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INCHINIAMOCI ALLA ZARINA
from PINK BASKET N.15
by Pink Basket
STORIE di Giulia Arturi
CATARINA POLLINI RIVIVE LA SUA MOSTRUOSA CARRIERA: “IL RICORDO PIÙ BELLO È LA PRIMA COPPA CAMPIONI VINTA, AVEVO 17 ANNI E PARTIMMO SOTTO 14-0...” E POI LA NAZIONALE, LA CLAMOROSA BATTAGLIA VINTA CONTRO LO SVINCOLO, LA MATERNITÀ… E UN CRUCCIO: “CHE RABBIA QUANDO NON DANNO LA PALLA ALLE LUNGHE!”
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Catarina Pollini, 53 anni, è la team manager dell’Ensina Lugo, la squadra femminile di serie A (o meglio Liga) di Lugo, una città di poco meno di 100.000 abitanti, in Galizia, Nord della Spagna. La giornata tipo di Pollini è quella di tanti suoi colleghi: “Dopo la colazione e un caffè in compagnia, verso le 10, inizio la mia giornata lavorativa. Vado in ufficio (che è proprio di fianco alla palestra), oppure a seconda delle esigenze faccio qualche giro in città. Passo quasi sempre a vedere la fine dell’allenamento della mattina, alle 14, poi torno a casa. Ogni tanto mi tocca anche fare lavatrici di asciugamani, ma tutto sommato mi rilassa, almeno stacco un po’ (risata). Nel pomeriggio torno alla scrivania alle 18 e ci rimango fino a quando non finisce anche il secondo allenamento, poi cena verso le 22.30. Orari spagnoli”.
In realtà, Cata, non è una team manager qualsiasi. La carriera da dirigente è la sua seconda vita, nella prima è stata una delle più forti, se non la più forte, giocatrice della storia della pallacanestro italiana. Se dietro alla sua scrivania posizionassimo una bacheca per esporre tutti i suoi trofei, faremmo fatica a ritrovare Cata, nonostante il suo 1.93. Persino leggendo il solito, asettico elenco colpisce la sua grandezza: 12 scudetti (7 a Vicenza, 1 a Cesena, 4 a Como), 12 coppe dei Campioni (5 a Vicenza, 1 a Cesena, 1 a Como), 1 titolo WNBA nel 1997 con le Houston Comets, un argento agli europei di Brno del 1995.
Nel 2000, a 34 anni, decise di cambiare aria, di andare all’estero, in Spagna; quello che doveva essere un breve cambio di prospettiva, si trasforma in un pezzo di vita lungo 20 anni. “È stata una scelta quasi casuale. Ad un certo punto della carriera volevo fare un’esperienza lontano dall’Italia. Quando arrivai, mia figlia era piccola e mi legai moltissimo alla famiglia che ci aveva adottato, ci fu un forte coinvolgimento emotivo. Lugo è una cittadina tranquilla, la gente è accogliente, e si mangia bene: con una figlia piccola e per giocare a basket era l’ideale. Magari tra qualche anno andrò via, ma la Spagna mi rimarrà comunque nel cuore. Figuriamoci poi mia figlia, cresciuta qua”.

POLLINI È SCESA IN CAMPO CON LA MAGLIA DELLA NAZIONALE 252 VOLTE, SEGNANDO 3903 PUNTI. HA PARTECIPATO A DUE OLIMPIADI (BARCELLONA 1992 EATLANTA 1996).
Pari opportunità, professionismo, discriminazioni di genere: qualche anno dopo le iniziative di Mabel Bocchi, anche Pollini diventa, suo malgrado, portabandiera dei diritti delle donne atlete. A cavallo tra anni 90 e duemila, è infatti protagonista di una clamorosa controversia con le istituzioni sportive: Cata vuole giocare a Schio, ma la Comense non ha nessuna intenzione di cedere il suo gioiello. All’epoca esistono ancora i cartellini: inizia una lunga lotta per ottenere gli stessi diritti degli atleti uomini, ai quali era riconosciuto lo status dei professionisti e la libertà di non essere vincolati dal cartellino. Dopo un braccio di ferro estenuante, viene creata una regola ad hoc per lei: uno svincolo valido per atlete di oltre 33 anni con più di 200 presenze in Nazionale. Ma proprio grazie ai suoi sforzi, inizia a sgretolarsi l’istituto dello svincolo, che ora sopravvive soltanto a livello giovanile.
“Giocare a Schio con un provvedimento creato apposta per me, non fu il massimo. Andammo a perorare la causa in ogni sede: giustizia sportiva, Pari Opportunità, Ministero del Lavoro. Ho sempre pensato fosse una battaglia giusta, molto al di là del mio caso specifico: il tema fondamentale erano e rimangono le pari opportunità. Perché i maschi potevano svincolarsi e io no? Perché le società potevano fare quello che volevano di noi atlete? Ho seguito gli ultimi sviluppi in Italia: capisco che fare il passo verso il professionismo femminile sia difficile, in Spagna le giocatrici di Liga 1 sono considerate professioniste, quindi lavoratrici dipendenti a tutti gli effetti e so quanto sia difficile da sostenere, ma è importante che qualcosa cominci a muoversi e che si trovi un giusto compromesso per tutelare le atlete senza mandare in crisi il sistema”.
In quei momenti avevi la sensazione di portare avanti una battaglia? “Un po’ sì, anche se in verità allora io mi sono sentita sola; non tanto perché le altre giocatrici non mi appoggiassero, ma perché c’era molta ignoranza: non era ancora iniziata una riflessione profonda su questi temi”.
Questo altro modo di stare nel basket, di far parte dello staff, come lo vivi? La passione è la stessa? “Sono un po’ più distaccata. Non c’è solo il campo, ho molto altro lavoro da fare. Tutti mi dicono che dovrei allenare, ma non fa per me. Giocare era un’altra cosa: se fosse stato possibile lo avrei fatto tutta la vita! Nonostante i sacrifici, gli allenamenti, i dolori, non c’è gara: fare l’atleta è qualcosa di favoloso, non devi pensare a nient’altro che ad essere in forma e vincere la partita. Ora invece c’è sempre un po’ di stress, di preoccupazione che le cose non funzionino bene a livello organizzativo. È diverso: preferivo lo stress del campo!”.
A proposito di suggerimenti… “Sto abbastanza defilata. Abbiamo un allenatore e un vice che fanno bene il loro lavoro. Ogni tanto mi chiedono qualcosa, ma preferisco non mischiare i ruoli e stare nel mio”.
Ti capita ancora di prendere in mano la palla? “Mi rifiuto, perché non riesco più a fare nulla. Fino a qualche anno fa era diverso, ma ora, cercare di fare le stesse cose di prima, senza poterci riuscire, mi fa solo arrabbiare (risata)”.

CATARINA POLLINI, CLASSE 1966, È LA PRIMA ITALIANA NELLA CLASSIFICA DELLE REALIZZATRICI IN SERIE A. CON 8381 È TERZA DIETRO SOLAMENTE ALAWRENCE E COOPER. È STATA LA PRIMA ITALIANA A VINCERE UN TITOLO WNBA,NEL 1997 CON LE HOUSTON COMETS.
Una dote che non deve mai mancare a una giocatrice dal punto di vista caratteriale? “Non deve arrendersi mai. Lottare sino all’ultimo anche quando sembra tutto perso. Come dicono qua: ‘No bajar los brazos’. Mai. Anche se fisicamente sei stanca, la vera forza è quella mentale”.
Torniamo al passato. A 13 anni, mentre i tuoi coetanei sono impegnati a crescere, tu sei già grande e inizi a giocare con le grandi. “Non avevo idea, questa è la verità (risata). Quando a 13 anni fui catapultata nella realtà di Vicenza non conoscevo quel mondo, a cui mi avvicinai più o meno per caso. Ho cominciato a 11 anni, relativamente tardi, e neanche sapevo esistesse una squadra di serie A. Avevo solo seguito l’esempio delle mie compagne di scuola. ‘Perché no’, risposi quando mi chiesero se volessi unirmi a loro. Così iniziai: mi divertivo, abbastanza inconsapevolmente. Quando mi dissero ‘ok, ora ti allenerai con la prima squadra’, iniziai a realizzare, anche se avevo solo 14 anni. E non era proprio una prima squadra qualunque, insomma era di un certo livello (risata). Per me non cambiò niente: mi continuava a piacere tantissimo allenarmi, amavo giocare”.
Pollini sboccia come star ben prima dei 20 anni. Le prestazioni di questa ragazzina esile, talentuosissima e dominante, richiamano la figura di Caterina la Grande, imperatrice di Russia. Ed ecco che nasce il suo soprannome, la Zarina. “Ho avuto la fortuna di giocare in una squadra forte. Ci sono due facce della medaglia: le aspettative erano molto alte, ma in compenso avevo la sensazione che attorno a me ci fosse qualcuno sempre pronto ad aiutarmi. Wanda, Lidia, (Sandon e Gorlin, ndr) queste giocatrici, che potevano anche essere severe quando facevo un errore, allo stesso tempo mi erano vicine: mi aiutavano, mi davano sicurezza, quando c’era tensione erano pronte ad allentarla. Questa sensazione di potersi affidare alla squadra era fondamentale, soprattutto quando ero più piccola. Gente singolarmente forte, che diventava formidabile come gruppo”.
Si fa fatica addirittura a riassumere il numero dei titoli che hai vinto: c’è n’è uno per te indimenticabile? “La prima coppa dei Campioni. Incredibile. A Mestre, nel 1983, giocavamo praticamente in casa, avevo appena compiuto 17 anni. Palazzetto pieno, palla contesa, partiamo sotto 14-0. Un inizio terribile. La coppa, che allora era di legno, era su un tavolino a bordo campo, pronta per la premiazione. Dopo quei primi minuti l’ho vista lontana, lontanissima. Ma ci abbiamo creduto, abbiamo rimesso a posto le cose, e abbiamo vinto. Io ero una ragazzina, ero lì, ma quasi neanche ci credevo”.
Hai giocato con le due squadre italiane più forti di ogni tempo, Vicenza e Como: in che cosa differivano? “Vicenza aveva un settore giovanile davvero incredibile. In quegli anni c’era un gruppo di giocatrici locali, vicentine e venete, le giovani forti che venivano tutte dal vivaio. Il gruppo di Vicenza era locale, questa era una grande peculiarità e forza, eravamo tutte di lì e cresciute lì. Sono anche i casi della vita: che tanti così grandi talenti nascessero nella stessa zona. A Como la squadra è stata più costruita”.
Se n’è andato da poco Antonio Concato, il tuo presidente storico di Vicenza, il dirigente che ti ha lanciato: ce lo ricordi con un episodio? “Come non nominare la sua immancabile Coca-Cola. Quando eravamo giovani ci portava sempre a mangiare la pizza dopo le partite e dopo qualche allenamento. Il primo anno non avevamo neanche lo sponsor, ma disputammo un campionato incredibile. All’epoca c’erano la poole scudetto e la poole retrocessione, la squadra era giovane ma siamo comunque riusciti a salvarci giocando la poole scudetto. Era una persona unica”.
Anche in Nazionale hai lasciato un segno impressionante: qual è stato il momento migliore è quello peggiore? “Indimenticabile l’argento di Brno. Anche se avremmo potuto provare a vincere l’oro. Ma la qualificazione all’Olimpiade era una cosa stratosferica, il grande sogno. Mondiali, Europei contano certo, ma i Giochi Olimpici sono un’altra emozione, un’altra dimensione. Ci allenava Riccardo Sales: era parte del gruppo, ci dava serenità e la capacità di stare bene insieme. Tra le sconfitte mi ricordo la seconda fase delle qualificazioni olimpiche in Malesia: passammo il primo turno giocando bene, ma la seconda fase fu una grande delusione”.

HA GIOCATO A VICENZA (1979- 1988), A CESENA (1988 -1994), A COMO (1994-1998). DOPO UN’ESPERIENZA A SCHIO, NEL 2000 SI TRASFERISCE A LUGO,DOVE INIZIERÀ POI LA SUA CARRIERA DA DIRIGENTE. NEL 2009, A 43 ANNICOMPIUTI, È TORNATA IN CAMPO 3 PARTITE PER AIUTARE LE SPAGNOLE A NONRETROCEDERE IN SERIE A2. MISSIONE COMPIUTA.
Avevi i centimetri per giocare centro, ma ti sei sempre mossa da 4, se non da tre, quali erano i tuoi punti di forza in campo? “La velocità e la rapidità. Ero leggera e potevo sfruttare queste caratteristiche soprattutto da 4. Da 3 non ho giocato tanto, anche se mi sarebbe piaciuto poterlo fare di più. Probabilmente mi mancavano un po’ il palleggio e il tiro dalla lunga distanza. Anche se devo dire che c’è stato un anno, qua a Lugo, dove ho iniziato a tirare anche da 3 con continuità! Mi divertiva giocare fuori! Mi sarebbe piaciuto soprattutto per la possibilità che si ha di passare la palla dentro, che sembra sempre un’impresa così difficile (risata). Non ero una grande passatrice, ma nel corso degli anni ho affinato anche questo fondamentale. Penso sia stato importante l’anno in cui sono stata in America, dove già giocavano con il pallone piccolo. Ho imparato a guardare i passaggi, e a trovare il giusto timing per realizzarli”.
C’è qualcosa che ti infastidisce in particolare quando guardi le partite da spettatrice? “Proprio quando non si dà la palla alle lunghe. Prendono posizione, sono davanti, le piccole guardano, riguardano e poi la ripassano fuori. Caspita, dagliela (risata)! Poi può sempre tornare fuori! Intanto la difesa deve chiudersi e muoversi, un gioco dentro fuori aiuta e non poco”.
Due nomi: Lidia Gorlin e Mara Fullin. Che ricordi hai di queste tue due compagne? “Lidia e Wanda Sandon erano le nostre ‘mamme’. Gorlin aveva un carattere molto forte, era capace di mandarti a quel paese, ma poi aveva sempre la parola giusta per rincuorarti, per darti una mano. Una grande guerriera, con un’enorme umanità, credeva nella squadra e sapeva di avere delle giovani che bisognava aiutare a crescere. Con Mara il rapporto era diverso: avevamo la stessa età e siamo cresciute insieme, quindi eravamo compagne in tante altre situazioni. Tra noi è nata un’amicizia che dura tuttora, nonostante due caratteri diversi”.
La maternità in cosa ti ha cambiato? “Diventare mamma mi ha dato sicurezza: quando cresci una figlia ti rendi conto dell’importanza eccessiva che si è data a situazioni che non la meritavano. Mi sono sentita più ‘realizzata’, se così si può dire, e in pace con me stessa. Poi il fatto di essere madre e di tornare a giocare ai tempi era quasi impossibile. È difficile, perché devi avere una serie di appoggi per riuscirci, ma vedo che ora succede più di frequente”.
Non ho fatto in tempo a vedere Pollini giocare, ma ho un ricordo personale che mi lega a lei giocatrice. Qualche anno fa, ad un camp estivo, organizzammo una partitella tra “vecchie glorie” e giovanissime. Quando una ragazzina malcapitata riuscì a beffarla con un passo e tiro, non sapeva a cosa andasse incontro: da quel momento, nonostante ormai si fosse ritirata da anni, Cata fece pesare tutta la sua classe, regalando un clinic di pallacanestro a partecipanti e spettatori. L’istinto della campionessa non si perde mai: quando nasci vincente, lo rimani per sempre.