
6 minute read
E' NATA UNA STELLA
from PINK BASKET N.09
by Pink Basket
FOCUS di Alice Pedrazzi
LA STELLA DORATA CONTRADDISTINGUE CHI HA SAPUTO VINCERE DIECI SCUDETTI. È L’UNICO SIMBOLO CHE UNA VOLTA CONQUISTATO È PER SEMPRE. COME UN DIAMANTE, CAPACE DI RACCHIUDERE IN SÉ GRANDI STORIE, NON D’AMORE, MA DI VITTORIE. NEL BASKET FEMMINILE CI SONO RIUSCITE SOLO VICENZA, COMO E SCHIO.
Advertisement
“Le stelle sono tante, milioni di milioni”, cantava De Gregori. Ma non si riferiva certo al cielo del basket femminile, dove - di stelle - se ne scorgono solo tre, che brillano sulla storia di Vicenza, Como e Schio: le uniche società ad essere riuscite a cucirsi su maglia e cuore la stella dorata che contraddistingue chi ha saputo vincere dieci scudetti. Chi è stato capace di vincere e confermarsi. Una stella al merito, dunque, di una programmazione non solo sportiva, ma anche societaria, elemento indispensabile perché vittorie e trofei, per quanto prestigiosi, non siano solo meteore accecanti.
La storia dello “scudetto della stella” viene da un mondo lontano, quello del calcio, e da un tempo diverso, gli anni Cinquanta. Fu il Presidente della Juventus Umberto Agnelli che, per celebrare la decima vittoria in campionato della propria squadra, chiese alla Lega Nazionale ed alla Federazione Italiana Gioco Calcio di poter cucire sulle proprie maglie un simbolo che ricordasse per sempre l’importante traguardo raggiunto. L’idea piacque al Consiglio Federale che ha deliberato “L’istituzione di un particolare distintivo di cui possono e potranno fregiarsi le società che abbiano vinto 10 campionati di Divisione Nazionale Seria A”. Era il 3 maggio 1958. Qualche mese dopo, il 10 luglio, il Direttivo della Lega ha stabilito “Per la conquista di 10 campionati di serie A l’istituzione di uno speciale distintivo costituito da una stella d’oro a cinque punte”.
Iniziò così la storia della stella, emblema di società vincenti nel tempo e simbolo di imprese spesso epiche, “perché se vincere è difficile e ripetersi lo è ancora di più”, farlo per 10 volte significa avere davvero “quel qualcosa in più”, che va ricordato. Con una stella d’oro, appunto. A differenza di scudetto e coccarda, infatti, che si accasano su maglie diverse ogni anno, a seconda dei risultati della stagione precedente (lo scudetto va sulla casacca di chi detiene il titolo, mentre la coccarda su quella della vincitrice della Coppa Italia, ndr), la stella è l’unico simbolo che una volta conquistato è per sempre. Come un diamante, capace di racchiudere in sé grandi storie, non d’amore, ma di vittorie. Dimostrando che copiare alle volte è sintomo di grande intelligenza, il piccolo grande mondo dei canestri ha fatto propria questa (bella) usanza e così, anche all’ombra dei cristalli, vincere lo “scudetto della stella” significa strappare il decimo tricolore della propria storia e ricevere quel piccolo “marchio” che tanto sa impreziosire una maglia e inorgoglire i tifosi. Sono le disposizioni del Regolamento Esecutivo della Fip a stabilire, al titolo VI, che “La Società che nell’arco della sua storia sportiva raggiunge il numero di 10 scudetti tricolori è autorizzata a fregiarsi permanentemente della stella d’oro”. Che bello quel “permanentemente”, avverbio che si fa simbolo di ciò che è il grande patrimonio dello sport: le tradizioni vincenti, che alimentano la passione e, diventando mito, vivono per sempre, ispirando le generazioni future.
Nel basket femminile le stelle che brillano sono tre: Vicenza, Como e Schio (e a ben guardare, tre sono pure nel maschile con Milano, Virtus Bologna e Varese, per una paritá sancita, almeno, dal campo). Tre, solo? Sì, perché la stella non è da tutti, né per tutti.

La prima compagine, fra le donne, a conquistare il prestigioso traguardo è stata la Vicenza dell’indimenticato Antonio Concato, dirigente appassionato e preparato, scomparso nel settembre scorso, dopo più di 60 anni alla guida della società da lui stesso fondata, forse non a caso, proprio nel 1958, anno dell’istituzione del simbolo dorato e prestigioso che per primo portò nella nostra pallacanestro femminile. L’A.S Vicenza si cuce la stella sul petto nella stagione 1985/86, battendo in finale la Deborah Milano di Cinzia Zanotti e diventando la prima squadra italiana a brillare d’orgoglio per la propria tradizione vincente. A quell’epoca in campo c’erano due ventenni di belle speranze e grandi talenti, Catarina Pollini e Mara Fullin, guidate in panchina da un giovane condottiero, Aldo Corno, all’epoca nemmeno quarantenne. Un terzetto delle meraviglie protagonista assoluto della pallacanestro italiana tra gli anni Ottanta e Novanta che, non a caso né per caso, firma anche la seconda stella della storia del basket femminile, quella conquistata esattamente 10 anni dopo (nella stagione 1995/96), dalla Comense, che regola l’avversario di sempre Cesena.
Seconda stella a destra, e poi dritto fino all’asse portante di questa vittoria, lo stesso della prima. In campo? Ancora Fullin e Pollini, ormai splendide trentenni nel pieno della loro maturità tecnica. Seduto in panchina a guidarle e soprattutto applaudirle? Ancora Aldo Corno. Se tre, dunque, sono le stelle conquistate nella storia del basket rosa, due portano la firma di un terzetto che sul parquet ha saputo davvero brillare: “Beh, io – sorride Aldo Corno, ricordando momenti che sembrano quasi di un’altra vita – al gran ballo degli scudetti, ero più che altro il terzo incomodo tra Fullin e Pollini”. Un terzo incomodo che, però, è l’allenatore più vincente nella storia della pallacanestro femminile italiana (nel suo palmarès: 12 volte il tricolore, 6 l’Eurolega, 6 la Coppa Italia, ndr). “Devo dire – prosegue Corno, svelando uno dei segreti degli allenatori veri: attribuire meriti ai propri giocatori e colpe a se stessi – che se ho vinto 12 scudetti è perché per 12 stagioni ho avuto in squadra Mara (Fullin ndr) e per 7 Cata (Pollini, ndr)”.
Ma il segreto che accomuna Vicenza a Como, due delle tre società capaci di cucirsi sulla maglia la stella? Corno non ha dubbi: “Sta tutto in un nome: Antonio. Concato in un caso, Pennestrì nell’altro”. E così, l’ex cittì, piazza, a ragione e con merito, sotto i riflettori i presidenti di Vicenza e Como, aggiungendo: “Gli allenatori guidano, le giocatrici interpretano, ma sono i presidenti a creare le società vincenti. Se un club arriva a vincere 10 scudetti, il merito non può che essere loro”. E così facendo fa i complimenti, nemmeno tanto indiretti, anche al terzo presidente (neo)stellato della storia del basket rosa, Marcello Cestaro: “Eh sì – aggiunge Corno sorridendo, ma non scherzando – indubbiamente il segreto di Schio si chiama Marcello”.

Poi torna alle sue “stelle” ed alla gratitudine per i presidenti: “Pennestrì era un grande manager ed un dirigente lucido e preparato, Concato un uomo di basket a 360 gradi. Lui era all’avanguardia su tutto, credo sia stato uno dei più grandi dirigenti dello sport italiano”. Immediato l’eco di Mara Fullin: “È stato Antonio Concato la vera stella di Vicenza: lui ha costruito quelle 10 vittorie come una formichina, senza mai fare follie, senza allungare il passo più di quanto la gamba concedesse, ma procedendo di obiettivo in obiettivo”. Solo che di passo in passo, si è arrivati a conquistare grandissimi traguardi, in Italia ed in Europa: “La forza della Societá – prosegue Fullin – è stata quella di tenere sempre un profilo basso, di trattare tutte le giocatrici con equità ed equilibrio e di essere una grande scuola di basket. A Vicenza si andava per imparare a giocare a pallacanestro”. Poi, come effetto collaterale per nulla malvagio, arrivavano anche successi a ripetizione, in campionato e coppe.
Dal Veneto alla Lombardia, per ingrandire il firmamento. A Como, Fullin, con la stella ha fatto tredici: “Quello del 1996 – ricorda e racconta la grande ex azzurra - è stato il mio tredicesimo scudetto personale (in tutto sono 15, ndr). Ed è stata una vittoria particolare, non solo perché era il decimo tricolore di Como (celebrato dalla società con un ciondolo donato a tutte le ragazze), ma anche perchè mi aveva permesso di superare per numero di vittorie personali il grande mito di Dino Meneghin (che a scudetti si è fermato a 12, ndr). Dino prese carta e penna e mi scrisse un biglietto, inviato via fax, che ancora ho appeso in casa: una grandissima soddisfazione”. “Ora che il record assoluto di vittorie in Campionato è tuo, non ti resta che batterlo l’anno prossimo. Complimenti vivissimi e in bocca al lupo”, scrisse il Dino Nazionale a Mara, per un high-five da campione a campionessa che – allora come oggi – rende ancora più scintillante la stella della Comense. Detto, fatto. Mara non si è accontentata del tredici e, sempre vestendo la maglia della Comense, è andata avanti fino a strappare il quindicesimo tricolore personale, ritirandosi da record-woman. E passando virtualmente, a più di vent’anni di distanza, il testimone a Raffaella Masciadri, capitana della terza (ed ultima) squadra che ha raggiunto l’ambito traguardo dei dieci tricolori: Schio.
La stella del Famila di Marcello Cestaro è apparsa nella notte del 9 maggio scorso dopo l’ennesima battaglia vinta contro Ragusa, per illuminare l’infinta carriera di Masciadri, che ha lasciato i parquet con al collo la retina del decimo scudetto della sua Schio ed eguagliando proprio Fullin per numero di scudetti vinti (15). A dimostrazione che le pagine dei libri di storia si riempiono negli anni in cui sul parquet corrono grandi campioni e dietro la scrivania siedono uomini preparati e appassionati. Non c’è passione senza preparazione, non c’è vittoria senza competenza. E quelle tre stelle brillano, sì, ma di sudore. Il che le rende davvero speciali.