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MARCELLA L'OLIMPICA
from PINK BASKET N.30
by Pink Basket
COVER STORY - Di Simone Fulciniti
UN’ICONA DELLA PALLACANESTRO FEMMINILE ITALIANA. UNA LUNGA GAVETTA CHE DALLA SERIE B L’HA PORTATA FINO ALLO SCUDETTO. E ATTRAVERSO UNA GRANDE DETERMINAZIONE, CONDITA DA UN CONTINUO LAVORO FISICO E MENTALE, È RIUSCITA A CORONARE IL SOGNO DI PARTECIPARE ALLE OLIMPIADI NEL BASKET 3X3
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La storia cestistica di Marcella Filippi è un vero e proprio ottovolante di emozioni. Successi, sconfitte, trionfi, delusioni, certezze; paura di non farcela o di non essere all’altezza. Fantasmi questi ultimi scacciati lavorando seriamente, duramente, e sempre con la massima applicazione possibile. E non ultima, l’umiltà: carattere distintivo che le ha permesso in poche settimane di passare dalla serie B a Roseto all’Olimpiade di Tokyo per giocare nel 3x3 con la Nazionale Italiana. «Provengo da una famiglia di baskettari: prima di me ci sono stati mia sorella, mio fratello e mio papà, che era ancora in attività quando sono nata. Ha giocato fino ai miei cinque anni, e ogni volta che andavo a vederlo, nell’intervallo delle partite, ero ovviamente una di quei bambini che rotolano con la palla cercando di fare canestro. La scelta di questo sport è stata dunque naturale, nonostante mia madre volesse iscrivermi a nuoto, essendo lei stessa nuotatrice».
La via, dunque, segnata fin dagli albori. «Ho iniziato a praticare minibasket ad Albino, dove mio padre faceva il dirigente. Ricordo che mi allenavano alcune giocatrici della prima squadra: ne ero innamorata e volevo diventare come loro. Poi la società chiuse e spostarono il settore giovanile a Milano. Per me era impossibile andare avanti e indietro. Volevo rimanere a Bergamo, ma essendo tesserata non potevo giocare in altre squadre. Allora i miei genitori chiesero consiglio alla federazione. Due le soluzioni: o stavo ferma per un anno, e poi mi sarei svincolata, oppure potevo fare un altro sport. Optai per la seconda, provando pallavolo: era comodo, vicino a casa. Mi piaceva, ma mancava il livello agonistico del contatto fisico, e soprattutto la competitività coi miei fratelli. E la stagione dopo ricominciai a giocare a basket, nonostante l’allenatore della pallavolo fosse venuto sotto casa per convincermi a restare». Numerosi i tentativi di mettere il bastone tra le ruote. «Sembra stupido ma io dentro ho sempre avuto una vocina che mi diceva di proseguire. Pur essendo super umile e poco fiduciosa nei miei mezzi. Inoltre una delle prime allenatrici suggerì a mia madre di farmi cambiare sport. Lei fu intelligente a non dirmelo. La stessa allenatrice mi ha scritto un messaggio durante le ultime Olimpiadi. Ma questa è un’altra storia».
La carriera senior comincia ad Albino in B, fino alla chiamata di Carugate che viaggia al piano superiore. «Anche in quel frangente qualcuno tentò di scoraggiarmi. Ma volai dritta per la mia strada: per immortalare il momento mi regalai il primo tatuaggio sulla caviglia, significativo “Keep Going”». Marcella a Carugate non gioca molto, ma approfitta della presenza di una compagna esperta come Angela Arcangeli, olimpionica a Barcellona ’92, per allenarsi fuori orario. «Una crescita fondamentale».
E poi arriva l’incontro che segna un cambio di rotta, quello con Gianluca “Larry” Abignente. «Quell’anno giocammo contro Udine. Prima della partita ero in palestra a tirare. Mancavano due ore, tiravo al buio. Quando giunse la squadra avversaria, coach Abignente mi vide e pensò: “Una pazza così non posso non averla”. Nel 2007 infatti passai con lui a Udine, per vivere il periodo che mi ha formata di più». Il debutto in A1 con indosso la maglia di Faenza arriva nel 2011. «Il primo anno tutto bene. Il secondo, per problemi del club, passai a La Spezia in A2, e riuscimmo a salire in A1. E fu il primo momento in cui il mondo del basket si è accorse di me. Ho sempre voluto arrivare in A1 meritandomela, e così è successo. Dimostrare di poterci stare era il mio obiettivo». Ma le strade con Abignente stanno per incrociarsi di nuovo. «Avevo 30 anni ed ero stata convocata dalla Nazionale A per un All Star Game, al posto di Giulia Gatti che non era potuta andare. Che dire, contentissima. Non giocai, partecipai alla gara da tre punti all’intervallo. In riscaldamento non sbagliavo mai, in gara feci schifo. Fu una grande frustrazione, volevo piangere. Ma Larry mi fece coraggio e gli chiesi di riprendermi in squadra con lui». Ed ecco che comincia l’avventura a San Martino. «La società aveva cambiato tutte le giocatrici. Il nostro compito era far innamorare di nuovo i tifosi legati al recente passato. Arrivammo quarte, un grande risultato. Facemmo anche la final four di Coppa Italia a Perugia, giocando bene. La successiva ancora una stagione al top. Dovevo essere il cambio della straniera ma stavo sempre in campo».
Poi la grande occasione. «Il procuratore mi disse che Schio era sulle mie tracce, e fu impossibile dire di no, soprattutto alla mia età. Mi si prospettava il sogno di fare l’Eurolega, di viaggiare. Non è stato facile. Avevo messo in preventivo di giocare meno. Ma mi allenavo poco, non ai miei ritmi, visti i tanti impegni della squadra. E questo mi creava sofferenza. Però ho avuto la possibilità di lavorare con Allie Quigley, la giocatrice più forte che abbia visto. Uno spettacolo! Vincemmo lo scudetto. Feci di tutto per essere utile alla squadra: per esempio nelle trasferte infinite in Russia portavo mezza valigia di cibo italiano per far star bene le ragazze. L’emozione più grande di quell’anno fu essere in campo nel momento dell’addio di Masciadri al basket giocato, a Ragusa».
Nel frattempo era cominciata la storia d’amore col 3x3. «Già da un po’ in estate avevo iniziato a fare una serie di tornei, principalmente perché non mi piace stare ferma. Nel 2014, mi chiamarono per il mondiale a Mosca. Non avevo neppure il passaporto. Ci trovammo direttamente in aeroporto a Malpensa: con me c’erano Canova, Baldelli e Ercoli. Una stretta di mano, e via a giocare. La prima partita ci menarono, quasi non fosse basket… Da lì nacque una dipendenza: rispetto alla pallacanestro tradizionale c’era più adrenalina. Arrivammo ventesime. Nel 2016 al mondiale, con Angela Adamoli coach, ottave. Nel 2017 mondiale a Nantes, quinte, perdendo ai quarti contro l’Ungheria». Nel 2017, ad Amsterdam, ancora una sconfitta ai quarti contro la Spagna. «Fuori dal palazzetto, eravamo a pezzi. Rae D’Alie voleva smettere, perché, a suo dire, non avremmo mai vinto nulla. Cercai di farla ragionare, le dissi che occorreva tempo. Poi passarono i campioni della Serbia, con gli stessi argomenti, la convinsero a continuare».
Il 2018 un anno di grazia. «Iniziai a lavorare con un mental coach, scrivendo su un foglio i miei obiettivi». Sull’agenda ci sono le prove: a pagina 16 settembre 2018 c’è scritto “Obiettivo: essere pronta per la medaglia 3x3”. «Prima del raduno non sapevamo neppure quale fosse il roster. E alla fine abbiamo vinto. Ci siamo allenate singolarmente per circa un mese. Poi siamo partite senza la preparatrice, sei giorni prima del mondiale: Io, Ciava (Ciavarella), Rae (D’Alie) e Ruls (Rulli)». Prima delle partite il rito del Ninja «Simulavamo dei colpi per caricarci. Prima della sfida più importante, contro gli Stati Uniti imbattibili, a Ciavarella, col Ninja, uscì una spalla. Ma vincemmo, contro ogni pronostico». Una partita perfetta preparata nei minimi dettagli da coach Adamoli «durante le riunioni in camera d’albergo, disegnando gli schemi col pennarello su uno specchio. Siamo state impeccabili, non ci credevamo neppure noi». Poi è arriva la corazzata Cinese, ed è proprio una bomba a fine supplementare di Filippi a fare la differenza. «Dopo aver sbagliato per tutta la partita misi quella decisiva. Uno scoglio durissimo, data anche la stazza delle giocatrici avversarie». Infine la vittoria con la Russia. «Non ci fu gara. Eravamo fisicamente molto più pronte e toniche, loro invece distrutte. Vincemmo il titolo mondiale».
Seguono anni complicati tra risultati deludenti e pandemia. Nel 2021 la nazionale 3x3 approda alle Olimpiadi di Tokio. Alle qualificazioni decisive Marcella non c’è. Tuttavia per una questione di regolamento Sara Madera non può volare in Giappone, e si apre una porta per una quarta da selezionare. «Ho passato un mese e mezzo in attesa, con un’ansia terrificante. Ho chiesto a mezzo mondo di aiutarmi nella preparazione, volevo arrivare al raduno al massimo della forma. Alla fine hanno deciso di portarmi a Tokyo». Un sogno che si avvera. E nessuna delusione per come è andata. «Le avversarie erano prontissime e preparatissime. Noi ci siamo trovate soltanto l’11 luglio al raduno, eravamo in otto. Cinque giorni di allenamento senza sapere chi sarebbe andata; il 16 siamo partite, il 15 pomeriggio ho appreso che toccava a me. Siamo andate in 4, sarebbe stato più opportuno essere in 6. Ma è stato meraviglioso lo stesso. Nel momento della selezione sono scoppiata a piangere, di felicità e orgoglio. Non è stato facile con Sara Madera, che si meritava di essere dentro. Quando l’ho abbracciata, prima di partire, avrei voluto inglobarla, ci sarebbe servita tantissimo».
Un’esperienza indimenticabile. «Ancora oggi nessuna di noi ha realizzato bene la cosa. Non ce la faccio a pensare di essere un’atleta olimpica. Uno dei momenti più belli? La mensa. Con gli atleti di tutti i paesi, anche le star: un parco giochi. Un periodo unico e irripetibile, il più bello della mia vita». Ma adesso lo sguardo è rivolto al presente che si chiama ancora San Martino di Lupari. «Saremo una sorpresa, vogliamo crescere divertendoci… Ingredienti perfetti per una buona ricetta. Ci sono ottime giovani ed un bravo coach» E il futuro? «Mi piacerebbe aprire un’attività mia che mi tenga in mezzo alle persone, un locale, bistrot, bed and breakfast a Padova. La mia idea sarebbe anche fare tutti i corsi possibili per rimanere nel mondo del basket. Prepararmi mentre sono ancora in attività». Con serenità. «Non mi spaventa il dopo, sono abituata a lavorare».