: Je reçois, dans ce moment, une lettre de M. Tabourin, qui ne me contente guère. Il ne peut, dit-il, me fournir des maîtres d’école pour cette année, quoiqu’il m’en ait promis expressément pour la SaintRémy; et il me remet à un ou deux ans, que je ne serai peut-être plus au monde, et hors d’état de faire le changement que je prétendais faire des frères aux grands chapeaux5. L’établissement de Boulogne est un des plus beaux que ces maîtres puissent avoir; il y a déjà huit cents livres de rentes affectées pour leur entretien, et une très jolie maison qu’on a bâtie exprès pour eux, où il y a quatre grandes écoles, et autant de logement qu’il en faut pour six maîtres, avec un jardin fort raisonnable. M. Tabourin à grand tort de manquer un si agréable établissement, que je voulais encore augmenter de deux cents livres de rente au moins. En 1722, Pierre de Langle prit de nouvelles mesures pour remplacer les Frères de Boulogne. Le «Registre aux délibérations de la Commission administrative des Hospices» daté du 10 avril 1722 fournit plusieurs indications6. Lors de cette assemblée, l’évêque annonce qu’il souhaite les remplacer par d’autres maîtres d’écoles de Paris, pour lesquels il fait une donation conséquente: Du vendredi 10 avril 1722, en l’assemblée de Messieurs les administrateurs de l’hôpital de Boulogne où présidait Messire Pierre de Langle, conseiller du roi en tous ses conseils d’État et Privé, illustrissime et révérendissime évêque de Boulogne. Monseigneur a dit qu’ayant toujours eu une affection singulière pour le soulagement des pauvres de cette ville dont le nombre est grand et Frère Félix-Paul, Les lettres de saint Jean-Baptiste De La Salle, Procure générale, Paris, 1954, p. 300-301. 4 Charles Tabourin (1677-1762), prêtre, fondateur d’écoles gratuites. 5 Il s’agit des Frères des Écoles chrétiennes. 6 C. Landrin, Un prélat gallican, Pierre de Langle, évêque de Boulogne (1644-1724), Calais, Imprimerie J. Peumery, 1905, p. 293-295. 3


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augmente tous les jours, et pour l’instruction de la jeunesse, et voulant en donner des marques efficaces, il a résolu de faire don au dit hôpital d’une somme de vingt-cinq mille livres qu’il promet de livrer aussitôt qu’on aura trouvé à acheter au profit du dit hôpital un ou plusieurs fonds, à condition que des revenus des dits fonds il sera payé par le dit hôpital la somme de cinq cent livres annuellement, de quartier en quartier, à des maîtres d’école pour la subsistance et entretien, que le dit seigneur évêque entend faire venir de Paris pour l’instruction des jeunes garçons de la haute et basse ville et de la Beurrière, leur enseigner gratuitement les principes de notre religion, à lire et à écrire au lieu et place des Frères des Écoles chrétiennes qui, jusqu’ici, ont été chargé du soin, à condition encore que les six cents cinquante livres de rente que l’hôpital payait ci-devant aux Frères des dites Écoles chrétiennes soient dorénavant payés aux dits maîtres d’école que Monseigneur fera venir ; Monseigneur se chargeant au surplus de défendre au lieu et place du dit hôpital à toutes les demandes que les dits Frères pourraient former ou autres pour eux contre le dit hôpital et l’en décharger ; laquelle présente donation, après délibération faite par les dits sieurs administrateurs entre eux, a été acceptée pour le dit hôpital par les dits sieurs administrateurs aux conditions y portées, lesquels ont remercié Monseigneur de son don et libéralité et à le dit seigneur évêque et sieurs administrateurs signé. Mon dit Seigneur a aussi promis de fournir de ses revenus aux maîtres d’écoles, le surplus qu’il faudra pour leur subsistance, au-delà des six cent cinquante livres, jusqu’à ce qu’on ait trouvé des fonds pour l’emploi des dits vingt-cinq mille livres, ce que mes dits sieurs administrateurs ont pareillement accepté et ont signé tous, à la réserve de M. Sébastien Gressier, mayeur de cette ville, qui nous a déclaré s’opposer à l’exécution du présent acte, pour les raisons et observations par lui déduites en assemblée, à laquelle il demande acte. En 1724, le différend entre le prélat et les Frères n’était pas dissipé. Pierre de Langle refusait qu’ils perçoivent leur rente et il demanda à son Vicairegénéral, résidant à Paris, d’en référer au duc d’Humières7. Archives d’État d’Utrecht, collection Port-Royal, n° 1393: lettre de Pierre de Langle à Claude-François Monnier de Chevry, datée du [28 février] 1724.

7

Louis-François d’Aumont, duc d’Humières (1671-1751).


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Ce lundi gras [28 février] 1724 Je voudrais bien que vous vissiez M. le duc d’Humières, pour l’entretenir de l’affaire des Frères, qui le fatiguent toujours pour le presser de les faire payer. Il m’en a fait écrire par une dame de mes amies, ne voulant point par discrétion et par amitié pour moi, paraître entrer dans cette affaire. Il croit que je dois faire payer ces Frères, plutôt que d’attendre un ordre de la Cour, qui me serait désagréable. S’il n’y a que cette considération qui lui fasse souhaiter que ces Frères soient payés, et qu’il n’y prenne point d’intérêt particulier ; il n’a qu’à me laisser faire et dire que cela ne le regarde point, qu’il ne peut pas obliger l’hôpital à payer à ces Frères ce que l’hôpital croit ne leur point devoir. J’aimerai mieux qu’il en vienne un ordre de la Cour qui ne me sera point du tout désagréable, et qui ne saurait m’être adressé, ne devant rien personnellement aux Frères ; que de faire payer moi-même à l’hôpital, ce que je sais certainement ne devoir point ce que ces maîtres d’école veulent exiger. Vous savez à fond l’affaire, et vous le mettrez aisément au fait. Au reste, si on regardait comme une dette aux Frères, ce qu’on dit fondation faite pour les Écoles chrétiennes, il n’y aurait au plus que 250 livres qui leurs appartiendraient ; les cent écus de M. de La Cocherie, qui ont été remboursés en billets de banque par son héritier, et qui ont été réduits par le remplacement qui en a été fait à 150 livres, et 100 livres d’une bonne femme à qui je les ai fait donner à l’hôpital pour l’entretien des maîtres d’écoles ; je ne sais si la rente a été remboursée et replacée. Mais il n’y a précisément que ces deux sommes que ces Frères pourraient prétendre à la rigueur leur appartenir ; ce que je ne crois pas. Car à l’égard du surplus que l’hôpital leur donnât, c’était une pure aumône, à laquelle il n’est point obligé par aucun contrat, mais par pure concession des administrateurs, qu’ils ne veulent plus faire, et qu’ils ne peuvent pas même, attendu la diminution des biens de l’hôpital, qui sont bien inférieurs à la dépense nécessaire dont il est chargé. Mais enfin à moins que M. le duc d’Humières n’ait des raisons particulières pour souhaiter qu’on abandonne les intérêts de l’hôpital, et que ce ne soit, comme il le dit, pour m’épargner seulement le chagrin de recevoir des ordres de la Cour, assurez-le que je n’en aurai aucun, et que j’espère mieux que l’injustice vienne de la Cour que de moi. En 1724, le nouvel évêque, Jean-Marie Henriau mit fin à ce différend et rétablit les Frères des Écoles chrétiennes à Boulogne-sur-Mer.


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I FRATELLI DELLE SCUOLE CRISTIANE A BOULOGNE-SUR-MER (1710-1724)* (Sintesi) Diversi storici hanno scritto sugli inizi della presenza dei Fratelli nel Nord della Francia. Noi vogliamo ritornare su quella di Boulogne. La città di Calais accolse la prima fondazione nel 1700. Incoraggiato dal successo, il signor de Bazinghen, sub-delegato dell’intendente della Piccardia, Abot de la Cocherie, favorì nel 1710 l’arrivo dei Fratelli nella Città-Bassa di Boulogne. Pierre de Langle, vescovo di Boulogne dal 1698 al 1712, vi contribuì ufficialmente e fece alloggiare i quattro Fratelli nel seminario diocesano. Nel 1712, una seconda scuola fu aperta nella Città-Alta. Gli archivi dipartimentali del Passo di Calais hanno conservato, con il codice 4-D-8, un documento di quattro pagine, datato 1713 e intitolato Memoria sulle fondazioni realizzate dai Fratelli nell’ Ospedale. Nel marzo 1710 l’Ospedale si impegnò a pagare annualmente 150 franchi di rendita per la pensione di un Fratello. Nel luglio, una donazione fatta da Abot de la Cocherie all’Ospedale permise di versare ai Fratelli una rendita annuale di 300 franchi. Negli anni 1711-1713 i donatori versarono 350 franchi di rendita per i Fratelli e Giovanni Battista de La Salle andò a Boulogne nel 1716 per visitarvi le classi. Le relazioni, però, si deteriorarono per motivi dottrinali tra il Vescovo e il de La Salle sostenuto dai Fratelli delle scuole di Boulogne e di Calais. Pietro de Langle pensava di sostituirli con i maestri di M. Tabourin. Gli Archivi di Stato della città di Utrecht, (collezione Port-Royal n°1792) hanno conservato una lettera di Pierre de Langle a Giovanni Battista de La Salle, datata 1-2 agosto 1720, nella quale il prelato lo metteva al corrente che il Tabourin si trovava nell’impossibilità di sostituire i Fratelli se non dopo uno o due anni; poi parlava della fondazione: “La scuola dei Fratelli a Boulogne è una delle più belle che questi Maestri potessero avere; vi sono già ottocento franchi di rendita destinate per il loro sostentamento e una bellissima casa che è stata costruita espressamente per essi, dove vi sono quattro grandi sezioni scolastiche e altrettanti alloggi necessari per accogliervi sei maestri, con un giardino”. Nel 1722 Pierre de Langle prese altre decisioni per sostituire i Fratelli di Boulogne. Il “Registro delle Delibere della Commissione Amministrativa degli Ospizi” alla data del 10 aprile 1722 fornisce diverse indicazioni. Durante quella assemblea il Vescovo annunciò che si augurava di sostituire i Fratelli con i maestri di Parigi, per i quali aveva stabilito la congrua donazione di 25.000 franchi. Nel 1724, la controversia tra il Prelato e i Fratelli non si era ancora spenta. Pierre de Langle negava che essi ricevessero la loro rendita e domandò al suo vicario generale residente a Parigi di riferirne al duca d’Humières. Nel 1724 il nuovo vescovo, Jean-Marie Herniau, mise fine alla diatriba e richiamò i Fratelli a Boulogne-sur-Mer. *

Traduzione dalla lingua francese di Italo Carugno


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LA MISIÓN DEL DISCÍPULO MISIONERO ES CAMINAR HACIA LAS PERIFERIAS EDGAR GENUINO NICODEM Consigliere Generale della Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane RESUMEN: 1. La clave para entender la invitación del Papa está en Aparecida. - 2. Misterium lunae. - 3. Una Iglesia pobre con los pobres. - 4. Caminar hacia las periferias requiere valores éticos y la rehabilitación de la política. - 5. Caminar en la noche con la gente. - 6. Hagan florecer la civilización del amor. - 7. Caminar como lasallista hacia las periferias.

E

n su viaje apostólico para la Jornada Mundial de la Juventud, realizada en Rio de Janeiro - Brasil, del 23 al 28 de julio de 2013, el Papa Francisco, en reiteradas ocasiones, habló de que el lugar del discípulo misionero de Jesucristo es estar en las periferias. La antítesis centro-periferias fue constantemente evocada, con una gran riqueza de actitudes y gestos. Me gusta decir, afirma el Papa Bergoglio, “que la posición del discípulo misionero no es una posición de centro sino de periferias”.1 A través de la metáfora de las periferias el Sumo Pontífice invita a la Iglesia a vivir el Evangelio “sin glosa” y emprender un camino exodal del centro hacia las periferias. Llamado y enviado por Jesucristo el discípulo misionero vive la tensión hacia las periferias según la dinámica propia del Evangelio en la construcción del Reino de Dios. En sus innumerables intervenciones durante las JMJ 2013, el Papa Francisco no presentó ninguna explicitación más detallada de lo que entiende por periferias, pero con relativa facilidad se puede comprender su sentido. En primer lugar, el Sumo Pontífice usa el término en plural “periferias”. Dios está en todas partes, hay que descubrirlo para poder anunciarlo desde los más diversos contextos culturales. Esto significa que se reconoce la diversidad y complejidad de las diversas realidades que pueden ser consideradas como periferias. No se trata de una ideología sino de rostros concretos de 1

PAPA FRANCISCO, Discurso al CELAM, 5.1.


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personas con nombres, historias, tradiciones, expectativas, sueños y, generalmente, afectadas por las más diversas formas de pobreza y exclusión social. El Sumo Pontífice habla de periferias existenciales y de la contraposición entre centro y periferias con sus oposiciones lógicas. Además propone un itinerario evangélico del centro hacia a las periferias, un camino exodal marcado por las sorpresas de Dios, riesgos y tensiones. Quizás el lugar privilegiado para comprender mejor el sentido de la propuesta de las periferias de Bergoglio es analizar sus actos y gestos durante la JMJ 2013. No queda duda de que en las periferias están los niños y niñas que el Pontífice cariñosamente acoge y abraza, los miles y miles de jóvenes que encuentra con una sonrisa franca y abierta, los adultos y ancianos en quiénes reconoce un signo de esperanza, los habitantes de la comunidad de “Varginha” con sus dificultades, los dependientes de productos químicos, los encarcelados y tantas otras personas excluidas y marginalizadas por la sociedad. Las periferias son enormes, son multitudes formadas por personas de diversas razas, colores, etnias, religiones, opciones ideológicas y políticas ansiosas y en la expectativa de una vida más digna y humana. En las periferias está Jesús que con la cruz “se une al silencio de las víctimas de la violencia, que ya no pueden gritar, sobre todo los inocentes y los indefensos; con la cruz, Jesús se une a las familias que se encuentran en dificultad, y que lloran la trágica pérdida de sus hijos… Con la cruz Jesús se une a todas las personas que sufren hambre, en un mundo que, por otro lado, se permite el lujo de tirar cada día toneladas de alimentos. Con la cruz, Jesús está junto a tantas madres y padres que sufren al ver a sus hijos víctimas de paraísos artificiales, como la droga. Con la cruz, Jesús se une a quien es perseguido por su religión, por sus ideas, o simplemente por el color de su piel; en la cruz, Jesús está junto a tantos jóvenes que han perdido su confianza en las instituciones políticas porque ven el egoísmo y corrupción, o que han perdido su fe en la Iglesia, e incluso en Dios, por la incoherencia de los cristianos y de los ministros del Evangelio”.2

1. La clave para entender la invitación del Papa está en Aparecida La clave de lectura para comprender la propuesta del Papa Francisco de caminar hacia las periferias es el documento de Aparecida. Según el Papa, Aparecida representa un nuevo pentecostés para la Iglesia. El punto de partida del documento son las preocupaciones de los Pastores ante el cambio de época y la necesidad de renovar la vida discipular y misionera con la que Cristo fundó la Iglesia. Aparecida no termina en un documento sino con una Misión continental. La Misión continental comprende, según el Pontífice, una dimensión programática y una dimensión paradigmática. Por programático se entien2

Via crucis con los jóvenes, 1.


La misión del discípulo misionero es caminar hacia las periferias

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den los actos de índole misionera y lo paradigmático significa poner en clave misionera la actividad habitual de la Iglesia. El resultado es un cambio de estructuras como consecuencia de la dinámica de la misión. Es la misionariedad que nos hace dar cuenta de la caducidad de las estructuras y nos impulsa a mover los corazones. Ser misionero es claramente ubicarse en las periferias con todas sus consecuencias. Asumir la misionariedad con todas sus consecuencias significa superar la tentación de actuar de manera reactiva antes los complejos problemas de hoy. Necesitamos ser proactivos. Entre otras cosas, es fundamental promover espacios donde la misericordia de Dios puede ser manifestada. Además requiere replantear actitudes pastorales y de funcionamiento de la Iglesia buscando siempre el bien de todos los fieles y de la sociedad. Caminar hacia las periferias es dar respuestas, con lucidez y astucia evangélicas, a las preguntas del hombre de hoy, particularmente de las nuevas generaciones. Hay que evitar el mimetismo y las demás tentaciones del discípulo misionero. Es necesario mirar la realidad con la mirada del discípulo. Las comunidades eclesiales de base y los consejos de pastoral son espacios privilegiados para vivir el Evangelio con lucidez y audacia.

2. Misterium lunae Las dinámicas del centro y de las periferias son configuradas a partir de lógicas distintas. Cuando la Iglesia se configura según la lógica del centro se torna autorreferente, se funcionaliza y no pasa de una ONG prestadora de servicios. Pierde su condición del “misterium lunae” y debilita su capacidad misionera de ir hacia las periferias. Lo instituido predomina sobre lo instituyente y la Iglesia se transforma en una institución fría, distante y controladora. Lo importante serán sus proyectos, organización, eficiencia y finalmente el control, perdiendo con esto la condición de compartir las alegrías y los sufrimientos del mundo. La fuerza de la Iglesia no reside en la organización sino en las aguas profundas de Dios donde hay que echar las redes. Cuando consideramos la Iglesia desde la lógica de las periferias, las categorías que configuran su identidad son la cercanía y el encuentro oriundos de la propia originalidad del Evangelio. Cercanía quiere decir, según el Papa, atención, ternura y cariño. La cercanía, a su vez, genera encuentros, diálogos, comunión y pertenencia. Es la lógica del corazón como decía el Papa en la comunidad de Varginha. La Iglesia que asume la lógica de las periferias es capaz de reconocer las semillas de Verbo presentes en las más diferentes culturas y tradiciones. Es una Iglesia que sabe estar con los pobres, migrantes y excluidos, que hoy no solo son explotados sino sobrantes y desechables (Cfr. Documento de Aparecida, 65). En esta lógica, ser misionero es un elemento constitutivo y habitual del ser cristiano.


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3. Una Iglesia pobre con los pobres Seguidamente, desde el inicio de su pontificado, el Papa Francisco afirma cómo le gustaría una Iglesia pobre para los pobres. Quizás más que pobre para los pobres sería una Iglesia con los pobres. El Papa Francisco es consciente de que “las redes de la Iglesia son frágiles, quizás remendadas; la barca de la Iglesia no tiene la potencia de los grandes transatlánticos que surcan los océanos. Y, sin embargo, Dios quiere manifestarse precisamente a través de nuestros medios, medios pobres, porque siempre es Él quien actúa”.3 Por esto es fundamental dejarse sorprender por Dios y la creatividad del amor. La Iglesia, según Bergoglio, no puede alejarse de la sencillez, de lo contrario olvida el lenguaje del misterio. “Sin la gramática de la simplicidad, la Iglesia se ve privada de las condiciones que hacen posible pescar a Dios en las aguas profundas de su misterio”.4 Sencillez, misterio y accesibilidad a las personas constituyen un trinomio fundamental en el anuncio de la buena nueva, del Evangelio. En la práctica esto es lo que decía una señora a un Hermano hace algunos años: cuando ustedes eran más sencillos nosotros los veíamos más cerca de Dios. Las personas más sencillas pueden dar un valioso testimonio de solidaridad, palabra a menudo olvidada u omitida porque es incómoda, según Francisco.5 Los pobres viven la solidaridad en su cotidianidad. Ustedes, recuerda el Papa, siempre encuentran un modo de compartir la comida, mostrando que la verdadera riqueza está en el corazón y no en las cosas. Los pobres, a través de su experiencia de solidaridad, son protagonistas de que otra Iglesia y otro mundo son posibles.

4. Caminar hacia las periferias requiere valores éticos y la rehabilitación de la política El camino ético que el Papa Francisco recuerda a la clase dirigente de Brasil es el de la responsabilidad social que exige una visión humanista de la economía, la rehabilitación de la política y firmes valores éticos. La política es para el Sumo Pontífice una de las formas más altas de caridad. En la política es fundamental lograr más y mejor la participación de las personas para erradicar la pobreza, reducir la inequidad social y garantizar el respeto a la dignidad humana. Asumir la dimensión ética de caminar hacia las periferias significa respetar y valorar la cultura, la solidaridad y el diálogo con-

Cfr. PAPA FRANCISCO, Discurso a los Obispos de Brasil. PAPA FRANCISCO, Discurso al Episcopado de Brasil. 5 Cfr. PAPA FRANCISCO, Discurso a la comunidad de Varginha. 3 4


La misión del discípulo misionero es caminar hacia las periferias

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structivo. “Entre la indiferencia egoísta y la protesta violenta, siempre hay una opción posible: el diálogo”.6

5. Caminar en la noche con la gente Caminar hacia las periferias implica el asumir conflictos, tensiones y riesgos. El discípulo y misionero necesita estar preparado. Caminar hacia las periferias significa dar prioridad a la formación para tener personas “capaces de enardecer el corazón de la gente, de caminar con ellos en la noche, de entrar en diálogo con sus ilusiones y desilusiones, de recomponer su fragmentación”.7 Es necesario promover una formación de calidad formando personas “capaces de bajar en la noche sin verse dominada por la oscuridad y perderse; de escuchar la ilusión de tantos, sin dejarse seducir; de acoger las desilusiones, sin desesperarse y caer en la amargura; de tocar la desintegración del otro, sin dejarse diluir y descomponerse en su propia identidad”.8 Caminar hacia las periferias requiere personas maduras, integradas y capaces de ser una verdadera presencia mística y profética en medio de los pobres y de los jóvenes.

6. Hagan florecer la civilización del amor En el camino hacia las periferias, el Papa reserva un protagonismo todo especial a los jóvenes. Ellos son “el ventanal por el que entra el futuro en el mundo”.9 Al pasar de discípulos a misioneros hacen florecer la civilización del amor,10 demostrando que vale la pena gastar la vida por grandes ideales, valorando la dignidad de cada ser humano, y apostar por Cristo y su Evangelio, como vigilantes de una nueva aurora. Los jóvenes tienen para el Sumo Pontífice una especial sensibilidad ante la injusticia, pero innumerables veces se sienten defraudados por los escándalos de corrupción. Lo importante, afirma el Papa, es no desanimarse, no perder la confianza o dejar morir la esperanza. El hombre y la realidad pueden ser cambiadas. Los jóvenes son llamados a ser protagonistas del bien, no considerar el mal como algo normal y a vencerlo. La Iglesia, afirma el Pontífice, está con los jóvenes.11 En el diálogo con los jóvenes argentinos el Papa dejó claro cuál es el protagonismo que espera de ellos: “Quiero lío en las diócesis, quiero que se salga

PAPA FRANCISCO, Discurso a la Clase Dirigente. PAPA FRANCISCO, Discurso al Episcopado de Brasil. 8 Ibidem. 9 PAPA FRANCISCO, Ceremonia de Bienvenida. 10 Cfr. PAPA FRANCISCO, Discurso de la Ceremonia de Despedida. 11 Cfr. PAPA FRANCISCO, Discurso a la comunidad de Varginha. 6 7


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afuera… Quiero que la Iglesia salga a la calle, quiero que nos defendamos de todo lo que sea mundanidad, de lo que es instalación, de lo que sea comodidad, de lo que sea clericalismo, de lo que sea estar encerrados en nosotros mismos“.12 Las parroquias, los colegios y las instituciones están llamadas a salir, a ir la calle para no perder su dinamismo evangélico y transformador.

7. Caminar como lasallista hacia las periferias Para el lasallista, Hermano o seglar, la propuesta de caminar hacia las periferias, del Papa Francisco, no debería representar una gran sorpresa. Esta fue la experiencia de nuestro Santo Fundador. San Juan Bautista de La Salle asumió un camino exodal para situarse en las periferias y con los primeros Hermanos construyó una opción evangélica para rescatar la dignidad de los hijos de los artesanos y de los pobres. Considerando la invitación del Papa de caminar hacia las periferias, podemos identificar diversas implicaciones para actualizar nuestra experiencia fundante. Vamos a destacar algunas: La centralidad del Evangelio – Entre los diversos puntos de referencia de nuestra vocación de lasallistas el Evangelio ocupa el primer lugar. Es la fuente por antonomasia. Vivirlo “sin glosa” es nuestro imperativo existencial fundamental. Dejarse sorprender por Dios – El Papa Francisco nos invita a reconocer el vino nuevo que Dios nos presenta en las periferias. Ellas son el lugar privilegiado de actuación del discípulo misionero. La gramática de la sencillez – El Instituto como la Iglesia es hoy una barca extremadamente frágil. Necesitamos verificar hasta qué punto esta fragilidad posibilita estar más abiertos al misterio de Dios. ¿Vivimos en nuestro día a día en la sencillez de quién está en las periferias y pone su vida en las manos de Dios? Camino exodal – El camino exodal hacia las periferias del discípulo misionero implica en asumir las sorpresas de Dios, los riesgos, las tensiones y los conflictos. El Papa decía a los jóvenes que la Iglesia debe ir la calle, pasar de la lógica del centro a la de las periferias. Un Instituto nacido en la periferia necesita constantemente retomar su experiencia fundante para descubrir a luz de la fe las respuestas concretas al designio salvífico de Dios. Los itinerarios formativos – La formación que puede atender las urgencias de las periferias, según el Papa Francisco, debe ser capaz de bajar en la noche sin verse dominada por la oscuridad y perderse. ¿Hasta qué punto

12

PAPA FRANCISCO, Discurso a los jóvenes argentinos.


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nuestros programas o proyectos formativos forman personas maduras, integradas y capaces de ser una presencia mística y profética en medio de los pobres? El protagonismo de los jóvenes – Los jóvenes son llamados por el Sumo Pontífice para hacer florecer la civilización del amor. Ellos son el ventanal por donde entra el futuro en el mundo. Tenemos que preguntar si nuestra pastoral juvenil y vocacional son realmente espacios que hacen florecer la civilización del amor y el ventanal por donde entra el futuro del Instituto, de la Iglesia y de la sociedad. El Papa afirma que la Iglesia está con los jóvenes. ¿Y nosotros como Instituto estamos realmente con los jóvenes? Un Instituto con los pobres – Si el sueño del Papa es una Iglesia pobre con los pobres, cómo sería un Instituto pobre con los pobres como en el tiempo del Santo Fundador. Los hijos de los artesanos y de los pobres tienen hoy otros nombres y rostros. ¿Estamos verdaderamente cerca de ellos y con ellos construimos proyectos de superación de la pobreza y de la desigualdad social? Cercanía y encuentro – La comunidad es uno de los elementos constitutivos de nuestra identidad lasallista. ¿Nuestras comunidades, tanto las comunidades religiosas como las educativas, favorecen la cercanía y el encuentro, particularmente con los más pobres? Cambio de estructuras – A partir de la asociación para el servicio educativo de los pobres necesitamos analizar cuánto favorecen nuestras estructuras de animación y de gobierno la participación y la responsabilidad conjunta para dinamizar la misión educativa. ¿Valoramos verdaderamente a los seglares y Hermanos de nuestras comunidades? Proyecto educativo – Es importante verificar cuánto educan nuestros Proyectos Educativos para la responsabilidad social, para una economía solidaria, para la renovación de la política y para los valores éticos.


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Edgar Genuino Nicodem

LA MISSIONE DEL DISCEPOLO INVIATO: ANDARE VERSO LE PERIFERIE* (Sintesi)

Durante le Giornate Mondiali della Gioventù 2013, Papa Francesco ha illustrato alcuni aspetti importanti del nuovo volto della Chiesa che desidera presentare. Nelle sue parole e, particolarmente nelle sue azioni e nei suoi gesti, non c’è dubbio che il posto del discepolo inviato da Cristo è nelle periferie. Con la metafora delle periferie, Francesco invita la Chiesa a vivere il Vangelo “sine glossa”. Nelle periferie, secondo Bergoglio, c’è Gesù con la croce. Stare là significa condividere la sorte degli esclusi, degli emarginati, di coloro che soffrono la fame, delle vittime della violenza; dei perseguitati per le idee, la religione, il colore della pelle; e dei ragazzi e ragazze in situazioni di rischio. L’itinerario evangelico di camminare verso le periferie implica essere aperti alle sorprese di Dio con i relativi rischi e le tensioni. La chiave per comprendere l’invito del Papa ad andare verso le periferie si trova nel “Documento di Aparecida”. La Conferenza dei Vescovi ad Aparecida non finisce con un documento ma con una missione riguardante tutto il Continente. Essere discepolo ed inviato di Cristo, nei nuovi scenari, vuol dire rispondere con lucidità e audacia evangelica alle domande della società attuale, particolarmente delle nuove generazioni, evitando ogni forma di mimetismo. Partendo dalla logica delle periferie il volto della Chiesa che emerge è quello della misericordia, della vicinanza, dell’affetto e del dialogo. Una Chiesa capace di condividere le gioie e le sofferenze del mondo e di riconoscere la presenza del seme del Verbo Incarnato nelle più varie realtà. Per questo è fondamentale, secondo Francesco, gettare le reti nelle profonde acque di Dio. La proposta di Francesco è quella di una Chiesa povera con i poveri. Il Papa è cosciente che le reti della Chiesa sono fragili, rattoppate e molte volte inadeguate di fronte ai grandi poteri della politica e dell’economia globale. In questa fragilità, però, si trova la forza della Chiesa, in quanto Essa si lascia sorprendere da Dio ed intraprende il cammino dell’amore. La chiave di tutto questo sta nella semplicità di vita. Senza quest’ultima, la Chiesa perde la possibilità di avvicinare le persone ed accedere al mistero


La misión del discípulo misionero es caminar hacia las periferias

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di Dio. Le persone semplici sono, per Papa Francesco, le protagoniste del nuovo volto della Chiesa e della società. Assumere la mistica della semplicità di vita non significa dimenticare la complessità e le tensioni della vita politica e dell’economia. Senza una visione umanistica, con valori etici, il compito di riabilitare la politica e di riconfigurare l’economia è effettivamente impossibile. Tra l’indifferenza egoistica e la protesta violenta, c’è sempre un’opzione possibile: il dialogo, afferma Francesco. Camminare nella notte con la gente significa entrare in dialogo con i sogni e le delusioni, per stare con essa secondo i criteri evangelici. Esattamente questo rende il cristiano differente. Per il Lasalliano, andare verso le periferie significa recuperare l’esperienza della fondazione ed attualizzarla in modo creativo nei nuovi scenari. Oggi abbiamo bisogno di identificare chi sono i figli degli artigiani e dei poveri e pianificare, come fecero il Santo Fondatore ed i primi Fratelli, i processi educativi e di evangelizzazione che ci permettono di essere Ministri ed Ambasciatori di Cristo nel contesto attuale della Chiesa e della società.

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Traduzione dalla lingua francese di Giovanni Decina


La Redazione presenta ai lettori Fratel Remo, collaboratore di Rivista Lasalliana e studioso di questioni umanistico-rinascimentali Remo L. Guidi è uno studioso di questioni umanistico-rinascimentali, ambito su cui è intervenuto con Aspetti religiosi nella letteratura del Quattrocento (1974-75), Cultura e vita nell’Età Umanistica (1976), La morte nell’Età Umanistica (1983), Il dibattito sull’uomo nel Quattrocento (1998-99) e L’inquietudine del Quattrocento (2007). Con un progetto volto a comprendere l’uomo, ben oltre il mito devozionale e apologetico, ha siglato anche Jean-Baptiste de La Salle: un problema storiografico del Grand Siècle (1999). Guidi partecipa al dibattito culturale sul Quattrocento con interventi o rassegne, tra l’altro, sull’Archivio Storico Italiano, Archivum Franciscanum Historicum, Giornale Storico della Letteratura Italiana, La Cultura, Rassegna della Letteratura Italiana, Studi Medievali, Rivista Storica Italiana. I suoi studi risultano oggetto di attente valutazioni, oltre che sulla stampa italiana e su quella degli ordini Mendicanti, anche all’estero e, in particolare, su Analecta Bollandiana, Eglise et Théologie; Innsbrucker Historische Studien, Latomus, L’homme et la Société, Mediaevistik Internationale Zeitschrift für Interdisziplinäre Mittelalterforschung, Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, Renaissance Quarterly, The Catholic Historical Review. A quanto sopra riportato, oggi si aggiunge il volume Frati e Umanisti nel Quattrocento, una vasta tela che non è facile riassumere, o presentare. Tuttavia si osserva che lungo tutto il Quattrocento i maestri di spirito e gli umanisti non si persero mai di vista, ed ebbero molte opportunità per deporre le reciproche diffidenze, cosa che non accadde ed essi presto si posizionarono su livelli prima di diffidenza, poi di conflitto. Remo L. Guidi, che da oltre quarant’anni studia il fenomeno, qui ne ridisegna il corso, dà la parola ai protagonisti e ne valuta le certezze, documentando dovunque la rotta seguita a ridosso di una consultazione di fonti ad ampio raggio, quasi a costringere gli uomini di quel tempo remoto a rivivere e dibattere, per meglio spiegarsi su problemi dalla cui soluzione potrebbe dipendere, ancora oggi, la stessa qualità della vita.


Rivista Lasalliana 80 (2013) 4, 559-569

RECENSIONI E NOTE

HADJADJ FABRICE, Il paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda. Lindau, Torino 2013, pp. 472. e 29,00. «Quale libro può aprirsi con più forza di una tomba che si chiude? Quale poesia è possibile al capezzale di un morente? Quale avvenire quando è già troppo tardi ed è la fine del mondo?». A queste domande intende rispondere il volume di Fabrice Hadjadj, un filosofo francese di origini ebraico-tunisine, attualmente direttore della scuola universitaria Philantropos di Friburgo (Svizzera) e collaboratore di giornali («Le Figaro») e di riviste («Art Press», «La vie»). Già autore di diverse opere, di saggi e di libri d’arte, alcuni dei quali tradotti in italiano (Lindau ha già pubblicato La terra strada del cielo, 2010 e Che cos’è la verità?, 2011, insieme a F. Midal), recentemente ha pubblicato un testo sul tema della nuova evangelizzazione: Come parlare di Dio oggi, Messaggero 2013 (opera recensita in RL 80 [2013] 3 409-411). La tesi del presente libro (in realtà una collezione di vari libri, che tuttavia seguono una progressione coerente) è la seguente: il compimento escatologico della storia e del mondo, la meta della creazione e della redenzione, ossia il paradiso, è un orizzonte di fecondità traboccante, non un sogno sterilizzatore, né una fuga in un mondo immaginario, ma eterna comunione d’amore, di gioia e di canti. Hadjadj cerca la risposta alle suddette domane attraverso sette

‘movimenti’, intervallati da qualche ‘intermezzo’, un percorso che spazia dalla filosofia alla teologia, dalla letteratura alle arti. Il primo movimento (La politica posseduta dalla Città del Cielo, pp. 37-79) ricerca il corretto rapporto fra la città di Dio e la città degli uomini, fra la storia e l’éschaton: la nozione di Storia deriva in verità dal paradiso predicato da ebrei e da cristiani: ora, perché la Storia entrasse nella storia, è stato necessario che l’Eterno vi discendesse a portar via quelli che «hanno i piedi e non camminano» (Sal 115,7). Così il rapporto fra l’aldilà e l’aldiqua è, insieme, rottura e continuità: «radicale rottura perché si tratta di passare dalla notte della fede alla visione della gloria; profonda continuità perché è la carità stessa che fa vivere da una all’altra riva» (p. 46). Questo comporta il superamento sia della figura della separazione (la città celeste contro la città terrestre: gnosticismo, la città terrestre acanto alla città celeste: liberalismo) sia quella della confusione (la città celeste come la città terrena: teocrazia, la città terrestre come la città celeste: totalitarismo; l’esito nefasto della rivoluzione francese [il terrore], della rivoluzione social-comunista [gulag], della rivoluzione nazionalsocialista [campi di concentramento]). Da questa disanima Hadjadj conclude: il bene temporale non può essere confuso col bene eterno; il bene temporale non può essere separato dal bene


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RECENSIONI E NOTE

eterno. Non separare, né confondere, ma distinguere per unire. Da qui il secondo movimento (Dai retromondi all’Entroterra, pp. 81-125), che precisa ulteriormente questo rapporto tra cielo e terra: sono meno separabili di quanto comunemente si crede, fanno appello l’uno all’altro come la sostanza e la forma, la promessa e il suo compimento. Pertanto non hanno fondamento quei pregiudizi che vedono nel paradiso l’esito illusorio del disprezzo per la terra (come in F. Nietzsche, che intravede, probabilmente nel delirio, l’iscrizione sulla porta del paradiso dantesco: “fecemi l’eterno odio”): la nostra vita terrena è dunque stare alla porta, vivere sulla soglia. Qui Hadjadj illustra questa situazione con ampi riferimenti letterari: alla Commedia di Dante (dove «l’eterno non distrugge le contingenze del tempo, anzi l’Eterno dona a Dante di giungere finalmente a Beatrice), alla poesia di Yves Bonnefois (alla ricerca di un “Entroterra” dischiuso alla contemplazione) e all’opera poetica di Charles Baudelaire. Soprattutto nell’autore de Les fleurs du mal (1857), si scopre che il paradiso s’incontra nell’esperienza del bello: l’esperienza estetica, pur presentando una certa ambiguità, è «una pregustazione del Cielo». Stare sulla soglia significa stare di fronte all’alternativa: o si spera nel paradiso con attenzione e pazienza, oppure con impazienza e ostentazione ci si fabbrica un surrogato artificiale di paradiso, che è il principio dell’inferno. «Il vero paradiso si fa sentire come un morso, o ne accolgo la violenza che mi incita a distruggere gli eden penosi in cui avevo imprigionato la mia speranza, o sprofondo ancor più nella loro caricatura» (p. 106). Occorre dunque muoversi verso quella che l’Autore chiama “la scomoda Gioia”, che si

raggiunge vivendo presso Colui che è la causa di tutte le cose e della gioia stessa. Il secondo movimento è ulteriormente raccontato con un intermezzo dedicato a Franz Kafka (Kafka alla soglia della terra promessa, pp. 127-142): qui lo scrittore, le sue opere e i suoi personaggi si trovano sempre sulla soglia, si è sempre alla porta, nell’imminenza di un avvento che non avviene. Sia i racconti (con la celebre La metamorfosi), sia i romanzi (Il processo, Il castello) sono un’illustrazione umoristica e angosciante insieme di questa stare alla frontiera, alle porte dell’eternità come il cliente allo sportello dell’ufficio postale (da qui l’uso dell’aggettivo ‘kafkiano’). In un quaderno del 1918 Kafka scrive: «Non si può dire che la fede ci manchi. Il solo e semplice fatto che viviamo è dotato di un valore di fede inesauribile» (Journal, Paris 1954, 536). Stare sulla soglia non è facile, tuttavia chi sa intravedere oltre, come il salmista proclama: «Stare sulla soglia della casa del mio Dio è meglio che abitare nelle tende dei malvagi» (Sal 83, 11). Quelle del paradiso, del resto, sono porte assai impegnative: le porte aperte sono impraticabili, le porte chiuse sono promettenti. «La speranza è la soglia sulla quale si inciampa e che si oltrepassa solamente oltrepassando» (p. 134). La gioia è il nome proprio del paradiso e del suo Signore (“Deus est beatitudo”), pertanto il terzo movimento (Soffrire la gioia, pp. 143- 190) non consiste nel girare attorno alla gioia, ma nel fatto che questa ci raggiunge, ci chiama, ci convoca alle nozze eterne e richiede, da parte nostra, una radicale conversione e un’accoglienza appassionata. Da qui, il titolo di questa terza parte: soffrire la gioia. Innanzitutto la gioia è primaria: non soltanto siamo stati creati per la gioia, ma siamo stati anche e soprattutto creati dalla gioia, per questo la gioia


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costituisce il fondo dell’essere. Ne consegue che anche il male, anche il crimine più efferato non può sussistere senza la bontà che viene da esso scalzata, ne consegue quella che l’Autore chiama la relatività dell’infelicità, o il primato e l’anteriorità dello stupore di fronte alla vita sull’angoscia di fronte al male e alla morte. E ancora: lo scandalo è sempre commisurato alla bontà e all’ammirazione che c’era prima, è soltanto come privazione del paradiso che l’inferno appare infernale, altrimenti non sarebbe così. Poiché la convocazione della gioia comporta cambiamenti e rinunce, ci sono quelli che, soffocata la chiamata, la rimpiazzano con «gli angioletti di comfort, o la frantumano nei sogghigni, nei mugolii della dissolutezza, le sentenze dell’atarassia» (p. 157). Il marchese de Sade ne è una tipica rappresentazione: la crudeltà, che teorizza e attua, è il modo per superare l’esperienza della perdita dell’oggetto amato. Nega Dio, ma intravede che la salvezza non verrà dalla natura né dalla scienza, tuttavia aprirsi alla grazia sarebbe una distruzione eccessiva del suo stupido orgoglio, preferisce perciò la crudeltà. Resta tuttavia la conferma: «la crudeltà senza una bontà fondamentale che le serva da fondo, crolla su se stessa; i demoni lascerebbero l’inferno se non avessero il piacere di sfidare il paradiso» (p. 161). Poiché l’etimologia rivela qualcosa del mondo in cui quella cosa fu percepita per la prima volta, Hadjadj dedica alcune pagine alla radice della parola ‘gioia’ e dei suoi similari (il greco eudaimon, i latini laetitia, dilectus, il francese bonheur, l’inglese happiness, gli italiani allegria, piacere). Secondo dizionari eruditi, ‘gioia’ deriva dalla radice indoeuropea yug, che significa legame. Effettivamente la gioia è un legame: è ricevuta

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dalla grazia di un altro, ma è ricevuta veramente soltanto a condizione di essere comunicata ad altri ancora. Non si tratta dunque di una gioia a basso prezzo, anzi, troviamo nella nostra esperienza umana anche la tristezza. Ma vi è tristezza e tristezza: la tristezza secondo Dio produce un pentimento che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (con un rinvio a quanto scrive Paolo in 2Cor 7, 9-10). Sul monte degli Ulivi Cristo dice: «L’anima mia è triste fino alla morte» (Mc 14, 34), ma la tristezza è «come i dolori di una donna nel travaglio del parto» (cfr. Gv 17, 1). Pertanto «riconoscere che la gioia è il fondo dell’essere non ha niente di confortevole: non è solo confessare quanto io sia incapace di essere, è anche sperimentare il male senza compiacenza alcuna … e scoprire infine che la Shekhinah non abita in mezzo alla tristezza, ma in mezzo alla gioia del comandamento» (p. 184). Bisogna infine affrontare, nel movimento della gioia verso di noi, tre ‘prove’: la prova dello stupore (che nasce dal riconoscere che la vita mi è data, un dono di un incontro che desta meraviglia, e rendendo grazie al donatore, accoglierlo sempre di più); la prova dell’afflizione (che ha luogo nell’universo ferito dalla caduta, che è commisurata alla meraviglia iniziale); la prova della croce (dove i dolori del parto sono l’ultima figura della croce). «La gioia non potrebbe rimanere in noi se non accettassimo il travaglio per comunicarla. Uno allora s’offre nei dolori del parto per comunicarla» (p. 187). L’intermezzo che meglio suona e canta la gioia è, il va sans dire, W. A. Mozart: lo stile galante che impazza nella sua epoca frivola, il genio di Mozart sa aprirlo alla grazia (alla grazia ‘filiale,


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precisamente). La gioia che trasmette non mai il risultato di uno sforzo, è sempre regalo dal cielo. Diversi teologi – K. Barth, H. Küng, J. Ratzinger … – hanno colto in lui l’apertura ricettiva dello spirito davanti allo splendore paradisiaco, fino a far dire al teologo calvinista di Basilea: «Non sono sicuro che gli angeli, quando glorificano Dio, suonino musica di Bach; sono certo che quando stanno tra loro suonano Mozart, e che Dio ama allora, in modo particolare, ascoltarli» (W. A. Mozart, Labor et Fides 1969, 12). Il quarto movimento (Seconda Parola di Cristo in Croce, pp. 213-262) ci porta sul Golgota, a quella sorta di dialogo nel mezzo del supplizio in cui Gesù dice ‘Paradiso’, quasi come un controcanto con la scena sul Tabor: «una divina ironia vede qui la luce: in gloria, si parla della croce; in croce, si parla della gloria» (p. 216). Mentre un ladrone lo insulta e lo beffeggia (commettendo i due peccati contro la speranza: presunzione e disperazione), l’altro, riconoscendo la giustizia della loro condanna e l’ingiustizia della condanna di Gesù, s’abbandona al buon cuore del Signore: non si crede degno del Regno che verrà, ma domanda solamente di ricordarsi di lui. «Oggi sari con me in paradiso». Questo crocifisso non aveva veduto alcun miracolo di Gesù, ma aveva poc’anzi sentito la prima parola di Cristo in croce, una parola impossibile: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». E questo gli ha aperto gli occhi sull’identità di quel “re dei Giudei”. Nel vangeli Gesù pronuncia tre volte la parola ‘oggi’: all’inizio della predicazione a Nazaret, nella casa si Zaccheo e qui sul Golgota. «L’ ‘oggi’ di Cristo è allo stesso tempo movimento verso il Calvario e verso il Paradiso» (p. 239). Dunque l’oggi del paradiso non è una fuga dal mondo, l’oggi del paradiso

deve ancora avvenire ed è ritardato dall’ampiezza dal male e indebolito dalla ristrettezza dei nostri cuori. Per illustrare questa connessione e questa distinzione di Croce e di Gloria Hadjadj osserva che nell’esperienza dei santi più la speranza è viva, più essa è oscura, oscurità che è forse quella di un abbagliamento, ma non per questo è meno buia della notte più nera. Due Terese sono qui richiamate: la santa di Lisieux (e l’esperienza della “notte del niente”) e Teresa-Benedetta della Croce (Edith Stein, un essere senza destino nei campi di concentramento). Ma proprio il superamento delle prove più difficili insegna a tutti che questa oscurità non può essere un pretesto per nascondersi, perché proprio allora il Crocifisso Risorto bussa alla mia porta interiore; sta qui la prova della speranza cristiana: con essa ogni riuscita mondana è ancora un insuccesso e ogni disastro può essere un inizio. A Marcel Proust e alla sua ricerca del tempo perduto e del tempo ritrovato è dedicato l’intermezzo che illustra il precedente movimento: il messaggio della Recherche è l’ammissione di un fiasco (l’impossibilità di abbracciare Albertine), nella prospettiva paradossale del Tempo ritrovato: «Car les vrais paradis sont ceux qu’on perdus»: la perdita del tempo passato diventa l’occasione di un ritrovarsi più intimo, dove la domanda insistente di un abbraccio perfetto illumina l’attesa di una luce di gloria che è, al tempo stesso, visione beatifica e abbraccio beato. Proprio intorno al tema del vedere si dipana il movimento successivo (Vedrete, vedrete, pp. 285-343): come rimanere sull’orlo di ciò di cui non si può parlare né vedere, ma che non si riesce a tacere? L’Autore ricorda due pre-veggenti: Tommaso d’Aquino e Arthur Rimbaud hanno dovuto riconoscere che il termine


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della loro ricerca è al di là della condizione terrena. «Tutto ciò che ho scritto – dice l’Aquinate al segretario – mi sembra paglia in confronto a quanto ho visto». Del resto il Signore dice a Mosè: «Nessuno può vedermi e restare vivo» (Es 33, 20). La peculiarità della visione della fede biblica (rispetto, per esempio, alla concezione delle religioni orientali in cui l’eternità è il dissolversi dell’illusione dell’io) sta non tanto in una concezione dell’eternità, bensì nell’incontro con l’Eterno, il nome di una Persona, anzi di una comunione di Persone. «La vita eterna non è uno stato ma un incontro, non un ingresso in qualcosa, ma la comunione con qualcuno. La verità è relazione con una Persona e non padronanza di un sistema filosofico. La sua Pace è un abbraccio e non un distacco» (p. 297). «Rallegratevi non perché i demoni si sottomettono, ma perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10, 20): il trionfo della gioia non sta nel dominio dell’uno sull’altro, ma nella comunione col Creatore, che è inclusiva di tutte le creature. I beati sono così nella pienezza del compimento e nella freschezza del cominciamento, così li descrive Francesco di Sales: «I beati sono rapiti da una duplice ammirazione: una per l’infinita bellezza che essi contemplano, l’altra per l’abisso insondabile che in quella stessa bellezza resta ancora da vedere» (Trattato dell’amore di Dio, l. III, c. 15). La visio beatifica, in quanto incontro con l’Eterno, comporta l’incontro con gli altri: ciascuno è unito a Dio senza intermediari e percepisce la necessità della presenza degli altri, poiché l’Eterno li ha scelti in Cristo «prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità» (Ef 1, 4). Questa comunione dei cieli significa essere radicati nella vita trinitaria, partecipare alla fecondità divina, o, per dirla con Balthasar: «La vita del

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cielo, poiché Dio resta nell’eternità “il mistero al tempo stesso sacro e svelato, non è pertanto meno ricca di tensioni né meno drammatica dell’esistenza terrena» (Teodrammatica. L’ultimo atto, Jaca Book 1985). L’intermezzo artistico che illustra questo movimento è dedicato allo scultore Gian Lorenzo Bernini (Bernini, o la risurrezione a colpi di martello, pp. 345367): contemplando le maestose opere dello scultore secentesco, è possibile cogliere insegnamenti escatologici di notevole rilievo: la sua operazione fa passare da un estremo all’altro, dalla massa inerme all’apparizione morbosa e carnale, essa è un simbolo della risurrezione. La statua non è certo abitabile, ma dispone un’altra abitazione, la metamorfosi più radicale è l’oggetto stesso della scultura, il movimento che produce è saper estrarre l’avvenire di festa. «La scultura del Bernini attesta la gloria che ci chiama al di là dell’ultimo colpo di bullino: diventare corpi non contenuti nello spazio, ma corpi che organizzano intorno a essi lo spazio della più alta accoglienza, corpi cosmici, corpi sorgenti, corpi tempio per una liturgia immortale» (p. 366). Il cielo e la terra dunque passeranno, ma la parola di Gesù sull’eternità non passerà … Su questa parola Hadjadj propone, nel sesto movimento, gli elementi di una nuova fisica, o fisica eucaristica, dove tutto è ordinato al rendimento di grazie (Dopo la fine del mondo. Elementi di una nuova fisica, pp. 369-426). Come saranno i corpi gloriosi? Si elabora così una risposta alla domanda che già i Corinti fecero a Paolo (cfr. 1Cor 15). Innanzitutto il corpo glorioso è un corpo dato in sacrificio (passato attraverso la morte, corpo donato, ospitale e danzante); il corpo glorioso è tanto più spirituale quanto più è carnale (raccordo col


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sacramento eucaristico, similmente al corpo del Risorto nelle apparizioni pasquali); un corpo è tanto più glorioso quanto più è accogliente, contiene il nostro spazio senza esserne contenuto; e ancora: i corpi potranno compenetrarsi con sorprendente intimità, «come sguardi che si immergono l’uno nell’altro in modo tattile e fino al santuario del cuore, così i loro abbracci …» (p. 389). Un altro principio della nuova fisica può essere così espresso: il mio corpo sarà più mio in quello stato glorioso che nello stato penoso in cui si trova e ancor più si perde in questo momento, «dall’ordine biologico, proprio dello stato del viandante, si passa all’ordine estetico» (così J. Maritain, Approches sansb entraves, Fayard 1973, 490), un ordine nel quale «godremo della sola bellezza, gli uni della bellezza degli altri senza desideri impuri» (così Agostino, De civitate Dei, XIII, 34). Ne consegue che tutto ciò che aveva lo scopo di sostenere la vita fisiologica sarà liberato per avere l’unica funzione di sostenere lo splendore estetico. Nella beatitudine ogni corpo glorioso inventa i canoni di uno splendore mai visto a partire dalle peripezie della sua esistenza terrena (avrà la capacità di ricevere sovrabbondanza dall’altro e donarla, non si tratterà più di imparare, ma di far sbocciare lo splendore di ciò che è già conosciuto, la sensibilità serve più alla poesia che alla conoscenza). Dunque un altro principio della nuova fisica sta qui: il corpo glorioso, in quanto eucaristico, è un corpo poetico: tutto ciò che il corpo glorioso riceve nell’amore, lo offre in composizioni singolari, tanto più originali quanto più è in comunione con la sua origine; «la celebrazione eucaristica, questo scambio tra l’uomo e il suo Salvatore è anticipo della poesia che viene» (p. 404). L’uomo e la terra, la donna e l’universo,

uniti fin dall’origine, lo saranno anche in cielo, la vocazione della carne dell’umano è appunto quella d’essere il punto d’incontro tra il Cielo e la Terra. Infine, il corpo poetico è una stella del circo universale, danzatore e domatore, coreografo e corifeo che conduce tutta la creazione (pietre, piante, bestie…) al paradiso. Il dispiegamento di tutto il mondo fisico a partire dalla generosità dei corpi gloriosi è il vero compimento dell’uomo; per rendere grazie alle ricchezze del suo Creatore, ogni corpo glorioso sarà creativo, poetico a sua volta. Il compimento ha la sua icona-finestra nella Gerusalemme celeste (cfr. Ap. 21-22), la prevalenza della città sul giardino nel designare il paradiso ha le seguenti ragioni; la consistenza della storia, il primato dei volti (a ciascuno è restituito il suo nome proprio, incomparabile), la novità degli incontri (la novità corrisponde a quanto vi era di più nascosto nei nostri cuori, trasparenza e generosità), la prosecuzione dell’arte (perché l’arte è sempre del’uno per l’altro), la verità della redenzione (composta da peccatori che sono trasformati dalla grazia). L’Apocalisse menziona ancora un paio di annotazioni: nella nuova Gerusalemme non vi è il tempio, perché Dio e l’Agnello sono il suo tempio e, essendo Dio tutto in tutti, il tempio è in ogni corpo beato. La città di Dio ha le porte (“dodici porte”), sono porte soltanto per l’ingresso, per l’accoglienza, «non sono per fuggire, ma per aprire ancora. Il paradiso è un eccesso. E tutto ciò che possiamo dire è niente in confronto a ciò che resta da cantare» (p. 424). Proprio intorno al canto di lode e di ringraziamento si dipana l’ultimo movimento (La chiave dei canti, pp. 427-470): dall’inizio alla fine della Bibbia, il canto – il canto a più voci, precisamente – è presentato come l’attività principale dei


Umberto Casale

beati. Canta Mosè dopo l’attraversata del mare; canta Davide con le corde del salterio; cantano Cristo e gli apostoli dopo l’ultima cena; il veggente dell’Apocalisse ode «una voce che vien dal cielo … la voce come quella dei suonatori di arpa che si accompagnavano nel canto» (14, 2-3). Anche il Credo, osserva Hadjaj, andrebbe sempre cantato perché non si tratta soltanto di sapere e di dovere, ma di amore: è cantare i misteri della misericordia divina con un “canto nudo”, dove non basta cantare con le labbra, occorre il grido dell’intelligenza, la ferita del cuore, la gioia della lode e del ringraziamento. «Canto è esistenza», scrive R. M. Rilke, in effetti il canto indica qui «una relazione integrale, spirituale e carnale, che oltrepassa contemporaneamente la teoria, l’estetica e l’etica … il paradiso si presenta come un coro» (pp. 440-442). Si tratta di un canto a più voci (la voci innumerevoli di cui parla Apocalisse), la mia voce e il mio corpo sono radicalmente rivolti verso il prossimo, in una comunione aperta dove l’uno si unisce all’altro fino a formare un solo tessuto sonoro (una polifonia); questa intima, musicale unione con l’Eterno non è riassorbimento, ma conserva la personalità di colui a cui l’Eterno si unisce. Questo canto corale è canto di lode e di ringraziamento: lodiamo e ringraziamo perché Dio ci apre lo spazio della gratuità, perché ci fa partecipare alla sua liberalità. Dunque lodiamo Dio, scrive Tommaso d’Aquino, «non per utilità sua, ma a vantaggio nostro» (Sum. Theol. II-II, q. 91, a. 1). Alleluia è l’ultima parola del salterio – della preghiera nel tempo – è la prima parola dell’eternità, canteremo e loderemo il canto infinito della Trinità tutta santa, dove «il Padre è la Voce, il Figlio la Parola e lo Spirito la musica» (p. 466).

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Occorre dunque cantare oggi l’Alleluia nelle vicende della storia, «per poterlo cantare un giorno nella pace e nella gioia» (Agostino, Sermoni, 256, 3). In sede di commento critico si può sottolineare che il libro è scritto con un linguaggio brioso, ironico ed efficace, impegna il lettore in un ripensamento profondo circa il modo e i limiti di concepire la principale questione escatologica cristiana, ovvero la vita eterna, il paradiso promesso da Gesù ai peccatori pentiti, lì dove si gioisce e si fa festa per l’arrivo di uno di noi. La Scrittura, la filosofia e la teologia, la letteratura e le arti (soprattutto la musica) sono convocate qui per questo scopo. L’unica carenza sta nell’aver poco utilizzato quanto la miglior teologia moderna e contemporanea ha saputo produrre a questo riguardo (penso a Balthasar, Ratzinger, Rahner, Jüngel, Moltmann, Nitrola, Greshake …), mettendo maggiormente in luce che il concetto di storia della salvezza, nella quale Dio in Cristo si rivela all’uomo, ci fa comprendere che l’eternità a cui Dio ci chiama non è estranea alla storia, preparazione al mistero della trasformazione (1 Cor 15, 51). «Abbiamo bisogno – scriveva F. Kafka all’amico Brod – di libri che agiscano su di noi come un pugno in faccia, che ci perturbino profondamente, ci facciano soffrire, cambiare». Questo di Hadjadj può essere un libro di tal fatta per molti. Umberto Casale BERNARDI P.- MONDUCCI F., Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, UTET, Novara 2012, pp. 332. e 25,00. Attraverso un cammino iniziato più di trentacinque anni fa con le prime pro-


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poste di didattica operativa contenute nei documenti programmatici del Movimento per la Cooperazione Educativa, il Laboratorio Nazionale per la Didattica della Storia è stato fondato nel 1983. Il libro qui presentato offre nei vari autorevoli contributi un utile connubio di riflessione teorica sulla didattica della storia nel contesto odierno, specificando la propensione per un’impostazione laboratoriale, e per l’appunto un’analisi di suggestivi percorsi di pratica nelle relazioni di apprendimento. L’idea-cardine di questo studio è precisata da A. Del monaco, ove afferma che l’apprendimento della storia deve «avvenire attraverso calibrate operazioni di tipo storiografico, offrendo materiali e strumenti per rendere gli allievi e le allieve non passivi destinatari ma costruttori di percorsi di storia». «Il laboratorio propone sfide», implica il superamento di una concezione tradizionale della comunicazione didattica, verso le dimensioni della ricerca e del gruppo. Chiedere agli studenti di adeguarsi a un’immagine del passato precostituita significa limitare l’intelligenza: prima dell’elaborazione dei contenuti, prima delle fonti, prima delle attività di ricerca «c’è la domanda che si rivolge dal presente al passato mentre la risposta giunge dal passato al presente: in tale movimento circolare si può trovare la propria collocazione nel mondo». Nella messa a fuoco delle domande significative «si collegano le ragioni dell’insegnante e quelle dei ragazzi, la storia e la didattica perché, per passare dall’apertura di un discorso problematico all’itinerario che conduce alle risposte, occorrono operazioni, semplici o complesse, di esplorazione delle possibilità», in una dinamica di coinvolgimento sempre personale. Scegliere un valore dei contenuti della sto-

ria significa anche scegliere i propri antenati. Lo studio delle fonti, sul quale si sofferma S. Guarracino, rimane comunque una delle questioni previe alla studio storico, come già previsto dai programmi scolastici del 1979 e del 1985. Inizialmente oggetto qualunque, la fonte diventa tale per l’azione che su di essa esercita lo storico. Il concetto moderno, dinamico, di fonte è l’esito di un processo avviato negli anni Trenta dalla scuola delle “Annales”, proseguito con la rivoluzione documentaria del XX secolo, che ampliò le fonti al di là del documento scritto. Come ben argomentato da E. Rosso, la storia non è il racconto, «ma il racconto è la forma con cui le fonti vengono collegate in una “storia”». Oggi il docente si confronta con ragazzi che, vuoti di memoria, sono imbevuti attraverso i canali massmediali di conoscenze storiche spesso manipolate. Gli Autori si soffermano sul valore di alcune tipologie di fonti attuali, quali canzoni, immagini, fumetti, fotografie, cinema, proponendo alcuni esempi di itinerari laboratoriali. Il cinema, ad esempio, spiega M. Medi, come narrazione filmica del passato, può essere usato in modo molto produttivo nello studio della storia, purchè inserito in un percorso critico che rifletta sui fatti e le loro interpretazioni, utilizzando anche altri tipi di testo. Le fonti offrono informazioni sul periodo in esse contenuto, ma anche sul periodo in cui sono state esse stesse prodotte, quando diverso da quello raccontato. Anche il confronto tra gli strumenti narrativi offre la possibilità di ricostruzione di un itinerario storico, riconoscendo le fasi evolutive o trasformative delle fonti. Entrando nello specifico dei contenuti dello studio della Storia, così come le “Indicazioni” e le “Linee guida” mini-


Michele Cataluddi

steriali prescrivono, fa notare C. Grazioli ancora un antiquato sbilanciamento su argomenti pur importanti, che tuttavia impediscono il dovuto approfondimento di periodi più recenti, sia di storia italiana ed europea, che mondiale, in specie all’ultimo anno. A quali appartenenze introduce l’alunno lo studio odierno della storia? Una competenza fondamentale della materia è l’acquisizione del senso del tempo storico, che non si forma imparando la storia secondo la linea del tempo, bensì secondo diversi modelli di interpretazione tematica delle grandi fasi di trasformazione della civiltà. Tra le attività suggerite, anche la visita a luoghi di memoria, dove si trovano ad interagire interpretazione storica, trasmissione di memorie, formazione del cittadino (M. Gigli -M.L. Marescalchi). Si possono distinguere le tipologie del luogo-evento; del luogo-rappresentazione, cioè il monumento; del luogoraccolta di materiali o museo di storia. Un luogo di memoria assume comunque la valenza di ponte tra presente e passato, questa sua caratteristica ne rende significativa l’assunzione nella pratica didattica. La “capacità di ascoltare il luogo” è la risultante del graduale processo di coinvolgimento composto dal complesso mosaico degli interventi didattici. Tra storia e memoria, tante volte confuse nel dibattito pubblico, va mantenuta sempre una distinzione, esigenza particolarmente cogente quando si ricorre a un testimone. Una delle trasformazioni più evidenti degli ultimi anni riguarda il rapporto con il web. Come nota I. Mattozzi, attualmente «la produzione e l’uso di strumenti per la comprensione, il trattamento e l’organizzazione di informazioni e conoscenze sono resi più potenti

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dall’informatica e dalle risorse digitali». L’importanza della rivoluzione informatica è approfondita da P. Biancardi, E. Rosso e M. Sarti nel loro contributo, tenendo conto delle trasformazioni di una società divenuta veloce, complessa, flessibile, oberata di informazioni, ricca di possibilità. La complessità è connaturata al fenomeno storico stesso e al sapere ad esso rivolto, che per questo si avvale di una pluralità di strumenti e di saperi, dalla sociologia all’antropologia, dall’economia alla demografia. I social network possono rappresentare anche per gli insegnanti dei punti di riferimento per raggiungere gli allievi, condividere materiali e produzioni individuali o costruite collaborativamente. Gli autori segnalano in proposito una serie di siti per le differenti utilità e applicazioni nell’insegnamento della storia. Tali connettività rompono i limiti spaziali e temporali della scuola, consentendo un’operatività allargata che può essere sfruttata per un laboratorio permanente di lavoro e ricerca. Una significativa spinta deriva dall’introduzione in classe della LIM, ossia della Lavagna Multimediale Interattiva. La scuola italiana sta affrontando poi un’altra innovazione, a partire dalle decisioni ministeriali, che vogliono l’introduzione dei libri digitali sui banchi. Come osserva H. Girardet, ci si trova in una situazione inedita: se fino agli anni ottanta i problemi maggiori riguardavano il come e dove reperire l’informazione, «oggi la grande questione è come orientarsi, selezionare, distinguere e valutare l’informazione» che rischia di sommergerci. «Le tecnologie digitali potenziano le possibilità di azione dell’utente e conducono alla ridefinizione del concetto stesso di autorialità, visto che l’allargamento del margine di manovra del fruitore fa sì che egli stesso


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diventi autonomo autore del proprio percorso». Viene dunque concepita una didattica laboratoriale, in linea anche con le indicazioni ministeriali, nella direzione di una didattica costruttivista che metta al centro l’attività di ricerca, di scoperta guidata e di restituzione creativa da parte dei ragazzi piuttosto che la semplice trasmissione dei contenuti da parte del docente. Gli autori offrono vari esempi o proposte di attività, anche in forma vicina a quella del gioco. Michele Cataluddi

Docenti competenti LAURI L., Competenze. Programmazione didattica e valutazione, Etas, Milano 2013. e 12.00. Si parla molto, in questo periodo, di “rinascita” della scuola, soprattutto di quella secondaria di secondo grado. La riforma dell’ università prima e della scuola superiore poi, ha dettato modifiche sostanziali a tutto il sistema scolastico italiano in coerenza con il contesto europeo che aveva già emanato significativi documenti dal marzo 2000 (Lisbona) all’aprile 2008. Significative, in particolare, due Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio europeo: quella su “Le competenze chiave per l’apprendimento permanente” e quella relativa al “framework” (E.Q.F.) delle qualifiche e della loro classificazione dell’aprile 2008. Ma come ritrovare il senso di una scuola moderna, come (ri)scoprire e (ri)vitalizzare l’autonomia scolastica, come proporre agli operatori scolastici un modello che permetta, soprattutto ai docenti «una diversa sensibilità nei riguardi delle discipline scolastiche,

rifiutando l’insuccesso scolastico come dato di fatto, migliorando la propria formazione, aumentando l’autonomia e la responsabilità in aula e nell’organizzazione scolastica, aprendosi a una nuova stagione dell’ apprendimento che segni il passaggio dal modello disciplinare basato sulla trasmissibilità di conoscenze a quello basato sulla costruzione di competenze con un forte richiamo alla personalizzazione e alla riduzione della “frammentazione oraria disciplinare”»?1 Occorrerà sicuramente favorire nuove strade e nuove strategie in cui «i saperi siano al servizio delle relazioni, delle interpolazioni, delle risoluzioni, delle interpretazioni, delle analisi testuali in situazioni reali date?».2 Occorrerà produrre anche nella scuola “prestazioni” in cui il soggetto studente sia in grado di manifestare, a livelli sempre più adeguati di qualità, una idea di professionalità intesa come capacità a svolgere e portare a termine, nei tempi previsti, i compiti richiesti. «La sfida per i docenti sarà allora quella di “far sviluppare competenze” nei propri studenti; non si tratterà tanto di decidere se sono migliori le «teste piene» o le «teste ben fatte», ma di formare le «teste» in situazione».3 Tutto ciò dovrà prevedere approfondite riflessioni anche e, soprattutto, a livello europeo e i « toni del linguaggio non ammettono dubbi: esistono e si stanno sviluppando forti connessioni tra elaborazione di percorsi formativi, bisogni di nuove competenze e mercato del lavoro. Naturalmente, l’istruzione non può prescindere dalle caratteristiche del mondo del lavoro e, quindi, delle aziende, il che implica conoscenza, sviluppo di nuove competenze, attivazione di nuova cittadinanza. Non si tratta di “aziendalizzare” la scuola ma di fornire


Donato Petti

ai giovani maggiori occasioni di occupabilità e inserimento nella vita attiva. Chi sostiene che costruire un curricolo per competenze mira solo a ottenere “prodotti” e non tiene in alcun conto il processo di apprendimento dello studente è in errore: la costruzione delle competenze a scuola mobilita e coordina conoscenze, abilità e capacità in situazioni contestualizzate, enfatizzando il contesto in cui l’apprendimento si svolge e affermando processualmente la centralità dello studente. In tale quadro di riferimento, le competenze vengono dunque considerate dall’Europa come «[...] il nesso strategico tra occupabilità, apprendimento permanente e sviluppo economico possibile». Le competenze, e la loro gestione, vengono riconosciute come il principale fattore su cui investire per fare dell’Unione Europea la «società delle conoscenze più competitiva e dinamica del mondo». Si parla di Unione Europea e, quindi, di riconoscibilità e certificabilità delle competenze in uscita dai vari Paesi: come mettere a punto un sistema europeo di accreditamento «in grado di confrontare e diffondere definizioni, metodi e pratiche delle competenze»? Trala-

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sciando esperienze e direttive precedenti, l’Unione ha posto gli “outcome” decisamente al centro della propria agenda politica con due importanti iniziative: 1. European Qualifications Framework (EQF) che, tra l’altro, esprime la necessità che gli stati europei facciano riferimento, nella propria certificazione, al Quadro Europeo delle Qualificazioni (EQF) stabilendo due date: il 2010 per rappresentare i sistemi nazionali di qualificazione all’EQF e il 2012 per introdurre, nei certificati di qualifica nazionali, il livello acquisito in corrispondenza alla rubrica EQF; 2. European Credit System for Vocational Education and Training (ECVET) che suggerisce agli stati membri di disporre che i corsi professionali dei propri Paesi siano strutturati in unità di apprendimento con un formato uniforme.4 Donato Petti LAURI L., Competenze. Programmazione didattica e valutazione, Etas, Milano 2013, p. VII. 2 Ibidem. 3 Ibidem. 4 Idem, pp. 36-37. 1


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SEGNALAZIONE LIBRI Area biblico-teologica BROCHARD M., I miracoli esistono solo per quelli che ci credono, Fontana di Siloe, 2013, pp. 108. e 12,00. DE LUBAC H. - BASTAIRE J., Claudel e Péguy, Marcianum Press, Venezia, 2013, pp. 272. e 26,00. GHERARDINI B., Contrappunto conciliare, Lindau, 2013, pp. 112. e 13,00. KÜNG H., Tornare a Gesù, Rizzoli, 2013, pp. 247. e 21,00. RATZINGER J., Opera Omnia, vol. 12 “Annunciatori della Parola e Servitori della vostra gioia”, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pp. 990. e 55,00. Area storico-filosofica GUIDI R.L., Frati e Umanisti nel Quattrocento, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2013, pp. 624. e 50,00. PERCIVALDI E., Fu vero editto? Costantino e il cristianesimo, tra storia e leggenda, Ancora, 2012, pp. 96. e 12,00. POSSENTI V., La rivoluzione biopolitica. La fatale alleanza tra materialismo e tecnica, Lindau, 2013, pp. 219. e 23,00. RUSCONI G., L’impegno. Come la Chiesa italiana accompagna la società nella vita di ogni giorno, Rubbettino, 2013, pp. 144. e 12,00. SERMONTI G., La cintura di Perseo. Dal mito della Grande Madre all’alfabeto galattico, Edizioni Lindau, pp. 216. e 22,00. Area psicopedagogico-didattica BREMBATI F.-DONINI R., DSA e compiti a casa, Ed. Erickson, Trento, 2013, pp. 160. e 20,00. CHIARAPINI M., Dove sono gli adulti? Assenti ingiustificati, Paoline Edizioni, 2013, pp. 160. e 11,00. FIORIN I., Pensare la scuola, Editoriale Tuttoscuola e Multidea, 2013, pp. 174. e 9,90. FIORIN I., Il cantiere della didattica, Editoriale Tuttoscuola e Multidea, 2013, pp. 174. e 9,90. FRIGOTTO P.P. (a cura di), Il decalogo, la donna e Dante, Paoline Edizioni, 2013, pp. 160. e 12,50. MAZZI DON A., MAZZA C., FREZZA E., BALLARINI G., Educatori senza frontiere. Diari di esperienze erranti, Ed. Erickson 2013, pp. 162. e 14,00. Area pastorale e spirituale AMBROGIO S., La luce nel cuore. Catechesi sulla fede, Ancora, 2013, pp. 144. e 17,00. ANGELINI C., PIZZABALLA P., Terrasanta quinto Evangelo, I pellicani, 2013, pp. 168. e 17.00.


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BELLASPIGA L., Medico senza frontiere. Ritratto di Carlo Urbani, Ancora, 2013, pp. 200. e 16,00. CALDIROLA D., Di donne e di gioia. Itinerario spirituale nel Vangelo di Luca, Ancora, 2013, pp. 136. e 14,50. CANTALAMESSA R., Obbedienza, Ancora, 2013, pp. 80. e 10,00. CASTEGNARO A. - DAL PIAZ G. - BIEMMI E., Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, 2013, pp. 208. e 17,00. CASTELLI F., Cento finestre su Dio. Suggestioni letterarie da Dante a Ionesco, Ancora, 2013, pp. 112. e 13,50. DAL COVOLO E., Forme di vita spirituale nei Padri della Chiesa, Lateran University Press, 2013, pp. 168. e 20,00. DE GIOVANNI N., Ildegarda di Bingen. La donna, la monaca, la santa, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pp. 120. e 12,00. GASPARI A., Un ciclone di nome Francesco, Zenit Books - Innovative Media Inc., 2013, pp. 90. e 9, 83. GIORGIO A., Clive Staples Lewis maestro dello spirito, Edizioni Messaggero, 2013, pp. 192. e 14,00. DOM GUILLAUME, Un cammino di libertà. Commento alla regola di san Benedetto, Lindau, 2013, pp. 552. e 32,00. JACHIA P., Lucio Dalla, giullare di Dio. Un profilo artistico, Ancora, 2013, pp. 144. e 15,00. LAZZARIN P., Giovanni XXIII. Primavera di speranza, Edizioni Messaggero di Padova, 2013, pp. 112. e 8,00. MAGGIONI B., La difficile fede. Figure dell’Antico Testamento. Dai Patriarchi all’esilio, Ancora, 2013, pp. 160. e 15,00. MARTINI C. M., Per amore, per voi, per sempre. Parole ai consacrati. Ancora, 2013, pp. 240. e 18,00. MILONE R., Quando la terra incontra il cielo. Medjugorje, un mistero d’amore, Fontana di Siloe, 2013, pp. 200. e 14,00. MORROW C.A. - ALLEY R.W., Gustare i frutti del tempo, Paoline Edizioni, 2013, pp. 80. e 4,00. RAHNER K., Il coraggio di credere. La fede tra coraggio, razionalità ed emozione, S. Paolo Edizioni, 2013, pp. 128. e 6,90. RICCARDI A. - CASSANO F., Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio, I Pellicani, 2013, pp. 96. e 13,00. ROSSI DI MARIGNANO F.A., Martin Lutero e Caterina von Bora. Il riformatore e la sua sposa, Ancora, 2013, pp. 416. e 22,00. SAVORANA A., Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano, 2013, pp. 250. e. 25,00 VIOLONI L., Tommaso, la beatitudine della fede, Ancora, 2013, pp. 96. e 11,00. ZANI M., Elogio della Provvidenza, Ancora, 2013, pp. 96. e 11,00.


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Indice dell’Annata

INDICE ANNATA 2013 (ANNO 80°)

EDITORIALI Donato Petti – Quale futuro per l’educazione cristiana? (1, pp. 11-17). – Jean Baptiste de La Salle e l’identità spirituale dell’educatore (2, pp. 157-162). – Una nuova alleanza per l’educazione (3, pp. 299-305). – Enciclica “La luce della fede” (4, pp. 443-449). STUDI Edwin Arteaga Tobón – Moviendo mentes y corazones en Ecuador. 150 años de presencia lasallista y su primicia el santo Hermano Miguel Febres Cordero (2, pp. 185-193). Umberto Casale – Il significato attuale del Concilio Vaticano II (1, pp. 43-59). Giovanni Chimirri – Educazione e politica rosminiana: eticità, laicismo, libertà di insegnamento (3, pp. 317-326). Enrico dal Covolo – La testimonianza dei Padri della Chiesa e la trasmissione della fede nel mondo d’oggi. Da Ireneo di Lione a Paolino di Nola (1, pp. 19-32). – Alle origini della vita consacrata. Il monachesimo cristiano dei primi secoli (4, pp. 457-459). Edgar Genuino Nicodem – Compartir el carisma lasallista de la “cum-munio” a la “cummunus” (2, pp. 173-184). Jaume Pujol i Bardolet – La perennità della spiritualità lasalliana (4, pp. 461-473). Vincenzo Rosito – La reciprocità come fondamento dell’esperienza educativa (3, pp. 327-334). Francesco Trisoglio – La fede: in vario incontro con i Padri della Chiesa (1, pp. 33-42). – Di fronte all’errore: l’atteggiamento di Anfilochio (2, pp. 163-171). – Come deve parlare chi annunzia la fede, secondo S. Agostino (3, pp. 307-316). – La catechesi davanti alla creazione: S. Basilio legge il primo capitolo della Genesi (4, pp. 451456).


Indice dell’Annata

573 PROPOSTE

Dario Antiseri – Ogni errore è un’occasione di apprendere (1, pp. 61-74). – Perché e come studiare storia della filosofia (2, pp. 195-207). – Versioni di greco e di latino quali momenti formativi di una mente critica (3, pp. 335-347). – Per evitare i danni di una didattica delle scienze priva della loro storia (4, pp. 475-485). Antonio Augenti – Linee di politica educativa dell’Unione Europea (2, pp. 209-218). Marco Camerini – Scrivere oggi, oggi. A vent’anni (4, pp. 487-493). Giovanni Chimirri – Formazione filosofica e prevenzione del nichilismo (4, pp. 495-505). Paolo Fichera – L’educazione al pluralismo (2, pp. 219-225). Raimondo Murano – La funzione ispettiva e la promozione degli insegnanti (3, pp. 349-354). Carlo Nanni – Educazione alla fede (1, pp. 75-82). Marina Pescarmona – La teoria dell’evoluzione e le sue implicazioni pedagogico-didattiche (3, pp. 355-361). Carlo Rubinacci – Persona, bisogni educativi speciali e inclusione nelle scuole autonome (4, pp. 507-519). RICERCHE Gilles Beaudet – Copia manoscritta delle “Meditazioni” di Giovanni Battista de La Salle: interrogativi e soluzioni (2, pp. 233-239). Matthieu Fontaine – Un épisode de la vie des Frères des Écoles Chrétiennes à Saint-Omer (Artois, royaume de France) avant la Révolution: l’opposition des administrateurs de la ville à la création d’une communauté, 1742-1743 (3, pp. 377-381). Antonio Gentile – Una pedagogia della libertà: il carme “Ad Astrolabium filium “ di Abelardo (4, pp. 521-532). Eugenio Guccione – Libertà di scelta educativa in Luigi Sturzo (4, pp. 533-541).


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Indice dell’Annata

Philippe Moulis – I Fratelli delle Scuole Cristiane a Boulogne-sur-Mer (1710-1724) (4, pp. 543-548). Cesare Trespidi – Lasalliani autori di libri di preghiera - II - (1, pp. 83-93). – Lasalliani autori di libri di preghiera - III - (2, pp. 241-251). – Lasalliani autori di libri di preghiera - IV - (3, pp. 363-375). Joan Carles Vázquez – Pistas para mejorar la calidad educativa en nuestros días (1, pp. 95-108).

ESPERIENZE E TESTIMONI Gilles Beaudet – Le Frère Marie-Victorin Kirouac, un éducateur et un chef de file (1, pp. 109-124). Gérad Cholvy – Frère Exupérien: l’éducation ouvre un avenir (2, pp. 253-266). Edgar Genuino Nicodem – La missione del discepolo inviato è quella di andare verso le periferie (4, pp. 549-557). Óscar A. Elizalde Prada – Volver a Vaugirard (3, pp. 383-390). Jean Rabenalisoa Ravalitera - Hilaire Raharilalao – L’oeuvre culturelle et pedagogique de Frere Raphael- Louis Rafiringa (1856 – 1919) - (3, pp. 391-403). Enrico Trisoglio – La Scuola di formazione socio-politica “A. De Gasperi” (Collegio “San Giuseppe” - Torino) - (2, pp. 267-270).

INTERVISTE Donato Petti – “Giovani, università, comunicazione della fede”: intervista a Mons. Enrico dal Covolo, Rettore della Pontificia Università Lateranense (2, pp. 227-231).

DOCUMENTI V. Cuvilliers, M. Devif, M. Fontaine, Ph. Moulis, F. Ricousse – Testimonianze della vita e dei costumi di una famiglia prima della Rivoluzione Francese (1, pp. 125-133).


Indice dell’Annata

575 RECENSIONI

ANTONUCCI G., Storia del teatro italiano contemporaneo, Studium, Roma 2012, pp. 298. e 19,50 (Francesco Pistoia) - (3, pp. 421-423). ATTINÀ M., La scuola primaria. L’anima della tradizione, le forme della modernità, Mondadori Università, Milano, 2012, pp. 244. e 20,50 (Alberto Mirabella) - (3, pp. 419-421). BERGOGLIO J.M., Guarire dalla corruzione, EMI, 2013. e 6,90 (Franco Savoldi) - (2, pp. 274-279). BERNARDI P.- MONDUCCI F., Insegnare storia. Guida alla didattica del laboratorio storico, UTET, Novara 2012, pp. 332. e 25,00 (Michele Cataluddi) - (4, pp. 565-568). BIANCHI E., Nuovi stili di evangelizzazione, San Paolo, 2012, pp. 128. e 4,90 (Raffaele Norti) - (2, pp. 271-274). CHIMIRRI G., Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori, Mimesis, Milano 2012, pp. 310. e 24,00 (Donato Petti) - (3, pp. 418-419). CAPUZZI L., Coca rosso sangue. Sulle strade della droga da Tijuana a Gioia Tauro, San Paolo, 2013, pp. 234. e 14,00 (Franco Savoldi) - (3, pp. 414-417). FILOGRASSO I. – VIOLA T. V., Oltre i confini del libro. La lettura promossa per educare al futuro, Armando Editore, 2012, pp. 176. e 15,00 (Michele Cataluddi) - (2, pp. 281-284). FIORIN I., Scuola accogliente, scuola competente. Pedagogia e didattica della scuola inclusiva, Editrice La Scuola, 2012, pp. 186. e 13,00 (Michele Cataluddi) - (2, pp. 279-281). FUMAGALLI A.-COTTA RAMOSINO L., Scegliere un film 2012, Ares, Milano 2012, pp. 470. e 19,00 (Francesco Pistoia) - (3, pp. 424-425). HADJADJ F., Come parlare di Dio oggi? Anti-manuale di evangelizzazione, Ed. messaggero, Padova, 2013, pp. 179. e 13,00 (Franco Savoldi) - (3, pp. 409-411). HADJADJ F., Il paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda. Lindau, Torino 2013, pp. 472. e 29,00 (Umberto Casale) - (4, pp. 559-565). LAURI L., Competenze. Programmazione didattica e valutazione, Etas, Milano 2013. e 12,00 (Donato Petti) - (4, pp. 568-569). MONTINI F.-ZAGARRIO V. (a cura di), Istantanee sul cinema italiano, Rubbettino, 2012, pp. 230. e 14,00 (Francesco Pistoia) - (3, pp. 425-426). MORANDO L.L.-MORANDINI, Il Morandini 2013. Dizionario dei film, Zanichelli, Bologna 2012, pp. 2050. e 37, 60 (Francesco Pistoia) - (3, pp. 423-424). PARONETTO S., Tonino Bello maestro di nonviolenza. Pedagogia, politica, cittadinanza attiva e vita cristiana, Paoline, Milano 2012, pp. 314. e 20,00 (Emilio Butturini) - (3, pp. 411-414). RATZINGER J., L’infanzia di Gesù, Rizzoli, 2012, pp. 174. e 17,00 (Franco Savoldi) - (1, pp. 135139). ROSMINI A., La buona educazione. Antologia commentata delle “Opere Pedagogiche” (a cura di G. Chimirri), Bonomi Editore, Pavia 2013, pp. 124. e 12,00 (Donato Petti) - (3, pp. 417-418). SCHMITT E. E., Oskar e la Dama in rosa, B.U.R., 2010. e 6,90 (Marco Camerini). E. E.SCHMITT, Il bambino di Noè, B. U. R., 2010. e 5,90 (Marco Camerini) - (1, pp. 139-141). TAGLIAGAMBE S., Il cielo incarnato. Epistemologia del simbolo di Pavel Florenskij, Aracne, Roma, 2013, pp. 1-190, e 12,00 (Dario Antiseri) - (3, pp. 405-409). NOTE GLOBALIZZAZIONE, COSMOPOLITISMO ED EDUCAZIONE (Emma Franchini) - (3, pp. 426-430). SEGNALAZIONE LIBRI (1, pp. 143-144); (2, pp. 285-286); (3, p. 431); (4, pp. 570-571).


Rivista Lasalliana

anni

80 di cultura e formazione pedagogica

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Studi

Editoriali

(1934-2014)

3 Febbraio 2014 - Ore 16.00

Seminario di studio

QUALE FUTURO PER L'EDUCAZIONE CRISTIANA? Casa Generalizia dei Fratelli delle Scuole Cristiane (Roma, Via Aurelia, 476)


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