2 minute read

è

Ci provo, ci dobbiamo provare, è nostro compito. Quando sono fuori dall'Ucraina, per esempio, tengo lezioni di pizza per i bambini sfollati a Dnipro e allestisco camion di cibo a Kiev per servire la pizza ai residenti nelle periferie invase.

Advertisement

La parola che usiamo spesso per descrivere la nostra esperienza qui è surrealtà. Il terrore e la bellezza coesistono fianco a fianco. La normalità in mezzo alle bombe è semplicemente uno stile di vita. Un minuto prima possiamo cenare in un ottimo ristorante e il minuto dopo arriva una bomba e ci troviamo in un blackout. Poi ci danno coperte, candele, un menù ridotto e continuiamo a vivere. Non ci sentiamo in colpa per goderci la vita, anche sapendo che c’è il più grande inferno sulla Terra a poche centinaia di chilometri di distanza. Al contrario, proviamo un grande senso di orgoglio e solidarietà perché siamo tutti uniti per gli stessi obiettivi: sostenere la cultura ucraina e salvare vite umane.

Come entrambi i miei nonni che hanno combattuto nella Seconda guerra mondiale, uno per gli Stati Uniti d’America e uno per la Gran Bretagna, è impossibile non essere qui in Ucraina e sentire la stessa responsabilità. Per la maggior parte di coloro che sono al di fuori dell'Ucraina, probabilmente il pensiero è che questa guerra finirà quando una delle parti vincerà o perderà. Ma per quelli di noi che hanno sentito la chiamata e sono venuti a fare volontariato, vediamo questo solo come l'inizio di un grande conflitto di potere. Ciò che facciamo ora conta più di ogni altra cosa e influenzerà la forma delle cose a venire.

Concentrarsi sugli aspetti positivi della vita in un paese così forte, ricco, diversificato e unito non vuol dire allontanarsi del tutto dai momenti bui. Abbiamo visto la distruzione, abbiamo vissuto le esplosioni, abbiamo perso amici, siamo stati ai loro funerali e abbiamo sentito la disperazione. Eppure, la parte più triste di tutta questa storia è che ci siamo abituati. Questa è la nostra normalità.

“Normalità” è la parola a cui non voglio abituarmi, a cui non possiamo abituarci. Non può essere normale nel XXI secolo vivere in un mondo in cui i padri seppelliscono i figli, abitare un Paese in cui chi rischia la pelle non è colui che ha deciso di combattere ma colui che è stato mandato in prima linea, talvolta senza neppure aver scelto una vita militare, constatare che anche chi è demandato a fare cultura ha memoria corta e labile nei confronti delle storie di guerra. E allora, per tutti noi, forse è bene rileggere le parole di uno dei più grandi narratori – suo malgrado – dei fatti della Seconda guerra mondiale:

Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d'inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi, alzandovi. Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.

This article is from: