Patto, ascolto, relazione. Perché educare è sempre un atto di speranza.

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Le voci dell’Università Cattolica

La storia di Hany, fuggito dalla Siria sotto le bombe col suo diploma, ci dice che davvero educare è sempre un atto di speranza di Paolo Gomarasca*

Q

ual è stata la cosa più importante che hai portato via con te, mentre le bombe esplodevano nella tua città e le bande armate si stavano avvicinando?”. È la domanda che Melissa Fleming, portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati, ha rivolto ad Hany, un ragazzo siriano che, nel 2012, da un giorno all’altro, ha capito di non avere più tempo: doveva abbandonare tutto, perché l’oscurità della violenza aveva già raggiunto la sua famiglia. È scappato in Libano, raggiungendo un milione di sopravvissuti che, come lui, hanno provato a lasciarsi alle spalle l’orrore. E noi fantastichiamo che, in una situazione così drammatica, se per caso quella domanda ci venisse rivolta, a mo’ di esperimento mentale, la nostra scelta cadrebbe su qualcosa di essenziale per la sopravvivenza. Facile. È appunto quello che ha fatto Hany. Ma Hany ha un concetto di “essenziale della sopravvivenza” un po’ diverso: “Ho preso il mio diploma di scuola superiore”. Proviamo a farcene un’idea, perché non è scontato voler andare a scuola e dover salutare i tuoi non sapendo se potrai farlo ancora, visto che lungo la strada ti aspettano i cecchini; proviamo almeno a immaginare lo straniamento di tanti che, per sfuggire alla guerra, finiranno in un campo profughi dove staranno per anni, senza riuscire a combinare un granché, nemmeno andare a scuola, perché la scuola non c’è. Se non facciamo lo sforzo, sarà inutile sentire Papa Francesco mentre racconta che “educare è sempre un atto di speranza”. Non avrà molto senso. A meno che la speranza non ci torni indietro, inaspettatamente, magari nella forma straziante di un grido di aiuto: “Ho preso il mio diploma, perché da quello dipende la mia vita, il mio futuro”. Sarà per questo, forse, che il Papa chiede l’impegno ad “ascoltare la voce dei bambini, dei ragazzi e dei giovani cui trasmettiamo valori e conoscenze”. L’etica dell’educazione parte da qui: cedendo la parola. Cominciando da chi non sa più cosa sperare, perché magari è stato costretto al silenzio. Ecco: non c’è etica dell’educazione che non sia resistente, persino ribelle, laddove è urgente scongiurare la morte del desiderio di imparare, quella strana passione che ci fa essere umani insieme ad altri. E a uccidere l’amore del sapere basta molto meno di un cecchino. Lo ha detto un giovane Nietzsche, a Basilea, nel 1872: basta che la scuola diventi una macchina di addestramento al guadagno, per creare “uomini correnti”, proprio nel senso in cui si chiama “corrente” una moneta. Ovvio, formare persone competitive sul mercato è un imperativo. Ma se nel frattempo, come suggerisce ancora Papa Francesco, riuscissimo a creare anche dei poeti? Mentre aspettava di poter ricominciare a studiare, Hany ha scoperto di non poterlo più fare. “Nistagmo”, questa è stata la diagnosi, movimenti involontari dei bulbi oculari. Poi, per caso, incontra Brendan Bannon, un fotoreporter americano che gli fa provare la fotocamera. E così impara un modo tutto suo di scattare perché – testuali parole – per lui “la sensibilità è più potente della vista”. Sa già di poesia. Sta di fatto che inizia a fotografare il campo profughi. Le sue foto fanno presto il giro del mondo. E tolgono il fiato, perché raccontano la bellezza di sognare qualcosa di giusto, dentro il mare infinito della miseria.

Docente di Filosofia morale alla Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica

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