7 minute read

CARLOTTA L’AMBIZIOSA

Next Article
COMANDA VENEZIA

COMANDA VENEZIA

PRIMO PIANO - DI SIMONE FULCINITI

DOPO QUATTRO ANNI D’AMERICA È TORNATA IN ITALIA IMPONENDOSIALL’ATTENZIONE GENERALE, CON UNA STRISCIA DI PARTITE ECCELLENTI INSERIE A2. FISICO, TECNICA E MENTALITÀ VINCENTE LE CHIAVI PER UN FUTUROCHE POTREBBE PRESTO TINGERSI D’AZZURRO

Advertisement

Carlotta Gianolla è figlia d’arte. Il padre Andrea (detto Rambo) è stato giocatore di squadre importanti tra gli anni ’80 e ‘90, vincendo la leggendaria coppa Korac nelle file della Pallacanestro Cantù. Lei, veneziana, classe 1997, un metro e ottantaquattro di altezza, è una delle stelle più luminose del girone Sud della serie A2, con la maglia della Nico Basket Ponte Buggianese. Reduce da una straordinaria esperienza americana durata quattro stagioni, Carlotta (Charlie per gli amici d’oltreoceano) apre il diario dei ricordi, e l’agenda degli appuntamenti, che ha segnato (e sottolineato), per il prossimo futuro. Giocatrice dalle infinite potenzialità, ha appena ottenuto una laurea in Psicologia, e non nasconde importanti ambizioni. E pensare che, da principio, il basket non rientrava nel ventaglio dei suoi principali interessi.

Partiamo dagli inizi...

“Sono stata pattinatrice, anche a livello agonistico, almeno fino ai 10 anni. Poi sono cresciuta parecchio, e cambiare i pattini di continuo costava un po’ troppo. Così i miei genitori mi proposero di provare altri sport, e decisi di partecipare ad un allenamento di minibasket con la Reyer. Andai soprattutto per dare soddisfazione a mio padre, perché ritenevo si trattasse di uno sport esclusivo per maschi. Mi sbagliavo”.

Quanto è importante il supporto di tuo padre?

“Moltissimo. Ho una sorella di 5 anni più grande e lei ha vissuto in pieno la sua stagione nel basket. Io invece no. L’ho scoperta col passare del tempo, una cosa positiva che gli fa onore e a me non dà alcuna pressione. Lui mi segue costantemente: prima dell’America veniva a Bologna a vedere tutte le partite. Nel periodo americano invece, quando possibile guardava lo streaming, oppure seguiva il play by play. Nel dopo partita c’è sempre un confronto tra noi, costruttivo, dove mi dà la sua opinione, bella o brutta che sia. Sa che tipo giocatrice sono e mi stimola a stare sul pezzo per 40 minuti”.

Ricordi la prima partita giocata?

“Mi ricordo soltanto che ero bambina ed avevo un paio di occhialetti imbarazzanti, provvisti di calamita. Ero molto più alta degli altri, correvo, correvo, una sorta di cavallo pazzo. Ovviamente senza alcuna coordinazione. Da quel momento in poi, ho passato tutta la fase delle giovanili con la Reyer, che alla fine mi ha aggregato alla prima squadra in serie A1. Bella storia, certo, fai allenamenti di livello, ed inizi ad aprire gli occhi verso un mondo lavorativo, seppur ancora lontano. In quegli anni mi sono formata”.

Arriva la stagione 2015/16 e l’approdo alla Magika Basket Bologna...

“La prima esperienza fuori sede, con allenatore Paolo Seletti. Squadra totalmente nuova. È stato forse l’anno più bello, grazie a questo coach col quale mi sono trovata benissimo. Amico fuori dal campo, ma dentro il perimetro un tipo tosto. Abbiamo lavorato tanto individualmente. Un passettino in più che occorreva. La prima scintilla di quello che sarebbe stato il mio futuro lontano da casa. Arrivammo in finale per l’A1, ma andò male”.

E poi la decisione di volare negli States...

“È sempre stato un sogno andare a giocare in America. Nato guardando quei film che mettono in risalto il fascino dei college, dove tutto si svolge nel medesimo istituto. La nazionale giovanile mi ha aiutato ad avere visibilità. La mia amica Antonia Peresson era già in Georgia, e con lei mi informavo, ero curiosa. Poi c’è stato il contatto con la coach Agnus Berenato, che mi scrisse quand’ero ancora a Bologna proponendomi una videochiamata.

La cosa mi gettò nel panico: avevo un inglese basico, e non sapevo cosa fare. Capii cinque parole su dieci, ma mi parve felice, entusiasta mentre spiegava i suoi progetti con forte passione. Era pronta a venire in Italia, seguendo però le regole NCAA. Ovvero: poteva vedermi all’opera, ma senza potermi parlare. Rimase tre giorni durante i play off. In palestra la notai sugli spalti col block notes, ci incrociammo appena con lo sguardo. D

opo qualche settimana, mentre ero Pesaro per un raduno con la Nazionale, Agnus venne ancora, ma stavolta poteva solo parlarmi senza vedermi giocare. Mi illustrò il suo programma ambizioso. Arrivava quell’anno all’università di Kennesaw State e voleva me come unica nuova del roster. Avevo altre opzioni, ma sentivo che quella era la strada giusta”.

Quale fu l’impatto con la nuova realtà?

“Arrivata in aeroporto vennero a prendermi per condurmi a destinazione. Durante il viaggio in macchina guardavo fuori dal finestrino incantata da tanta grandiosità. Tuttavia l’esaltazione durò poco. Avevo alcuni giorni di anticipo, da vivere in solitudine, troppi. Ero persa, chiamavo casa implorando di tornare. Ricordo un senso di estremo disagio. E poi la lingua, un disastro. Solo l’arrivo delle altre mi tranquillizzò e finalmente ebbe inizio il mio film personale”.

Un oceano di differenze rispetto al basket femminile italiano...

“Stiamo parlando di due pianeti diversi, fisicamente e atleticamente. Laggiù la preparazione inizia ad agosto: fai tre mesi solo di atletica e pesi, e sfiori il campo giusto per la difesa. Cambiano le prospettive. Ho visto cose che non immaginavo esistessero. Il primo anno, all’esordio un’avversaria enorme mi ha tirato fuori una spalla: fu il suo modo di darmi il benvenuto. Tre lunghi mesi per riuscire a ingranare. Finivo le classi alle 7.45 di sera, e chiedevo di poter passare dalle mie allenatrici. Loro, che terminavano ore prima, restavano ad aspettare solo me, per aiutarmi. L’ho scoperto alla fine. E il problema della lingua sono riuscita a superarlo. Sono grata di aver vissuto una fetta di vita fantastica, giocando più di cento partite”.

Infine il rientro alla base e l’accordo con la Nico Basket...

“L’ultimo anno in America ero molto euforica, volevo godermelo tutto. Ma il destino è stato avverso e a marzo sono dovuta fuggire di corsa causa Covid-19. All’inizio è stato strano e anche adesso, pur felice di essere qui nel mondo del lavoro, quando guardo la mia Università giocare provo nostalgia. Laggiù ho imparato ad ascoltare. Una volta in Italia la prima cosa è stata laurearmi on line; poi cercare un agente e la squadra giusta. L’unica richiesta era trascorrere un anno tranquillo, di transizione per riabituarmi al basket nostrano. La Nico mi ha colpito subito, mi sono sentita nel team giusto. Siamo partite con qualche difficoltà e una volta trovata la quadratura del cerchio, sono purtroppo arrivati i contagi che ci hanno bloccate per un mese. Siamo tornate alla grande grazie al super lavoro del nostro preparatore atletico”.

Quali sono i tuoi punti di forza?

“Fisicità e atletismo”.

Qualcosa da migliorare?

“Più costanza nell’ atteggiamento, non esser altalenante, eliminare le pause che spesso mi capitano. E poi il tiro, se voglio arrivare in A1 posso farlo solo come esterna e la precisione diventa determinante”.

Hai uno sportivo di riferimento, qualcuno a cui ti sei ispirata?

“Ho sempre ammirato Kobe Bryant. Negli States guardavo spesso i suoi video motivazionali, sulla consistenza, sul fatto che puoi fallire tante volte ma l’importante è reagire. Ricordo che stavamo facendo allenamento, quando l’allenatrice ci comunicò la sua scomparsa. Rimasi letteralmente senza fiato”.

Ho sempre ammirato Kobe Bryant. Negli States guardavo spesso i suoi video motivazionali, sulla consistenza, sul fatto che puoi fallire tante volte ma l’importante è reagire.

Netflix o un bel libro?

“Netflix tutta la vita, adoro la Casa di Carta. Ho il Netflix americano e guardo spesso programmi relativi alla ristrutturazione di case, documentari sulla pallacanestro, e tanti film”.

C’è chi sostiene che prima di ogni partita, per caricarti, ascolti sempre una canzone speciale...

Certo, “Chris Brown, “No guidance”, tartasso tutti con questo pezzo da anni. L’ho fatta inserire nella lista del pre-gara. Quando canta “You got it, girl, you got it”, ce la puoi fare, mi gasa tantissimo”.

In cucina come va, te la cavi?

“Non mi lamento, so cucinare. In America è stato un panico totale: inizialmente pensavo di risparmiare qualcosa mangiando alla mensa, invece non era una pista percorribile. Andavo in negozi italiani e preparavo piatti basici, ma tipici nostri. L’unica cosa che ho apprezzato è stata la colazione con uova e bacon. Oggi sono tornata a caffè, latte e cereali, ma va bene così”.

La WNBA è un’idea che scarti a priori?

“Non la scarto assolutamente, ma la vedo una cosa molto lontana. Adesso non mi sento pronta; se un domani capitasse l’occasione, la coglierei come la ciliegina sulla torta. Più concreta l’ipotesi di tornare come allenatrice; so che con tale organizzazione potrei farcela e ne sarei felice”.

L’A1 è l’obiettivo dichiarato. E la maglia azzurra?

“Con mio papà analizziamo ogni aspetto sempre in vista del prossimo anno che vorrei fosse in A1. Nazionale sì, lavoro per tornarci. Il mio atteggiamento mi ha spesso tagliato le gambe in passato. Ora, che sono cambiata, mi porto dietro un piccolo rammarico: forse avrei potuto fare qualcosa di più”.

E il basket femminile italiano in che condizioni lo hai trovato?

“Più o meno uguale a come l’avevo lasciato. In A1 ci sono tre squadre più forti e si punta su quelle. Oggi però c’è spazio per le giovani: tante amiche giocano, anche nelle grandi. Un ricambio generazionale, un’evoluzione. Bello che si sia parlato in prima pagina di Matilde Villa, della sua prestazione fantastica. Speriamo però che non serva una partita da 50 punti per elogiare una giocatrice”.

This article is from: