6 minute read

ROMANZO SARDO

STORIE - Di Laura Fois

NUNZIA SERRADIMIGNI È LA PRIMA SARDA AD AVER PARTECIPATO ALLE OLIMPIADI, QUELLE DI MOSCA NEL 1980. PER LEI UNA LUNGHISSIMA CARRIERA IN A1 E DUE COPPE RONCHETTI VINTE, UN AMORE FOLLE PER LA PALLACANESTRO E IL LEGAME STRETTISSIMO CON LA SORELLA ROBERTA, SCOMPARSA IN UN INCIDENTE STRADALE

Advertisement

«Ne ho combinate tante, soprattutto durante i dieci anni a Roma, ma i casini più grandi li ho fatti con mia sorella». Con Nunzia Serradimigni si ride tanto, ci si emoziona e si impara a non perdere mai il gusto della vita. Oggi splendida sessantenne, ieri tra le più forti cestiste sarde con una lunga carriera in serie A1 (16 anni) e un palmares di rispetto (2 Coppe Ronchetti, 1 Olimpiade disputata).

C’è un prima e un dopo nella sua vita, legato inevitabilmente alla perdita della sorella Roberta, strappata troppo presto ai suoi affetti per via di un incidente stradale nell’estate del 1996, poco più che trentenne, nella sua Sardegna. Un talento purissimo, convocata in Nazionale a 16 anni e insignita del Premio Reverberi, alla quale è intitolato il Palazzetto dello Sport di Sassari e una via, sempre a Sassari, nel quartiere dove tuttora vive Nunzia. Proprio lì vicino c’è un campetto all’aperto dove le due sorelle hanno mosso i primi passi nel mondo della pallacanestro.

Nunzia, quattro anni più grande, proveniente da una famiglia di sportivi, capisce subito che vuole fortemente giocare a basket. «Non volevo arrivare, ho sempre avuto il piacere di allenarmi e di farlo bene. Ho davvero sempre e solo vissuto per il basket, fin da piccola. Quando giocavo in serie B nazionale nel Sant’Orsola Sassari, a 13 anni, andavo a dormire alle otto di sera se il giorno dopo avevo la partita. A 12 anni mi alzavo alle sei del mattino per andare a correre». Così Nunzia si fa notare presto, tra serie B (la categoria superiore era direttamente la serie A1) e varie finali nazionali giovanili. La nota l’Algida Roma e a 16 anni, nel 1976, Nunzia sbarca nella capitale. «Ero così ignara del mondo e così piccola che chiamavo mamma e papà chiedendo loro se potessi andar fuori a mangiare la pizza! Il mio primo anno fu drammatico, soprattutto quando ho dovuto decidere tra restare a Roma e tornare in Sardegna. Avevo nostalgia di casa ma rendevo tanto in campo. Ho iniziato quasi subito a giocare 40 minuti in serie A1. Con me c’erano Phil Melillo (ex cestista e allenatore statunitense) e Mavi Fara, mia compagna di squadra che poi ha sposato Phil. Via via è stato tutto più semplice, e divertente!». Roberta la raggiunge quattordicenne nella stessa squadra, qualche anno più tardi. «Vivevamo in sei nello stesso appartamento, eravamo tutte compagne di squadra e io, poco più che maggiorenne, ero la più grande. Passavamo le notti in giro per Roma, il tempo di rientrare a casa, cambiarci e andare in palestra».

Nel 1980 è vice campione d’Italia perdendo di un punto lo spareggio per lo scudetto a Pesaro, contro la Fiat Torino. «Ho pianto tantissimo», ricorda ancora con rammarico, perché le sconfitte continuano a bruciare se lo sport è nel sangue e circola anche quando si smette di calcare il parquet. Il primo trofeo in bacheca arriva nel 1984: è la Coppa Ronchetti che vince a Budapest con la Bata Roma contro la squadra di casa. Per la prima volta una squadra italiana vince la seconda competizione internazionale europea, dopo la Coppa dei Campioni. Ma prima ancora Nunzia gioca due campionati Europei Juniores, in Bulgaria e in Sicilia, ma soprattutto nel 1980 fa parte del team della Nazionale che partecipa alle Olimpiadi di Mosca, quelle del boicottaggio americano per l’invasione sovietica dell’Afghanistan. «Per questo, non avevamo potuto partecipare alla sfilata», ricorda Nunzia.

È tutt’oggi l’unica cestista sarda ad aver mai preso parte ai Giochi, e condivide questo traguardo, curiosamente, con un altro sassarese, Marco Spissu - che ha giocato proprio quest’anno le Olimpiadi di Tokyo - tra l’altro suo allievo e col quale conserva un bel rapporto di amicizia. «Marco è l’unico a cui avrei permesso di togliermi lo scettro di unica cestista sarda alle Olimpiadi!», commenta col suo solito piglio ironico. Sulle Olimpiadi, «lo ammetto spesso: non mi ero resa conto realmente dell’importanza di ciò che stavo vivendo. Ero molto attratta dall’atmosfera del Villaggio Olimpico, ero affascinata da Pietro Mennea e Sara Simeoni che avevano vinto l’oro. Andavamo a vedere tutte le partite della Nazionale maschile di basket, dovunque mi girassi c’era un campione di qualche sport. Era il paese dei balocchi, per questo dico una cosa che è un pensiero che condividono in molti: le Olimpiadi si dovrebbero fare a 40 anni, non a 20!». Il piazzamento finale fu il 6° posto, ma la grande fatica era stata fatta precedentemente al Preolimpico in Bulgaria. «Avevano partecipato 35 nazioni, di queste ne passavano solo 5. Per questo, la vera impresa è stata quella. Abbiamo passato tanto tempo in Bulgaria, che a quel tempo era almeno 40 anni indietro rispetto a noi. È stato molto faticoso, tanto che siamo arrivate alle Olimpiadi col fiato corto».

Con la Nazionale Nunzia annovera 28 presenze e 108 punti. Una carriera a cui ha rinunciato troppo presto per un problema all’occhio. Eppure non è stata l’esperienza in maglia azzurra la sua soddisfazione più grande, quanto «i 16 anni in serie A1. Questo è, più di ogni altra cosa, il mio orgoglio più grande». Dopo dieci anni a Roma, trascorre tre anni ad Avellino, due a Bari, facendo sempre parte di squadre competitive, e infine altre due stagioni a Milano. E proprio nelle file della Gemeaz Milano, allenata da Marco Rota, vince nella stagione 1990/91 la sua seconda Coppa Ronchetti. Tra le compagne di squadra c’è Cinzia Zanotti, amica fraterna, oggi allenatrice della Geas Milano. Gli aneddoti si moltiplicano quando Nunzia si lascia andare ai ricordi, come quell’anno a Milano dove la incaricano di vestire la squadra e lei va dritta dritta a svaligiare il negozio di abbigliamento Max Mara. O di quando a Bari, per paura dell’aereo, viaggiava con un taxi privato di lusso messo a disposizione dalla società, esaurendo la bolletta del telefono col quale faceva lunghe chiacchierate con la mamma. Nel mezzo, allenamenti, partite, trasferte, incontri e vacanze con la sorella Roberta, a cui era legata da «un amore folle, perché era come una figlia e mi sentivo responsabile per lei».

Appese le scarpe al chiodo, dopo un momento di pausa seguito all’incidente di Roberta, inizia ad allenare a Sassari i bambini della scuola di San Giuseppe. Dopo poco fonda una società, Sportissimo, che inizialmente copre tutte le categorie del giovanile, poi si occupa esclusivamente del minibasket. Nel mentre diventa allenatrice nazionale, ricopre l’incarico di capo delegazione dell’Under 15 maschile al Torneo dell’Amicizia 2015 e dell’Under 14 femminile alle edizioni 2016 e 2017 del Trofeo Bam. Ha preso parte come allenatrice anche al raduno della nazionale Under 16 qualche anno più tardi. Ancora oggi dispensa consigli e fa appassionare al basket ragazzi e ragazze. «Per allenare i giovani di oggi ci vuole molta passione e serietà, ma anche tanto studio. Bisogna sapersi relazionare con loro. La sfida più grande è quella di farli innamorare di questo sport, tenendo conto che hanno mille altre distrazioni».

Il Covid ha tagliato le gambe a società come la sua che si appoggiano a palestre comunali e scolastiche. Da un anno e mezzo, per complicanze burocratiche che stanno mettendo in difficoltà tantissime associazioni sportive in tutta Italia, non riesce ancora a entrare nel campo su cui storicamente ha formato centinaia di giovani leve, e dove ha trasmesso per anni tutta la sua esperienza e competenza. Anzi, qualcosa di più: tutta la sua vita.

This article is from: