5 minute read

MALEDETTO CRACK!

Next Article
FOTO DEL MESE

FOTO DEL MESE

FOCUS di Giulia Arturi

DAL TEMUTO “CROCIATO” IN GIÙ: LA PSICOLOGA CASTENETTOE IL MEDICO FRESCHI CI SPIEGANO LE DINAMICHE DEGLI INFORTUNI E LE DELICATE FASI DELLA RIABILITAZIONE PER TORNARE MEGLIO DI PRIMA

Advertisement

Nella carriera di un atleta professionista è quasi inevitabile dover affrontare l’infortunio. Noi atleti siamo esigenti: gli sforzi che richiediamo al nostro fisico quotidianamente sono notevoli e dispendiosi. Non c’è da stupirsi se il corpo ogni tanto si ribelli e riscuota dazio. Il trauma e il conseguente stop sono questioni delicate; l’essere costrette ad un lungo periodo lontano dal campo si può senza dubbio considerare uno shock. È destabilizzante, rompe una routine, impedisce di realizzare gli obiettivi, di essere quello che sei. La pallacanestro è uno sport di squadra: condividiamo le aspettative, le delusioni, i successi. Una squadra è tale quando i punti di forza di chi hai accanto sopperiscono alle tue lacune, e viceversa. Nel momento di un infortunio sappiamo quanto il supporto delle compagne sia fondamentale, ma il peso della riabilitazione, il processo di guarigione e l’elaborazione dell’accaduto sono questioni individuali. In un certo senso siamo più sole.

“Senz’altro un infortunio all’interno di una squadra ha una ricaduta differente, sia per l’atleta in questione che per la squadra stessa. Il gruppo si deve riorganizzare, non solo dal punto di vista tattico, ma anche da quello delle dinamiche relazionali. L’atleta infortunato lascia scoperto un determinato ruolo sociale, a seconda dell’impatto che ha: il tutto si tramuta in un meccanismo che cambia. Soprattutto se si tratta di una persona carismatica, di spicco o di mediazione”.

Ce lo spiega Michelle Castenetto, psicologa dello sport, che ha ideato un protocollo innovativo per la gestione dell’infortunio sportivo (Protocollo MOSI ® – Management Of Sport Injury). E quando parliamo del rientro da lunghi periodi di stop, una questione chiave è la paura di farsi male di nuovo, che può essere un fattore limitante. “Durante l’infortunio - continua Castenetto - l’atleta attraversa diversi momenti difficili. Il pensiero di non riuscire più a tornare quello di prima, l’isolamento sociale, l’abbandono dello schema degli allenamenti, che viene soppiantato dal percorso riabilitativo. Lo scenario cambia del tutto. Dopo il rientro la difficoltà più grande è senza dubbio affrontare la paura di una ricaduta, che porta l’atleta ad avere un atteggiamento fisico errato in campo. Movimenti sbagliati, impauriti, potrebbero generare, questi sì, un nuovo infortunio, o una recidiva. Lavorare anche dal punto di vista mentale affinché l’atleta sia al 100%, senza più pensare al trauma, è importante perché possa tornare quello di prima. Oltre all’aspetto fisico, c’è dunque un aspetto psicologico e sociale. Ci sono sicuramente persone che ce la fanno da sole, ma avere un supporto per quanto riguarda l’elaborazione del trauma può essere di grande aiuto”.

“Per quanto ne avrò? Quando potrò tornare in campo?” Dall’istante che segue l’infortunio queste sono le domande pressanti e ricorrenti. Lo stop sembra sempre solo tempo perso. “Su questo aspetto si può senz’altro intervenire per viverlo in maniera più serena: capire cosa ti è successo, comprendere il trauma e realizzare che nulla è perduto. È vero, si sta posticipando tutto, gli obiettivi vanno ricalibrati. In un certo senso ci deve essere una vera e propria elaborazione di un lutto: tutte le partite che non posso giocare, gli allenamenti che mancherò. Ci deve essere un accompagnamento legato ai tempi fisiologici della riabilitazione, e poi un lavoro a livello mentale, di supporto che passa attraverso la definizione di nuovi traguardi. Nel protocollo che ho ideato utilizzo l’infortunio come un obiettivo: rendo l’infortunato protagonista, proattivo, allo stesso modo di quando gioca un campionato”.

Paura, frustrazione, rabbia, sfiducia sono tutti sentimenti negativi che l’atleta può provare. “La prima cosa che pensavo dopo un infortunio era come fare a tornare al 100%. Era quella la mia mentalità. Non ho mai lasciato che la paura o il dubbio mi colpissero”. Così racconta Kobe Bryant nel suo libro “Mamba Mentality”. Ma per noi umani non è sempre così facile, può arrivare un momento di debolezza, del “non ce la farò mai”. “Ci sono umori che diventano depressivi” riprende la psicologa Castenetto. “Non parlo necessariamente di una depressione patologica, ma possono esserci stati emotivi anche più silenti e complessi. La paura è qualcosa che si percepisce a ridosso del rientro, non è la prima cosa da affrontare. La prima emozione è lo sconforto, poi molta rabbia. Il tema della fiducia è evidente quando si riprende l’attività, accompagnato da tanta impazienza. Esattamente come il fisioterapista si occupa della riabilitazione fisica, lo psicologo può essere un sostegno importante per l’atleta e in alcuni casi per la squadra”.

“Un programma di prevenzione infortuni nelle atlete dovrebbe prevedere: screening fisico generale, lavorare sulla condizione fisica durante tutta la stagione agonistica, utilizzare corrette strategie di warm up e cool down (defaticamento), indossare calzature comode e ottimizzare la dieta”.

È una citazione tratta dalla recentissima tesi di laurea specialistica in Scienze Motorie al San Raffaele di Roma di Giulia Gatti, playmaker di Lucca. Titolo perfetto per questo articolo: “Infortuni nel mondo della pallacanestro femminile”. Un report completo su ogni aspetto della tematica, pieno di spunti statistici su cui riflettere. Per esempio che le donne sono più esposte degli uomini alla temuta rottura del legamento crociato del ginocchio per una serie di motivi, e che l’infortunio, secondo dati americani, colpisce più di una cestista su 10 sotto i 18 anni. Insomma: prevenire, ma anche saper guarire. Della prevenzione ci parla Marco Freschi, Specialista in Medicina dello Sport, attualmente medico sociale del Milan, che dal 2008 al 2011 ha avuto uno stretto rapporto con il basket femminile, per aver lavorato col Geas Basket. “Negli ultimi dieci anni gli articoli pubblicati per quanto riguarda la prevenzione hanno fatto registrare il maggior incremento rispetto ad altri argomenti. In campo femminile è successo quando, circa 10-15 anni fa, è esploso in America il calcio, e nel giro di pochi anni c’è stato un aumento del 30/40% delle lesioni del crociato anteriore. Questo ha comportato che nel 2002 sono iniziate le prime consensus conference sullo specifico argomento, e lo studio di programmi preventivi si è diffuso rapidamente. A livello internazionale ce ne sono due di gran credito: il ‘PEP Program’, sviluppato a Santa Monica dal gruppo del dottor Mandelbaum, e quello proposto dalla FIFA, ‘11 plus’. Sono naturalmente studiati sullo sport più praticato, il calcio, ma in realtà alcune idee si possono estrapolare per tutte le discipline. Sono dei programmi generici, che hanno dimostrato con degli studi come effettivamente la prevenzione serva, se c’è un’aderenza molto alta al programma. Per ogni tipo di problematica si può applicare un protocollo, indispensabile è svolgerlo con costanza e attenzione”.

E come approcciare il rientro da un grave infortunio? “Fondamentali sono le sensazioni dell’atleta. Nel momento in cui si sente fiducioso e in grado di ritornare, un modo per sostenerlo è il supporto psicologico, che può essere un aiuto per chi si sente troppo insicuro e preoccupato, ma anche, al contrario, per chi vuole bruciare troppo le tappe. Negli ultimi cinque anni, almeno, in quasi tutte le ricerche più complete, si trova sempre anche una valutazione psicologica dello stato emotivo. Una delle scale più utilizzate per rilevare questi dati è la TSK (Tampa Scale of Kinesiophobia), che analizza la paura di un nuovo infortunio, del ritorno all’attività. Un’altra tappa fondamentale è misurare tutti i parametri possibili per far capire all’atleta che è rientrato effettivamente a pieno regime: dalla forza muscolare, alla parte aerobica, dalla capacità di raggiungere le velocità che faceva prima, ai cambi di direzione, alla stessa possibilità di accelerazione e decelerazione”.

Poter vivere le emozioni che lo sport trasmette è una fortuna, che va sostenuta con costanza, sacrificio, allenamento. Ma il logorio dell’attività di alto livello quanto pesa nel resto della vita? “A livello ortopedico-traumatologico purtroppo lascia sicuramente dei segni: oltre all’elevato rischio di infortuni, c’è l’usura delle articolazioni che porta ad un aumento del rischio di artrosi, o di necessità di protesi nel futuro. L’altra faccia della medaglia rappresenta il lato positivo: un’attività fisica diminuisce tantissimo il rischio di malattie croniche come diabete e problemi cardiovascolari”.

“Uno degli aspetti più importanti del gioco è ascoltare il tuo corpo, e comportarsi di conseguenza”. Questa volta sì che possiamo dare retta a Kobe.

This article is from: