Confederazione dei giornali universitari pavesi
Numero 22 - Dicembre/Gennaio 2016 distribuzione gratuita
Giornale degli studenti dell’Università di Pavia. Informazioni, riflessioni e commenti sull’Europa di oggi e di domani.
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Nous sommes tous Paris Indice pag. 1 Editoriale
Filippo Lavecchio pag.2 Il cuore di tenebra
della civiltà europea Maria Vittoria Lochi pag. 3 Emergenza immi-
grazione: il piano della Commissione è sufficiente? Paolo Filippi pag. 4 Dieselgate è un
problema europeo, non solo tedesco! Giovanni Salpietro pag. 6 Le elezioni in Ca-
talogna e il principio di autodeterminazione dei popoli Nelson Belloni pag. 7 Mediterraneo
senza pace Giacomo Ganzu
La redazione di Publius si unisce al cordoglio per i barbari attentati che hanno colpito Parigi il 13 novembre. Il terrorismo sta sfidando il modello di convivenza civile, democratica e solidale che si esprime ai massimi livelli nel processo di unificazione europea, avviato nel 1950 per stabilire la pace nel nostro continente e superare il nazionalismo. La risposta più efficace che gli europei possono dare alla violenza degli estremisti è rafforzare la propria capacità di reagire uniti. L’unità è, anche sul piano strategico, la condizione imprescindibile per la sconfitta del terrorismo e dell’ISIS. Le reazioni degli Stati europei di rafforzare la pro-
pria sovranità nazionale, a tal punto da mettere in discussione i trattati di Schengen, e di agire in modo disunito non risolvono le sfide che l'Europa deve affrontare. Nello scenario internazionale, l'impotenza degli Stati europei è ancora una volta dimostrata dalla necessità di cercare il sostegno degli Stati Uniti o della Russia per le questioni che riguardano la propria sicurezza. L'assenza di un'Europa politica rende pertanto gli europei soggetti passivi delle crisi che scoppiano ai propri confini e incapaci di garantire i propri interessi. All'interno dell'Europa, gli accordi di Schengen costituiscono uno dei pilastri dell’integrazione del nostro continente, il loro in-
debolimento metterebbe pertanto in pericolo sia l’esistenza del mercato unico sia le prospettive di crescita e sviluppo. Essi prevedono già un codice per il controllo comune delle frontiere esterne e per lo scambio di informazioni. Ciò che oggi è urgente, come la Commissione europea ha denunciato in un suo rapporto dello scorso aprile, non è lo smantellamento del sistema europeo per tornare ad un anacronistico ed inefficace sistema di politiche nazionali indipendenti, ma il rispetto degli accordi già sottoscritti e il rafforzamento del sistema europeo. Questo coordinamento deve andare al di là del coordinamento delle agenzie e degli orga>> pag.2
Il cuore di tenebra della civiltà europea Parigi ha sconvolto il mondo intero. Pochi mesi dopo Charlie Hebdo, il terrore è esploso ancora. Il livello di allarme elevatissimo continua tuttora a scuotere la vita dei cittadini, e in molti casi dichiarazioni dettate dall'angoscia generano confusione ulteriore. Ma, sebbene sia facile in questi casi criticare i politici, non è di questo che vorrei parlare. Desidero, invece, proporre una riflessione amara quanto, a mio parere, necessaria. La reazione sociale è stata repentina e forte, ma lo scandalo non è scaturito dalla semplice costatazione di morte: ciò che più ha infiammato la pubblica coscienza è stata la violenza terroristica in sé, considerata totalmente estranea ai codici culturali europei, ed indirizzata proprio contro questi ultimi; anche per l’obiettivo scelto, Parigi, storico luogo di nascita della democrazia e della laicità. Questa interpretazione è diventata immediatamente virale, e ha relegato in un angolo dubbi e domande: in qualche modo l’idea di essere un simbolo ha facilitato l'identificazione del colpevole. Abbiamo, forse inconsciamente, operato una scelta selettiva all’interno di quello strumento
fragile, che contrasta il potere corrosivo del tempo, della storia e del male che è la memoria. Noi europei amiamo ripetere al mondo quanto democratici, aperti e progressisti siamo. Ma a volte non vogliamo accorgerci di rispolverare questi valori come dei cimeli. Ammettiamolo: nel nostro passato esiste anche la tenebra, che tante volte cerchiamo di nascondere dietro il luccichio dei nostri principi. E se vogliamo davvero capire e far vivere i valori che amiamo della nostra civiltà, non possiamo mentire: perché “c'è un'impronta di morte, un sentore di caducità nella menzogna”, come sentenzierebbe Marlow, il celebre personaggio conradiano. Di menzogna si tratta. Se è vero che per primi abbiamo pronunciato con fede e timore la parola democrazia, è altrettanto vero che nel nostro passato abbiamo ceduto alla perversità del fanatismo religioso, del colonialismo e dell'imperialismo sanguinari. Ed è altrettanto vero che abbiamo delle colpe storiche, e politiche, anche attuali, nella regione da cui si origina la violenza del terrorismo. Riconoscerlo è fondamentale. E’ il primo passo per la rinascita, come ci insegna Dante descri-
vendo il cammino infernale. Fare chiarezza ci aiuta anche a cogliere le tracce di tacita menzogna che continuano a macchiare anche il nostro tempo. Amiamo esibire pubblicamente il nostro spirito democratico, ma perché quando si tratta di reale partecipazione noi, cittadini europei, non ci sentiamo chiamati in causa? Perché dobbiamo essere colpiti da un attentato terroristico per capire che da decenni il Medio Oriente è devastato? Perché non sentiamo di avere un lo e una responsabilità, come europei, e non cerchiamo di contribuire con una soluzione nostra, autonoma, anche attraverso un dibattito pubblico, capace di coinvolgere i cittadini, in nome di una vera democrazia? Perché, nonostante sia evidente che il mondo ha bisogno degli Stati Uniti d'Europa, è così difficile indicarli come il passaggio per noi più importante, e anche solo pronunciare la parola Federazio ne? La risposta a tutte queste domande sta nell'indifferenza. L'indifferenza di una politica e di un’opinione pubblica che non vuole fare lo sforzo di capire come cambiare, che ama crogiolarsi nell’illusione di onorare i pro-
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intendono condividere, l’euro, preparando, con un calendario preciso e definito, l’avvio di una riforma dei Trattati. Occorre definire la coesistenza all’interno dell’Unione di due categorie diverse di Stati membri, quella dei paesi che non vogliono procedere verso una “ever closer union” e quella dei membri che, legati dalla moneta unica, hanno invece l’urgenza di andare in questa direzione. Fra questi ultimi è neces-
sario fissare nuovi equilibri istituzionali necessari per garantire risorse, poteri e legittimità democratica al livello europeo di governo e avviare anche le misure necessarie per dare vita ad una vera politica estera e di sicurezza europea. L’alternativa a questo coraggioso percorso di unità è l’irrilevanza politica e la sconfitta dei valori più alti della nostra civiltà. Filippo Lavecchia
ni nazionali, riconoscendo una competenza europea indipendente per quanto riguarda la tutela della sicurezza interna europea e la lotta al terrorismo e affidandone la gestione alla Commissione europea. Per questo, è indispensabile che l’Unione europea proceda con urgenza a sciogliere il nodo della costruzione dell’unione politica tra i paesi che condividono, o che
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Emergenza immigrazione: il piano della Commissione è sufficiente? Il 22 settembre si è riunito a Bruxelles il Consiglio straordinario dei 28 Ministri dell’Interno dell’Unione europea. In questa occasione, è stata approvata la proposta avanzata dalla Commissione europea di ricollocare in 24 mesi 120.000 rifugiati che avevano raggiunto la Grecia, l’Italia e l’Ungheria. La votazione, rispetto alla normale prassi del Consiglio, è avvenuta a maggioranza qualificata, in quanto non si è riusciti a raggiungere nei giorni precedenti un accordo unanime fra i 28 ministri. Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania si sono opposte al sistema di ricollocamento ed in particolare alle quote obbligatorie. La risoluzione sostenuta dal Presidente della Commissione JeanClaude Juncker è stata dunque approvata, ma con questo non si può certo pensare che il problema dell’immigrazione sia risolto. In primo luogo ha suscitato comunque molte polemiche la decisione di non votare all’unanimità ma a maggioranza qualificata. Poche volte il Consi-
glio ha deciso di votare in questo modo poiché quando non è stato in grado di raggiungere l’unanimità ha spesso preferito non votare e rimandare la votazione. Una decisione presa senza unanimità rischia di minare la già fragile stabilità politica della confederazione. Nella misura in cui gli Stati rimangono sovrani, è difficile obbligare dei membri ad accettare decisioni su cui non concordano. In questo caso però, i tempi dettati dall’emergenza hanno costretto il Consiglio a scegliere la rottura, dimostrando, da un lato, come il meccanismo decisionale solitamente utilizzato nel Consiglio, ossia il voto all’unanimità, impedisca di dare delle risposte efficaci e repentine alle sfide cui l’Europa è chiamata a rispondere; ma anche evidenziando, dall’altro, la divisione politica interna all’UE, l’incapacità di trovare un accordo tra i 28 stati su un tema così delicato quanto importante e quindi, in definitiva, la mancanza di un sistema di governo europeo in grado di esprimere una visione e una strategia comune. L’assenza
di una decisione unanime lascia dunque aperti molti interrogativi. Chi si è opposto alla redistribuzione con le quote obbligatorie accetterà comunque di accogliere la propria quota di rifugiati?Cosa ne sarà di quelle persone che verranno assegnate a Ungheria, Slovacchia, Repubblica ceca e Romania? Ovviamente si spera spera nella serietà di questi Stati, ma l’assenza di una vera leadership europea, che riesca a far prevalere l’interesse collettivo quando c’è da prendere una decisione e che faccia rispettare gli impegni presi, lascia questi interrogativi senza risposta. Un’altra riflessione va fatta sui numeri sui quali il Consiglio ha discusso. La risoluzione prevedeva il ricollocamento di 120.000 rifugiati ma l’OCSE ha previsto che nel 2015 le richieste di asilo in Europa toccheranno il milione. E’ ovvio che l’UE non può rispondere a questa emergenza litigando ogni volta per distribuire qualche migliaio di rifugiati. Serve necessariamente un piano definitivo. Un piano che >> pag.4
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mo piangere questo tremendo attacco alla libertà, se prima non onoriamo con impegno e passioneil sistema democratico?Come possiamo non vedere le nostre responsabilità, quando da anni il continente europeo non osa neanche balbettare risposte politiche degne di questo nome? Se non vogliamo che la nostra sia semplicemente la libertà distopica di colui che “ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare, e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà”; se
non vogliamo solo una democrazia di apparenza, se davvero vogliamo opporci alla via che sembra condurre “verso il cuore di una tenebra immensa”, è venuto il tempo di batterci per un’Europa capace di portare davvero nel mondo i suoi valori, con l’esempio, con il senso di responsabilità, con la solidarietà. E’ venuto il tempo di impegnarci per realizzare gli Stati Uniti d’Europa. Maria Vittoria Lochi
pri principi, che si bea della propria bellezza, senza voler capire le radici della guerra e della distruzione che ci circondano e aprendo così la strada alle forze politiche che predicano la fine di tutto ciò in cui diciamo di credere. La politica democratica è innanzitutto partecipazione. Viceversa, in questa tragica indifferenza, e impotenza, collettive è la radice della nostra debolezza. “Libertà è partecipazione” cantava Giorgio Gaber. Come possia-
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Dieselgate è un problema europeo, non solo tedesco! Lo scorso 18 settembre è stato il “venerdì nero” per la casa automobilistica tedesca Volskwagen, quando l’agenzia federale statunitense EPA (Enviromental Protection Agency) ha denunciato la truffa dei motori diesel dell’azienda di Wolfsburg. Dal rapporto dell’EPA si è scoperto che la Volskwagen ha truccato il
software di controllo delle emissioni inquinanti di alcuni dei suoi modelli diesel; le emissioni in condizioni di guida normali sarebbero superiori fino a 40 volte il limite consentito dalle leggi. La maggiore preoccupazione per l’azienda tedesca adesso sono i costi derivanti da Dieselgate; in primo luogo è prevedibile che il
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la Commissione Europea ha già e che sta tentando di mettere in pratica. Questo prevede di “recuperare il controllo delle frontiere europee” frenando gli arrivi. La Commissione creerà un fondo con lo scopo di finanziare entro la fine di novembre i paesi extraeuropei da cui giungono i migranti. I soldi serviranno per creare dei campi in cui accogliere i rifugiati, intercettandoli così prima che raggiungano le frontiere europee. L’accordo preso con la Turchia in questi giorni è una dimostrazione di questa strategia. Prevede la costruzione di sei campi profughi sul territorio turco, finanziati in parte da Bruxelles, che potranno ospitare fino a due milioni di persone. Di questi due milioni, l’UE se ne farà carico direttamente per mezzo milione, evitando così che i migranti continuino il loro disperato viaggio attraverso i Balcani. Inoltre, entro novembre, si prevede di rendere operativi in Italia e in Grecia dei centri di accoglienza (i cosiddetti hotspots) in cui possono essere raccolte le impronte digitali dei profughi allo scopo di registrare la loro presenza sul territorio europeo e di valutare l’idoneità per la richie-
sta di asilo. Nella maggior parte dei casi, gli hotspots nasceranno nei centri di accoglienza già operativi. La gestione di questi centri sarà affidata principalmente alle agenzie europee che si occupano di immigrazione, diritti di asilo e sicurezza e in piccola parte alle autorità nazionali. Proprio il punto della gestione europea degli hotspots non piace ai paesi che li dovranno ospitare poiché la vedono come un affronto alla loro sovranità nazionale. Sempre entro novembre è prevista l’attivazione del meccanismo di ridistribuzione e rimpatrio di quelle persone che non hanno diritto di asilo. In questo caso le spese di rimpatrio sono divise fra tutti i paesi membri. La Commissione si è anche impegnata a presentare entro la fine dell’anno una riforma di Frontex per trasformare l’agenzia in un vero e proprio corpo europeo di controllo delle frontiere terrestri e marittime. La Commissione europea ha quindi ideato un piano che può portare a dei risultati
governo statunitense emetterà una multa, e probabilmente sarà superiore agli 1,2 miliardi di dollari fatti pagare alla Toyota nel 2010. A ciò si aggiunge che in tutta Europa agenzie come l’Antitrust e altre reti di consumatori si preparano ad una class action. > > pag. 5 concreti.Ma il successo di questo piano non dipende solo dalla volontà della Commissione. Abbiamo già visto durante la votazione sulla redistribuzione dei rifugiati come gli Stati nazionali possano ostacolare il piano. Oppure stiamo vedendo in questi giorni le resistenze di Italia e Grecia sull’attivazione degli hotspots. L’unica via per fare in modo che questo piano si applichi totalmente e in modo efficace sarebbe quello di attribuire all’Europa poteri diretti nelle materie in questione, bypassando gli Stati che sono portati a concentrarsi sul proprio interesse nazionale a discapito di quello collettivo. Una vera leadership europea garantirebbe risposte immediate all’emergenza di oggi e a quelle future, basandosi su risorse europee e non su quelle nazionali, che sono troppo limitate per affrontare l’emergenza. Anche la questione umanitaria dei migranti dimostra quindi che solo con la creazione di una Federazione europea si potrà rispondere in modo positivo alle crisi che ci coinvolgono: dalla crisi economica all’emergenza immigrazione, dalla lotta al terrorismo alla crisi energetica. Paolo Filippi
Le perdite in borsa del titolo Volskwagen ammontano a circa 8,5 miliardi di dollari con scarse prospettive di recupero nel breve periodo. Infine la casa automobilistica ha ordinato di richiamare entro ottobre 11 milioni di vetture per effettuare le correzioni tecniche al software incriminato; operazione che certamente comporterà dei gravosi costi per l’azienda. Lo scandalo Volskwagen ha dunque delle dimensioni tali da mettere in discussione la stabilità dell’economia tedesca. Le scelte di politica industriale degli ultimi governi tedeschi hanno fatto sì che il settore automobilistico rappresentasse uno dei principali settori di punta delle proprie esportazioni. Sebbene il mercato delle auto abbia premiato negli ultimi anni le case tedesche in termini di fatturato, un’economia che punta molto in un determinato settore è esposta a forti rischi in caso di shock. Volskwagen è la principale casa automobilistica tedesca, nonché leader a livello mondiale, e per questo i governi tedeschi sono sempre stati molto attenti alle esigenze della casa di Wolfsburg. Secondo il Financial Times,nel 2013 sia il governo tedesco che la
Commissione europea erano a conoscenza della falsificazione delle emissioni inquinanti da parte della Volskwagen. Bruxelles si è difesa sostenendo, a ragione, che non è competenza dell’Unione effettuare i controlli sui software, cosa che invece è ancora competenza degli Stati nazionali. Sempre secondo il FT, le pressioni del governo tedesco e della stessa lobby automobilistica avrebbero fatto in modo da non far scoppiare lo scandalo in Europa due anni fa. Detto tutto questo, sarebbe un errore pensare che la crisi della Volskwagen sia un problema esclusivamente tedesco. In primo luogo bisogna considerare l’impatto sulla fiducia nel mercato automobilistico che potrebbe vedere una diminuzione degli acquisti. Inoltre la crisi potrebbe allargarsi dalle case produttrici di auto a tutto l’indotto, mettendo in difficoltà il sistema industriale europeo. Preoccupazioni in tal senso sono state ad esempio espresse in Italia da Confindustria, con riferimento alle industrie italiane che forniscono componentistica proprio per le auto Volskwagen destinate al mercato statunitense. Per Bankitalia si è di fronte ad un “caso grave” di cui
sarà difficile valutare le conseguenze economiche; è certo però che Dieselgate mette in pericolo la già difficile ripresa economica. Mentre vengono richiesti test e controlli anche sui modelli di altre case automobilistiche, qualunque siano gli esiti di questa crisi del settore delle auto, per l’Europa questo è il momento di porsi degli interrogativi sul futuro della propria politica ambientale ed industriale. L’impossibilità della Commissione di procedere a controlli più approfonditi nel 2013 mette in evidenza gli scarsi poteri a disposizione dell’Unione; nonostante sia la stessa UE a proporre programmi di riduzione dell’inquinamento (si prenda come esempio il programma Europa 2020) rimane il controsenso per cui la politica ambientale è ancora una prerogativa degli Stati nazionali. Ciò rischia di ledere la credibilità dell’Unione nel contesto internazionale in tema di difesa dell’ambiente e tutela del consumatore; non pochi hanno sottolineato gli effetti che lo scandalo Volskwagen rischia di avere sulle trattative per il TTIP con gli USA. Dal punto di vista della politica industriale, Dieselgate ha messo in luce quanto sia paradossale il forte legame tra governi e grandi industrie nazionali in un contesto di forte interdipendenza economica. Il rischio “contagio” dello scandalo Volskwagen dovrebbe far riflettere gli europei sulla necessità di avere una vera politica industriale europea che sia in grado di intervenire non solo sui controlli (dotandosi ad esempio di una agenzia federale sul modello dell’EPA statunitense), ma anche sulle strategie di investimento e ricerca. Giovanni Salpietro
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Le elezioni in Catalogna e il principio di autodeterminazione dei popoli Nelle elezioni locali del 28 settembre gli indipendentisti catalani non hanno ottenuto il plebiscito sperato. Rimane però in Europa il problema di come gli Stati nazionali possano riuscire a garantire un quadro politico stabile e duraturo nel lungo periodo. Il 28 settembre scorso le elezioni per il parlamento locale della Catalogna hanno visto la vittoria dei partiti indipendentisti catalani che hanno raccolto la maggioranza assoluta dei seggi sommando quelli di Juntos pel Sì e del CUP. La maggioranza nel parlamento catalano è dunque a favore dell'indipendenza, sebbene le due forze politiche che rappresentano gli indipendentisti abbiano orientamenti politici diversi. Come percentuale di voti nella regione, però, sono gli unionisti ad aver raccolto più consensi, raggiungendo il 52% con l’insieme delle forze contrarie all’indipendenza (che pure hanno diversi orientamenti politici generali: Ciudadanos, PSC, Podemos e Verdi, PP e Uniò). Gli indipendentisti non hanno dunque ottenuto il plebiscito sperato e l'obiettivo di realizzare l'indipendenza in maniera unilaterale sembrerebbe essere momentaneamente scongiurato. Rimane però in Europa il problema, messo bene in evidenza da questa vicenda, di come gli Stati nazionali possano riuscire a garantire un quadro politico stabile e duraturo nel lungo periodo. È infatti tuttora vero che la crisi economica e istituzionale dell'eurozona spinge gli schieramenti politici verso un ritorno al nazionalismo, che può essere o nei confronti degli Stati esistenti, o indirizzato al livello
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locale/regioanle, spostando l'elettorato su posizioni politiche confuse, fortemente emotive, che rischiano di ritorcersi contro i cittadini stessi. Le pretese di secessione da parte della Catalogna, così come delle Scozia lo scorso anno, ne sono una prova evidente. Dal punto di vista economico infatti la secessione catalana significherebbe innanzitutto, per la regione, l'uscita dalla moneta unica e dall'Unione europea, che si accompagnerebbero a corse agli sportelli bancari, blocchi dei depositi e conversioni della valuta locale in euro per poter pagare i propri debiti, che andrebbero a propria volta precedentemente discussi con il governo spagnolo. La Catalogna è una regione molto ricca, tant'è che nel 2013 il PIL catalano ammontava a 203.62 miliardi di euro e rappresentava circa il 20% di quello spagnolo. Contribuisce inoltre al 25% dell'export e al 23% del PIL industriale nonostante i catalani rappresentino solo circa il 16% della popolazione della Spagna. La Catalogna è quindi il vero e proprio motore industriale del paese, anche se questo dinamismo economico è un fatto relativamente recente. Esso è legato alla fine dell’isolamento spagnolo dal resto d’Europa in concomitanza con la fine del regime di Franco; e all’entrata in vigore dell'attuale assetto costituzionale, nel 1978, sostenuto da oltre il 90% dei catalani proprio per il grado di devoluzione dei poteri a livello locale che garantiva. La fase della grande crescita della regione di Barcellona inizia quindi con la fine degli anni Settanta. I problemi economici in caso di indipenden-
za non ricadrebbero pertanto solo sulla Catalogna, che, separandosi, andrebbe incontro all'instabilità finanziaria, ma anche sul resto della Spagna che vedrebbe, secondo l'economista Sala i Martin, il proprio debito crescere fino a oltre il 125% del PIL a causa dell'assenza propulsiva di una regione così efficiente. Oggi la percentuale dei catalani favorevoli alla costituzione spagnola sembra crollata al 52%. Il 48% indipendentista sembra invece animato, nel caso delle forze di sinistra dall'opposizione al nazionalismo di Madrid; menre nel caso delle forze di destra, la motivazione sembra quella di voler preservare il controllo della propria ricchezza e di non contribuire al sistema sociale del paese, trasferendo parte delle proprie risorse alle regioni meno agiate. Vi è però un’ulteriore ragione di contrapposizione tra la Catalogna e la Spagna, analogamente a quanto succede in molti altri paesi europei. L'elettorato della Catalogna, tanto di destra come di sinistra, ha vissuto le recenti liberalizzazioni e politiche di austerità di Madrid come un attacco al proprio benessere. Tutto ciò è dovuto al fatto che la pressione esercitata dalla competizione internazionale nel nuovo quadro creato dalla globalizzazione ha creato tensioni sociali che né gli Stati nazionali, né le attuali istituzioni politiche dell'eurozona (anche per l’assenza di un bilancio autonomo che permetta di attuare poli tiche in grado di attutire gli shock asimmetrici e di realizzare nuovi investimenti) riescono a mitigare; e che si scaricano sui
Mediterraneo senza pace L’Unione europea, nel corso degli oltre sessant’anni della sua esistenza, ha saputo garantire entro i propri confini il consolidamento di istituzioni democratiche, la pace e lo sviluppo economico; e nonostante la crisi di questi ultimi anni, continua ad attrarre migliaia di disperati che fuggono da fame e guerre e che mettono a repentaglio la propria vita affrontando la traversata del Medi>> da pag. 6 governi, alimentando anche i regionalismi e i micro-nazionalismi. Come si accennava all’inizio, a prescindere dallo spirito più o meno europeista delle forze secessioniste in campo, la Catalogna indipendente sarebbe automaticamente fuori dall'Unione europea e dalla moneta unica poiché, al contrario di quanto avviene negli Stati federali, la cittadinanza europea è mediata dagli Stati nazionali e non è direttamente collegata al livello europeo. Se la Catalogna abbandonasse la Spagna i cittadini catalani cesserebbero di essere spagnoli e quindi anche europei, e la Calatogna dovrebbe dunque riproporsi come paese candidato per l'ingresso nell'Unione europea. La sua richiesta sarebbe facilmente bloccata dagli altri paesi che corrono a propria volta rischi di secessione al proprio interno, oltre che, molto probabilmente, dalla Spagna stessa. E’ impensabile, infatti, che una secessione possa avvenire in maniera indolore, anche solo per il fatto che implica la creazione di nuovi confini, di un nuovo esercito, la distruzione di parte di un potere esistente e un sistema di propaganda politica di carattere
terraneo o percorrendo a piedi paesi in guerra. L’Europa resta quindi una meta ambita e agognata, quella stessa Europa che assiste impotente al proliferare di guerre ai propri confini. Non vi è solo l’Ucraina, ove è in corso una guerra silente e quasi dimenticata. Lungo le sponde del Mediterraneo sono in corso terribili conflitti cui gli Stati europei rispondono con le iniziative di
qualche singolo paese alla ricerca di una visibilità e credibilità internazionale ormai perduta. L’effetto delle Primavere arabe, con l’eccezione della sola Tunisia, è stato quello di portare al consolidamento di governi filo islamisti o, come in Egitto, governi militari. In Libia, con la caduta del regime di Gheddafi, si è aperta una guerra fratri >> pag. 8
già nel 1945 (in Anatomia della pace), “La condotta di ogni unità nazionale avente diritto di autodeterminazione non riguarda più esclusivamente gli abitanti di quella unità, ma interessa ugualmente gli abitanti delle altre uninazionalista che esalta ed enfatizza le differenze anche culturali per sostenere la divisione e dare una legittimazione fittizia alla nuova sovranità. La realtà, pertanto, è che il nazionalismo e il secessionismo tendono ad essere molto simili. Entrambi si basano sul concetto che ogni popolo, per autogovernarsi, deve dar vita ad un proprio Stato sovrano, la cui caratteristica principale è quella di definirsi in contrapposizione rispetto alle altre nazioni e agli altri Stati. E’ il principio stesso di autodeterminazione dei popoli che ormai deve essere chiamato in causa, in un’epoca in cui l’interdipendenza lega il destino delle diverse comunità, i problemi hanno una dimensione sovranazionale, se non globale, e il vero nodo da sciogliere, quindi, è quello di trovare formule di autogoverno che si conciliino con la condivisione della sovranità e con la solidarietà. Come spiegava Emery Reves
tà. (...) L’autodeterminazione di una nazione in materia militare, nel campo degli affari economici ed esteri, dove il contegno di ciascuna nazione si riflette immediatamente e direttamente sulla libertà e la sicurezza di tutte le altre, crea una situazione in cui l’autodeterminazione è neutralizzata e distrutta”. Se le forze secessioniste volessero davvero trovare una soluzione al dilemma dell’autogoverno senza cadere al tempo stesso nella trappola del dogma nazionalista della sovranità esclusiva, avrebbero a disposizone secoli di letteratura federalista per pensare ad un modello di convivenza tra lo Stato e le comunità locali da un lato e per governare il livello sopranazionale dall'altro senza invocare quegli stessi principi dello Stato mononazionale che hanno sconvolto il continente nella prima metà del secolo scorso. Nelson Belloni
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centinaia di persone alla fuga e ad emigrare. L’intervento militare, in particolare di Francia e Gran Bretagna, con il sostegno di Stati Uniti e Italia, ha sì portato alla caduta di un regime, ma ha destabilizzato l’intero paese non avendo favorito nel contempo la creazione di una leadership democratica alternativa, generando così un caos politico che con l’emigrazione e i profughi si ritorce addirittura contro l’Europa stessa. La mancanza di una unione politica dell’Europa, e quindi di una politica estera e di difesa comune, si manifesta ogni giorno con il caos che vediamo ai nostri confini. E in questo caos, sfruttando l’inconsistenza politica dell’Europa, la Russia torna a mostrare la propria volontà di potenza anche nel Mediterraneo oltre che, come già avvenuto, in Ucraina. Da parte loro gli Stati Uniti, lasciati da soli, non sono in grado di governare il mondo e di garantire pace e sviluppo: sono troppi i conflitti armati o politici aperti su scala mondiale cui dover prestare attenzione; ed è troppo incerta nel paese la visione del diverso ruolo rispetto al passato e dei nuovi equilibri che, come potenza ormai non più unica, gli USA devono imparare a perseguire. In questo quadro, ecco il ritorno della Russia che agisce militarmente in Siria. Gli avvenimenti in Siria, dove da decenni la Russia ha propri basi militari navali a Tartus e Latakia, dovrebbero indurre gli europei a riflettere sui propri errori e a cercare di coinvolgere la Russia nei tentativi di pacificazione di una re-
gione, quella Medio orientale, dove, senza una ampia intesa RussiaStati Uniti-Unione europea potrà prevalere solo la forza. E’ quello che accade da sempre con la crisi israeliano palestinese e con la conflittualità interna ai paesi arabi, divisi loro stessi da faide religiose e politiche che hanno favorito il fanatismo pseudo religioso dell’ISIS che, partendo dall’Afghanistan e dall’Iraq è giunto sino al Mediterraneo, in Libia e Siria. Dividersi oggi, come sta accadendo, sulla questione se sia giusto appoggiare l’intervento russo in Siria oppure contestarlo perché in realtà aiuta il governo del dittatore Assad, non fa altro che dare vigore alla volontà di leadership russa nella regione. Alla Russia importa che al governo in Siria vi sia qualcuno che non contesti la sua presenza con basi militari navali nel Mediterraneo. Da parte loro, gli Stati Uniti (con l’avvallo dell’Europa) premono su Assad perché dichiari la propria disponibilità a farsi da parte pur di garantire l’unità del paese dinanzi all’avanzata dell’ISIS e alla pressione della Turchia nella regione curda. Lo fanno soprattutto perché gli alleati, arabi e turchi, nella regione lo pretendono. E per non lasciare troppo spazio all’Iran. Ma in questo modo restano prigionieri delle proprie contraddizioni, senza neanche voler tener conto che per deporre Assad deve essere chiara l’alternativa politica in grado di garantire unità e stabilità alla nazione, se non si vuole avere un nuovo caso libico.
Nel vuoto di leadership occidentale nella regione non deve stupire che si manifesti dunque la politica di potenza di una nazione, la Russia, che desidera tornare a svolgere un ruolo su scala mondiale. Si tratta di un ruolo che si manifesterà sempre più in modo evidente, anche sul piano militare, viste la debolezza americana e l’inconsistenza dell’Unione europea. Le ambizioni di singoli paesi europei che sperano con una propria azione, magari militare, di risolvere i problemi sono chiaramente destinate all'insuccesso (come è stato dimostrato dal caso della Libia). Dovrebbe essere evidente che per l'Unione europea il tempo delle riflessioni e delle esitazioni è scaduto. Bisogna definire al più presto la struttura, le istituzioni ed i poteri dell'unione politica, che includa quella fiscale ed economica e che comprenda in prospettiva anche le competenze della difesa e della politica estera, tra gli Stati disponibili a compiere un tale trasferimento di sovranità e che già condividono, o si preparano a condividere, l’euro. In questo quadro, si potrà promuovere una politica credibile di cooperazione economica e per la creazione di un sistema regionale di sicurezza reciproca tra europei e Russia, diminuendo i margini di manovra di chi, a Ovest e ad Est, scommette pericolosamente sul ritorno al confronto militare fra due blocchi e contrasta la nascita di un ordine multipolare cooperativo Giacomo Ganzu
Publius - Per un’alternativa europea Numero 22 - Dicembre/Gennaio 2016
https://publiuseuropa.wordpress.com Via Villa Glori, 8 Pavia - Tel: 3409309590 –
E-mail: publius@unipv.it Periodico trimestrale degli studenti dell’Università di Pavia. Informazioni, Direttore responsabile: Giacomo Ganzu riflessioni e commenti sull’Europa di oggi e di domani. Redazione: Nelson Belloni, Eleni Blinishta, Paolo Filippi, Giacomo Registrazione n. 705 del Registro della Stampa Periodica - Autorizzazione del Ganzu, Filippo Lavecchia, Maria Vittoria Lochi, Paolo Milanesi, Giotribunale di Pavia del 19 Maggio 2009 vanni Salpietro, Romina Savioni, Bianca Viscardi. Iniziativa realizzata con il contributo concesso dalla Commissione PermaStampato presso: Tipografia P.I.M.E Editrice S.r.l nente Studenti dell’Università di Pavia nell'ambito del programma per la
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