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(DIS)PARITA' DI GENERE

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FIRST LADY

FIRST LADY

FOCUS di Alice Pedrazzi

“L’UNICO SPORT CHE TENDE AL CIELO” SI PROIETTA IN REALTÀ SOLO IN UNA METÀ DI QUESTO CIELO, QUELLA AZZURRA. IN ALTRI SPORT E ALTRE NAZIONI, INVECE, GLI STEREOTIPI SI STANNO SUPERANDO SUL CAMPO. DOBBIAMO CORRERE, PER COLMARE UN GAP CHE NON È SOLO INTERNO AL NOSTRO MOVIMENTO.

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Italia, anno 1874: le donne sono ammesse nelle università per la prima volta.

1891: le donne possono ricoprire impieghi pubblici.

1946: le donne conquistano il voto.

1963: le donne possono essere ammesse alla Magistratura.

Italia, anno 2019: le donne sono escluse dal professionismo sportivo.

Nel nostro Paese (non solo, ma nel nostro – ahinoi – molto più che in altri), la battaglia per l’uguaglianza di genere ha almeno tre secoli di storia. E non sembra né vinta né conclusa. Nonostante le attenzioni dell’Unione Europea che, sulla questione dell’uguaglianza uomo-donna nello sport ha spesso sollecitato e bacchettato gli Stati membri, ancora poche sono le azioni concrete di “messa a terra” di principi condivisi da tutti a parole, meno nei fatti. Molti sono gli atti che parlano e chiedono la parità di genere: partendo dal principio di uguaglianza sancito nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948), passando dalla Carta delle Nazioni Unite, ratificata dall’Italia nel 1957, per arrivare alla Carta Olimpica del 1978 ed alla Risoluzione della UE per le Donne nello Sport, datata 2003, con la quale il Parlamento Europeo ha dichiarato che lo sport femminile è l’espressione del diritto alla parità ed alla libertà di tutte le donne di disporre del proprio corpo e ha sollecitato il mondo sportivo tutto a sopprimere la distinzione tra pratiche maschili e femminili, chiedendo alla varie Federazioni nazionali di assicurare alle atlete la stessa parità di diritti dei colleghi maschi in termini di trattamento economico, assicurativo e pensionistico.

Eppure in Italia nessuna atleta può godere, oggi, dello status di professionista dello sport. Non importa se è capace di vincere 66 medaglie come Valentina Vezzali o se è, senza forse, la più forte nuotatrice della storia dello sport italiano come Federica Pellegrini: sono, siamo, tutte dilettanti. Allo sbaraglio? No, ma solo per la serietà delle atlete, per la loro determinazione e per una passione che è spesso e volentieri smisurata e, certamente, sproporzionata a quello che il mondo dello sport (non il campo, sia chiaro) rende a queste atlete in termini di diritti.

Volgendo lo sguardo al piccolo grande mondo della pallacanestro nostrana, notiamo che anche quello che viene definito “l’unico sport che tende al cielo”, si proietta, in realtà, solo in una metà di questo cielo, quella azzurra, perché di (diritti) rosa, ce ne sono ben pochi. La Federazione Italiana Pallacanestro è una delle quattro Federazioni nazionali che riconosce lo sport professionistico per alcune categorie particolari di praticanti: soltanto quelli che giocano (o allenano o sono dirigenti) in squadre che militano nella massima serie nazionale. Maschile. Tutte le nostre atlete, anche quelle che giocano in A1, anche quelle che indossano con onore la canotta Azzurra, quelle che vincono scudetti a ripetizione, sono dilettanti. Burocraticamente, dilettanti. Perché, nella sostanza, di basket ci vivono. Perché per il basket rinunciano ad altre carriere e spesso e volentieri rallentano i propri studi, perché per qualche decennio la pallacanestro è la loro attività principale. Va bene, si dirà, ma queste atlete vengono comunque retribuite per la loro attività sportiva, quindi sono delle “professioniste di fatto”: perché scandalizzarsi tanto solo per una “qualifica” formale? Perché di formale c’è poco, ma di sostanziale molto.

Partiamo dal guadagno: escludendo le cosiddette top player (ma in Italia ne contiamo, forse, cinque…), il rapporto tra lo stipendio di una giocatrice di serie A1 e quella di un suo collega maschio è di 1 a 8. Ma fa più impressione così: per una ragazza che gioca in serie A1 e guadagna 62.000 euro all’anno, c’è un suo collega maschio che ne guadagna 500.000. Questione di revenue, si dice. Già, gli sponsor sono molto più attirati e ben disposti verso lo sport al maschile, molto più popolare e visibile in tv, sui giornali, sui social. Troppo semplicistica, come spiegazione. E soprattutto molto comoda per accontentarci. Quanto e quale lavoro fanno i media per superare gli stereotipi di genere che fanno delle qualità “maschili” quali, ad esempio, forza e velocità, quelle più adatte alla pratica sportiva, mentre delle qualità cosiddette “femminili”, come grazia e delicatezza, un ostacolo a discipline di contatto e di forza, appunto? E quali e quanti investimenti fanno federazioni e società affinché lo sport femminile abbia la stessa visibilità di quella maschile? Ci vorrebbe parità di investimenti e sforzi, almeno – diciamo – per un quadriennio olimpico, per poi poter fare un confronto vero, anche in termini di revenue.

Tornando alla questione “professionista vs dilettante”, il gap non è solo retributivo. Anzi, la questione vera è una parità di diritti ad oggi inesistente. Il punto è squisitamente giuridico e lo spiega con precisione l’Avvocato Alessandro Marzoli, presidente della Giba, l’Associazione Italiana Giocatori (e Giocatrici) di Basket: “La prima conseguenza dell’essere considerata una atleta dilettante è l’impossibilità di avere un contratto di lavoro. E questo nonostante esista, nel rapporto tra giocatrice e società, uno degli elementi che maggiormente qualifica il lavoro come subordinato: il rapporto disciplinare. La mancanza di un contratto di lavoro (e di un CCNL di categoria, ndr) fa sì che per tutte le nostre atlete il rapporto di lavoro prenda la forma spesso poco rassicurante della scrittura privata”. Che può contenere le clausole più inverosimili…” Certo – prosegue Marzoli - come le odiosissime clausole anti-maternità, che in molti casi prevedono la risoluzione immediata dell’accordo qualora l’atleta si trovi ad affrontare una gravidanza”.

Una mancanza non solo di regole, ma di civiltà, che crea disparità non solo fra donne e uomini nello sport, ma anche fra donne e donne nel mondo del lavoro, perché in tutti gli altri settori, una donna lavoratrice ha un contratto di lavoro che tutela i suoi diritti, primo fra tutti quello d’esser madre. “Per fortuna – aggiunge Marzoli - qualche piccolo grande passo in avanti è stato fatto recentemente: con la Legge di Bilancio 2018 è stato, infatti, istituito un fondo destinato a sostenere la maternità delle atlete non professioniste”. Quindi, la maternità di tutte le cestiste e, più in generale, di tutte le atlete italiane. Una norma di civiltà diventata finalmente legge, ma ancora largamente insufficiente.

“Già – prosegue il presidente Giba – perché le atlete continuano a subire disparità dal punto di vista della tutela assicurativa e previdenziale, ad esempio”. Il reddito delle cestiste, infatti, non è assoggettato a contribuzione Inps né Inail, al termine delle loro carriere le ragazze non hanno diritto né al Tfr né ad accedere ad un trattamento pensionistico. Nemmeno quelle che hanno dedicato 20 o più anni all’attività sportiva agonistica, giocando nel nostro massimo campionato.

Eppur qualcosa si muove. Non solo il Fondo per il sostegno alla maternità, ma altri piccoli grandi risultati che l’Associazione Giocatori sta cercando di ottenere: “E’ anche una questione di cultura e mentalità delle atlete stesse, che vanno coinvolte nel momento decisionale – riflette correttamente Marzoli -: nel 2013 c’era una sola giocatrice aderente alla Giba, oggi, grazie alla nostra volontà e ad alcune di loro, ne contiamo oltre ottanta: sempre più ragazze sono coinvolte attivamente nel nostro lavoro, un risultato di cui andiamo fieri. Anche informarsi, conoscere i propri diritti, avere supporto ed assistenza, sapere di poter essere rappresentate da qualcuno in maniera collettiva può fare la differenza. In questi anni, anche su forte spinta della Giba, abbiamo ottenuto la possibilità di avere fidejussioni dalle società a garanzia dei mancanti pagamenti: l’entità economica di queste fidejussioni è ancora bassa, è vero, ma anche questo è un segnale importante”.

La strada però è ancora lunga? “Sì, ma non ci fermiamo ora che il cammino è iniziato. Le nostre iniziative riguardano l’istituzione di una assicurazione sanitaria obbligatoria per le giocatrici della nostra serie A1, stiamo cercando di ottenere un accordo collettivo in tal senso e la possibilità di introdurre un fondo di fine rapporto. La proposta allo studio dell’attuale governo sul semiprofessionismo, se realizzata nel giusto modo, potrebbe essere una strada efficace da seguire”. Tra battaglie grandi e piccole, ce n’è una che balza all’occhio e sembra davvero senza spiegazione: i cosiddetti “gettoni” azzurri, ovvero la diaria che percepiscono gli atleti quando vestono la maglia della nostra nazionale maggiore. L’importo varia, comprensibilmente, a seconda del numero di presenze dell’atleta, ma varia anche, incomprensibilmente, a seconda che quell’atleta sia uomo o donna. Il gap (pare…) sia esiguo, il che, però, è semmai una aggravante e non una giustificazione. Saranno pochi euro al giorno in più a gravare sulle casse del sistema? E se non è sostenuta da ragioni di sostenibilità economica, perché esiste?

Abbiamo urgenza di risposte, perché in altri sport ed altre nazioni, gli stereotipi si stanno superando sul campo, a suon di record e risultati: nel mese di marzo, al Wanda Metropolitano di Madrid, 60.739 spettatori hanno assistito alla sfida tra l’Atletico e il Barcellona, match chiave per la volata scudetto della Liga spagnola di calcio femminile e nel nostro italianissimo Juventus Stadium 39.000 persone hanno guardato la gara tra la Juventus Women e la Fiorentina (time-out riflessivo: hanno giocato nello stesso stadio degli uomini e con lo stesso nome sulle maglie, non a caso e non per caso...); nella passata stagione, la Norvegia ha stabilito la parità di salario tra calciatori uomini e donne per per le prestazioni in Nazionale; la settimana scorsa la Federazione italiana pallavolo ha pubblicato i dati delle proprie tesserate: 248.557, tre volte i colleghi maschi, fermi a 73.792.

Dobbiamo correre, per colmare un gap che non è solo interno al nostro movimento (su 162.559 atleti tesserati alla Fip, le donne sono 21.910 e le atlete giovanili 18.143), ma che subisce la concorrenza di Sport e Paesi che hanno saputo superare gli stereotipi di genere, facendo brillare di luce propria entrambe le metà del cielo.

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