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SETTE SECONDI
from PINK BASKET N.09
by Pink Basket
STORIE di Caterina Caparello
BIANCA ROSSI HA INIZIATO A GIOCARE A BASKET A 14 ANNI. NEL 1981 È STATA L’ARTEFICE DEL PRIMO SCUDETTO DELLA PAGNOSSIN TREVISO, GRAZIE AD UN SUO CANESTRO A 7 SECONDI DALLA FINE. DOPO IL RITIRO, È RIMASTA NELLA DIRIGENZA DEL PONZANO BASKET FINO AL 2018.
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La maggior parte dei grandi amori nasce per caso e quando meno te lo aspetti. Entrare in palestra, sentire una palla a spicchi che rimbalza e il leggero suono della retina centrata dal pallone dà un effetto adrenalinico ad una ragazzina di 14 anni che ancora deve scoprire il mondo. È nato così l’amore di Bianca Rossi, classe 1954, una famiglia con 8 fratelli e una carriera che l’ha meritatamente portata ad entrare, nel 2016, nella Hall of Fame del basket italiano: 225 presenze in Nazionale (terza dietro Catarina Pollini e Lidia Gorlin), seconda miglior realizzatrice di tutti i tempi con 2422 punti (seconda sotto la già citata Pollini), artefice del primo scudetto di Treviso nel 1981, ha disputato sei campionati Europei (1976, 1978, 1980, 1981, 1983, 1985), due Campionati mondiali (1975 e 1979), bronzo nel 1973 e ha partecipato all’Olimpiade di Mosca del 1980.
Eppure, tutto è cominciato a scuola tramite l’occhio di una professoressa di ginnastica: “Amavo lo sport in generale, mi piacevano l’atletica e il calcio. Sono nata in una famiglia numerosa con 8 fratelli di cui 6 maschi, ma mia madre diceva che di maschi ne aveva 7 e il settimo ero proprio io. Quando andavo alle scuole medie, un giorno la professoressa ci fece giocare a basket, uno sport di cui non conoscevo assolutamente nulla, nemmeno cosa fosse. Guardandomi, la professoressa mi consigliò di giocare e provare ad entrare in una squadra, ma io non sapevo come fare e a chi rivolgermi. In più c’era l’ostacolo-mamma che era molto all’antica. La professoressa mi disse di parlare con la segretaria della scuola, che giocava a basket e mi procurò gli orari di allenamenti. Grazie ai miei fratelli e alle mie cognate, mia madre si convinse e mi presentai in palestra”.
Quel giorno, Bianca montò sulla sua bici e pedalò per circa 15km arrivando alla palestra Coni di Treviso: “A 14 anni presi la mia bici e mi presentai in palestra, era il 31 ottobre 1968; un giorno che è rimasto impresso nella mia mente, ero anche in ritardo. Ero timidissima, entrai in palestra, c’erano gli allenamenti tenuti dal famoso colonnello in pensione, Lo Russo, una persona eccezionale. Da lì è iniziato tutto”. Bianca Rossi ha militato, oltre Treviso, anche a Parma, Ferrara, Milano e Roma diventando pian piano una giocatrice a tutti gli effetti, crescendo sia sul campo che fuori: “In campo diventavo agonistica al 100%, non mi piaceva perdere e davo il massimo, mi piaceva stupire l’avversario con l’aggressività anche durante gli allenamenti e poi mi divertivo. Fuori dal campo invece ero più tranquilla, mentre sul parquet diventavo un’altra persona. Ero due persone diverse, come Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Lo sport mi ha aiutato tantissimo, insegnandomi ad avere fiducia in me stessa, è stata una parte fondamentale per la mia vita”.
Con la maglia azzurra, indossata con orgoglio ed emozione, la Rossi ha affrontato grandi sfide, mettendosi in gioco con le altre compagne e contro avversarie sempre più disparate viaggiando da Calì a Mosca. “Ancora adesso, se sento l’inno mi viene la pelle d’oca. Indossare la maglia azzurra dalla prima all’ultima volta è sempre stata un’emozione indescrivibile e infinita, per me sono stati momenti importanti e indimenticabili”.
Fra i ricordi incancellabili lo scudetto con la Pagnossin Treviso conquistato, contro una tenace Zolu Vicenza nel 1981, grazie ad un suo canestro a 7 secondi dalla fine: “Quel canestro è stampato nella mia mente, è indelebile. Ricordo che stavo giocando da play, portavo avanti la palla e avevo chiamato lo schema, un gioco a 2 con Lorella Bernardoni, e nel gioco a due la difesa aveva fatto un cambio quindi mi trovai davanti Wanda Sandon, ma riuscii a tenere il palleggio andando verso la linea di fondo; vedendo che la Sandon aveva fatto marcia indietro per tornare a difendere sulla Bernardoni, e che Lidia Gorlin, che mi stava difendendo, era rimasta indietro, ho approfittato con un arresto e tiro. Il resto lo sapete”.
Dopo il ritiro, avvenuto nel 1987 a 33 anni, la Rossi è rimasta all’interno del mondo del basket fino all’anno scorso, con la società Ponzano Basket, osservando da vicino il cambiamento che ha subito la pallacanestro: “Intanto, penso che sia a livello maschile che femminile bisognerebbe lavorare molto di più sui fondamentali, cosa che secondo me negli ultimi anni si è un po’ tralasciato. Per carità, si vedono gran fisici e molta velocità, però le piccole sfumature quali la furbizia, l’astuzia che servono in particolari momenti non ci sono più e non le insegnano. Il lato personale esiste e va bene, come per il tiro, però il saper sfruttare al meglio certe situazioni ormai manca. È vasto e collegato il discorso che, invece, riguarda il pubblico: sta nella capacità delle società di cercare quel quid in più che, purtroppo, oggi come oggi è difficile da trovare. Mi rendo conto che esistono 40.000 attività, di conseguenza la gente non sa cosa scegliere, quindi trovare quel quid non è facile; ma dipende anche dal gioco e dalla struttura della squadra, bisogna convincere le persone ad andare in palestra. Magari anche i social aiutano”.

Sport e istruzione dovrebbero sempre andare di pari passo, accanto ad una società attenta ai veri bisogni dei giovani: “L’istruzione incide tantissimo e bisogna lavorare di più nelle scuole, noi stessi come Ponzano Basket facevamo degli interventi nelle scuole, ma è necessario farlo con persone adeguate e capaci per quel lavoro. La società di oggi è assolutamente cambiata.
L’altro giorno stavo ascoltando, mentre ero in cucina, il programma radiofonico di Radio 2, Il ruggito del coniglio, dove parlavano del tennis svedese dicendo che da anni non ci sono più campioni svedesi. Ecco, in Svezia hanno fatto una sorta di inchiesta da cui è uscito fuori che i giovani svedesi non hanno più voglia di fare nulla. Questo secondo me rispecchia molto la situazione italiana. Anche qui, i giovani oggi hanno un po’ tutto e non sono più capaci di apprezzare quello che riescono o che dovrebbero riuscire a conquistare. Io quando ero piccola, con una famiglia così numerosa non avevo grandi possibilità, lì dovevi lottare e accettare certe situazioni anche non piacevoli, ma che ti davano la possibilità di imparare a sacrificare per ottenere un qualcosa, oggi a 5 anni hanno già il cellulare. Un esempio è anche Nadia Comaneci, fuggita dalla Romania non perché non stesse bene ma per la situazione di vita affatto agevole. Oggi i giovani non sanno sacrificarsi. Perché dovrei?, ti rispondono. Il problema è anche la mancanza di stimoli. Io ho vinto lo scudetto, ma il bello di vincerlo era l’attesa, sapere che eri lì per guadagnarlo. La vittoria rimane ovviamente indelebile ma poi sfuma quel sapore di conquista, è l’attesa che fa tutto: ora non hanno più questa capacità perché hanno tutto”.
Cosa trasmettere allora alle nuove generazioni? “Bisogna partire dalla società, in modo da far capire che è bello guadagnarsi le cose invece di averle facilmente. È davvero impensabile capire come i genitori possano permettersi di picchiare i professori per una nota. Tutto ciò significa che la società, per il modo in cui sta cambiando, non va bene. Oltre a giocare, lavoravo per la Pagnossin e quante volte tornavo a casa alle 5 del mattino da una trasferta per poi svegliarmi alle 7 per andare a lavorare”.
Nel 2016, Bianca Rossi è ufficialmente entrata nella Hall of Fame italiana che ha reso il suo nome eterno: “Io credo che sia stata la ciliegina sopra la torta, il riconoscimento da parte del basket italiano alla mia carriera e alla mia persona. Ovviamente non fa altro che piacere”. Lavorare duramente con grandi coach l’ha portata a scontrarsi con avversarie tenaci, in grado di migliorarla anche personalmente: “A livello difensivo, chi mi ha dato più fastidio è stata Manuela Peri che mi ha fatto penare un bel po’. Poi, ovviamente, l’eterna rivale Lidia Gorlin, con la quale ci siamo sempre rispettate sia fuori che dentro al campo. Ho sempre giocato per me stessa e per la mia squadra, dimostrando quanto valessi, in modo da lavorare e contribuire insieme per raggiungere il risultato migliore. Degli allenatori che ho incontrato, un po’ tutti mi hanno dato qualcosa: a Roma, Claudio Vandoni ha migliorato i miei fondamentali e la difesa, Vittorio Tracuzzi mi ha trasmesso la sicurezza e la fiducia, insomma, chiunque mi ha dato qualcosa davvero”.
Oggi, dopo 50 anni di basket, Bianca Rossi è una mamma a tempo pieno anche se, fino a poco tempo fa, oltre al Ponzano Basket assieme al marito Vittorio ex dirigente, seguiva anche la figlia Alessia e il figlio Alberto rispettivamente ex cestista e arbitro. Nonostante tutto, perché giocare a basket? “Perché è bellissimo. Senza togliere nulla ad altri sport, ma per me il basket è lo sport più completo. Avendo cominciato tardi, a 14 anni, mi sono mancate in quel momento le parti iniziali. Quando ho cominciato tiravo a due mani e in nazionale a 18 anni vedevo che nessuno tirava in quel modo. Allora da sola, piano piano, ho cominciato a usare una mano fino a diventare una delle migliori tiratrici: dipende dalla voglia che si ha di imparare e dalla costanza. E poi, la pallacanestro ti dà davvero tanto”.