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STILL, L’ITALIA NEL DESTINO

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SOGNO OLIMPICO

SOGNO OLIMPICO

STORIE di Giulia Arturi

VALERIE, 12 STAGIONI NEL NOSTRO CAMPIONATO, 88 PUNTI IN UNA PARTITA, UNADELLE PIÙ GRANDI AMERICANE MAI VISTE DA NOI, È ANCORA UN’INNAMORATA PERSA DEL NOSTRO PAESE: “CI TORNERÒ QUANDO SARÒ IN PENSIONE”. “COM’ERO IN CAMPO? UN’AGONISTA PIÙ CHE UN TALENTO. ERO ENERGIA E LA VITA È DIVENTATA MAGICA”

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Valerie Still, classe 1961, è stata tra le più dominanti giocatrici statunitensi che il nostro campionato abbia mai visto. Ha giocato 12 stagioni in Italia tra Milano, Sesto San Giovanni, Magenta, Como, Alzate Brianza, Cesena e Schio, vincendo lo scudetto 1991 con la Comense. Con 88 punti è la seconda all-time per punti segnati in una partita, dietro solo ai 99 di LaTaunya Pollard. E senza dubbio è stata la più italiana tra le americane. Sentire parlare Valerie Still dell’Italia potrebbe insinuare qualche atroce dubbio nei critici inflessibili e catastrofisti sul nostro Paese. Non c’è neanche una sfumatura negativa nei suoi ricordi. Valerie ci restituisce l’immagine di un’Italia speciale, che negli anni 80 ha accolto una giovane sportiva 21enne americana e di colore, cogliendone il valore e cambiandola per sempre. “Vorrei che fosse chiaro il mio amore per l’Italia e per la mia famiglia italiana. Se non fosse per lei, non avrei mai realizzato i miei sogni. Grazie all’Italia ho vissuto seguendo la mia passione, per la mia vita è stato fondamentale. L’Italia mi ha dato la possibilità in quanto donna e sportiva di farlo”.

Ti ricordi la prima volta che ti hanno parlato della possibilità di giocare in Italia?

“E come potrei dimenticarlo! Eravamo verso la fine del mio anno da senior al college, a Kentucky. Era l’ultima partita in casa della stagione regolare. Guido Bagatta e Federico Buffa a fine partita si avvicinarono e mi chiesero se potessimo scambiare due parole. Andammo in un piccolo fast food vicino la palestra. ‘Veniamo dall’Italia e ci piacerebbe che tu venissi a giocare nel nostro Paese’. Io pensai che fossero pazzi. Stavo scegliendo se studiare veterinaria o andare a giocare in Giappone, quella proposta fu un fulmine a ciel sereno, ma non ci pensai due volte. Mia mamma era sconvolta quando glielo dissi, non ero mai stata in Italia, era davvero un salto nel buio. Ma sono convinta che l’Italia fosse nel mio destino. Era il 1983”.

Qual è la prima cosa che ti viene in mente se chiudi gli occhi e pensi alla tua esperienza italiana?

“Conservo ricordi forti e vividi per tutte le squadre in cui ho giocato. GBC Milano, Geas, Como, Schio tra le altre: ho avuto la fortuna di far parte di grandi formazioni. Ogni volta che penso a questi posti mi tornano alla memoria dei momenti profondi e divertenti. Ricordare la mia vita italiana è un’iniezione di energia positiva, ancora oggi avverto una scossa quando ne parlo. Questo è quanto l’Italia mi abbia dato in termini di positive ‘vibes’. Ci furono tanti piccoli episodi divertenti di un’americana per la prima volta in Italia. Dalla visita medica in mutande, su e giù dallo scalino per la prova sotto sforzo. Ero appena arrivata, mi sembrò una cosa da pazzi. Ma ero uno spirito avventuroso: che si trattasse di uscire, fare festa, divertirsi, viaggiare non mi lasciavo scappare niente. Bianca Rossi e Michela Ceschia iniziarono subito a portarmi in giro”.

La tua dunque è stata un’esperienza a 360° che ti ha coinvolto umanamente, culturalmente, emotivamente. Non c’era solo il campo.

“Avevo 21 anni e mi ritrovavo lontano da casa in un posto nuovo e diverso. In America trovavo tutto quello che volevo nei negozi aperti 24 ore su 24, in Italia il pomeriggio era tutto chiuso nella pausa pranzo! Tante le differenze nella vita quotidiana è vero, ma lo shock culturale fu positivo e diventai più forte. L’Italia mi accolse per quello che ero. Non una cosa scontata: io arrivavo da un ambiente impregnato di razzismo, sessismo, non facile per una donna di colore. In Italia cambiò tutto: ‘sei una grande giocatrice di pallacanestro, una donna bellissima, sei dei nostri’. Le persone mi valorizzavano, trovai me stessa”.

VALERIE STILL, QUI IN MAGLIA GBC IN DIFESA SU CATARINA POLLINI, PRIMA DI ARRIVARE IN ITALIA NEL 1983, HA GIOCATO QUATTRO ANNI ALL’UNIVERSITY OF KENTUCKY, TENENDO UNA MEDIA DI 23.3 PUNTI E 12.8 RIMBALZI A PARTITA.

Cosa racconti ai tuoi amici del tuo passato oltreoceano?

“Tutti quelli che mi conoscono sanno che sono ‘italiana’. Dico sempre che il giorno che andrò in pensione vorrei tornare a casa mia in Italia, è il mio sogno: tornare e godermi la vita”.

Il tuo ricordo più bello sui campi da basket?

“È difficile, ce ne sono così tanti: segnai 88 punti in una partita, vinsi il mio primo campionato, fu la prima esperienza da giocatrice di basket professionista. Per me era incredibile anche solo fare la preparazione atletica al parco Sempione a Milano e correre in questi luoghi magici, ricchi di storia. Ma limitarsi al campo non è sufficiente, anche le esperienze di vita sono indimenticabili: come non citare il mio primo amore Adriano ( De Zan, principe dei telecronisti di ciclismo ndr). Tutti pensavamo fossi pazza! (risata). Con lui ho viaggiato per tutta l’Italia. Fui investita da tutto questo e per una giovane donna americana fu un’esperienza straordinaria”.

La partita degli 88 punti. Com’è stato possibile?

“Ora si segna di più, ma l’idea di farne 88 adesso è impensabile. Erano altri tempi, e per provarci ci fu comunque uno sforzo collettivo. Mi ricordo che giocavamo a Roma e all’intervallo ci rendemmo conto che avevo qualche chance di superare il record di Pollard della settimana precedente. Così ci provammo, tutte insieme. A ripensarci ora è davvero una follia (risata)”.

Sei stata anche una bella donna-copertina in Italia: ti divertivi?

“Forse sono stata un soggetto un po’ atipico: io ero fermamente decisa a trarre tutto il possibile dall’esperienza, quindi non mi tiravo mai indietro quando c’era qualcosa di divertente da fare. Con questo tipo di mentalità tutto mi venne facile: l’Italia è un posto così bello e pieno di possibilità. Ho fatto la modella, sono stata in tv, ho persino cantato. Non ebbi momenti difficili onestamente: certo, ero lontana dalla mia famiglia, ma non mi mancava niente altro. Per non iniziare neanche a parlare del cibo, del vino. Ancora oggi quando cucino mantengo una forte influenza italiana”.

Le tue qualità migliori in campo quali erano?

“Non sono stata una delle giocatrici più talentuose in realtà. Sono cresciuta in un mondo dove ho sempre dovuto lottare per emergere. Vengo da una famiglia di dieci persone, con cinque fratelli più grandi. È da questo che deriva la mia qualità migliore: ero davvero competitiva, sempre pronta a giocarmela. Non ero spaventata dal fallimento, mai. È quello che vi direbbero le mie ex compagne di squadra: non la più talentuosa, ma sicuramente l’ultima a mollare e a fare un passo indietro”.

NEL 1996, DOPO 12 STAGIONI IN ITALIA, È TORNATA A GIOCARE NEGLI STATI UNITI NELLA ABL, CON LA MAGLIA DELLE COLUMBUS QUEST, VINCENDO DUE CAMPIONATI E DUE TITOLI DI MVP. NEL 1999 HA GIOCATO UNA STAGIONE CON LE WASHINGTON MYSTICS, IN WNBA.

Ora, con la diffusione dell’inglese è difficile che qualcuno si impegni e impari la lingua. Come mai per te fu una priorità?

“A proposito dell’italiano vi racconto questa. La prima volta che arrivai in Italia ovviamente non capivo la lingua. Il coach, durante l’allenamento non faceva che ripetere ‘dai, dai, dai’. La cui pronuncia è uguale al termine inglese ‘die’, ovvero morire. E pensavo ‘ma questo è pazzo’. Poi finalmente qualcuno mi spiegò (risata). Le mie prime settimane italiane le trascorsi a Monza, con il signor Monti, l’allora presidente della GBC Milano. Mi prese in casa sua come se fossi parte della famiglia. Parlavano un po’ di inglese, ma volevo capire di più. Volevo vivere l’esperienza completa, non starmene nel mio appartamento e andare da McDonald’s a mangiare. Così mi feci trovare una scuola. Era nel centro di Milano, prendevo la metro, passavo per il Duomo, la Galleria e arrivavo. Stupendo, anche se non capivo davvero nulla all’inizio (risata)”.

Cosa occupa ora le tue giornate?

“Faccio tante cose. Sono presidente di una associazione non profit, Dr. Clarence B. Jones Institute for Social Advocacy, dove ci occupiamo di programmi per i giovani, ho scritto un libro, faccio delle presentazioni, mi piace tenermi molto impegnata”.

Ti piace lavorare con i giovani?

“Sì, e ho di recente ripreso ad allenare: seguo due squadre femminili nell’high school di Camden, in New Jersey. A Camden sono nata e cresciuta, ed è un posto problematico: alto tasso di criminalità e di povertà. Il programma per i ragazzi è uno dei migliori del Paese e ho deciso di tornare per restituire qualcosa a mia volta. Attraverso il basket, la mia passione da sempre, posso influenzare positivamente giovani ragazze”.

Quando hai a che fare con giovani ragazze non si tratta solo di pallacanestro.

“Esatto, è questo il punto. Cerco di dare un supporto più ampio, si parla di vita non solo di sport. Il basket è quasi secondario, può essere un trampolino. Vorrei che i ragazzi sapessero che non si tratta solo di avere successo, di fare soldi, di comprarsi una macchina; voglio che trovino qualcosa di autentico che li faccia stare bene ed essere felici. Nel mio caso è stata la pallacanestro a darmi l’opportunità di venire in Italia, e l’Italia è stata in grado di offrirmi questa occasione in quanto donna e sportiva. È più del basket. Io non avevo molto, ero fedele a me stessa. Non pensavo all’essere bianca, nera, donna. Ero energia e la vita è diventata magica”.

Si possono davvero cambiare le cose?

“Sì, con le nostre azioni possiamo cambiare quello che ci sta intorno. Ad un certo punto della mia vita ho iniziato con la meditazione: mi ha dato consapevolezza sulla forza dei nostri pensieri. Spesso la realtà in cui viviamo sembra folle, ed ogni tanto è difficile affrontarla. Ma partendo da noi stessi, cambiando noi stessi, possiamo cambiare quello che ci sta intorno in meglio”.

Il dibattito sulla parità di genere nello sport è molto attuale negli Stati Uniti, tanti giocatori e giocatrici si fanno sentire sull’argomento. Cosa ne pensi?

“C’è sempre strada da fare quando si tratta di questo tema. Negli Stati Uniti si tende sempre a vedere le differenze, a mettere le persone in delle scatole e categorizzarle: che sia per colore, razza, genere. Penso ci sarà sempre un dibattito attivo, almeno fino a che non saremo capaci di superare queste barriere”.

Ma le tue ragazze lo sanno di essere allenata da una hall of famer?

“Ho iniziato facendo delle sostituzioni a scuola e notando la mia altezza i ragazzi mi chiedevano se avessi giocato. Prima o poi succede che qualcuno gli dia l’imbeccata: ‘ma sai chi è lei? Hai provato a cercarla su Google’? A quel punto è divertente, perché quando scoprono cosa ho fatto tornano tutti stupiti. Ma alla fine per me l’importante è creare dei rapporti umani sinceri, a prescindere dai miei titoli, dai miei numeri da atleta. Preferisco che la gente mi ricordi come una persona alla quale era bello stare vicino, non solo per quello che ho fatto su un campo da basket”.

Torni spesso con il pensiero alla tua carriera?

“Solo quando sono le altre persone a darmi qualche riconoscimento per quello che è stato. Per me è quasi ironico: è qualcosa che feci quando ero una ragazzina, una teenager che amava giocare a pallacanestro. Ora è strano ricevere dei premi per questo, per quella che era una passione. Con la giusta energia, con la giusta mentalità, vivendo quello che siamo davvero, tutto diventa possibile”.

Valerie detiene tutt’ora il record di tutti i tempi (sia tra le donne che tra gli uomini) di punti segnati (2763) e rimbalzi (1525) dell’University of Kentucky. Nella stagione 1986/87, con la maglia del Geas, ha sfiorato 40 punti di media a partita. Le ragazze sono fortunate ad averla come insegnante e coach, sarà la loro arma in più per crescere e diventare donne. Ma se si tratta di sfidarla su un campo da basket, allora non hanno proprio una chance.

“Se non avessi avuto problemi al ginocchio probabilmente starei ancora giocando, tanta è la mia passione per la pallacanestro. Ma con le mie squadrette mi capita di fare due tiri, qualche esercizio, la partitella. Con loro mi basta una gamba! (risata)”.

NEL 2019 STILL È ENTRATA NELLA WOMEN BASKETBALL HALL OF FAME. NEL 2018 HA PUBBLICATO UN MEMOIR: “PLAYING BLACK AND BLUE: STILL I RISE”.

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