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SCELTA DI VITA

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GLOS(STAFF)ARIO

GLOS(STAFF)ARIO

PRIMO PIANO - DI EDUARDO LUBRANO

ITALIA-AMERICA, ANDATA E RITORNO. LA STORIA DI ANTONIA PERESSON,LEADER DELLA SORPRESA UDINE È RICCA DI ESPERIENZE DI ALTO LIVELLO NELLA PALLACANESTRO, DA GIOCATRICE E ALLENATRICE. DAL SOGNO A STELLE E STRISCE DIVENTATO REALTÀ, AL RITORNO IN ITALIA, A DUE PASSI DA CASA

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“Quanto mi mancava giocare! E quanto mi diver- soprattutto! C’è poco da fare, giocare a pallacanestro è davvero una delle cose più belle in assoluto...”. Parole, musica ed entusiasmo travolgente di Antonia Peresson, classe 1995 da Pordenone. Sta giocando nella serie A2 femminile, girone Nord con la Delser Crich Udine quindi a due passi da casa. E sta viaggiando, mentre scriviamo, con queste cifre: 18.4 punti a partita, con il 42% da due ed il 47% da 3... l’89% dalla linea della carità come dicono in America, 2.4 assist a partita e ben 8.9 rimbalzi a gara, dato notevole per lei che è una guardia di 1.75 metri.

Al di là delle cifre che dimostrano una cifra tecnica assolutamente superiore, questi numeri esprimono veramente l’immagine di una ragazza che sta facendo quello è il suo sogno. La pallacanestro di alto livello Antonia l’ha conosciuta sin da giovane, con le nazionali giovanili e poi con la Reyer Venezia. Ma soprattutto dal 2014 al 2018 con la squadra di Georgia Tech University nella NCAA a stelle e strisce.

“Un’esperienza che sognavo da piccola. Il mio approccio col basket si deve a mio fratello, che ha sei anni più di me, perché quando ero piccolina io volevo fare tutto quello che faceva lui. Giocava a tennis? Anche io. Andava a nuotare per esempio? Anche io. Giocava a basket? Eccomi pronta a seguire il suo esempio. Ed è scoccata la scintilla con questo sport ed è nata la voglia di provare ad andare dall’altra parte dell’Oceano. Per continuare a mettere insieme la voglia di studiare con quella di giocare”.

E come è stato? L’approccio ed il seguito?

“L’approccio è quello con un mondo del tutto nuovo nel quale devi abituarti da subito alle differenze che, specie a quell’età, sono enormi o almeno così ti sembrano. Il seguito è stato bellissimo perché un po’ alla volta ho scoperto che quello che vivevo era sempre più simile a quello che sognavo. Se vai in America per giocare a basket, o in generale per fare sport, ti danno tutto quello che possono e tutto quello che ti serve per farlo al meglio. E dico dalla macchina che ti spara i palloni per farti tirare in continuità, alla possibilità di rivedere il tuo allenamento per correggerti; dagli allenatori che sono sempre disponibili a venire in palestra con te al servizio che ti dice per esempio ”se fai palleggio arresto e tiro a destra segni con x per cento, se lo fai a sinistra segni con y per cento...se ti arresti in transizione per tirare venendo da destra...”. Lì per lì pensi siano dettagli, in realtà sono straordinari strumenti per migliorare te stessa ed il tuo gioco.”

E la pressione di giocare per Georgia Tech?

“Mi ci sono abituata presto anche a quella. Perché è evidente che esiste sempre e non solo in una università importante come la mia. Ripeto: in America ti mettono nelle migliori condizioni per crescere, quindi l’aspettativa in merito è alta, così come l’impegno che da te si attendono. Noi abbiamo sempre giocato nella Division più forte, ho affrontato tante giocatrici che poi sono sbarcate nella WNBA, ho giocato due partite a settimana. In ogni spostamento ho notato la grandezza del sistema: ci siamo sempre mosse con il jet privato. E certo Georgia Tech è una università di alto livello anche a livello scolastico quindi la sfida è stata doppia. Ma è stato bello”.

E poi ha trovato tante giocatrici italiane.

“Che bello scendere in campo e sapere che stai per abbracciare una tua connazionale che gioca nell’altra squadra. Io ho giocato insieme a Francesca Pan e Lorela Cubaj ma nei quattro anni che sono stata lì ne ho incontrate tante ed ogni volta è stata una festa perché tutte consapevoli dell’importanza dell’esperienza che stavamo vivendo. Le amicizie che sono nate in questo periodo credo siano molto forti e con valori veri”.

Dalle sue parole sembra tutto bellissimo. Qualche difficoltà ci sarà in un cambio di vita così importante?

“Le difficoltà sono tante proprio perché è un cambio di vita. La famiglia è lontana. La gente diversa da noi. Al cibo differente ci si abitua ma i sapori della nostra terra ti restano dentro e non vedi l’ora di riassaggiare uno dei tuoi piatti preferiti... La cultura molto diversa. E torniamo al discorso delle aspettative. Di quello che ti chiedono. Penso alle prime volte che mi son trovata a fare atletica alle sei del mattino e mi chiedevo perché. Oggi posso dire che ho fatto anche quello e che dunque molte cose che sembrano difficili non lo sono se comparate a quelle sveglie all’alba, sempre rimanendo nell’ambito sportivo. I due mondi rimangono diversi anche quando ti sei abituata, ma se vuoi giocare a basket, loro, gli americani dico, sono i migliori”.

In cosa sono i più bravi?

“In tante cose. In quello che ho detto prima, cioè nel fornirti tutto quello che ti serve. Nell’organizzazione. Nel fatto che durante l’inverno esiste la squadra ma durante l’estate si lavora per sé, per migliorare i propri fondamentali. E sono i più bravi nella ripetizione di certe cose. Mi spiego. Il fatto che tu abbia la possibilità di migliorare così tanto perché hai tanti strumenti e persone per farlo, ti induce a lavorare molto ripetendo ogni giorno certi movimenti, certi atteggiamenti, certe letture.

Al punto che arrivi ad automatizzare queste cose e correggere il più possibile le tue mancanze. Questa ripetitività ti consegna stima in te stessa e ti permette di lavorare su un’altra cosa una volta che hai sistemato quella precedente. Attenzione, non sto dicendo che in Italia o in Europa questo non accada ma in America accade in maniera diversa, forse più completa”.

Quando ha iniziato a pensare di fare l’allenatrice?

“Durante i quattro anni in Georgia ho visto come si vive la pallacanestro in America e questo mi ha fatto accendere una lampadina. Quando arrivi all’ultimo anno da giocatrice tutti si aspettano che tu sia pronta ad aiutare le ragazze più giovani e questo fatto mi ha convinto che la carriera da allenatrice mi sarebbe piaciuta. Mi hanno offerto di fare da Graduate Assistant nel 2018 prima nella mia Università e poi ad Eastern Kentucky, ho accettato ed ho scoperto che mi piace proprio. Sarei rimasta volentieri e in America tutti mi chiedevano di farlo ma sia le difficoltà di ottenere il visto di lavoro negli Stati Uniti sia l’evolversi della pandemia, con mio padre che ha premuto da marzo per il mio rientro, mi hanno convinto a tornare in Italia. Per cui ora allenare è in secondo piano rispetto al giocare”.

Solita domanda: il ricordo più bello o la partita vinta che stavate perdendo?

“Momenti belli ce ne sono tantissimi. La partita che abbiamo vinto è stata quella volta in cui all’intervallo eravamo sotto di trenta ed abbiamo vinto alla fine dimostrando ancora una volta che la bellezza di questo sport risiede proprio nel fatto di non dare mai nulla per deciso, dove il cuore e la passione possono farti fare cose che sembrano impossibili. Un altro ricordo straordinario è stata la prima volta nella storia di Georgia Tech nella quale abbiamo vinto sul campo di Duke, il campo di coach K...che festa!”.

Parliamo del rientro in Italia e del ritorno sul campo: come è andata?

“Beh io anche nei due anni da assistente in America non avevo perso la voglia di giocare, si era assopita perché ero presa dalla novità. Ma quest’estate a casa non ce la facevo più: volevo giocare. È capitata l’occasione di Udine, una scelta perfetta per tanti motivi: la società, il coach Alberto Matassini che sta facendo un grande lavoro e ha messo insieme una squadra di giovanissime molto interessanti – alcune sono prospetti nazionali – e molto divertente, il fatto che sia vicino casa. Insomma per adesso sto benissimo”.

Udine è una scelta perfetta: la società, il coach Matassini che sta facendo un grande lavoro e ha messo insieme una squadra di giovanissime molto interessanti e divertente, il fatto che sia vicino casa.

Altra domanda classica: la o le sue giocatrici preferite?

“Anche qui tante. Tutte le italiane per cominciare. Se devo fare un nome per non far torto a nessuna devo dire che Jewell Lloyd mi ha davvero impressionato. Quando ci abbiamo giocato contro – lei era a Notre Dame – una sera ha segnato 30 punti ma la cosa incredibile è che ha cancellato dal campo quella che era il nostro miglior difensore. Una giocatrice totale, un leader in campo e fuori. Non a caso gioca nelle Seattle Storm che hanno vinto il titolo anche quest’anno”.

Va bene. Qualcuno dice che lei tornerà in America a fare l’allenatrice: quando?

“Perché no? Ma non per adesso, calma. Sto giocando un campionato di alto livello dove ci sono squadre molto forti anche grazie alla presenza di diverse ex giocatrici di serie A1. Stiamo facendo con la mia squadra un ottimo lavoro e vorrei far parte della crescita di questo gruppo. Quindi per ora non se ne parla anche perché mi diverto troppo a giocare e fino a quando mi divertirò io rimarrò in campo”.

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