GEROGLIFICI, I CARATTERI SACRI EGIZI
UN GIORNO A TEATRO AD ATENE L’ALHAMBRA
IL FASTOSO PALAZZO DEI SULTANI DI GRANADA
I VICHINGHI E L’ALDILÀ
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LA SCRITTURA DEGLI DEI
N. 149 • LUGLIO 2021 • 4,95 E
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SCENA DELLE EUMENIDI, TRAGEDIA DI ESCHILO CHE FA PARTE DELLA TRILOGIA NOTA COME ORESTEA. CRATERE A FIGURE ROSSE. V SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
24 Geroglifici, la scrittura degli dei Questo complesso sistema di scrittura che combinava pittogrammi e simboli fonetici perdurò per oltre tre millenni. DI DAVID RULL RIBÓ
40 Il teatro ad Atene Gli antichi riti in onore di Dioniso evolsero in spettacoli a cui assistevano decine di migliaia di persone. DI MARIO AGUDO VILLANUEVA
54 Il foro di Cesare Cesare progettò l’ampliamento dell’antico foro repubblicano e diede vita a una delle costruzioni più belle di Roma, che conteneva il tempio di Venus Genetrix. DI JORGE GARCÍA SÁNCHEZ
66 L’oltretomba dei vichinghi I miti e le sepolture rinvenute dagli archeologi aiutano a ricostruire l’aldilà dei vichinghi. DI IRENE GARCÍA LOSQUIÑO
82 L’Alhambra di Mohammed V L’ottavo sultano nasride, vissuto nel XIV secolo, rese l’Alhambra un simbolo del suo potere e lo dotò di alcune tra le stanze più emblematiche. DI JORGE ELICES OCÓN
98 Casanova, il seduttore di Venezia Nel XVIII secolo il colto e raffinato Giacomo Casanova brillò nella società veneziana dedicandosi al gioco e agli amori, fino alla condanna e all’esilio. DI GIORGIO PIRAZZINI
6 PERSONAGGI STRAORDINARI Antonio Vivaldi Fu un maestro di violino e un prolifico compositore, ma si spense in povertà e in sol¡tudine, lontano dalla sua città natale.
12 EVENTO STORICO La spedizione Balmis Nel 1803 un vascello spagnolo salpò dall’Europa per portare nei territori americani della Corona il vaccino contro il vaiolo. Alla missione parteciparono decine di bambini “vacciniferi”.
18 VITA QUOTIDIANA Satira anti-immigrati Nel XIX secolo la stampa statunitense pubblicava caricature offensive degli immigrati giunti negli USA.
118 STORIA VISUALE Invasione dell’URSS Il 22 giugno 1941 le truppe nazionalsocialiste di Hitler diedero inizio all’Operazione Barbarossa, l’invasione dell’Unione Sovietica.
128 LIBRI E MOSTRE
FICHES DI POKER VENEZIANE. XVIII SECOLO. CASINÒ DI VENEZIA. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IL FASTOSO PALAZZO DEI SULTANI DI GRANADA
I VICHINGHI E L’ALDILÀ
LA SCRITTURA DEGLI DEI GEROGLIFICI, I CARATTERI SACRI EGIZI
LA DEA NUT RAPPRESENTATA SU UN PETTORALE RINVENUTO NELLA TOMBA DI TUTANKHAMON. MUSEO EGIZIO, IL CAIRO. FOTO: ARALDO DE LUCA
Pubblicazione periodica mensile - Anno XIII - n. 149
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PERSONAGGI STRAORDINARI
Vivaldi, il genio “rosso” di Venezia L’autore di Le quattro stagioni fu un virtuoso del violino e un prolifico compositore di opere e concerti, eppure si spense in povertà, lontano dalla sua città natale
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onsiderato ormai un genio universale, ai nostri giorni Antonio Vivaldi è interpretato a non finire. Ma, ironia della sorte, di lui non si sa poi troppo: alcuni capitoli della sua biografia sono ancora avvolti dall’oblio in cui è sprofondato fino al XX secolo, anche se non mancano alcune certezze. L’ormai celebre musicista nacque a Venezia nel 1678 e sin dalla culla si trascinò un problema polmonare – «strettezza di petto», la chiamava lui – che ne avrebbe condizionato in buona parte la vita. I genitori, Giovanni Battista e Camilla Calicchio, decisero d’indirizzare quel bambino dalla salute cagionevole verso la carriera che gli avrebbe offerto più possibilità, quella ecclesiastica. A venticinque anni appena compiuti fu ordinato prete secolare – o “abate”, come si usava dire a Venezia –, ma la sua permanenza sui pulpiti fu fugace, perché Vivaldi celebrò messa per poco più di un anno. La malattia che l’opprimeva, secondo quanto affermava lui stesso, gli impediva di fare sforzi, e in diverse occasioni fu costretto a lasciare a metà la celebrazione dell’eucaristia. Che fosse verità o un pretesto, di sicuro c’è che dal 1703 il prete “rosso”, com’era so-
Maestro e virtuoso del violino 1678 Il 4 marzo nasce a Venezia Antonio Vivaldi, figlio di un violinista dell’orchestra della basilica di San Marco.
1703 Dopo aver esercitato le funzioni di prete per meno di un anno, è assunto come maestro di violino nell’ospedale della Pietà.
1713 Porta in scena la sua prima opera. Ormai è un compositore rinomato e un interprete di violino famoso in tutta Europa.
1725 Vengono pubblicate Le quattro stagioni, le creazioni più celebri, e tra le preferite di Luigi XV di Francia.
1741 Antonio Vivaldi muore a Vienna a 63 anni. Gli viene data una sepoltura per persone umili.
VIOLINO STRADIVARI REALIZZATO NEL 1715. PALAZZO COMUNALE, CREMONA. B
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prannominato per il colore dei capelli, si dedicò a un’altra occupazione che gli dava molti più stimoli: la musica. Il padre era un barbiere, ma anche un abile violinista che dal 1685 suonava nell’orchestra della basilica di San Marco. Non gli era sfuggito il talento musicale del figlio – dei tanti, l’unico con un buon orecchio – e ben presto aveva perciò iniziato a istruirlo nell’arte del violino. Forse il giovane aveva potuto completare una prima formazione anche grazie a un insigne compositore veneziano, Giovanni Legrenzi. Ancora bambino, aveva a volte sostituito il padre nell’orchestra di San Marco. E proprio grazie a tale abilità trovò una professione alternativa a quella religiosa. Divenne infatti maestro di violino.
Violinista straordinario Gli venne offerto un posto all’ospedale della Pietà, un ospizio per trovatelli e bambini invalidi. In realtà la struttura era pure un famoso conservatorio femminile che offriva un’accurata istruzione in solfeggio, canto e interpretazione alle sue orfanelle, le cosiddette “figlie di coro” o “putte”. Queste avrebbero poi fatto sfoggio del loro talento nel coro della cappella o nell’orchestra. La qualità e il successo degli spettacoli – che ovviamente garantivano all’istituzione un cospicuo ingresso di denaro – sono testimoniati da viaggiatori come Rousseau, il quale scrisse di essersi commosso durante uno di questi concerti. Dalla Pietà uscirono virtuose del liuto, del
CAPELLI E NASO, SEGNI DISTINTIVI LA RAPPRESENTAZIONE più af-
fidabile di Vivaldi è un’incisione, opera di François Morellon de la Cave, in cui compare con la parrucca e senza alcun segno della condizione clericale. Il ritratto riprodotto a fianco a queste righe mostra una certa somiglianza con l’incisione, e alcuni autori hanno creduto di scorgere sotto la parrucca una ciocca della caratteristica chioma rossa del compositore. Tuttavia non è certo che l’olio ritragga Vivaldi, anche perché non vi compare il prominente naso adunco presente nella caricatura fatta all’artista dal pittore Pier Leone Ghezzi nel 1723.
violoncello o del clavicembalo, che avevano così l’opportunità di brillare prima d’immergersi nell’anonimato del matrimonio o della vita conventuale. A eccezione di brevi periodi, Vivaldi rimase legato all’ospedale per circa quarant’anni, dal 1703 al 1740. Oltre a insegnare il violino, il musicista si esibiva come solista in concerti piuttosto apprezzati dal pubblico, nello stesso ospedale o in qualche teatro veneziano. E in effetti numerosissime testimonianze confermano che Vivaldi era un violinista straordinario. Nel 1715 il tedesco Johann F.A.
von Uffenbach assistette a una delle sue esibizioni nel teatro Sant’Angelo e rimase impressionato dalla tecnica. «Verso la fine Vivaldi suonò un assolo – splendido – cui fece seguire una cadenza, che davvero mi sbalordì, perché un simile modo di suonare non c’è mai stato né potrà mai esserci: faceva salire le dita fino a un punto che
SCALA, FIRENZE
RITRATTO DI UN VIOLINISTA E COMPOSITORE, FORSE VIVALDI. MUSEO INTERNAZIONALE E BIBLIOTECA DELLA MUSICA, BOLOGNA.
la distanza d’un filo le separava dal ponticello, non lasciando il minimo spazio per l’archetto», ebbe modo di annotare. Parallelamente Vivaldi sviluppò anche l’attività musicale per la quale è oggi ricordato: la composizione. Le sue specialità erano i concerti per orchestra da camera d’archi e strumenti
I concerti di Vivaldi erano molto apprezzati a Venezia; il suo modo di suonare il violino «non c’è mai stato né potrà mai esserci» STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
DEA / ALBUM
CONCERTO delle orfane di un ospizio di Venezia alla fine del XVIII secolo. Olio di Gabriele Bella.
solisti, soprattutto violino, ma pure fagotto, violoncello, oboe o flauto. Se ne conservano quasi cinquecento (o «cinquecento volte lo stesso», avrebbe commentato con ironia Igor’Stravinskij). Per Vivaldi erano una fondamentale fonte di guadagni: per esempio, nel 1723 giunse a un accordo con i direttori della Pietà per creare due concerti al
mese, pagati ciascuno uno zecchino. Fece stampare pure delle antologie, ma poi decise che era più redditizio vendere le versioni manoscritte di ogni singola esecuzione. Nel 1740 ne vendette venti alla Pietà, e l’anno seguente altre a un conte italiano, Collalto. Così poté procurarsi somme importanti, che dilapidò con altrettanta facilità.
I concerti gli assicurarono l’ammirazione delle corti europee. La serie Le quattro stagioni – inclusa nella raccolta Il cimento dell’Armonia e dell’Inventione, pubblicata nel 1725 – era adorata da Luigi XV e fu annessa al repertorio del Concert Spirituel, che organizzava spettacoli a Parigi quando le principali sale da teatro e opera chiudevano per le festività pasquali.
Compositore
LA RISCOPERTA NEL 1940 fu pubblicato un articolo di giornale inti-
tolato “Ha inizio una settimana musicale che ogni anno introdurrà un compositore poco noto”. Il compositore in questione era Vivaldi, di cui fino ad allora solo gli specialisti avevano sentito parlare. La sua popolarità esplose negli anni cinquanta grazie ai vinili, in particolare a quello di Le quattro stagioni. PARTITURA DI UN CONCERTO PER VIOLINO DI ANTONIO VIVALDI. AKG / ALBUM
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Vivaldi non compose solo musica strumentale, ma anche partiture vocali per cerimonie religiose e si dedicò con impegno al genere veneziano per eccellenza: l’opera. In un’occasione assicurò che ne aveva scritte novantaquattro, sebbene si conoscano i titoli di una cinquantina. Era pure un
presentano
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PERSONAGGI STRAORDINARI
COMPOSITORE DISCUSSO Antonio Vivaldi era considerato più come un buon interprete di partiture che come un autore. Molti dei suoi contemporanei non ne condividevano il gusto per gli artifizi. Il drammaturgo Carlo Goldoni lo definì «eccellente violinista e mediocre compositore», mentre il musicista Charles Avison lo collocò addirittura nella classe più «infima» degli autori. Senza essere così radicale, William Hayes, professore di musica a Oxford, gli riconosceva una «solida capacità compositiva» e attribuiva piuttosto i suoi presunti limiti alla «cattiva applicazione del suo grande talento» e alla sua personalità «volatile». NEL XVIII SECOLO
compositore febbrile, capace, assicurava lui, di realizzare l’opera Tito Manlio in cinque giorni. Un anno dopo aver portato in scena la prima opera, Ottone in villa, fu coinvolto nella direzione del Sant’Angelo, teatro che, assieme a quello di San Giovanni Crisostomo e di San Moisè, costituiva la frizzante mappa di palcoscenici veneziani. Nel 1718 Vivaldi si trasferì a Mantova, dove rimase due anni a lavorare come maestro di cappella da camera per Filippo di Assia-Darmstadt, il principe tedesco governatore della città. Probabilmente fu lì che conobbe una giovane cantante, la contralto Anna Giraud, che ne sarebbe divenuta la pupilla, la prima donna e, secondo alcuni, l’amante. Nel 1737 il cardinale Tommaso Ruffo gli avrebbe impedito di andare a Ferrara a dirigere una sua creazione perché non vedeva di buon occhio lo stile di vita del compositore, nonché il suo rifiuto di officiare messa. 10 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
DEA / ALBUM
VENEZIA. VIVALDI VISSE ALCUNI ANNI NELL’EDIFICIO DALLA FACCIATA ROSSA.
Il musicista assaporò le bellezze del teatro, ma dovette affrontare pure degli ostacoli. L’emergere di colleghi più giovani provenienti dalla scuola napoletana, come Leonardo Leo o Nicola Porpora, e le difficoltà per mantenere il proprio prestigio nel mondo dell’opera seria – genere in declino a vantaggio dell’opera buffa – complicarono le sue possibilità di adattarsi alle volubili mode veneziane. Fu allora che decise di cercare di promuovere le proprie opere fuori dalla città.
La fine di un espatriato Tra il 1720 e il 1739 viaggiò spesso in Italia e nell’Europa settentrionale, anche se tenne sempre Venezia come asse e rimase in stretti contatti con la Pietà. Verso il 1740, dopo essersi fatto pagare un’ultima serie di concerti dall’ospedale, Vivaldi decise di trasferirsi a Vienna. Il perchè di tale viaggio rimane un mistero. Forse fu un
tentativo di far leva sulla sua sintonia con l’imperatore Carlo VI o fu piuttosto una fuga dal troppo volubile gusto musicale di Venezia, dove «la musica dell’anno precedente non dà più guadagni», disse un contemporaneo. A Vienna però la sorte gli fu avversa. In ottobre si spegneva l’imperatore e il 28 luglio 1741 il prete “rosso” sarebbe morto per un’«infiammazione interna» in una stanza presa in affitto da una vedova. Il funerale venne accompagnato da un breve rintocco di campane, triste addio per uno dei compositori più espressivi del barocco. CARLOS PREGO MELEIRO GIORNALISTA
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SAGGI
Vita di Antonio Vivaldi Gianfranco Formichetti. Giunti, Firenze, 2017. ROMANZI
L’affare Vivaldi Francesco Maria Sardelli. Sellerio, Palermo, 2015.
PARTENZA della María Pita dal porto di La Coruña, il 30 novembre 1803. Incisione di Francisco Pérez.
DOCUMENTA / ALBUM
Come vaccinare un impero: il viaggio di Balmis Francisco Javier Balmis guidò una spedizione per far arrivare il vaccino contro il vaiolo in tutti i possedimenti spagnoli in America e in Asia ricorrendo a dei bambini portatori
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el 1796 un medico inglese di campagna, Edward Jenner, fece una delle scoperte più importanti nella storia della medicina: la prima immunizzazione contro una malattia contagiosa. Jenner sapeva che nelle fattorie le donne che mungevano le mucche difficilmente contraevano il vaiolo umano, un morbo che da secoli imperversava in Europa e in altri continenti, colpendo soprattutto i bambini. Il medico inglese sospettava che ciò fosse dovuto al fatto che le mun-
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gitrici contraevano il vaiolo bovino, che produce pustole sulle mani simili a quelle del vaiolo umano, ma che è molto meno grave. Jenner pensò quindi che fosse possibile proteggere le persone dalle forme più pericolose della malattia infettandole intenzionalmente con la tipologia animale. Quando vide una mungitrice con una lesione da vaiolo bovino, le prelevò del materiale e lo inoculò in un bambino di otto anni. Dopo qualche tempo iniettò allo stesso bambino anche il vaiolo
umano e osservò che la patologia non si sviluppava. Jenner ripeté l’esperimento diverse volte, finché nel 1798 annunciò al mondo la sua scoperta.
I primi esperimenti Nel dicembre del 1800 Francisco Piguillem vaccinò cinque bambini nel nord della Catalogna con del materiale ricevuto da Parigi, e nel 1801 iniziarono le vaccinazioni a Madrid. Sebbene nella penisola iberica il vaiolo fosse una minaccia persistente, nei territori americani della Corona la
situazione era ancora più grave. All’inizio della conquista la popolazione indigena era stata letteralmente decimata dalle epidemie di vaiolo, che si ripresentavano periodicamente. Così, quando nel giugno del 1802 giunse alla corte la notizia che in Colombia era attivo un pericoloso focolaio, i medici di Carlo IV convinsero il sovrano a inviare il vaccino in America. Il 5 agosto 1803 il governo annunciò la partenza di una spedizione reale a scopo filantropico. L’incaricato di guidare la missione fu il medico alicantino Francisco Javier Balmis, non solo per la sua accreditata conoscenza in tema di vaccinazione, ma anche perché aveva trascorso diversi anni in America come medico militare. In tale occasione si era impegnato a fondo nella lotta contro un’altra malattia contagiosa, la sifilide, per la quale aveva sperimentato una nuova cura. Balmis accettò l’incarico con entusiasmo, mosso dallo «zelo di poter realizzare una spedizione così gloriosa» che sarebbe stata invidiata «da tutte le nazioni». Lo affiancò un’équipe di nove collaboratori composta da chirurghi, infermieri, praticanti e assistenti. Il gruppo si sarebbe imbarcato a La Coruña sulla corvetta María Pita.
Bambini a bordo La principale difficoltà tecnica della spedizione era mantenere il siero di vaccinazione in buone condizioni per gli oltre trenta giorni della
UN MEDICO VACCINA UN BAMBINO. OLIO DI C.J. DESBORDES. XIX SECOLO.
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APPELLO ALLE MADRI NEL PROLOGO della sua traduzione del Trattato storico e pratico della vaccina di Jacques-Louis Moreau de La Sarthe, Balmis fa un appello a superare i pregiudizi sulla vaccinazione: «Madri sensibili, non lasciatevi sviare dai dubbi sollevati dall’ignoranza; approfittate di questo beneficio concesso dal cielo per liberare i vostri teneri figli da una piaga così letale».
traversata atlantica. Il metodo abituale di conservazione consisteva nel mettere del cotone imbevuto con il fluido tra due lastre di vetro e sigillarle con la cera. Tale sistema però non poteva essere utilizzato per più di una decina di giorni. Fu lo stesso Balmis a ideare la soluzione: alla spedizione avrebbe preso parte un gruppetto di bambini, due dei quali sarebbero stati vaccinati alla partenza. Dopo una decina di giorni Balmis avrebbe estratto del liquido dalle loro pustole per immunizzarne altri due, e così via fino ad arrivare a destinazione. L’unica accortezza era mantenere separati i non infetti per
evitare che contraessero la malattia prematuramente. Il problema principale era proprio trovare i bambini: nessun genitore avrebbe lasciato i figli prendere parte a un viaggio di questo tipo. Si pensò quindi di ricorrere agli orfani reclutabili negli ospizi, istituzioni piuttosto comuni nella Spagna dell’epoca. Furono selezionati ventidue bambini di età compresa tra i tre e i nove anni provenienti per lo più dalla casa degli esposti di La Coruña. Balmis stabilì che ognuno doveva portare con sé «sei camicie, un cappello, tre paia di pantaloni e tre giacche di tela, tre paia di scarpe
Balmis era mosso dallo «zelo di poter realizzare una spedizione così gloriosa da essere invidiata da tutte le nazioni» FRANCISCO JAVIER BALMIS BERENGUER. INCISIONE. A
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e un pettine». I bambini sarebbero stati accompagnati dalla direttrice dell’istituto, Isabel Zendal Gómez, che si sarebbe occupata del loro benessere. La spedizione durò quasi tre anni e la donna adempì con zelo alle sue responsabilità, anche quando dovette trasferirsi dal Messico alle Filippine insieme a ventisei nuovi infanti “vacciniferi”.
Dopo aver lasciato La Coruña il 30 novembre 1803 la María Pita fece la sua prima tappa alle isole Canarie, dove realizzò un’efficace campagna di vaccinazione. Poi iniziò la traversata dell’Atlantico, che durò trentaquattro giorni e non presentò problemi. Il 6 febbraio 1804 la corvetta approdò a Puerto Rico, dove Balmis scoprì con delusione che il medico
BAMBINI SCHIAVI IN MESSICO, a fronte delle difficoltà per trovare giovani portatori del vaccino, Balmis acquistò tre bambine e un bambino che poi rivendette. Come scrive Julian Moreiro: «Lascia sconcertati la sua determinazione a comprare bambini schiavi per poi rivenderli una volta “usati”».
Salvany, l’altro eroe Nonostante il successo, il medico credeva che si potesse agire più in fretta e, per accelerare le operazioni, decise di dividere in due la spedizione.
BAMBINO DI UN OSPIZIO DI MADRID. OLIO DI PHARAMOND BLANCHARD. PRISMA / ALBUM
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Francisco Oller aveva già immunizzato efficacemente tutti i bambini con un siero portato da Sao Tomé. Il responsabile della spedizione si riscattò alla tappa successiva, in Venezuela, dove ricevette un’accoglienza straordinaria. Il grammatico Andrés Bello scrisse: «A te, Balmis […] / Quale premio più prezioso e dolce / possiamo darti? Quale premio più degno / per i tuoi nobili compiti che la tenera / acclamazione delle genti riconoscenti / che accorrono a te?». A Caracas Balmis diede avvio a una campagna nel corso della quale furono vaccinate più di duemila persone.
FORTE DI SANTIAGO,
ALAMY / ACI
a Manila. Nella capitale delle Filippine Balmis fondò un Consiglio per la vaccinazione.
Balmis affidò una parte della missione alla guida del suo vicedirettore, il catalano José Salvany y Lleopart. Questi si diresse verso Cartagena de Indias, risalì il corso del Magdalena e immunizzò gli abitanti di tutte le città fluviali fino a raggiungere la capitale del vicereame di Nuova Granada (l’attuale Bogotà), superando le 56mila vaccinazioni. Quindi Salvany si addentrò nel vicereame del Perù, accompagnato da tre collaboratori e quattro bambini portatori, per rispondere alle richieste di aiuto provenienti da Quito e Lima. Fu un viaggio difficile, che Salvany pagò a caro prezzo: perse la vista da un occhio e l’uso di un braccio, quindi contrasse una grave malattia al petto, forse peggiorata dall’altitudine. Nonostante ciò proseguì le vaccinazioni fino alla morte, sopraggiunta a Cochabamba nel 1810, quando aveva solo trentatré anni.
Dal canto suo Balmis si diresse a Cuba, dove il vaccino era già arrivato da Puerto Rico, e poi proseguì per la Nuova Spagna. Qui in sette mesi immunizzò circa centomila persone. Nonostante avesse un carattere difficile e autoritario, dimostrò un talento organizzativo eccezionale. Quando la spedizione raggiungeva una nuova regione, per prima cosa il medico si metteva in contatto con il viceré, i vescovi e i sindaci delle capitali e delle grandi città affinché esortassero i residenti a farsi vaccinare. Di solito i primi a presentarsi erano i figli della nobiltà e delle autorità, per dare l’esempio. Poi era il turno della prole della borghesia creola e infine di quella della gente comune. Quando era possibile si convocavano anche i bambini dei villaggi circostanti, mentre alcuni membri della spedizione raggiungevano le città più lontane. Più proble-
matica era la situazione nei villaggi indigeni, dove si rivelò impossibile convincere i genitori a lasciare vaccinare i figli.
Diffidenza e dubbi Sebbene la spedizione di Balmis venisse di solito accolta positivamente, ci furono anche alcuni casi di resistenza da parte della popolazione europea, per diffidenza verso un metodo ancora sconosciuto e per il diffondersi di voci infondate, come quelle secondo cui i medici rapivano i bambini. In questi casi Balmis si appellava ai vescovi e ai parroci perché convincessero i fedeli. Un esempio di collaborazione ecclesiastica fu dimostrata dal vescovo di Puebla de los Ángeles (Messico), Manuel Ignacio González de Campillo, che in un testo del 1804 esortava «i suoi diocesani affinché si sottopongano docilmente all’importante pratica della vaccinazione». STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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DATO S TO R I CO
Sacco, il pioniere italiano a interessarsi agli esperimenti di Jenner in Italia fu il medico varesino Luigi Sacco, che all’inizio dell’ottocento, dopo aver effettuato una prima inoculazione di vaiolo bovino su sé stesso, immunizzò alcuni bambini tra i 2 e i 7 anni di età, confermando i risultati ottenuti dal naturalista britannico. Successivamente Sacco vaccinò decine di migliaia di persone nell’Italia settentrionale e nel 1803 venne nominato direttore generale della vaccinazione della Repubblica Cisalpina. I suoi metodi contribuirono a contrastare efficacemente le epidemie di vaiolo a Bologna, Brescia e Venezia, e gli valsero vari riconoscimenti al merito in Italia e nel resto d’Europa.
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TRA I PRIMI
INCISIONE DELLA TRADUZIONE SPAGNOLA DEL TRATTATO DI FRANÇOIS CHAUSSIER, ORIGINE E SCOPERTA DEL VACCINO. 1801.
La spedizione di Balmis fu un successo. Eppure al medico ancora non bastava: voleva anche insegnare la nuova pratica ad altri colleghi e creare un sistema per garantire la continuità dell’impresa dopo la partenza. Grazie alla sua caparbietà, nelle capitali e nelle principali città dei vicereami – da Caracas all’Avana, da Cartagena a Lima – furono dunque istituiti dei Consigli per la vaccinazione, di solito
UN ASTUCCIO DI LANCETTE PER LA VACCINAZIONE.
insediati in una piazza centrale, in qualche edificio pulito e ben ventilato che desse un’impressione migliore rispetto agli ospedali dell’epoca. In questi centri i dottori locali imparavano a immunizzare e a conservare il vaccino, che poi veniva trasferito, ancora una volta usando dei bambini, nelle succursali delle città più piccole. I medici del Consiglio s’incaricavano pure di rintracciare e vaccinare i nuovi nati. Purtroppo questo piano ambizioso si dimostrò troppo avanzato per l’epoca e non andò mai pienamente a regime, soprattutto a causa degli sconvolgimenti politici legati all’indipendenza dei Paesi ispano-americani.
alle cure di Isabel Zendal, che li avrebbe riaccompagnati al loro Paese una volta terminate le operazioni a Manila. Balmis invece si diresse in Spagna ma navigando verso ovest: continuò a organizzare vaccinazioni lungo la rotta ovunque fosse possibile. Il 14 agosto 1806 arrivò a Lisbona, da dove raggiunse Madrid in carrozza. Il re lo ricevette congratulandosi con lui per il successo dell’impresa. La spedizione di Balmis fu una delle prime missioni della storia a scopo puramente filantropico. Se i conquistadores avevano portato il vaiolo in America, tre secoli dopo Balmis ne avrebbe diffuso l’antidoto. JUSTO HERNÁNDEZ UNIVERSITÀ DI LA LAGUNA
Ritorno in patria
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Dopo l’America la spedizione di Balmis raggiunse le Filippine, portando con sé ventisei bambini messicani. Anche in questo caso furono affidati 16 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Per saperne di più
SAGGI
Vaiolo. Scienza, storia, costume, letteratura Piero Grima. Salento Books, Nardò (Lecce), 2017.
IL PIANO DI VACCINAZIONE DI BALMIS In fuga dall’invasione napoleonica in Spagna, Balmis tornò in Messico nel 1810 per continuare a distribuire il vaccino in America. Lì scrisse un dettagliato regolamento sui metodi di somministrazione.
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SPECIALE
SCATOLA CON STRUMENTI DI VACCINAZIONE USATI DA EDWARD JENNER.
bili ovunque nel mondo di suscitare i dubbi e le controversie che si sono visti fin dall’inizio, pregiudicando così la fama della scoperta più preziosa nei secoli a favore dell’umanità. CONDIZIONI DI CONSERVAZIONE
Poiché è una costante che l’azione dell’aria secchi rapidamente il fluido vaccino, indurendolo come il vetro […] i vaccinatori presteranno particolare attenzione a non operare all’aria aperta né tra porte o finestre dischiuse; la minima corrente di vento, infatti, è sufficiente a rendere inutilizzabile la maggior parte delle vaccinazioni. GLI EFFETTI COLLATERALI
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PUSTOLE DI VAIOLO BOVINO. TRATTATO DI EDWARD JENNER.
GRATUITO E SU APPUNTAMENTO
Ogni intendente o governatore sceglierà una stanza comoda e dignitosa della sua residenza, dove il pubblico andrà a farsi vaccinare gratuitamente il giorno della settimana previsto e designato dai medici. NON VACCINARE TROPPO
Si farà attenzione a non ammettere alla vaccinazione più [persone] del numero che secondo un calcolo prudente corrisponde ai nati in un anno, a meno che non si verifichi un’urgenza legata a un focolaio di vaiolo naturale, nel qual caso dovranno essere vaccinati tutti quelli che si presentano. CONTRO LE FALSE VACCINAZIONI
I mezzi comunemente impiegati per trasportare il fluido bovino in cristalli, filacce, aghi e lancette sono inadeguati, e hanno prodotto falsi vaccini, responsa-
Se chi riceve il vaccino soffre o ha sofferto in precedenza di eruzioni cutanee di qualche tipo, ci si deve aspettare che queste aumentino considerevolmente alcuni giorni dopo la somministrazione, poiché questo è il mezzo comunemente usato in tali casi dal vaccino per purificare la massa umorale e ripristinare la salute. CONVINCERE I RILUTTANTI
Anche se si spera che […] non ci sia nessun genitore che si opponga alla vaccinazione, è tuttavia necessario che l’arcivescovo, i vescovi, i capitoli, i parroci, i magistrati, le autorità pubbliche e le altre persone illuminate contribuiscano a tale impresa salvifica ricorrendo a tutta la loro persuasione. INCORAGGIARE LA RICERCA
All’atto della vaccinazione pubblica […] parteciperanno i due professori incaricati di esaminare in dettaglio il corso che il vaccino ha seguito nel suo sviluppo e di annotare in un libro tutte le particolarità degne di attenzione, per creare un corpus dottrinale del vaccino in America.
V I TA Q U OT I D I A N A
La stampa contro i migranti Nella seconda metà del XIX secolo le vignette delle riviste statunitensi denigravano chi arrivava dall’Irlanda o dalla Cina za anglosassone e di religione protestante era inquieta per l’avvento massiccio di genti povere e poco istruite, che parlavano altre lingue e professavano religioni diverse: i cattolici irlandesi o italiani, i cinesi, gli ebrei dell’Europa orientale. Nessuno di loro avrebbe mai rappresentato la “famiglia americana”. Una simile inquietudine trovò terreno fertile nella stampa, in particolar modo nei periodici che, soprattutto grazie alle vignette, s’imposero tra le classi urbane medie e alte. A quell’epoca la fotografia non era ancora sfruttabile, e l’illustrazione cercava di dare una rappresentazione visiva degli eventi più sensazionali e importanti.
Satira anti-irlandese Fu in special modo il cosiddetto political cartoon, la satira politica disegnata, a conquistare l’interesse dei lettori. Settimanali d’informazione come il Frank Leslie’s Illustrated News
CARTOON O VIGNETTE NEGLI STATI UNITI le immagini satiriche o umo-
BRIDGEMAN / ACI
ristiche sono dette cartoon. Il termine deriva dall’italiano “cartone”, il supporto cartaceo usato per lo studio preparatorio di un affresco. La parola “vignetta” proviene invece dai tralci di vite che ornavano gli antichi manoscritti. COPERTINA DELLA RIVISTA SATIRICA STATUNITENSE PUCK.
IL CARTOON di Thomas
BRIDGEMAN / ACI
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egli anni settanta del XIX secolo le ondate migratorie che dall’Europa giungevano a New York avevano già assunto una dimensione di massa. Quasi tre milioni di persone entravano negli Stati Uniti e in gran parte andavano a ingrossare le file della forza lavoro industriale. Un operaio su tre era un immigrato e nel decennio successivo, quando gli arrivi superarono i cinque milioni, in città come Chicago i nuovi approdati costituivano la maggioranza della popolazione. Il mondo della manodopera non qualificata fu sempre più percepito, nonché rappresentato, come qualcosa di alieno alla realtà americana. Sebbene gli Stati Uniti fossero una nazione d’immigrati fin dalle origini coloniali, alla fine del XIX secolo la situazione sembrava essere diversa, almeno dal punto di vista dei cittadini benestanti ormai radicati da tempo nel Paese. La borghesia di ascenden-
Nast ricostruisce la battaglia campale che ebbe luogo a New York il giorno di San Patrizio del 1867.
e l’Harper’s Weekly allargarono il proprio pubblico grazie ai cartoon. Fu in particolare il caso dell’Harper’s, che per anni sarà la speciale bacheca di Thomas Nast, uno dei cartoonist più importanti della storia americana. Da fervente sostenitore del partito repubblicano, Nast attaccò senza tregua la corruzione dell’amministrazione democratica di New York. E poiché questo partito poteva contare su un solido sostegno elettorale da parte degli irlandesi – una forza di fede cattolica che riscuoteva un certo consenso – nelle sue caricature Nast si accanì proprio contro di loro.
Oltre alla fede religiosa, gli irlandesi erano ritenuti privi d’istruzione, dediti all’alcol e alle violenze, e quindi non integrabili nella cultura civica della democrazia americana. Sull’esempio dei disegnatori inglesi, Nast abituò i lettori a una caricatura offensiva dell’irlandese, colto nelle sembianze di un pericoloso individuo regredito a uno stadio primitivo, se non scimmiesco. Il ricorso alla fisiognomica (la pseudoscienza che mette in relazione aspetti del carattere umano e particolarità fisiche del corpo) gli permise di rappresentarlo come inferiore: un essere dalla
Litigiosi, ubriaconi, violenti e papisti GLI IRLANDESI si ritrovavano spesso coinvolti in risse, e molti statunitensi credevano perciò che portassero solo problemi. Per esempio, si verificò una colluttazione durante la festa di San Patrizio del 1867, a New York. Un carro che bloccava il
passaggio della sfilata irlandese diede inizio a uno scontro feroce con la polizia. Nelle vignette che disegnò per l’Harper’s Weekly, Thomas Nast approfittò dell’occasione per rappresentare l’accaduto e dipingere gli irlandesi come pericolosi GORILLA. Il disegnatore
assecondava una parte dell’opinione pubblica statunitense, secondo la quale gli irlandesi erano dotati di un carattere brutale, bevevano in eccesso e rappresentavano una minaccia politica a causa della loro cospicua presenza e dell’influenza della RELIGIONE CATTOLICA.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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V I TA Q U OT I D I A N A
ALAMY / ACI
I CINESI erano rappresentati come esseri dalle molte mani che “rubavano” il lavoro ai nordamericani. Caricatura da The Wasp (1882).
ALAMY / ACI. COLORE: JOSÉ LUIS RODRÍGUEZ
mascella molto sporgente, il naso schiacciato, la fronte bassa e inclinata, con la bocca larga e dagli angoli rivolti verso il basso. In genere Nast non manifestò la stessa ostilità per le altre minoranze, come i neri o i cinesi. Per quanto accettasse molti degli stereotipi razziali del tempo, creò immagini solidali in cui
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i neri erano presentati con una certa simpatia e visti come assimilabili. Parimenti prese le difese dell’operosa minoranza cinese.
culturale, fisico e morale, giornalisti e disegnatori giustificarono con malignità la supremazia bianca. Diverse pubblicazioni, come il settimanale The Wasp, diedero man forte alle richieste Il “pericolo giallo” di espulsione dei cinesi dalle località Da quando erano giunti in California a dell’ovest, alle quali seguirono aggresmetà del XIX secolo, pur costituendo sioni e omicidi in diverse Chinatown. appena il dieci per cento della popo- Il Chinese Exclusion Act del 1882 proibì lazione, i cinesi erano attivi in diversi totalmente l’ingresso nel Paese dei settori economici. Per questo i la- lavoratori cinesi e ribadì il divieto alla voratori americani li accusarono di naturalizzazione per tutti i cinesi già provocare disoccupazione e impove- presenti. Non avendo la cittadinanza, rimento, oltre che di portare malattie, questa parte della popolazione non come il resto degli immigrati. Con il votava e quindi non suscitava l’intediffondersi di una pesante depres- resse dei partiti. sione economica a partire dal 1873, Il Puck, il più noto settimanale sacominciarono a essere descritti nei tirico degli anni ottanta, pubblicò una termini di perfidi individui dall’a- brutale copertina in cui un cinese spetto disumano. Ridicolizzando- caricaturizzato era attaccato sia dai li come inferiori dal punto di vista repubblicani sia dai democratici. Un altro cartoon raccontava la cacciaUN AFROAMERICANO MOSTRA IL CIVIL RIGHTS ACT ta dall’ovest di questa comunità e DEL 1875 A SAN PIETRO, CHE NON PUÒ CHIUDERGLI LE ne immaginava l’arrivo a New York. PORTE DEL PARADISO. CARICATURA DI THOMAS NAST.
Da una nave, attraccata in lontananza, una folla si tuffava in mare per raggiungere la città a nuoto. Veniva soccorsa da miss Columbia (la personificazione degli Stati Uniti), che dall’isola di Manhattan gettava dei salvagente, e soltanto in prossimità della riva quelli che fino a poco prima sembravano ratti a pelo d’acqua si svelavano essere teste di cinesi con il tipico codino.
Esseri inferiori Tuttavia, più che nelle pagine principali a colori dei settimanali satirici e umoristici, era nelle piccole vignette in bianco e nero che trovava sfogo un oltraggioso suprematismo anglosassone. Gli irlandesi ora venivano più che altro sbeffeggiati per il loro retaggio campagnolo e miserabile, e perché inebetiti dal vizio del bere. Gli afroamericani erano derisi con labbra tremendamente esagerate, enormi
piedi piatti, arruffati capelli animaleschi e un linguaggio continuamente storpiato, oltre a essere descritti come amanti dell’ozio. L’aumento della popolazione italiana di quegli anni si riflettè nei disegni, che illustravano l’aspetto brigantesco dei nuovi arrivati, ma anche la minaccia che incarnavano in quanto crumiri, una parola dispregiativa usata per definire i lavoratori che non aderivano agli scioperi. Le ondate di ebrei in arrivo dall’Europa orientale furono salutate dai disegnatori con vignette sulla loro ossessione per il denaro o la spregiudicatezza negli affari, dando fiato a un antisemitismo che attingeva a stereotipi vecchi di secoli. Non che fossero più accoglienti le parole dei giornali, come quelle dell’autorevole The New York Times, che nel 1880 descrisse tutti gli immigrati «come anelli di una catena discendente dell’evoluzione».
BRIDGEMAN / ACI
UNA STRADA della Chinatown di San Francisco intorno al 1900.
Le vignette evidenziavano una diversità inassimilabile a una presunta etica americana del lavoro. I cittadini rispettabili s’impegnavano duramente per produrre beni di ottima qualità al giusto prezzo, andando incontro ai bisogni della comunità, e gestivano i guadagni con frugalità e moderazione. A tal proposito, il fannullone nero, il vizioso irlandese, il cinese a basso costo, il crumiro italiano o l’affarista ebreo ricordavano puntualmente a chi acquistava quei settimanali che tutti, ognuno a suo modo, soffrivano di un qualche imperdonabile difetto. GIAN DOMENICO IACHINI UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
Per saperne di più
SAGGI
Sulle rotte della storia Donato Verrastro (a cura di). Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010. L’emigrazione italiana negli Stati Uniti Matteo Pretelli. Il Mulino, Bologna, 2020.
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GEROGLIFICI LA SCRIT TURA DEGLI DEI Nell’antico Egitto si sviluppò un complesso sistema di scrittura, quella geroglifica, con cui per millenni gli abitanti del Paese trascrissero parole, frasi, racconti, storie, preghiere e poesie
STELE DI MINNAKHT
I geroglifici di questa stele contengono una preghiera del capo dei sacerdoti di Akhmin, una città dell’Alto Egitto. XVIII dinastia. Musée du Louvre, Parigi. ALAIN VOLUT / RMN-GRAND PALAIS
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uasi due millenni fa, il 24 agosto 394, un sacerdote egizio di nome Esmet-Akhom incise due testi accanto a un rilievo del dio nubiano Merul, nel tempio di Iside ubicato sull’isola di File, nell’Alto Egitto. Il primo, situato di fronte alla testa del dio, è composto da tre colonne di scrittura geroglifica che recitano: «Davanti a Merul figlio di Horus, per mano di Esmet-Akhom, figlio di Esmet, secondo sacerdote di Iside, per sempre ed eternamente. Parole dette da Merul, signore dell’Abaton, il grande dio». In basso, davanti alle gambe della divinità, un’altra iscrizione – questa volta in scrittura demotica – lasciava una testimonianza del giorno in cui entrambi i testi erano stati incisi. Grazie all’indicazione di quel sacerdote si è potuto stabilire che quella è la più recente iscrizione geroglifica che reca una data.
Scrittura millenaria Per la scrittura degli antichi faraoni iniziava quel giorno un lungo epilogo che sarebbe culminato centocinquant’anni più tardi a Costantinopoli. Gli ultimi sacerdoti che a metà del VI secolo vivevano ancora nel tempio di File – ormai l’ultima roccaforte culturale pagana a non aver ceduto all’arrivo del cristianesimo – furono trasferiti nella capitale dell’impero bizantino, dove vennero processati con l’accusa di saper leggere i geroglifici. Quella condanna avrebbe messo a tacere la“voce”degli antichi faraoni per oltre dodici secoli, fino a quando nel 1822 lo stu-
dioso francese Jean-François Champollion non riuscì a decifrare la scrittura geroglifica. Per più di tre millenni i pittogrammi geroglifici furono utilizzati per trascrivere la lingua parlata dagli egizi prima della diffusione dell’alfabeto copto e del successivo arrivo dell’arabo, nel VII secolo d.C. Si è a lungo pensato che la scrittura egizia avesse un’origine ideografica, cioè che si basasse su rappresentazioni figurative schematiche degli elementi della realtà quotidiana – persone, animali, oggetti, aspetti della natura –; e che con il passare del tempo tali ideogrammi avessero acquisito un valore fonetico indipendente dall’oggetto rappresentato, per diventare fonogrammi con cui si potevano formare parole. Ma negli ultimi decenni alcuni ritrovamenti archeologici hanno gettato nuova luce sulla nascita della scrittura geroglifica, mettendo in discussione queste conclusioni. Utilizzata principalmente per le iscrizioni su templi, tombe e testi sacri, la scrittura geroglifica aveva una variante corsiva, lo ieratico (dal greco hieratikós,“sacerdotale”), destinata a usi più quotidiani come l’amministrazione o la letteratura, e che veniva tracciata su supporti come papiri o incisa su ostraka (frammenti di ceramica o pietra). A partire dal VII secolo a.C. apparve un secondo corsivo, il demotico (dal greco demotikós, “popolare”), che sostituì gradualmente lo ieratico. Tra il II e il III secolo i cristiani del Paese del Nilo adottarono l’alfabeto copto, e fino al IV secolo coesistettero tutti e quattro i sistemi di scrittura.
C R O N O LO G I A
3300-2000 a.C.
2055-1650 a.C.
1300-700 a.C.
722-655 a.C.
COSA DICONO GLI DEI
Primi segni geroglifici incisi su tavolette ad Abido. Vengono scritti i Testi delle piramidi.
La scrittura geroglifica raggiunge i 450 segni. Stesura delle Avventure di Sinuhe.
In questo periodo si compongono grandi opere della letteratura egizia come Il viaggio di Unamon.
Emerge una forma abbreviata di ieratico, il demotico, usato principalmente a scopi amministrativi.
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332-30 a.C.
394 d.C.
La scrittura geroglifica ha già circa cinquemila segni. Il greco s’impone a livello amministrativo.
In Egitto, nel tempio di Iside a File, viene incisa l’ultima iscrizione geroglifica. È dedicata al dio Merul.
LE ULTIME ISCRIZIONI
In questo rilievo del tempio di Iside a File, un sacerdote di nome Esmet-Akhom incise in onore del dio nubiano Merul le ultime iscrizioni geroglifiche: tre colonne di testo davanti a un’immagine della divinità. DAVID RULL
Ad Abido un sovrano locale vissuto durante il periodo di Nagada III (3250 a.C. circa), cioè prima dell’unificazione dell’Egitto da parte del re Narmer, fu sepolto in una piccola tomba rettangolare in mattoni crudi, nota come tomba U-j, situata nel cimitero arcaico di Umm el-Qa’ab. Durante i lavori di scavo effettuati nel 1988 vi sono stati trovati quelli che potrebbero essere i primi esempi di scrittura egizia. Sono venuti alla luce dei vasi di ceramica con dipinti di animali (scorpioni, falchi, pesci…), che in alcuni casi sono accompagnati da un altro segno a forma di pianta, di griglia o di arco. Si ritiene che tali imagini possano rappresentare le prime tracce dell’incipiente scrittura corsiva che in seguito fu denominata ieratica. Pertanto il geroglifico e il suo corsivo potrebbero essere apparsi allo stesso tempo, come forme complementari di scrittura.
Etichette e quantità Sempre a Umm el-Qa’ab sono state rinvenute anche 150 piccole tavolette d’osso su cui erano incise delle sequenze di segni. Su alcune di esse si possono osservare tratti simili a quelli che sarebbero poi diventati i numeri (unità e centinaia) della scrittura geroglifica. Forse questi segni indicavano le dimensioni dei prodotti – probabilmente tessuti – che facevano parte del corredo funerario. Altre tavolette contengono sequenze più complesse di segni figurativi – uccelli, elefanti, elementi vegetali e naturali – che si pensa indichino il luogo d’origine dei prodotti ai quali erano attaccate; in pratica erano delle specie di etichette. Particolarmente significativo è il fatto che queste serie potessero combinare segni con valore semantico ad altri con valore fonetico. Ciò dimostrerebbe che in una primissima fase della storia dell’antico Egitto la scrittura geroglifica riuniva già ideogrammi e fonogrammi. Le iscrizioni nella tomba U-j di Abido suggeriscono quindi che le basi del complesso sistema di scrittura geroglifica furono gettate poco prima dell’unificazione 28 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
UN AIUTO AL RE
L’egittologo francese Audran Labrousse osserva i testi sacri incisi sulle pareti della camera funeraria della piramide del faraone Pepi II. KENNETH GARRETT
dell’Egitto. Sicuramente le nozioni di stato, regalità, storia e scrittura emersero in contemporanea e procedettero sempre di pari passo nel corso della storia egizia. Già a partire dalle sue origini la scrittura geroglifica ebbe quel carattere sacro che la contraddistinse fino alla fine. In Egitto era considerata qualcosa di divino in quanto condivideva l’essenza delle cose a cui si riferiva, per una sorta di connessione magica e invisibile con esse. Ecco perché gli egizi chiamavano la loro scrittura medu-neter, “le parole di dio” o “le parole divine”.
Le parole di dio Insomma, per gli egizi la scrittura non era solo una convenzione grafica usata per trascrivere le parole con cui si descriveva il mondo, gli esseri e le cose. Faceva anche parte dell’essenza di quel mondo. E proprio come il dio Ptah di Menfi all’inizio dei tempi aveva creato il cosmo e tutto ciò che esso conteneva a partire dalla voce, analogamente la parola scritta conservava una connessione magica con tutto ciò a cui alludeva. Durante la V e la VI dinastia si può trovare nei Testi delle piramidi – le preghiere, gli inni e le formule magiche incisi sulle pareti delle camere interne delle tombe faraoniche – uno dei primi riferimenti alla scrittura: «Guardate, il re è asceso. Guardate, il re è arrivato. Ma non è venuto da solo. Sono i vostri messaggi che lo portano qui. Sono le parole del dio che lo fanno ascendere». Insomma i geroglifici, le parole divine, avevano il potere d’intervenire nell’universo e nelle cose. DAVID RULL RIBÓ UNIVERSITÀ APERTA DELLA CATALOGNA / UNIVERSITÀ AUTONOMA DI BARCELLONA
Per saperne di più
SAGGI
I geroglifici. Scrivere come uno scriba Pietro Testa. Harmakis, Montevarchi (AR), 2021. Il segno immortale Barbara Faenza. Ponte alle Grazie, Milano, 2020. RAGAZZI
L’avventura dei geroglifici Paola Cantatore. Franco Cosimo Panini, Maranello (MO), 2017.
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IL LIBRO DEI MORTI DI ANKHWAHIBRE
Questo papiro risalente al VI secolo a.C. mostra vari amuleti e incantesimi che presumibilmente aiutavano il defunto a raggiungere il regno di Osiride senza contrattempi. British Museum, Londra. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
1 LA SCRITTURA GEROGLIFICA seguiva alcune
convenzioni grafiche, relative per esempio alla direzione in cui erano disposti i segni. In realtà il sistema era molto flessibile, in quanto si poteva scrivere sia in verticale sia in orizzontale. Nel primo caso si procedeva sempre dall’alto verso il basso, mentre nel secondo si poteva scrivere indifferentemente verso sinistra e verso destra. Questa flessibilità permise al sistema geroglifico di adattarsi a diversi ambienti architettonici ed epigrafici. La scrittura svolgeva infatti anche una funzione decorativa ed era governata da due principi fondamentali: l’horror vacui, che imponeva di coprire interamente di segni una determinata superficie, e la ricerca della simmetria e dell’equilibrio. Quest’ultimo imperativo significava che sullo stesso spazio i testi potevano essere scritti sia
RIGHE DI TESTO La griglia di scrittura consisteva in grandi quadrati suddivisi in quattro quadrati più piccoli. Gli scribi raggruppavano i segni per riempire completamente lo spazio.
verso sinistra sia verso destra, come si può vedere nelle immagini qui accanto. Nelle scritture corsive, invece, c’era meno flessibilità. La scrittura ieratica, la prima forma corsiva dei geroglifici, poteva procedere verticalmente o orizzontalmente, ma con il passare del tempo prevalse la disposizione in linee orizzontali e s’impose la scrittura da destra a sinistra. Anche il secondo corsivo dei geroglifici, quello demotico, andava sempre da destra a sinistra, in orizzontale. Gli stessi principi venivano applicati alla disposizione dei geroglifici su una linea. Gli egizi usavano una griglia immaginaria all’interno della quale i segni venivano collocati a seconda delle dimensioni, facendo in modo che fossero in equilibrio ed evitando che tra loro rimanessero degli spazi bianchi.
KENNETH GARRETT
LE REGOLE GRAFICHE DELLA SCRITTURA
segni grandi
Occupano quattro quadrati piccoli.
segni verticali
Occupano due quadrati piccoli.
segni orizzontali
Occupano due quadrati piccoli.
segni piccoli
Occupano un quadrato piccolo.
DAVID RULL
Inizio del Racconto del naufrago.
32 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Tomba di Tanutamon Nella tomba di questo faraone della XXV dinastia (raffigurato a sinistra, con il doppio ureo), possiamo vedere la disposizione simmetrica dei geroglifici sulla sinistra (sopra la testa di Iside, in colonne che si leggono da destra a sinistra) e sull’altro lato della porta (sopra Nefti, in colonne che si leggono da sinistra a destra). Necropoli di el-Kurru.
Tomba di Sarenput II Nella nicchia della tomba di questo sovrano di Elefantina vissuto durante la XII dinastia, si possono vedere due testi, uno di fronte all’altro, al centro della scena.
DAVID RULL
Biografia di Herkhuf In questa iscrizione di un governatore di Assuan della VI dinastia, dopo due linee orizzontali, il testo è distribuito in colonne che si leggono da destra a sinistra. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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IDEOGR AMMI Gli ideogrammi esprimevano ciò che il pittogramma rappresentava. Dunque il segno può essere letto come “casa”, come “bocca” e come “toro”. Qualsiasi segno poteva diventare un ideogramma se gli si aggiungeva un piccolo tratto verticale (quando il termine era maschile) o i segni (quando era femminile).
I SEGNI IDEOGRAFICI E FONETICI
Casa Piano di una casa
I GEROGLIFICI SONO rappresentazioni pittografiche del mondo (esseri, oggetti, azioni…) che costituiscono la base di un complesso sistema di scrittura in cui si combinano segni con valore ideografico e fonetico.
FONOGR AMMI
BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
Statua a cubo di Sennefer, sigillatore (tesoriere) del faraone Thutmose III. Sulla statua è incisa una preghiera per le offerte al defunto. British Museum, Londra.
Per mezzo dei fonogrammi si esprimevano invece i suoni che erano associati ad alcuni pittogrammi, indipendentemente da ciò che questi rappresentavano. Così il segno “bocca” poteva essere usato anche per scrivere il fonema r; con il segno “casa”si poteva indicare anche la sequenza fonetica p r, e con il segno “cuore e trachea” la sequenza fonetica n f r. I geroglifici non riportavano mai le vocali, quindi i fonogrammi trascrivevano solo le consonanti che formavano le parole. Esistevano tre tipi di fonogrammi: i monoconsonantici, i biconsonantici e i triconsonantici, a seconda che trascrivessero suoni composti da una, due o tre consonanti.
Rilievo proveniente dal tempio di Tod, dedicato al dio guerriero Montu, su cui è riportato il nome del faraone Mentuhotep II. Musée du Louvre, Parigi.
FRANCK RAUX / RMN-GRAND PALAIS
MET / SCALA, FIRENZE
Sole Immagine del sole Divinità Palo avvolto in un tessuto con una banderuola Città Villaggio con incrocio di strade Orizzonte Il sole che sorge tra due colline
Rilievo a colori che mostra il faraone Mentuhotep II, dell’XI dinastia, con la corona bianca dell’Alto Egitto, proveniente dal suo tempio funerario a Deir el-Bahari. Metropolitan Museum, New York.
FONOGR AMMI MONOCONSONANTICI
b Piede m Civetta t Pane FONOGR AMMI BICONSONANTICI
ba Jabiru su Giunco
FONOGR AMMI TRICONSONANTICI
a n kh Nastro per sandali
FRANCK RAUX / RMN-GRAND PALAIS
ir Occhio
nfr Cuore e trachea kh p r Maggiolino
Frammento del Papiro Jumilhac, che narra come il dio Seth, dopo aver ucciso il fratello Osiride, si trasformò in una pantera, ma la pelle gli fu strappata e marchiata a fuoco per punizione. Musée du Louvre, Parigi. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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DE TERM INATIVO FIG LIO CORTIG IANO COM PAG NO
uomo seduto ( UOMO)
SCU LTORE BARC AIOLO
I DETERMINATIVI
M ANG IARE B ERE
OLTRE A QUELLI con valore fonetico e ideografico,
il sistema geroglifico impiegava degli altri tipi di segni, i determinativi, che non venivano letti né ideograficamente né foneticamente, ma indicavano il campo semantico di appartenenza di un termine. Come regola generale venivano posti alla fine delle parole per favorirne la lettura e la comprensione. Per esempio, la parola “uscire” (per) era determinata dal “movimento” delle due gambe ; la parola “barca” (depet) da una “imbarcazione” ; la parola “re” (nesu) dall’immagine di un “dio” con la barba sacra, mentre la parola “bue” (iua) conteneva la rappresentazione di un bue . Alcuni determinativi indicavano nozioni astratte. Per esempio, l’idea di “civiltà”, associata all’Egitto e al mondo urbano, si scriveva con il segno che rappresenta una città o un villaggio. Troviamo questo stesso determinativo in parole come “Egitto” (kemet). Invece, il mondo esterno, e per estensione gli “stranieri”, erano espressi da un segno che rappresentava delle colline nel deserto , e che ritroviamo in parole come “deserto” (desheret).
uomo con la mano davanti alla bocca (PARL ARE, MANGIARE, B ERE, PENSARE ED EMOZIONI)
RISPON DERE SILENZIO A M ARE
FIG LIA DE A MOG LIE
donna seduta (DONNA)
VEDOVA C ANTANTE
AN DARE CERC ARE
gambe che camminano (MOVIMENTO)
Lo scriba reale e capo sacerdote-lettore Nebmerutef legge un testo davanti a una rappresentazione di Toth, il dio della scrittura, raffigurato come un babbuino. Musée du Louvre, Parigi.
AV VICINAR SI FERM AR SI SALTARE
DE SERTO TOM BA SC AVATA N ELL A ROCCIA
colline (DESERTO, TERR A STR ANIER A)
E ST, PU NTO C ARDINALE N U B IA OA SI
D PALAIS
KI / RMN-GRAN
H. LEWANDOWS
PAROL A
TR ASCRIZION E*
sa semer henek nechery akhenty unem suri usheb ger mer sat necheret hemet kharet shemay t shem hehy teken ab fetfet semy t
iabetet ta-sety uhat *Questa trascrizione include alcune vocali che i geroglifici non esprimevano.
H. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS
heret
Tavolozza da scriba con l’iscrizione del nome del suo proprietario, un certo Pay, trovata a Deir el-Medina. XVIII dinastia. Musée du Louvre, Parigi. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
37
4 IL GENERE E IL NUMERO NELLA SCRITTURA geroglifica si usavano
alcuni segni per specificare il genere e il numero delle parole. Gli scribi disponevano anche di un sistema di cifre che permetteva di scrivere qualsiasi numero.
Frammento della stele della principessa Nefertiabet dove si possono vedere dei segni numerici. Musée du Louvre, Parigi.
IL GENERE La lingua egizia aveva due generi: maschile e femminile. Il maschile non aveva nessun segno specifico, mentre per formare il femminile si aggiungeva la desinenza -t. Per esempio, la parola “figlio” si scriveva (sa) mentre “figlia” prendeva una -t finale, modificando allo stesso tempo il determinativo: (sat). Lo stesso accadeva con sostantivi come: se Uomo
set Donna
hem Servo
hemet Serva
alcune parole femminili
alcune parole maschili
pet Cielo depet Barca set Trono
ta Terra per Casa mer Piramide
Nella lingua egizia c’erano tre morfemi di numero: singolare, plurale e duale. Le forme plurali aggiungevano in genere un determinativo con tre tratti, sia verticali sia orizzontali alla fine della parola. Le forme duali terminavano con un segno fonetico (pronunciato y) che in un certo modo fu assimilato anche al determinativo duale. Così, la parola “figlio” (sa) aveva una forma plurale “figli” (sau) con il determinativo a tre tratti e una forma duale “due figli” (sauy).
MET / SCALA, FIRENZE
IL NUMERO
Memi e Sabu, nobile coppia della quarta dinastia. Statua in pietra calcarea. Metropolitan Museum, New York.
I NUMERI
ALAMY / ACI
I numeri egizi seguivano un sistema decimale ed erano espressi tramite i seguenti segni:
Decine di migliaia (10.000)
Unità (1)
Centinaia (100)
Centinaia di migliaia (100.000)
Decine (10)
Migliaia (1.000)
Milioni (1.000.000) o “molti”
alcuni numeri
8
300
50.000
123.325
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
39
LA PASSIONE DEI GRECI
IL TEATRO Gli spettacoli teatrali delle feste di Dioniso erano seguiti con trasporto
AD ATENE
da migliaia di ateniesi, che a volte si emozionavano fino alle lacrime
LA PARTECIPAZIONE A UNA TRAGEDIA A TEATRO
Il pubblico segue attento la rappresentazione della tragedia Agamennone, di Eschilo, in un teatro davanti all’Acropoli di Atene. Olio di William Blake Richmond. 1884. UHA / GETTY IMAGES
Sopra queste righe, Dioniso e una menade su un vaso a figure rosse proveniente da Chiusi. Stadtmuseum, Berlino.
N
on ci sono dubbi sul fatto che il teatro sia stato uno dei lasciti greci più importanti alla cultura universale. Autori come Eschilo, Sofocle, Euripide o Aristofane hanno creato opere straordinarie che ancora oggi sono considerate dei classici. I teatri sopravvissuti al passare del tempo – numerosissimi, e spesso di dimensioni imponenti – dimostrano quanto fosse sentita tale arte. Finanche secoli e secoli dopo, nell’Europa rinascimentale, i drammaturghi s’ispiravano al modello classico ateniese per far rivivere un genere caduto nel dimenticatoio.
Spettacoli di massa Il teatro greco si contraddistinse come un vero e proprio spettacolo di massa, in cui si riuniva l’intera comunità. Le feste delle Grandi Dionisie richiamavano un notevole numero di persone, e lo si può intuire dalla capienza delle strutture. Secondo alcuni calcoli, gli spalti del teatro di Epidauro potevano accogliere circa 13mila spettatori, mentre quelli del teatro di Dioniso, ad Atene, ne contenevano più di 15mila. Nulla a che vedere con gli spettacolo di ridotte dimensioni a cui si assiste oggi. Una simile partecipazione permetteva di sfruttare tali momenti per affrontare questioni che coinvolgevano tutta la polis, come i rapporti con gli alleati, i cui ambasciatori si recavano alle rappresentazioni, o la sfilata degli orfani dei caduti in difesa di Atene, mantenuti con
PRISMA / ALBUM
C R O N O LO G I A
MELPOMENE, MUSA DEL CANTO E DELLA TRAGEDIA, CINTA DA UNA CORONA DI UVA E CON IN MANO UNA MASCHERA TRAGICA. NY CARLSBERG GLYPTOTEK, COPENAGHEN.
AUTORI TRAGICI E COMICI
536-534 a.C. circa Si celebrano ad Atene le prime Grandi Dionisie. La tradizione vuole che fu Tespi il vincitore del primo concorso di tragedie.
S. KYRIAZIS / ALAMY / ACI
DEA / ALBUM
IL DIO DEL TEATRO
Ma il teatro dell’antica Grecia era molto diverso da quello contemporaneo. Per prima cosa, gli spettacoli venivano portati in scena solo in periodi ben precisi, come per esempio durante le Grandi Dionisie, feste in onore di Dioniso celebrate nel mese di elafebolione (marzo-aprile). E questo non è un particolare casuale. È opinione piuttosto diffusa che il teatro greco derivi da festeggiamenti e rituali religiosi consacrati proprio a Dioniso, che per diversi giorni veniva omaggiato con processioni e allegre mascherate. La tradizione vuole che a metà del VI secolo a.C. un autore originario d’Icaria, Tespi, decise di “concedere la parola” a uno dei membri delle processioni corali che sfilavano alle Grandi Dionisie. Nacque così un nuovo genere poetico, in cui parti cantate si alternavano ad altre recitate, a mimi e balli. L’antica origine veniva ricordata grazie alla presenza di un’immagine di Dioniso, posta su un altare davanti al palco in tutte le esibizioni.
TEATRO DI EPIDAURO
È uno dei teatri greci meglio conservati e quello dall’acustica più precisa. Venne eretto nel IV secolo a.C. per ospitare le Asclepiee, festività in onore del dio della medicina Asclepio.
472 a.C.
456 a.C.
445 a.C. circa
406 470 a.C. A.C.
Prima rappresentazione dei Persiani, di Eschilo, la tragedia più antica conservatasi in forma integrale fino ai nostri giorni.
Muore Eschilo. Nel suo epitaffio si ricorda che partecipò alla battaglia di Maratona, non che fu autore di drammi.
Nasce ad Atene Aristofane. A metà del V secolo a.C. s’iniziano a costruire i primi teatri in pietra.
Muoiono Bis. Valicer gliudaciest autori facio, tragici Euripide e Sofocle. confertium qui cri strum Si chiude tem quodcosì cavo,l’epoca Pala nonfes di maggior splendore egervid co hos fuissil della tragedia greca. tandiurnic oportud.
SEMPRE CON INDOSSO LA MASCHERA
UN ATTORE SI TOGLIE LA MASCHERA DOPO UNO SPETTACOLO. AFFRESCO DEL IV SECOLO A.C. BRIDGEMAN / ACI
L
E TESTIMONIANZE sull’abbiglia-
ESCHILO IL TRAGICO
Il busto in marmo rappresenta l’autore che sin dall’antichità venne ritenuto “il padre della tragedia”. Museo archeologico nazionale, Napoli.
fondi pubblici. Al di là della sua dimensione religiosa e letteraria, il teatro greco aveva infatti anche un aspetto politico. Un’altra differenza con il teatro contemporaneo era dovuta al fatto che le opere portate in scena durante le Grandi Dionisie di Atene erano in gara tra di loro. Di questa particolare competizione si occupava l’arconte eponimo, un magistrato che selezionava tre poeti tragici e cinque autori comici. Designava inoltre un corego, scelto tra l’élite della città per reclutare i membri del coro e farsi carico dei costi.
Personaggi tragici
SCALA, FIRENZE
Prima della gara gli autori anticipavano il contenuto delle opere che avrebbero inscenato nel proagon (proagone). Il verdetto finale dipendeva da dieci giudici eletti mediante sorteggio, uno per ciascuna delle tribù in cui si divideva l’Attica, la regione a cui apparteneva Atene. Il trionfatore otteneva una corona di edera e altri premi.
I temi trattati nelle tragedie provenivano in genere dall’immaginario mitico tramandato per secoli tra i greci. Una delle fonti principali era senza dubbio la guerra di Troia. Per esempio Sofocle dedicò il dramma Filottete all’omonimo eroe morso da un serpente durante il viaggio per Troia. A causa della ferita maleodorante che contaminava l’aria attorno a lui, era stato abbandonato dagli achei sull’isola di Lemno. Anche la casa regnante di Micene ispirò delle tragedie, come l’Orestea, trilogia di Eschilo, in cui si ricostruivano prima l’assassinio di Agamennone per mano della moglie Clitennestra e dell’amante Egisto, poi la vendetta del figlio di questa, Oreste, e infine l’assoluzione del giovane per intercessione della dea Atena. Euripide riuscì a vincere il terzo premio nelle Dionisie del 431 a.C. presentando un’opera su Medea, una donna di origine straniera che si vendica del marito infedele, Giasone, uccidendo i figli da lui avuti. In genere le tragedie proponevano situazioni estreme che illustravano agli spettatori l’entità del crimine e della colpa, il potere del destino e l’insignificanza degli uomini davanti agli dei.
DEA / ALBUM
mento degli interpreti drammatici sono tarde, ed è difficile azzardare un’ipotesi su come vestissero in epoca classica. Di sicuro era d’obbligo l’uso della maschera (in greco prosopon). Questo accessorio manteneva parte del carattere magico tipico delle origini del teatro, e chi l’indossava poteva acquisire simbolicamente le qualità di chi impersonava. A volte le si aggiungeva una parrucca e venivano esagerati di molto i tratti, ma sempre all’interno di canoni realistici. La forma piramidale dei capelli, nota come onkos, serviva per sottolineare il carattere eroico di alcuni personaggi. La maschera fungeva inoltre da cassa di risonanza per la voce, visto che tra l’attore e l’ultima fila di spettatori potevano esserci dai 75 ai 100 metri.
EROINA VENDICATIVA
La scena tratta da un cratere attico a figure rosse evoca il momento della tragedia di Euripide in cui Medea regala una tunica avvelenata a Glauce (in latino, Creusa), rivale nell’amore per Giasone. V secolo a.C. Musée du Louvre, Parigi.
Gli attori indossavano una maschera in cuoio, o olona, ma se ne sono conservate solo le rappresentazioni scultoree, come questa in bronzo. GRANGER / ALBUM
Anche la commedia ebbe origine dai riti dionisiaci, che includevano canti dal contenuto burlesco e festivo, ma con il tempo virò verso la satira sociale e politica. La Lisistrata di Aristofane, ad esempio, raccontava lo sciopero del sesso delle donne ateniesi che volevano così impedire ai mariti la guerra. Gli attori ricevevano il nome di hypokrites, derivato dalla parola hypokrínomai, “interpretare” o “rispondere”. Erano incaricati infatti di ribattere al coro. Nei primi tempi c’era un solo attore. Eschilo ne introdusse un secondo e Sofocle arrivò a tre “attori di accompagnamento” o synagonistai. Esistevano anche i personaggi muti o figuranti, detti kopha prosopa, cioè maschere mute. Nell’opera uno stesso artista poteva impersonare più ruoli, e per questo necessitava di una notevole preparazione, non solo mentale ma anche fisica. Visto che le donne non potevano calcare il palcoscenico, gli uomini erano costretti a interpretare i ruoli femminili.
Si formarono inoltre stirpi d’interpreti e, secondo alcune testimonianze storiche, le città gli riconobbero il diritto d’immunità e di libera circolazione.
Il coro interpella lo spettatore Il coro era composto da dodici persone, e fu Sofocle a portarlo a quindici. La sua funzione variava a seconda dell’opera e del ruolo conferitogli dall’autore. A capo del gruppo c’era il corifeo, il membro più importante. Si disponeva al centro della fila più vicina agli spalti e cercava sia la vicinanza sia la complicità degli spettatori. Di solito a lui erano destinate le parti recitate e i dialoghi con gli attori, mentre il resto del coro interpretava i frammenti lirici. Nelle commedie il numero dei membri del coro poteva aumentare e gli indumenti erano più variegati. I greci già curavano quella che oggi è detta “messa in scena”. Alcuni eventi o dettagli non si potevano mostrare, come per esempio la morte di un personaggio, e il pubblico lo veniva a sapere tramite un messaggero che portava la notizia o tramite la presentazione velata del cadavere, adagiato sullo sfondo.
SOPRA: DEA / SCALA, FIRENZE; SOTTO: MMA / RMN-GRAND PALAIS
MASCHERA TRAGICA
LUCIANO PEDICINI / RMN-GRAND PALAIS
ALCUNI ATTORI CONVERSANO DURANTE LA PAUSA DI UNO SPETTACOLO. MOSAICO NEL TABLINUM DELLA CASA DEL POETA TRAGICO, A POMPEI.
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2 5 SPETTACOLO IN UN TEATRO DELL’ANTICA GRECIA, CON TUTTI GLI ELEMENTI CARATTERISTICI.
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LA COMUNIONE TRA ATTORI E PUBBLICO
N
el V secolo a.C. le opere di Eschilo, Sofocle o Euripide vennero rappresentate su semplici palchi in legno. Solo nel secolo successivo sarebbero sorti i teatri di dimensioni monumentali, come quello di Dioniso ad Atene, mentre s’introducevano cambiamenti nello spazio scenico che avrebbero definito il modello greco di teatro. Vi si distinguevano tre grandi parti: la cavea o gradinate, l’orchestra e il palco. spalti. La platea si basava su un sistema di spalti, detto koilon, diviso in spicchi (kerkides), separati da klimakes 1, scale che permettevano l’accesso alle parti più alte. La prima fila, riservata alle autorità, si chiamava proedria 2. orchestra. Davanti alle gradinate si trovava l’orchestra 3 , uno spazio circolare o semicircolare in sabbia compatta, al cui centro si alzava l’altare di Dioniso 4. Qui si muoveva il coro 5, guidato dal corifeo, i cui membri accedevano
all’orchestra da corridoi laterali (parodoi). Anche i musicisti occupavano parte di questo spazio 6. palco. Gli attori, sempre e solo uomini, recitavano nel logeion, area sopraelevata ubicata davanti al proskenion, o parte anteriore della skene 7. La skene in senso stretto era la parete di fondo, lo scenario. Sul palco c’erano tre accessi per entrate e uscite. episkenion. Sopra la skene poteva trovarsi l’episkenion, una sorta di tribuna da cui intervenivano gli interpreti che impersonavano gli dei, se presenti nell’opera. Lì c’erano anche le gru 8 usate per le apparizioni delle divinità, espediente poi noto come deus ex machina. ATTORI TRAVESTITI
Un attore in un ruolo femminile. A tale scopo indossa un peplo che lo copre completamente. Statuina in terracotta. Metropolitan Museum, New York.
Non solo: si cercava anche di sorprendere gli astanti con espedienti diversi. Grazie alle gru i personaggi potevano volteggiare sopra il palco, comparire all’improvviso o scomparire. Si narra che fu Euripide il primo a servirsi di tale stratagemma nell’opera Medea, quando la protagonista si alzò in cielo su un carro di fuoco.
Spettatori rumorosi L’uditorio era in genere costituito dai cittadini. A quanto pare, i bambini assistevano a tutte le rappresentazioni, anche alle tragedie, malgrado le trame fossero a volte complesse. Non è invece chiaro se in epoca classica le donne potessero recarsi a teatro, mentre in epoca ellenistica lo facevano sicuramente. E non bisogna immaginare un pubblico in religioso silenzio, come avviene oggi. A volte addirittura non si riusciva a tenere a bada l’emozione. Secondo la leggenda, quando Frinico portò in scena La presa di Mileto, un’opera che raccontava la conquista della città dell’Asia Minore da parte dei persiani, si dovette sospendere lo spettacolo per i singhiozzi della platea. Altre volte i partecipanti reagivano con commenti, grida o fischi che interrompevano la fluidità della recitazione. E potevano pure lanciare agli attori fichi secchi o altre cibarie che avevano portato con sé per affrontare la lunga durata delle gare. Sui versanti meridionali dell’Acropoli ateniese sono state trovate delle tesserine su cui sono raffigurati motivi legati al teatro: sembra fossero una sorta di biglietto d’ingresso. In epoca classica il prezzo era di due oboli, più o meno la metà di quanto un ateniese poteva guadagnare in una giornata di lavoro. Molto probabilmente Pericle decretò l’istituzione di un fondo pubblico, detto theorikon, per permettere ai cittadini meno abbienti di assistere agli spettacoli, ma la questione non è ancora stata chiarita del tutto. Al tramonto la folla abbandonava gli spalti in modo abbastanza disordinato, almeno a giudicare da testimonianze come quella
Durante la prima della Presa di Mileto si dovette sospendere l’esecuzione per i singhiozzi del pubblico 48 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
TEATRO DI TAORMINA
Con una capienza di 10mila spettatori, è il secondo teatro più grande della Sicilia dopo quello di Siracusa. Di origine ellenistica, venne modificato in epoca romana. ANTONINO BARTUCCIO / FOTOTECA 9X12
Il V secolo a.C. fu il periodo di auge del teatro ateniese. Pericle promosse una serie di misure per favorirlo e finanziarlo. Busto. British Museum. SCALA, FIRENZE
di Senofonte, che in uno scritto sollecitava i membri di uno squadrone di cavalleria a muoversi con ordine, non come a teatro, «dove coloro i quali escon fuori a caso e disordinatamente si danno travaglio l’un l’altro».
Pareri divergenti Il teatro aveva un’importante funzione pedagogica, visto che le opere invitavano a riflettere sugli aspetti più conflittuali della natura umana. I versi erano inoltre uno splendido strumento per mettere in bella vista i valori civici della democrazia. Pericle giunse alla convinzione che il cittadino ateniese poteva essere educato attraverso l’arte: la propaganda del nuovo sistema politico emergeva dalle parole dei grandi drammaturghi, che approfondivano concetti quali il dovere di un cittadino o la libertà. La propaganda si esplicava pure nell’organizzazione stessa dello spettacolo, pensato da e per la comunità.
Malgrado ciò, il teatro di Atene non sempre rispose a istanze così elevate. Con il tempo l’ispirazione religiosa delle origini fu dimenticata e questo genere divenne un semplice intrattenimento per persone normali. Almeno così credeva il filosofo Platone, secondo il quale «facendo simili opere, dicendo su di esse siffatti discorsi, hanno infuso nel popolo l’uso di trascurare le leggi sulla“musica”e la pretesa temeraria d’esserne buoni giudici; di conseguenza i teatri da silenziosi furono pieni di grida come fosse il pubblico a intendere il bello e il non bello poetico e al posto dell’aristocrazia è sorta una cattiva teatrocrazia». MARIO AGUDO VILLANUEVA MEMBRO DEL CONSIGLIO DI KARANOS. BULLETIN OF ANCIENT MACEDONIAN STUDIES.
Per saperne di più
SAGGI
I greci a teatro Harold Caparne Baldry. Laterza, Roma-Bari, 2021. Storia del teatro greco Massimo Di Marco (a cura di). Carocci, Roma, 2020. LIBRI PER BAMBINI
Non è mica una tragedia! Daniele Aristarco, Sara Not. Einaudi ragazzi, San Dorligo della Valle, 2019.
ÁLVARO GERMÁN VILELA / ALAMY / ACI
L’ERA DI PERICLE
DEA / SCALA, FIRENZE
SCENA DELLE EUMENIDI, TRAGEDIA DI ESCHILO CHE FA PARTE DELLA TRILOGIA NOTA COME ORESTEA. CRATERE A FIGURE ROSSE. V SECOLO A.C. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
I PRIVILEGIATI
Alle autorità e ai personaggi illustri di ogni città venivano riservati i posti in prima fila, in modo che potessero seguire comodamente lo spettacolo. In questa pagina, teatro di Dioniso ad Atene.
1 2
il vaso di pronomos fu dipinto intorno al 410 a.C. È un cratere attico a volute decorato con figure rosse. Attorno a Dioniso e alla moglie Arianna 1, adagiati su una klyne e con Eros 2 che gli svolazza sopra, compaiono numerosi attori che si preparano per lo spettacolo. Sono colti proprio mentre stanno per indossare le maschere, che reggono in mano. Possiamo distinguere i ruoli di alcuni di loro: uno, dotato di una clava 3, interpreta Eracle; un altro è Papposileno 4 e tiene una maschera di Sileno – l’ebbro amico di Dioniso – oltre a portare la nebride, la pelle di cerbiatto, sulle spalle. Nella fascia inferiore, più musicisti si apprestano a suonare. Tra di loro, un giovane seduto suona uno strumento ad ancia doppia o aulos 5.
IL VASO DEGLI ATTORI DI DIONISO
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CRATERE A VOLUTE DI PRONOMOS. 410 A.C. CIRCA. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
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SERGIO ANELLI / MONDADORI / ALBUM
RICOSTRUZIONE SCIENTIFICA: R. MENEGHINI - INKLINK MUSEI 2009, FORO DI CESARE, SOVRINTENDENZA CAPITOLINA AI BBCC
LA NUOVA PIAZZA PUBBLICA DI ROMA
IL FORO DI Giulio Cesare ordinò di costruire un foro che superasse in magnificenza
AL CENTRO DELLA CITTÀ
Il foro di Cesare formava un ampio spazio circondato su tre lati da un porticato con colonne corinzie. Sullo sfondo compariva il tempio di Venere Genitrice. Sotto, dritto e rovescio di un denario d’argento di Cesare, con la dea Venere che regge una Vittoria alata, coniato da M. Mettius nel 44 a.C.
NGER
/ A L B UM
ogni edificio visto fino ad allora nell’Urbe
GRA
CESARE
GAIO GIULIO CESARE
Statua in bronzo di Cesare. Oggi si trova in via dei Fori imperiali, vicino al foro che porta il suo nome.
Capitolio
I FORI DI ROMA
N
ell’Ars amatoria il poeta Publio Ovidio Nasone parlava di una certa piazza di Roma come di uno dei posti migliori nell’Urbe in cui trovare avventure galanti; menzionava inoltre alcune fonti monumentali da cui zampillava acqua. Lì il giureconsulto diveniva preda d’amore e, nonostante fosse un noto oratore, non riusciva più a pronunciare una sola parola, mentre la dea Venere rideva di lui dall’interno del tempio in marmo eretto in suo onore. Ovidio si riferiva al forum Iulium o foro di Cesare, così chiamato perché fatto costruire da Giulio Cesare. Oggi di tale luogo, ubicato a nord-ovest rispetto all’antico foro repubbli-
cano, rimangono soltanto la base dei portici che lo circondavano su tre lati, nonché tre colonne del tempio di Venere poste sul quarto. Ma nell’antichità l’opera destava grande ammirazione. Secondo uno storico del III secolo d.C., Cassio Dione, il foro che Cesare aveva ordinato d’innalzare «è più bello del romano, quantunque con esso si fosse cresciuta la dignità dello stesso foro romano». Il progetto del nuovo spazio sorse nel 54 a.C., quando Giulio Cesare era nel pieno della campagna di conquista della Gallia. Qualche anno prima il suo acerrimo rivale, Pompeo, aveva inaugurato nella capitale uno splendido teatro. Cesare non poteva certo essergli da meno perché a Roma,
54 a.C.
UNA NUOVA ROMA 56 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
DURANTE LA CONQUISTA
della Gallia, Giulio Cesare concepisce l’idea di realizzare a Roma un foro più imponente del teatro eretto dall’acerrimo rivale Pompeo.
51 a.C. INIZIANO I LAVORI di
costruzione del foro di Cesare. Quasi contemporaneamente scoppia la guerra civile tra Cesare e Pompeo per il controllo di Roma.
ILLUSTRAZIONE: VALOR-LLIMÓS ARQUITECTURA.
ALAMY / ACI
La ricostruzione alla destra di queste righe mostra il centro della città di Roma ai tempi di Augusto.
48 a.C. DOPO AVER SCONFITTO
Pompeo nella battaglia di Farsalo, Cesare fa innalzare nel suo foro un magnifico tempio dedicato a Venere, la dea che protegge la sua gens.
FORO REPUBBLICANO Tempio di Venere Genitrice
FORO DI CESARE
Curia Iulia
FORO DI AUGUSTO
Tempio del Divo Giulio
46 a.C. IL 26 SETTEMBRE ha luogo l’inaugurazione del foro di Cesare, anche se non tutti gli edifici che lo compongono sono stati ultimati. È il caso del tempio di Venere.
UNA DEA TRA GLI ANTENATI
Un nuovo foro Il principale obiettivo del progetto urbanistico era quello di ampliare il foro repubblicano tramite un luogo annesso a quest’ultimo che ospitasse le attività pubbliche, amministrative e commerciali. Il precedente iniziava infatti a essere troppo piccolo per accoglierle.
FOGLIA / SCALA, FIRENZE
MARTE E VENERE IN UN AFFRESCO DI POMPEI. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI.
58 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Nella statuetta Enea scappa tenendo per mano il figlio Ascanio e portando sulle spalle il padre Anchise. FORO ROMANO
Il foro di Cesare si trova dietro l’arco di Settimio Severo e la curia Iulia, l’edificio quadrangolare a destra.
Cesare incaricò Cicerone, a quei tempi suo amico, di comprare i terreni adatti. Il costo dell’operazione fu altissimo giacché buona parte della superficie era occupata da residenze private, come rivela lo stesso Cicerone in una lettera al sodale Attico, quando scrive che «io ed Oppio, per allargare il foro ed estenderlo sino all’Atrio della Libertà, abbiamo pagato il terreno sessanta milioni di sesterzi; non si poté ottenerlo a meno dai proprietari. Ma noi faremo opera magnifica». Alcune case erano di proprietà del fratello di Cicerone, e quindi probabilmente il retore e la sua famiglia ottennero discreti vantaggi da quell’operazione così lucrosa. Al prezzo d’acquisto si sommarono quaranta milioni di sesterzi necessari alla costruzione dei portici e del maestoso tempio che avrebbe dominato il foro. Giulio Cesare poté affrontare una simile spesa grazie al bottino conquistato durante le campagne militari in Gallia. I lavori cominciarono nel 51 a.C., quasi nello stesso momento in cui scoppiava la guerra civile tra Cesare e Pompeo. Fu proprio nel corso di questo conflitto, prima della battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., che Cesare promise a Venere – progenitrice mitica e protettrice della sua stirpe – che, se
ALAMY / ACI
come in genere in tutto il mondo antico, chi mirava a esercitare il potere considerava il finanziamento delle opere pubbliche uno strumento essenziale per acquisire prestigio agli occhi dei cittadini.
ENEA FUGGE DA TROIA
ORONOZ / ALBUM FOGLIA / SCALA, FIRENZE
NELL’ANNO 69 A.C. Cesare pronunciò l’elogio funebre della zia Giulia e ne approfittò per ricordare le origini divine della sua famiglia. L’ambizioso giovane raccontò che, dopo l’unione con Anchise (membro della famiglia reale di Troia), Venere diede alla luce l’eroe Enea, a sua volta padre di Ascanio o Iulo, l’antenato mitico della stirpe a cui egli stesso apparteneva. In tal modo i membri della gens Iulia si legavano alle radici di Roma e del popolo romano, visto che pure Romolo e Remo, fondatori della città, appartenevano alla stirpe di Enea. Prima della battaglia di Farsalo Cesare fece un voto a favore di Venus Victrix (vittoriosa), ma poi ritenne che sarebbe stato più conveniente conferirle l’epiteto di Genetrix (genitrice), così da sottolineare l’unione tra la dea e la sua gens.
XXXXXXXXX XXXXXX XXX
Nequassi re vend aec eatios esaddw evenda quidit etus qui quiduolorem oluptiu ntiunti dicimin explaborrum, ut volorem oluptiu ntiunti dicimin explaborrum, ut quo torem. XXXXXXXXXX
TEMPIO DI VENERE GENITRICE
Il disegno mostra il probabile aspetto del tempio fatto innalzare da Giulio Cesare nel foro e dedicato alla protettrice della sua gens, o stirpe.
Un porticato a doppia fila di colonne, di 16 m di larghezza, circondava il foro da tre lati.
FREGIO DI AMORINI PROVENIENTE DAL TEMPIO DI VENERE GENITRICE, NEL FORO DI CESARE. MUSEI CAPITOLINI, ROMA.
avesse sconfitto Pompeo, avrebbe eretto in suo onore un edificio di culto all’interno del foro. Dopo aver vinto la decisiva battaglia, Cesare mantenne la promessa e fece alzare un tempio consacrato a Venus Genetrix (genitrice). In questo modo il foro di Cesare divenne una celebrazione in pietra del prestigio militare del dittatore e un luogo per esaltarne l’origine divina.
Un’inaugurazione fastosa Sebbene non fossero ancora stati finiti, il tempio e il foro vennero consacrati nel 46 a.C. La fretta fu tale che Arcesilao, lo scultore incaricato di realizzare la statua di Venere, ebbe appena il tempo di ultimarla. Cassio Dione racconta che il giorno dell’inaugurazione, il 26 settembre, Cesare incoronato di fiori e preceduto da un corteo di elefanti provvisti di torce e regali per il pubblico presiedette dei giochi straordinari, che includevano gare
di ogni tipo, lotte tra gladiatori e venationes (scontri tra uomini e fiere). In quest’occasione vennero esibiti animali esotici e a Roma sconosciuti come il “cammello-leopardo”, ovvero la giraffa. Per concludere, Cesare «organizzò una battaglia navale, non in mare o in un lago, ma sulla terra», nel Campo Marzio. Chi fosse entrato nell’area del foro di Cesare si sarebbe trovato in mezzo a una piazza dalla forma allungata e circondata da un porticato doppio. In fondo si alzava la facciata del tempio di Venere, al quale si accedeva da due scalinate laterali. La visione d’insieme era interrotta da una statua equestre che si trovava proprio in mezzo al foro. Difatti, emulando l’affetto che Alessandro Magno nutriva per il cavallo Bucefalo, Cesare si fece ritrarre – tenendo forse come modello una scultura lignea del conquistatore macedone – sul suo cavallo preferito, Asturcone. L’animale aveva la particolarità che «le zampe anteriori [erano] simili ai piedi umani» e «i piedi [erano] quasi umani, con gli zoccoli divisi come se fossero dita». Così lo descrissero rispettivamente Plinio il Vecchio e Svetonio.
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POMPEO MAGNO. TESTA DI UNA STATUA DEL NEMICO DI CESARE. NY CARLSBERG GLYPTOTEK, COPENAGHEN.
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ILLUSTRAZIONE: VALOR-LLIMÓS ARQUITECTURA
DEA / ALBUM
La facciata era dominata da otto colonne in stile corinzio. Sui lati se ne contavano nove e nella parte posteriore nessuna.
Il tempio era costruito su due basamenti. Per accedere al primo si poteva ricorrere a due scalinate laterali, mentre il secondo era dotato di un’unica scalinata centrale.
Accanto alla base del tempio erano disposte fonti quadrangolari.
IL FORO DI CESARE, SCAVATO E SPIANATO
La curia Iulia Dall’altra parte, nell’angolo sud-orientale della piazza collegata al foro repubblicano, Cesare annetté una nuova curia, che sostituiva il celebre edificio in cui era solito riunirsi il più importante organo di governo romano, il senato. Ma a Cesare piaceva accogliere i senatori nel suo foro, sullo sfondo del tempio di Venere Genitrice. Il dittatore poteva in quel modo ostentare le sue origini quasi divine, anche a costo di offendere gli altri patrizi. Una volta, con uno sfoggio d’autorità e fierezza, Cesare nemmeno si alzò in piedi quando i senatori comparvero nel foro: comportamento, questo, ispirato ai monarchi ellenistici e che infrangeva le basilari regole 62 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Litografia pubblicata su La Domenica del Corriere nel 1932 che mostra i lavori di recupero del tempio di Venere. VENUS GENETRIX
A destra, le tre colonne corinzie del tempio eretto in onore della dea conservatesi fino a oggi.
d’etichetta previste per i magistrati romani. Proprio tali atteggiamenti avrebbero poi giocato un ruolo determinante nella maturazione del progetto di assassinare Cesare durante le idi di marzo del 44 a.C. Tra l’altro, visto che la curia Iulia non era ancora stata terminata, negli attimi della famosa aggressione il dittatore stava presiedendo una riunione del senato nel portico del teatro di Pompeo, il suo rivale ormai morto. Il forum Iulium sopravvisse agli imperatori che seguirono a Cesare proprio in quanto ricordo del generale e dittatore che aveva svolto un compito fondamentale nella fondazione dell’impero. Oggi i resti che si conservano sono le tre colonne del tempio di Venere, che gli archeologi degli anni trenta hanno deciso di rimettere in piedi. JORGE GARCÍA SÁNCHEZ UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID
Per saperne di più
SAGGI
Edilizia pubblica e potere politico nella Roma repubblicana Eva Margareta Steinby. Jaca Book, Milano, 2012. Il tempio di Venere e Roma nella storia Claudia Del Monti (a cura di). Electa, Milano, 2010. Il Foro di Cesare Carla Maria Amici. Olschki, Firenze, 1991.
ALAMY / ACI
All’interno della cella del tempio si potevano ammirare altre sculture, e anche affreschi e oggetti di lusso: tutti omaggi alla dea che avevano lo scopo di meravigliare i visitatori. Particolarmente famosa era un’immagine in bronzo dorato di Cleopatra, che aveva dato alla luce il figlio di Cesare nel 47 a.C. Si sa inoltre che vi erano esposte pure opere come i quadri mitologici del pittore Timomaco di Bisanzio e una corazza decorata con perle proveniente dalla Britannia.
INNALZANDO LE COLONNE
SCALA, FIRENZE
LA VIA DELL’IMPERO che Benito Mussolini ordinò di realizzare nel 1932 passava a metà del foro di Cesare, e si dovette quindi distruggere alcune strutture lì erette nell’antichità. Venne, ad esempio, spianata parzialmente una latrina pubblica semicircolare ubicata nel porticato di sud-ovest. Visto che agli archeologi di epoca fascista interessava restaurare ed esibire in modo trionfale la curia Iulia (la sede del senato romano), eliminarono quei resti che gli erano d’intralcio. Per tale motivo gli studiosi contemporanei non riescono a stabilire come fosse collegata la curia al foro di Cesare. Agli specialisti di quell’epoca si deve però l’anastilosi, o ricostruzione, delle tre colonne corinzie del tempio di Venere e la loro trabeazione, una struttura solitamente formata da architrave, fregio e cornice.
IL FORO DI CESARE NEL IV SECOLO dopo l’incendio di roma del 283 d.C., Diocleziano (imperatore tra il 284 e il 305) trasformò in modo notevole il foro di Cesare, ridefinendone l’aspetto generale. La parte più danneggiata da tali interventi fu proprio il tempio di Venere Genitrice: la facciata venne coperta da un muro di mattoni che giungeva fino ai portici laterali del foro, lasciando in bella vista il frontone, ma “imprigionando” alcune colonne. Diversi arconi perforavano il blocco in mattoni, e uno di questi consentiva l’accesso alla basilica Argentaria. Al centro rimase la statua equestre di Cesare.
RICOSTRUZIONE SCIENTIFICA: R. MENEGHINI – INKLINK MUSEI 2009, FORO DI CESARE, SOVRINTENDENZA CAPITOLINA AI BBCC.
PARADISO DEI GUERRIERI
IL VIAGGIO DEI VICHINGHI NELL’ALDILÀ Presieduto da Odino, il valhalla è forse l’elemento più conosciuto di tutte le credenze ultraterrene vichinghe. Ma il mondo spirituale norreno era ben più ampio, come indicano i miti e i rituali funebri legati all’aldilà
IL FUNERALE DI UN VICHINGO
Con questo titolo il pittore inglese Frank Dicksee raffigura il rituale funebre ritenuto caratteristico dei capi vichinghi. Olio. 1893. Manchester Art Gallery. BRIDGEMAN / ACI
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osa ci sia dopo la morte è uno dei quesiti fondamentali di ogni cultura. Nella mitologia dei popoli nordici di epoca vichinga si ritrovano moltissimi concetti legati all’aldilà, tra cui differenti mondi in cui proseguire l’esistenza dopo la morte. Hel, valhalla o fólkvangr sono i nomi di alcuni dei luoghi in cui gli esseri umani potevano convivere con le divinità. mortale, anche gli dei hanno a disposizione differenti aldilà. Il popolo vichingo non aveva una visione unitaria dell’oltretomba: c’era anzi una gran varietà di possibilità. Le credenze dei norreni sulla vita dopo la morte erano molto eterogeneae e ogni individuo o famiglia poteva immaginare scenari assai diversi.
Hel, nell’altro mondo Nel caso del dio Balder, la sua morte inaspettata lo conduce alle porte di hel, un mondo sul quale si trovano solo poche informazioni sparse qua e là nelle fonti letterarie norrene. Nella grande sala che domina questo regno siede la dea Hel, nome che indica anche il luogo da lei governato. Seduta in trono, accoglie i nuovi arrivati con il suo corpo; il suo viso ha per metà il colore nero della notte profonda. Nell’immaginario vichingo chiunque muoia di malattia o di vecchiaia giunge a hel, il che rende questo regno una destinazione piuttosto comune. Ma la vicenda di Balder dimostra che anche chi soccombe trafitto da una lancia può finire in questo mondo.
BRIDGEMAN / ACI
«Confuso, il dio Balder si guardò il petto. Lì, dove nessuno era mai stato in grado di causare ferite, dove nessuna lama di metallo poteva lasciare un segno, era penetrata una lancia di legno come se fosse l’albero di una nave. Intorno a lui, i volti degli altri dei, pieni di stupore come il suo, cominciarono a svanire. Com’era possibile? Lui, Balder, l’unico dio ritenuto immortale, ferito mortalmente da un’umile lancia di vischio. Balder, tra il rassegnato e l’incredulo, iniziò il suo viaggio verso l’aldilà». Dove va una divinità nordica quando muore? La breve narrazione qui citata si riferisce alla morte di Balder figlio di Odino, un dio ritenuto bello, saggio e immortale. Ma anche l’unico essere considerato al sicuro dalla morte può morire. Gli altri dei di Asgard – una delle residenze in cui dimorano le divinità della mitologia norrena – si accontentano di accrescere la loro longevità cibandosi di mele magiche; ma sono mortali come tutti gli abitanti di Midgard, il nome del mondo degli esseri umani. E come quell’umanità
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Primo importante attacco scandinavo in Inghilterra. Il saccheggio di Lindisfarne è considerato l’inizio dell’epoca vichinga.
A Oseberg (Norvegia), due donne con uno splendido corredo funerario vengono sepolte in un’imbarcazione ricoperta da un tumulo.
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SOTTO IL SEGNO DI ODINO
PIETRA RUNICA DI SANDA. SULLA PARTE SUPERIORE SONO RAPPRESENTATI PROBABILMENTE FREYR, THOR E ODINO. ALBUM
LA MORTE DI BALDER
Il figlio di Odino muore per mano del fratello cieco Hodur, ingannato dal traditore Loki. Illustrazione tratta da una versione del XVIII secolo dell’Edda in prosa, di Snorri Sturluson. Det Kongelige Bibliotek, Copenaghen.
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XIII secolo
Prima incursione vichinga nella penisola iberica. Una flotta attacca varie località tra cui Lisbona, le Asturie, la Galizia e Siviglia.
In una pietra runica Aroldo Dente Azzurro afferma di aver unito Danimarca e Norvegia e di aver cristianizzato la seconda.
Un esercito anglosassone sconfigge le milizie norvegesi a Stamford Bridge. È la fine dell’epoca vichinga in Inghilterra.
L’islandese Snorri Sturluson raccoglie poemi, saghe e leggende precedenti al XIII secolo e li mette per iscritto.
Niflhel, il destino dei criminali
defunti sepolti in una nave vichinga sopra la quale fu poi eretto un tumulo funerario. Un esempio di questo tipo è la tomba di due donne di alto lignaggio i cui corpi riposavano all’interno di una grande imbarcazione ritrovata a Oseberg, in Norvegia. Il fatto che accanto alle due donne siano stati rinvenuti oggetti di grande valore fa pensare che rivaleggiassero con Balder in quanto a status sociale e magnificenza del corredo funebre. La tomba conteneva molti beni, tra i quali un carro decorato, delle slitte, un gran numero di cavalli e altri animali, letti intagliati nel legno, utensili domestici, attrezzi agricoli, manufatti provenienti da altre parti del mondo e splendide sculture di animali che presumibilmente in precedenza adornavano un trono o una nave. Forse, proprio come Balder fu accompagnato nel suo viaggio dalla moglie e dal nano, una delle defunte di Oseberg, che chiaramente godeva di un’elevata posizione sociale, fu accompagnata dall’altra donna, una sua parente o forse una schiava. La tradizione di seppellire la servitù o alcuni familiari insieme al defunto è attestata sia da altre tombe sia da fonti scritte.
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NIFLHEL, UNA PARTE DI HEL. INCISIONE DI LORENZ FROLICH. 1895.
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UE STROFE del poema Völuspá, la cui narratrice è una völva, una profetessa e sapiente, suggeriscono che i criminali finiscano a niflhel, una parte di hel dove vengono torturati: «Ho visto una grande sala, lontana dal sole, / che sulla riva dei morti si erge, / le sue porte sono rivolte a nord. / Attraverso il fumo cavo cadono gocce di veleno / perché i serpenti circondano le pareti della sala. / Nei fiumi selvaggi ho visto guadare / traditori e assassini, / truffatori e donne. / Lì il grande serpente Nidhogg beve il sangue dei caduti / e il lupo sbrana le carni degli uomini».
A Balder viene data una sepoltura degna del suo rango elevato e del profondo amore che le altre divinità provano per lui. Il suo corpo viene posto all’interno della sua grande nave. Accanto a lui, sulla pira funeraria che consumerà i suoi resti, ci sono il suo cavallo dai bei finimenti e diversi tesori. Anche la moglie di Balder brucia con lui tra le fiamme, così come un povero nano lì gettato dal dio Thor. Questo rituale riservato agli dei non è molto differente da certe usanze funerarie di epoca vichinga. In fondo la mitologia norrena non è che una trasfigurazione dei costumi dei popoli scandinavi. Ci sono diverse testimonianze archeologiche di PRUA DELLA NAVE DI OSEBERG, SEPOLTA SOTTO UN TUMULO NELL’834 CON I CORPI DI DUE DONNE. VIKINGSKIPSHUSET, OSLO.
Tombe vichinghe In epoca vichinga troviamo una grande varietà di tipologie funebri: sepolture con o senza cremazione, con camere funerarie, in tombe rettangolari, con un grande corredo che riflette la posizione sociale preminente del defunto o senza alcun corredo. L’archeologia dimostra che gli oggetti sepolti accanto al corpo sono correlati all’importanza, al potere e alla ricchezza che il personaggio in questione aveva in vita. Ma probabilmente il corredo è anche collegato al suo uso nell’aldilà. Nelle tombe sono stati trovati moltissimi animali, armi, navi o carri, giochi da tavolo e forse schiavi. I corpi dei defunti, e più chiaramente quelli di persone con un certo potere economico e sociale, vanno nei rispettivi regni ultraterreni con tutto il necessario per mantenere invariato il loro stile di vita. A volte il modo in cui si veniva sepolti era connesso al tipo di oltretomba raggiunto dal defunto dopo la morte. Coloro che sono stati rinvenuti sotto i tumuli non andavano in un
LINDHOLM HOJE
Situato vicino alla città danese di Aalborg, è uno dei più grandi cimiteri scandinavi. Differenti sepolture sono delimitate da rocce che tracciano il profilo di una nave vichinga. ALAMY / ACI
NAVIGARE NELL’OLTRETOMBA
Riproduzione di una nave vichinga sul lago Siljan, nella Svezia centrale. Sono stati ritrovati resti di navi usate per le sepolture di oltre 20 metri di lunghezza, anche se la maggior parte era di dimensioni molto più piccole. STEFANO AMANTINI / FOTOTECA 9X12
UN FUNERALE VICHINGO IN BARCA
IL DEFUNTO
Se non era stato cremato, il defunto riposava in cima al ponte o in una camera superiore. Accanto o sopra di lui venivano depositati oggetti come una lancia, un coltello o uno scudo.
La cerimonia funebre era costituita da diversi rituali, come si può vedere chiaramente dalle grandi sepolture di persone importanti sulle navi. Era molto comune porre accanto al defunto tutti i beni da lui apprezzati in vita, e che forse gli sarebbero serviti anche nell’aldilà: armi, animali, giochi, cibo, e in qualche occasione anche accompagnatori.
CAVALLO
Questi animali avevano un ruolo fondamentale nella vita quotidiana. Resti di cavalli sacrificati sono stati ritrovati in molte tombe, soprattutto in quelle di personaggi di rilievo. Spesso nel corredo funebre si trovano anche i finimenti dei destrieri degli antichi vichinghi.
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ORNAMENTI
Le navi funerarie potevano essere riccamente decorate e di dimensioni variabili, lunghe oltre i 20 metri. ACCOMPAGNATORI
In alcune sepolture, accanto al defunto sono stati trovati i resti di una o più persone. In certi casi, soprattutto quando la morte di questi accompagnatori mostra segni di violenza, si trattava probabilmente di schiavi o schiave sacrificati per seguire il loro padrone nel suo cammino verso l’aldilà.
PAVEL DOBROVSKY / GETTY IMAGES
loro che erano destinati a raggiungere Helgafell. Come si deduce dalla presenza di montagne sacre e tumuli funerari, esiste una chiara connessione tra elevazione e aldilà nella mitologia, nel folklore e nei costumi mortuari norreni. A volte, quando gli abitanti di una regione trovavano dei tumuli di epoca precedente, li riutilizzavano per realizzare nuove strutture o creavano intorno a essi dei cimiteri. L’uso delle vestigia del passato, forse associato ad antiche leggende, era probabilmente considerato un valore dagli individui e dalle stirpi. C’è forse un modo migliore per legittimare la posizione sociale della propria famiglia che collocarne la tomba in un luogo rispettato e inevitabilmente legato alla storia e alla memoria della regione?
HISTORISKA MUSEET, ESTOCOLMO
Sotto questo rilievo islandese dimoravano i defunti, come menzionato nella Eyrbyggja saga, scritta nel XIII secolo nell’ambito della colonizzazione vichinga di una regione dell’Islanda.
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aldilà governato dagli dei, ma trascorrevano l’eternità sotto il tumulo stesso, molto probabilmente in compagnia dei rispettivi antenati che già vi abitavano. Un esempio di tale credenza è riportato nella Njál saga. A un certo punto di questo racconto medievale islandese i protagonisti si ritrovano davanti a un tumulo funerario da cui il defunto si sporge per osservare la luna. Notano che sotto il tumulo brillano delle luci; l’abitante è felice e sorridente, al punto da iniziare a cantare ad alta voce. L’idea che ci sia un’aldilà sotto ai tumuli si trova riflessa, su scala maggiore, nella concezione di un oltretomba che si estende al di sotto di alcune montagne. Un esempio di questa credenza è Helgafell (che in norreno antico significa “monte sacro” ), un rilievo situato nella penisola islandese di Snæfellsnes. Si credeva che sotto questa sporgenza rocciosa i defunti partecipassero a un banchetto eterno. Il lato nord del monte a volte si apriva, permettendo ai viandanti di vedere come avrebbero vissuto dopo la morte coUNA VALCHIRIA SORREGGE UN CORNO CON IDROMELE. PENDAGLIO IN ARGENTO DORATO. HISTORISKA MUSEET, STOCCOLMA.
Valhalla, la sala di Odino Il dio nordico maggiormente associato alla memoria è senz’altro Odino, colui che presiede l’aldilà vichingo più conosciuto nell’immaginario popolare: il valhalla. Così si chiama la vasta sala del dio ad Asgard, dove questi intrattiene ogni notte i defunti prescelti con lauti banchetti. È uno spazio enorme, dove le travi del soffitto sono costituite da lance; una serie di scudi ricopre le pareti e delle cotte di maglia rivestono le lunghe panche che scorrono tutt’intorno alla sala. Già dal tipo di arredo s’intuisce che potrebbe trattarsi di un luogo riservato a persone esperte nell’arte del combattimento. Ma non tutti i guerrieri vanno nel valhalla: a questo mondo può accedere solo una parte di coloro che sono morti in battaglia. E allora chi sceglieva quali defunti potevano abitare il valhalla? Se ne occupavano le valchirie, degli esseri femminili che scendevano sui campi di battaglia per scegliere i guerrieri caduti che dovevano essere
AKG / ALBUM
MONTE HELGAFELL
STELE FUNERARIA
Proveniente dall’isola di Gotland, nella parte superiore destra mostra probabilmente Odino sul suo cavallo a otto zampe, Sleipnir; sulla sinistra c’è una struttura che rappresenta il valhalla. VIII secolo. Historiska Museet, Stoccolma.
LE VALCHIRIE, GUERRIERE DI ODINO e valchirie sono entrate nell’immaginario collettivo grazie a mezzi come il cinema o i fumetti, a partire dal famoso ciclo di opere di Wagner, L’Anello del Nibelungo. Ciò le ha rese tra i personaggi mitologici più popolari dei nostri tempi. Ma l’immagine di donne che volano nei cieli in sella a cavalli alati, indossando armature ed elmi, non corrisponde all’iconografia originale. La parola valchiria significa “colei che sceglie i morti in battaglia”. Le valchirie non decidono chi vive e chi muore – in quanto ciò dipende dal destino tessuto da altre entità mitologiche, le norne – ma scelgono chi dei caduti andrà nel valhalla, l’aldilà governato da Odino. In molte delle loro apparizioni letterarie portano armi e cotte di maglia, chiari simboli guerrieri. Vanno anche a cavallo, sebbene nessuna fonte menzioni i destrieri alati, che sono un’invenzione moderna, così come gli elmi con ali o corna e le trecce bionde che pur fanno parte dell’immaginario contemporaneo. «Portano la birra agli einherjar». Con questa frase, il poema Grímnismál attribuisce
un’ulteriore funzione alle valchirie. Nel valhalla queste creature distribuiscono i corni di birra e si occupano delle stoviglie e dei recipienti ai banchetti dove si ristorano i guerrieri al termine delle quotidiane esercitazioni militari. Non è strano che venga citata quest’attività, perché i recipienti di vetro importati erano tra gli oggetti di maggior valore che si potessero trovare nella sala di un capo, e le vite mitologiche delle divinità rispecchiano la vita aristocratica. Il termine valchiria riunisce quindi due diversi concetti della femminilità vichinga: guerriere di giorno, donne di casa di notte.
LE VALCHIRIE SCELGONO I GUERRIERI MORTI SUL CAMPO DI BATTAGLIA. L’INGLESE ROBERT ALEXANDER HILLINGFORD INTITOLÒ QUEST’OLIO NELLA MORTE È LA VITTORIA. XIX SECOLO. BRIDGEMAN / ACI
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N ALCUNE SEPOLTURE di epoca vichinga sono stati ritrovati
ROSKILDE MUSEUM
dei grandi massi sul corpo del defunto, come nella tomba di Gerdrup, in Danimarca, dove furono sepolti un uomo e una donna. Questa giace accanto a una lancia ed è coperta da due grosse pietre. C’era forse il timore che alcuni morti potessero tornare in vita? Nella mitologia vichinga esistevano creature simili agli zombie: gli aptrgangr o draugr, che uscivano dalle loro tombe per minacciare o uccidere chiunque trovassero sul loro cammino. Forse era proprio la paura che i defunti diventassero draugr a far sì che alcuni venissero coperti con questi macigni.
LA TOMBA DI GERDRUP IN DANIMARCA ERA RICOPERTA DA UN TUMULO.
AMULETI PER L’ALDILÀ
Mjolnir, il martello di Thor, era un poderoso elemento di protezione; poteva avere la forma di un pendaglio, come questo del X secolo.
accompagnati nella loro nuova dimora. Nel valhalla, gli einherjar, come vengono chiamati i membri dell’esercito di Odino, passano la giornata a prepararsi per il grande scontro che secondo le profezie avrà luogo alla fine del mondo. La sera tornano dal loro addestramento militare e trascorrono la nottata a mangiare cinghiale arrosto e a bere l’idromele servitogli dalle valchirie, che sgorga dalle mammelle della capra Heidrún, al pascolo sul tetto del valhalla. Il cinghiale in questione è una prelibatezza eterna che ritorna in vita ogni notte per venire cucinato e offerto agli einherjar.
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Gli altri paradisi Il valhalla è una destinazione gloriosa, ma non è l’unica possibile per un guerriero. Anche la dea
Freya si reca sui campi di battaglia per condurre nel suo mondo l’altra metà di coloro che muoiono in combattimento. L’aldilà presieduto da Freya, fólkvangr, non è diventato così popolare come quello di Odino, ma nell’universo norreno le due divinità si ripartivano la classe dei guerrieri. Sembra che anche alcune donne non combattenti potessero finire a fólkvangr dopo la morte, come si può leggere nella Egils saga, un racconto epico medievale che narra la vita di un contadino islandese diventato vichingo. Nella saga, la figlia di Egil annuncia la sua intenzione di lasciarsi morire di fame, e afferma che a questo scopo non mangerà finché non sarà seduta nella sala di Freya. Anche altre divinità, come per esempio Thor, avevano le loro grandi sale ad Asgard. È probabile che anche in questi mondi si potesse trascorrere la vita oltre la morte, per quanto non si sappia quasi nulla in proposito. In alcune tombe sono stati trovati grandi anelli di ferro con pendagli a forma del famoso martello di Thor, che venivano posti intorno alle urne con le ceneri dei defunti e inseriti all’interno del corredo funebre come segno di un legame con il dio anche dopo la morte. Come si può vedere, i vichinghi avevano diverse credenze sull’aldilà. Per la popolazione era normale credere a molteplici forme di oltretomba, che potevano essere governate dai propri antenati o dagli dei, ed erano situate nel mondo di Asgard oppure sotto tumuli e montagne. Probabilmente l’immagine che ciascuno aveva dell’aldilà dipendeva da molti fattori, come il contesto familiare, la posizione sociale, lo stile di vita e il luogo di residenza. La società vichinga era plurale come i percorsi che i suoi membri seguivano dopo la vita terrena. IRENE GARCÍA LOSQUIÑO RICERCATRICE IN STUDI SCANDINAVI PRESSO L’UNIVERSITÀ DI ABERDEEN
Per saperne di più
TESTO
Edda Snorri Sturluson. Adelphi, Milano, 1975. SAGGIO
Gli dei vichinghi. Religione e miti di un popolo guerriero Edward O. Turville-Petre. Ghibli, Sesto San Giovanni (MI), 2016. RAGAZZI
Le più belle storie dei vichinghi e dei miti nordici L. Cingoli, E. Belotti. Gribaudo, Milano, 2020.
ALAMY / ACI
Gerdrup, zombie vichinghi?
IL PODEROSO THOR
Il dio è raffigurato con il suo martello mjolnir, “il frantumatore”, forgiato dai nani Eitri e Brokkr. Illustrazione di una versione islandese del XVIII secolo dell’Edda in prosa, di Snorri Sturluson. Det Kongelige Bibliotek, Copenaghen.
L’ALHAMBRA DI GRANADA
Situato ai piedi della Sierra Nevada, il palazzo-fortezza dell’Alhambra domina Granada dalla cima del colle della Sabika. L’immagine mostra il settore di epoca nasride e, sulla destra, il palazzo rinascimentale di Carlo V. SHUTTERSTOCK
MUHAMMAD V, IL GRANDE SULTANO DELLA
ALHAMBRA Nel XIV secolo Muhammad V consolidò il potere del regno nasride e fece costruire alcune delle sale più sontuose del palazzo dell’Alhambra
ORONOZ / ALBUM
RE NASRIDE RAFFIGURATO SULLA VOLTA DELLA SALA DEI RE NELL’ALHAMBRA DI GRANADA. PITTURA CRISTIANA SU PELLE. XV SECOLO.
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ttavo sultano nasride di Granada, Muhammad V lasciò un segno profondo nella città e nella storia dell’ultimo regno andaluso. Il suo governo di trentasette anni fu uno dei più lunghi della dinastia, anche se non fu privo d’interruzioni e difficoltà. Deposto da una congiura di palazzo, trascorse diversi anni a Fez, nell’attuale Marocco, prima di riconquistare il potere con l’aiuto del re Pietro I di Castiglia. Superato questo scoglio, Muhammad V riuscì a rafforzare i confini del suo regno assicurandosi al tempo stesso l’amicizia e i consigli di grandi eruditi, e trasformò Granada in una delle capitali culturali ed economiche del Mediterraneo. Il sultano appose il suo sigillo sul palazzo dell’Alhambra con la costruzione della corte dei Leoni, che è diventata la sua eredità più emblematica. Muhammad salì al trono dopo l’assassinio del padre Yusuf I da parte di un folle che gli si era scagliato improvvisamente addosso mentre pregava nella principale moschea di Granada. O almeno questa è la versione di Ibn al-Khatib, storico e visir della corte di Yusuf I. Secondo altre fonti, invece, si sarebbe trattato di una congiura di palazzo. Muhammad proseguì
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SHUTTERSTOCK
LA CORTE DEI LEONI
Questa splendida corte presieduta da una fontana circondata da 12 figure di leoni fu costruita da Amir Muhammad V nel 1362. Vista dalla sala dei Re.
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L’APOGEO DEL REGNO NASRIDE 1339 Muhammad V nasce nell’Alhambra. Suo padre è il sultano nasride Yusuf I e sua madre la schiava Butayna.
1354 Dopo l’assassinio del padre, Muhammad V diventa il nuovo sultano di Granada a soli 15 anni.
1359 Deposto da una congiura di palazzo, Muhammad V si rifugia a Fez, capitale del sultanato merinide.
1362 Dopo aver riconquistato il trono, intraprende dei lavori di ampliamento dell’Alhambra, all’apogeo del regno nasride.
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Muore all’età di 52 anni per ragioni sconosciute. Gli succede il primogenito Yusuf II.
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DINAR CONIATO A GRANADA DURANTE IL REGNO DI MUHAMMAD V. FÁBRICA NACIONAL DE MONEDA Y TIMBRE, MADRID.
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inizialmente la politica di governo del padre, caratterizzata da buone relazioni con il re Pietro I. In quel periodo Granada era tributaria e alleata militare della Castiglia. Ibn al-Khatib, che continuò a occupare la carica di visir anche durante il regno di Muhammad, non risparmia le lodi al suo signore: «Questo sultano era unico tra i re in quanto a magnificenza, coraggio e fermezza», dichiarava, elogiandone «la solida intelligenza, rigidità, astuzia, grande prudenza e assoluta esperienza».
Esilio a Fez
LA CORTE DEI MIRTI
Situato ai piedi della torre di Comares, questo cortile interno conduceva, attraverso un portico a sette archi, alle sale dove si svolgevano le cerimonie più importanti della corte nasride. 86 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
SHAUN EGAN / GETTY IMAGES
Quattro anni dopo l’assassinio di Yusuf I, una congiura di palazzo mise sul trono Ismail, il fratellastro minore di Muhammad. Sua madre Maryam – o Rim –, la moglie preferita del defunto sultano, il giorno stesso della morte del marito si era impadronita di alcuni gioielli del tesoro reale che si trovavano nella stanza del defunto. Da allora la donna, Ismail e le sue sorelle vivevano confinati in uno dei palazzi dell’Alhambra per ordine di Muhammad, che probabilmente diffidava della loro lealtà. L’isolamento non impedì però a Maryam di organizzare un piano per deporre il nuovo sultano. A tale scopo poté contare sulla complicità del genero Muhammad al-Ahmar, che le faceva visita di frequente. Quando scoppiò la congiura, per sua fortuna Muhammad si stava dirigendo verso il palazzo di Generalife, riuscendo così a evitare una morte certa. In seguito si rifugiò a Fez, dove fu accolto dal nuovo sultano merinide (la dinastia che governava il Marocco) grazie ai contatti provvidenziali di Ibn al-Khatib. Lo accompagnarono il figlio di appena tre anni – il principe Yusuf – e la moglie. I tre anni di esilio a Fez si rivelarono importanti per il nuovo monarca, che in quel periodo imparò a maneggiare le leve del potere. Rafforzò i legami con i merinidi e strinse anche un’alleanza con il re castigliano Pietro I per tornare a Granada e rovesciare Muhammad al-Ahmar, che nel frattempo aveva fatto assassinare il cognato Ismail.
GRANADA NEL XIV SECOLO
Questa illustrazione ricostruisce l’aspetto di Granada durante il regno di Muhammad V. A sinistra si vedono l’Alhambra e il Generalife e, dall’altra parte del fiume Darro, il centro e i borghi cinti dalle mura della città rifondata nell’XI secolo. ILLUSTRAZIONE: MIGUEL SOBRINO. SUPERVISIONE STORICA: ANTONIO ORIHUELA
BUM / AL NOZ ORO
VASO DELLE GAZZELLE. REALIZZATO NEI LABORATORI DELL’ALHAMBRA.
Pietro I esercitò di conseguenza una forte pressione militare sul regno di Granada. Ormai alle strette, nel tentativo di raggiungere un accordo al-Ahmar si presentò con parte del tesoro nasride di fronte al monarca castigliano, ma questi lo umiliò pubblicamente facendolo imprigionare e infine lo uccise con le sue stesse mani. Fu così che nel 1362 Muhammad poté recuperare il trono di Granada.
Il nuovo re nasride A partire da quel momento il sultano si dedicò a consolidare il suo potere con la collaborazione essenziale di Ibn al-Khatib. Mentre in patria riusciva a piegare l’opposizione di alcuni maggiorenti, Muhammad non perdeva di vista ciò che accadeva oltre i confini del regno. Il suo principale sostenitore, il sovrano Pietro I, fu presto coinvolto in una nuova guerra contro il fratellastro Enrico di Trastámara, in cui avrebbe trovato la morte. Muhammad seppe approfittare della situazione. Le fonti arabe lodano la gestione militare del sultano, che combatteva alla testa dei suoi uomini saccheggiando e riconquistando diverse città di confine mentre al contempo tesseva una delicata trama diplomatica con la Castiglia, l’Aragona, il Portogallo e il Marocco. Alla fine Muhammad firmò con il nuovo re castigliano
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AKG / ALBUM
NEL PALAZZO DEL SULTANO
Quest’olio del pittore orientalista Benjamin Constant è ispirato alle visite che l’autore fece al palazzo dell’Alhambra. XIX secolo. Utah Museum of Fine Arts.
/A LBU M ASF
SITULA, O VASO PER ATTINGERE L’ACQUA, TROVATA NELL’ALHAMBRA. MAN, MADRID.
SALA DELLE BIFORE
Sulla parete nord di questa sala, collegata a quella delle Due Sorelle, ci sono due balconi identici che si affacciano sul giardino. L’ambiente fa parte del complesso eretto per volere di Muhammad V. 92 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
LUCAS VALLECILLOS / ALAMY / ACI
Enrico una tregua che gli permise di rafforzare la sua posizione: non solo riuscì a garantire la sopravvivenza del regno nasride, ma lo portò alla fase di massimo splendore. Il ministro Ibn al-Khatib, dal canto suo, non poté approfittare a lungo di questa ritrovata magnificenza della corte nasride. Dopo la firma della pace con la Castiglia una serie di eventi ancora poco chiari lo fece cadere in disgrazia. Coinvolto in diversi intrighi di palazzo, il cronista fu vittima dei suoi nemici a corte e dei disaccordi con il sultano. Il colpo di grazia fu il tradimento del suo stesso discepolo, il poeta Ibn Zamrak che, sebbene gli dovesse tutto, non si fece scrupoli a raggiungerlo a Fez, dove il ministro si era autoesiliato: su ordine di Muhammad V, Zamrak fece arrestare il suo vecchio maestro per eresia, quindi inviò dei sicari a strangolarlo in cella. Parte essenziale della politica di Muhammad per consolidare il suo regno furono i lavori intrapresi nell’Alhambra, che miravano a fare del palazzo nasride un’espressione del suo potere. Ibn al-Khatib in una poesia rimproverò al sultano la sua smania di costruire: «E tu, Muley, non mi presti attenzione, perché cammini sotto impalcature e ponteggi, tra sacchi di stucco e mattoni e carri che portano lastre di pietra». Muhammad portò avanti il
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MET / ALBUM
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AZULEJO CHE FACEVA PARTE DELLA PAVIMENTAZIONE DELL’ALHAMBRA DI GRANADA, FORSE DEL VESTIBOLO DEL PALAZZO DI COMARES. XV SECOLO. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK.
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suo progetto con determinazione e lasciò la sua impronta su alcuni degli spazi più significativi della fortezza nasride dal punto di vista artistico. Ne sono esempi il palazzo dei Leoni – compresa la famosa corte con la fontana e i dodici leoni –, e le sale degli Abencerrajes, dei Re e delle Due Sorelle. Gli ampliamenti realizzati dal sultano conferiscono al palazzo dell’Alhambra caratteristiche originali nell’ambito dell’architettura andalusa, che sembrano rispondere alle influenze nordafricane assorbite dal monarca durante l’esilio a Fez. Lo si può notare soprattutto negli intonaci, negli arabeschi e negli azulejos – piastrelle – policromi che decorano le sale principali in cui Muhammad trascorse la sua vita pubblica e privata, e che sono caratterizzati da vari motivi naturalistici e geometrici, così come da elementi epigrafici che riproducono poesie di Ibn Zamrak.
Il sultano avrebbe avuto la sua residenza nella parte orientale del palazzo di Comares, in una stanza scelta, orientata verso ponente, con un accesso e una vista privilegiati sulla corte dei Leoni e dotata persino di un gabinetto. Al piano inferiore c’erano dei bagni, dai quali forse si diramava un sistema di riscaldamento che ne sfruttava l’aria calda per temperare i rigori dell’inverno di Granada. La parte amministrativa e giudiziaria del palazzo si trovava nelle vicinanze, intorno alla corte di Machuca e al Mexuar, lo spazio dove aveva luogo la vita pubblica e amministrativa. Sembra che lì ci fosse anche il dispositivo per misurare il trascorrere 94 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
ILLUSTRAZIONE: MIGUEL SOBRINO. SUPERVISIONE STORICA: ANTONIO ORIHUELA.
Un progetto personale
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L’ALHAMBRA E LE SALE MAESTOSE DEL SULTANO
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Coloro che erano invitati all’Alhambra correvano il rischio di perdersi in un intrico di corridoi e corti. I visitatori arrivavano in una piazza 1 ai piedi della torre dell’Omaggio. Dopo aver attraversato un’area burocraticoamministrativa 2, giungevano alla corte di Machuca 3 da cui si accedeva alla sala quadrata del Mexuar 4 e alla corte della Stanza dorata 5, anticamera del vero e proprio ingresso del palazzo.
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Una volta che avevano attraversato altre sale e corridoi, raggiungevano la maestosa corte di Comares, o dei Mirti 6, che dava accesso alla torre di Comares 7, dove si trovava la sala degli Ambasciatori.
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Dallo stesso patio era possibile proseguire fino alla corte dei Leoni 8, il cuore dell’Alhambra. Tutto intorno si estendevano le stanze più sontuose del palazzo, come la sala delle Due Sorelle 9, la sala dei Re a e la sala degli Abencerrajes b. L’ALHAMBRA NEL XIV SECOLO
Il disegno mostra l’aspetto del palazzo dell’Alhambra al tempo del sultano Muhammad V.
VERANDA DI LINDARAJA
Quest’appendice della sala delle Due Sorelle, costruita durante il regno di Muhammad V, è decorata con una variegata serie di azulejos e stucchi policromi.
del tempo descritto da Ibn al-Khatib. Lo storico e consigliere del sultano menziona anche la festa del Mawlid (la nascita di Maometto) del 1362, che venne celebrata proprio nel Mexuar. Il palazzo dei Leoni è il cuore dell’Alhambra e rappresenta il grande progetto di Muhammad V. La sala dei Re, con i suoi magnifici dipinti, ospitava la biblioteca, mentre quella degli Abencerrajes era uno spazio per la preghiera. La sala delle Due Sorelle aveva probabilmente differenti usi: nella parte inferiore, studiosi e letterati come Ibn al-Khatib e Ibn Zamrak disponevano di spazio sufficiente per lavorare e discutere, mentre la parte superiore, costituita dalla sala degli Ajimeces e dal patio de la Lindaraja, era riservata al sultano, secondo quanto attestano le iscrizioni. Le stanze attorno alla corte dei Leoni non sarebbero state dedicate a feste e intrattenimenti, come solitamente sostenuto da una certa mentalità romantica e orientalista. Secondo l’ipotesi di Juan Carlos Ruiz Souza, invece, queste zone rappresentavano una madrasa di palazzo, uno spazio dedicato allo studio. L’Alhambra può essere considerato il progetto personale di Muhammad V e la sua eredità ai posteri. Alla fine quel regno che tanto gli era costato recuperare e rafforzare fu conquistato dai suoi avversari. Suo figlio e successore Yusuf II morì avvelenato dopo appena un anno di governo, probabilmente per mano del suo stesso nipote. Cent’anni più tardi Muhammad XII, noto ai cristiani come Boabdil, consegnò Granada ai re cattolici e andò in esilio. Ma l’Alhambra, l’opera di Muhammad V, è ancora lì, pronta a stupire tutti coloro che la visitano.
Per saperne di più
SAGGIO
Andalusia. Viaggio nella terra della luce Franco Cardini. Il Mulino, Bologna, 2018. NARRATIVA
I racconti dell’Alhambra Washington Irving. Studio Tesi, Roma, 2016.
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MARTIN SIEPMANN / AGE FOTOSTOCK
JORGE ELICES OCÓN STORICO
VENEZIA ERA UNA FESTA
Casanova (ritratto da giovane qui a fianco) assistette a spettacoli nella sua città natale. Tra questi, la regata rappresentata da Canaletto intorno al 1740 (a destra). RITRATTO: BRIDGEMAN / ACI. PAESAGGIO: SCALA, FIRENZE
CASANOVA A
VENEZIA
Colto, raffinato e amante di ogni piacere, il giovane Giacomo Casanova visse incredibili avventure nella sua città natale, finché il suo ardire gli costò la prigione e l’esilio
PIAZZA SAN MARCO
Lo splendore della Venezia del XVIII secolo era quello di una città in declino. Nell’immagine, vista aerea della città con piazza San Marco e l'omonima basilica in primo piano. MICHELE FALZONE / AWL IMAGES
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el XVIII secolo Venezia vanta un millennio di storia, è ricchissima e potente, e solo Parigi può contenderle lo scettro di capitale del piacere e dello spirito. Tuttavia, mentre la capitale francese è al culmine ascendente della sua potenza, quella lagunare è sul ciglio del collasso, anche se lo sfarzo che ostenta impedisce a chiunque di accorgersene.
Nella parrocchia di San Samuele, il 2 aprile del 1725 nasce un personaggio la cui vita diventerà un’icona per Venezia: Giovanni Giacomo Casanova. La madre, Zanetta Farussi, è un’attrice di successo, che ispira persino Goldoni, e annovera fra i suoi amanti diversi aristocratici di spicco, fra cui il principe di Galles e il conte veneziano Grimani. Sarebbe quest’ultimo, e non Gaetano – anche lui attore e marito di Zanetta – il vero padre di Giacomo. Come primo ambiente Casanova conosce dunque il teatro, una vita eccentrica e mondana fra l’andirivieni dei genitori in tournée, durante le assenze dei quali viene cresciuto dalla nonna. È un ragazzino gracile, che viene mandato a Padova a studiare i classici e poi iscritto alla facoltà di legge, anche se lui avrebbe preferito la medicina. A sedici anni si laurea, dice nelle sue memorie (ma dagli archivi non risulta), e torna a Venezia come giovane abate. La carriera ecclesiastica non è una vocazione, bensì l’unica via che possa permettere a un popolano una dignitosa, seppur limitata, ascesa sociale. Viene assegnato proprio alla parrocchia di San Samuele, dove tutti si stupiscono nel vederlo tornare in vesti religiose e nella quale si distingue per le omelie esuberanti.
C R O N O LO G I A
ASCESA DI UN PLEBEO
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L’abito talare, unito agli studi classici che tanto ama (conosce a memoria le opere di Orazio), gli permette l’accesso al bel mondo della nobiltà. Lui, nato umile, intelligente e dai modi raffinati, vive le contraddizioni di una Venezia arroccata nell’aristocrazia ma dipendente dall’intraprendenza commerciale dei borghesi e dalla manovalanza del “popolino”. È a disagio con entrambi i mondi – troppo gretto l’uno che si sveglia all’alba al rintocco della Marangona, la campana del campanile di San Marco, irraggiungibile l’altro che all’alba ha appena finito la baldoria – e contemporaneamente ben inserito in ciascuno di essi, capace di passare senza sforzo dall’uno all’altro.
SIMBOLO DELLA REPUBBLICA
Il leone alato è la rappresentazione dell’evangelista san Marco e venne adottato come simbolo della Serenissima. Ancora oggi è emblema della città.
Aristocratici e plebei Ciò che colpisce di Venezia – e che aiuta l’ascesa di Casanova – è che sia una società rigidamente divisa per ceti, sebbene tra essi ci sia una disinvolta promiscuità. Nelle calli e nelle piazze si mischiano patrizi, borghesi e religiosi e l’aristocrazia veneziana è affabile, ciarliera e tratta con familiarità il popolo, con cui conversa volentieri e di cui tiene a battesimo i figli. Anche nella vita di tutti i giorni i gusti in cucina sono simili: pesce grigliato,
1725
1746
1755
1798
Giacomo Casanova nasce a Venezia da una coppia di attori e cantanti.
Casanova salva la vita del patrizio Matteo Bragadin, che diventa il suo protettore.
Accusato d’ateismo, è rinchiuso nei Piombi, da cui scappa dopo 15 mesi.
Muore in un castello della Boemia, senza aver terminato le sue memorie.
MEMORIE DI CASANOVA. PRIMA EDIZIONE FRANCESE ORIGINALE. ALAMY / ACI
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IN MASCHERA
Il vestito di carnevale veneziano, o bauta, era costituito da un mantello nero (in seta o velluto), un cappuccio, un cappello – spesso a tre punte – e la maschera o larva. Colloquio tra baute, di Pietro Longhi. 1760. Ca’ Rezzonico, Venezia. SCALA, FIRENZE
PRIMA DI CONOSCERE BRAGADIN, quando aveva solo 14 anni, Casanova ebbe modo di relazionarsi con un altro grande patrizio veneziano, il senatore Alvise II “Gasparo” Malipiero. A più di 70 anni Malipiero «godeva di una vita felice circondato ogni notte da un gruppo ben scelto di dame». Iniziò il suo giovanissimo protetto alle maniere della buona società e della galanteria. UNA SALA DI PALAZZO MALIPIERO, DOVE CASANOVA VISSE SOTTO LA PROTEZIONE DEL SENATORE.
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I GIOIELLI ERANO UNA DELLE GRANDI PASSIONI DELLE DONNE VENEZIANE. ORNAMENTO ESPOSTO AL MUSEO CORRER, VENEZIA.
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che i veneziani – e le veneziane – si contendono. Ha già avuto le prime esperienze sessuali, alcune rocambolesche – la sua prima volta che era stata addirittura a tre, con due contessine vergini quando era abate – e da qui in poi decolla la sua fama di libertino. Difatti, se di facciata Venezia è rigidamente controllata dalla morale cattolica, in realtà è in fase di totale lascivia dei costumi, più o meno come immaginiamo la decadenza della Roma antica. Le donne aristocratiche sono bellissime, allegre, gentili, portano scollature profondissime («esente misteri», nota un contemporaneo), e sono adornate di rubini balasci, diamanti, zaffiri e smeraldi a profusione. È difficile incontrare una dama
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Con lui Casanova usa il suo fascino, si spaccia per medico («sparavo precetti e citavo autori che non avevo letto», scriverà nella sua autobiografia) e improvvisa espedienti magici appresi dalla nonna, appassionata di stregoneria. Si guadagna così il favore di Bragadin e della sua cerchia di amici. Tutti pendono dalle sue labbra e dalle sue stravaganti teorie numerologiche, che millanta essere basate sulla cabala. Questo tratto è una caratteristica di tutto il XVIII secolo, e che a Venezia ha grande appiglio: è l’epoca di personaggi come il conte di Saint-Germain e Cagliostro, in cui razionalismo e occultismo vanno a braccetto e la magia ha contagiato la società a tutti i livelli. Stregato dallo charme di Casanova, Bragadin l’adotta e l’invita a vivere con lui. Uno dei più pii e rispettati patrizi di Venezia si prende in casa un poco di buono raccolto in strada! È il 1746, Casanova ha ventun anni e la vita gli sorride. Nutre un affetto sincero per Bragadin, che gli paga i conti e gli spalanca i salotti dell’aristocrazia. È diventato un ragazzo alto, imponente, seducente, colto; è una perla rara
IL MAESTRO DI CASANOVA
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Adottato da un patrizio
MARK E. SMITH / SCALA, FIRENZE
anguille stufate, maccheroni, crostacei, pesci di fiume come storioni, trote e tinche. Casanova capisce bene questo lato affabile della nobiltà e attende l’occasione giusta per emergere. È giovane e irrequieto, presto smette gli abiti religiosi. Viaggia molto e si arruola brevemente nell’esercito, quindi torna a Venezia dove vive suonando il violino in un’orchestra e frequenta cattive compagnie, richiamando più volte l’attenzione delle guardie. La sua potrebbe essere una storia anonima e perduta se non possedesse un brillio che intriga chi lo circonda. E poiché a Venezia ogni ascesa passa per la via dell’aristocrazia, l’occasione di Casanova si presenta quando raccoglie una lettera scivolata fuori dalla tasca di un signore. Conversando, i due salgono assieme in gondola, e durante il viaggio l'uomo ha un infarto. Giacomo l’accompagna a casa e resta al suo fianco pure dopo l’arrivo dei medici e degli amici. La sorte gli ha fatto incontrare Matteo Bragadin, esponente della più antica nobiltà veneziana.
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VENEZIA E IL MARE
Il giorno dell’Ascensione (festa della Sensa) aveva luogo la cerimonia del bucintoro, in cui il doge rinnovava lo sposalizio di Venezia con il mare. La festa riuniva l’intera città. Canaletto rappresentò questa giornata in diversi suoi quadri. SCALA, FIRENZE
CITTÀ TEATRALE
Inaugurato nel 1792, il Teatro La Fenice divenne la principale sala d’opera di Venezia dopo l’incendio del teatro di San Benedetto, che era stato costruito nel 1755.
SHUTTERSTOCK
L’AMORE NON È UNA BAGATELLA AL CONTRARIO del protagonista dell’opera di Wolfgang Amadeus Mo-
zart, Don Giovanni (1787), per cui la conquista è una fierezza numerica («Ma in Ispagna son già mille e tre»), per Casanova ogni relazione è come la prima: s'innamora ogni volta salvo poi ricredersi perché «potrei trovarmi obbligato a sposarmi, cosa che temo più della morte». CASANOVA ED ESTHER A PARIGI. ILLUSTRAZIONE DI AUGUSTE LEROUX NELLE MEMORIE DI CASANOVA.
FIRENZE
Venezia non è una festa ma parte integrante del modo di vivere, lo aiuta a superare le sue inibizioni. All’epoca cominciava in ottobre e durava almeno cinque mesi, durante i quali le maschere abbondavano nelle calli e chiunque puoteva spacciarsi per chiunque: una manna per un ingannatore come Casanova. Le maschere sono onnipresenti nelle sue memorie: gli permettono di volteggiare fra gli ambienti, lo fanno sentire meno inadeguato fra gli aristocratici e più misterioso con i popolani, e sono una delle chiavi delle sue avventure e delle sue tresche. Il punto di ritrovo di questa baldoria è piazza San Marco. Qui, tra un ballo e l’altro, su palcoscenici improvvisati vengono inscenati commedie, concerti, rappresentazioni teatrali,
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Giacomo sguazza in questa Venezia promiscua. Crede infatti che «la fortuna esercita il suo potere su tutti i mortali, purché siano giovani», e vuole approfittarne fino in fondo. Frequenta i teatri, dei quali conosce ogni aspetto perché ci è nato. Più che per passione, ci va per farsi vedere e intessere relazioni. I teatri veneziani sono un marasma indicibile: nei palchi gli aristocratici intrallazzano e si abbandonano a sconcezze, mentre nella platea il “popolino” schiamazza come in un’arena, e non è raro che gli attori scappino per salvare la pelle dopo una brutta esibizione. Casanova non è più un ragazzino. «Non [mi] piacevano le donne maritate, ero così stupido da essere geloso dei loro mariti», scriverà poi dei suoi primi passi nella seduzione. Nei teatri e in tutta Venezia fa adesso strage di cuori. Tuttavia, nonostante a Casanova le aristocratiche piacciano, il popolano che è in lui ne è ancora intimidito: resta sospeso fra le sue origini e il bel mondo che frequenta. Cerca di fare il grande salto, ma si vede sbarrato il passo dall’aristocrazia che lo tiene accanto a sé per divertirsi, ma pur sempre ai margini, alla stregua di un buffone. «Un uomo nato a Venezia da poveri parenti, senza beni di fortuna, e senza nessuno di que’titoli», dirà di sé. E infatti quando c’è da scegliersi un’amante, preferisce le donne del popolo, meglio se fanciulle tra i quattordici e i diciotto anni. Per fortuna il carnevale, che a
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La Venezia promiscua
MARY EVANS / SCALA, FIRENZE
con meno di cinquecento ducati in gioielli addosso, tanto che, per mantenere le apparenze, le famiglie decadute li prendono in affitto. Non avere l’amante è una cosa di cui vergognarsi. Cardinali e prelati non fanno eccezione e tutti i nobili mantengono giovanissime cortigiane che infine riescono a trovare marito tra i nuovi ricchi. Nemmeno le monache si sottraggono a queste tresche: uno dei più grandi amori di Casanova è proprio una religiosa, chiamata M.M. nelle sue memorie per preservarne l’anonimato. M.M. ha già un amante, un religioso diplomatico francese con cui Casanova organizza un’orgia, coinvolgendo una seconda monaca con la quale forse aveva già avuto qualche incontro sessuale. Una gran confusione.
CALICE IN VETRO VENEZIANO, MANIFATTURA CARATTERISTICA DELLA CITTÀ LAGUNARE. VICTORIA AND ALBERT MUSEUM, LONDRA.
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IL RIDOTTO DI PALAZZO DANDOLO A SAN MOISÈ
Di Francesco Guardi, 1746. Ca’ Rezzonico, Museo del settecento veneziano.
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GIOCO DELLA ROULETTE VENEZIANA DEL XVIII SECOLO. CASINÒ DI VENEZIA.
LA CITTÀ DEI CASINÒ
SCALA, FIRENZE
ra uno dei passatempi preferiti degli abitanti di Venezia e di chi visitava la città. Esistevano luoghi speciali dedicati al gioco detti ridotti, come quello ubicato a palazzo Dandolo, che Francesco Guardi rappresenta in quest’olio. Dietro le porte aperte s’intravedono le sale da gioco, anche se il pittore
non mostra cosa vi accade. Le carte a terra suggeriscono che venissero utilizzate per giocare, e alcune persone sembrano cambiare denaro per fiches. Nello spazio centrale uomini e donne si confondono tra di loro e conversano. La maggior parte indossa una maschera: la bauta completa (mantello, cappuccio e larva), la so-
la larva o la moretta rotonda. Pochi, di condizione patrizia, sono a volto scoperto, con una parrucca lussuosa. Compaiono inoltre tre personaggi del teatro: un Arlecchino ancora bambino sulla sinistra gioca con un cane. Poco più in là si trova Pulcinella, con indosso il cappello allungato, e sulla destra Colombina che suona un liuto.
REPUBBLICA MONARCHICA
Il governante supremo di Venezia, il doge o doxe, era eletto tra l’oligarchia che controllava la repubblica con pugno di ferro. Nell’immagine, interno del palazzo Ducale. FRANK LUKASSECK / FOTOTECA 9X12
IL PALAZZO del governo di Venezia aveva tre zone carcerarie: i Piom-
bi, situati in alto, così chiamati perché avevano il tetto ricoperto di piombo; i Pozzi, celle umide e fredde nei sotterranei, e le Prigioni Nuove, che avevano condizioni migliori e accoglievano pure gli studi dei magistrati penali, detti Signori di Notte. UN CORRIDOIO E DIVERSE CELLE DELLE PRIGIONI NUOVE VENEZIANE.
LA MONETA DELLA LAGUNA
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Ducato d’oro veneziano coniato all’epoca del doge Francesco Loredan (1752-1762), sotto il cui governo venne incarcerato Casanova.
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Da tempo Bragadin ammonisce il suo pupillo per aver attirato troppo l’attenzione dei bigotti, ma Casanova non se ne cura poiché, essendo dottore in legge, sa di non averne infranto alcuna. Tuttavia non è di legge che a Venezia si parla, ma d’arbitrio aristocratico. E quel plebeo imbellettato che scorrazza nei salotti ha infastidito molti mariti nobili. A ventinove anni viene prelevato dai gendarmi, che gli fanno attraversare il ponte dei Sospiri e lo chiudono nei Piombi, le celle per i personaggi altolocati ricavate nelle soffitte del palazzo del governo e così chiamati perché hanno il soffitto rivestito di piombo. Poteva andargli peggio, poteva finire nei Pozzi, le celle che – lo descrive lui stesso – si trovano appena sotto il livello del mare. Qui i malcapitati scontano l’ergastolo nell’acqua fredda e salmastra fino al ginocchio
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È una vita dissipata che dura anni, e nel frattempo le conquiste amorose di Casanova sono decine. Tanto libertinaggio non può passare inosservato, nonostante la protezione di Bragadin. Non inganni l’affabilità della nobiltà: in realtà Venezia, benché si chiami repubblica, è retta da un’oligarchia dalla nera reputazione, il consiglio dei Dieci, un’assemblea di dieci aristocratici eletti annualmente che ha un potere quasi assoluto. Se infatti la nobiltà ha totalmente abdicato il potere economico ai borghesi, ha tenuto ben saldo quello politico. Questo governo repressivo incute timore a chiunque, persino a Bragadin, che pure in passato è stato inquisitore. In un mondo di schiavi, cortigiane e giocatori d’azzardo, le pene comminate dai Dieci possono essere ferocissime: un secolo prima di Casanova, tre bestemmiatori erano stati condannati al taglio della lingua e della mano destra e privati degli occhi; gli omicidi venivano giustiziati a bastonate (descopati) e poi squartati, i sodomiti decapitati e poi bruciati, i pedofili arsi vivi.
LE PRIGIONI DI VENEZIA
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Scandalo e prigione
SHUTTERSTOCK
ma anche incontri di lotta e pugilato. Affluiscono inoltre gli astrologi e gli imbonitori e non mancano gli eventi da brivido, con tori che vengono decapitati o con poveri orsi incatenati a un palo attraverso il palato, oppure grotteschi, come le lotte in gabbia tra gatti furibondi e contadini rasati che cercano di ammazzarli a testate. Come ogni giovanotto spavaldo e mondano, Casanova si appassiona al gioco d’azzardo, e le conseguenze sono nefaste. Si gioca nei “ridotti”, appartamenti adibiti a tale scopo. Alcuni sono di bassa lega e altri lussuosissimi, come quello aperto nel 1630 dal patrizio Marco Dandolo, con dieci o dodici stanze di tavoli affollati, dove il silenzio è assoluto e la clientela selezionata. Tutti, nel bel mondo di Venezia, dissipano intere fortune in nottate ai tavoli da gioco e Casanova non è tipo da tirarsi indietro. Bragadin non basta a saldare i conti: Giacomo accumula debiti piramidali per pagarne altri, sempre barcamenandosi con affari più o meno leciti e non disdegnando di farsi prestare denaro o gioielli dalle sue amanti.
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IL CANAL GRANDE
Palazzi, magazzini e chiese si alternano su entrambi i lati del Canal Grande, l’arteria principale di Venezia, da cui si snoda una rete di più di 200 canali minori. Nell’immagine, l’ingresso del canale, con sullo sfondo la basilica di Santa Maria della Salute, costruita a metà del XVII secolo. SHUTTERSTOCK
CAMMINO SINISTRO
Vista del rio di Palazzo con in fondo il ponte dei Sospiri, che ogni detenuto doveva percorrere quando era condotto nelle segrete del palazzo Ducale. Così fece pure Casanova. GUIDO BAVIERA / FOTOTECA 9X12
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e si contendono il cibo con enormi ratti. Come da prassi, non gli vengono comunicate né l’accusa, da cui comunque non potrebbe difendersi perché non c’è nessun processo, né la durata della detenzione. A tal punto arriva l’arbitrio. «Era stato testimoniato che quando perdevo soldi al gioco, invece di bestemmiare Dio, bestemmiavo il Diavolo. Ero accusato di mangiare grasso ogni giorno, di andare solo alle messe eleganti e c’erano indizi che fossi massone», questa l’unica informazione che riceve. Casanova non è certo un rivoluzionario, quanto piuttosto un difensore dello status quo. Tuttavia in quest’occasione scoppia di furore: «Ardevo dal desiderio di vendicarmi. Già mi pareva di stare alla testa del popolo per sterminare i governanti e massacrare gli aristocratici», scriverà nelle memorie. Ma poi si rasserena e medita la fuga rocambolesca, che avverrà quindici mesi dopo, forse l’episodio più celebre della sua vita: perfora il tetto della cella per uscire tranquillamente dalla porta.
IL CONFORTO DELLA SCRITTURA ISOLATO NEL CASTELLO DI DUX, in Boemia, Casanova decise di lottare contro la frustrazione dedicandosi alla scrittura. «Scrivo La mia vita per ridere di me, e ci riesco», commentò. Lavorando per dieci o anche 12 ore al giorno compilò più di quattromila pagine delle Memorie scritte da lui medesimo. L’opera rimase incompiuta.
Esilio e decadenza Seguono diciott’anni di vita avventurosa, di viaggi, d’inganni, di seduzioni a spasso per l’Europa. Man mano che invecchia (una punizione indicibile per Casanova, che venera la giovinezza), s’inasprisce la nostalgia per la sua Venezia. Ha quasi cinquant’anni quando gli viene concesso di tornare in patria, ed è un uomo completamente diverso. Bragadin è morto e lui non ha potuto neanche salutarlo, ha perso il furore erotico e si piega a diventare un informatore segreto dell’Inquisizione, lo stesso organo che l’aveva incarcerato, pur di restare a Venezia. Ma la nuova città non gli piace: rimpiange la società sfavillante dei suoi vent’anni, quell’eterno carnevale, le quadriglie galanti, i balli sul Canal Grande. Daltronde è ossessionato dall’idea di cadere di nuovo in disgrazia e di dover lasciare, stavolta per sempre, la città in cui spera di morire. Fa una vita relativamente tranquilla, eppure l’orgoglio non l’ha abbandonato e un semplice diverbio con un patrizio lo costringe nuovamente all’esilio. Accetta così un impiego da bibliotecario in un castello della Boemia dove si rinchiude per dodici anni a scrivere
GIACOMO CASANOVA. INCISIONE PRESENTE IN UN’EDIZIONE DELLE MEMORIE DEL 1930 CIRCA.
le sue memorie per riviverle. «Oggi godo di una salute di ferro di cui mi piacerebbe ancora far scempio, se l’età non me lo impedisse», annota. Morirà nel 1798, un anno dopo che Napoleone avrà messo fine alla libertà di Venezia, della quale la vita di Casanova è stata un simulacro: nato povero, grazie all’astuzia diventò famoso e si arricchì, ma aveva le mani bucate e si spense in mani straniere. GIORGIO PIRAZZINI STORICO
Per saperne di più
TESTI
Memorie scritte da lui medesimo Giacomo Casanova. Garzanti, Milano, 2015. Il duello Giacomo Casanova. Luni, Milano, 2019. Le donne e gli amori Giacomo Casanova. RCS, Milano, 2010. SAGGI
Casanova. Storia di un filosofo del piacere e dell'avventura Roberto Gervaso. Rizzoli, Segrate (MI), 2002.
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Nelle sue memorie Casanova racconta senza veli le molteplici conquiste amorose, ma anche la passione per il gioco, l’interesse per la magia, la famosa fuga e una strana notte al cimitero.
CASANOVA CON LA SUA «BELLA RELIGIOSA, LA MISTERIOSA M.M.». DISEGNO DI AUGUSTE LEROUX PER UN’EDIZIONE DELLE MEMORIE DEL VENEZIANO. SCALA, FIRENZE
Casanova confessa di aver preso parte ad azioni che non possono essere considerate altro che stupri e violenze. Le vittime sono donne umili. A 20 anni frequenta un gruppo di amici molto poco raccomandabili. Una sera, in un’osteria, prendono di mira una donna accompagnata dal marito e due amici e si spacciano per emissari governativi. Arrestano gli uomini, che si lasciano portare via. La malcapitata rimane e viene violentata a turno. Casanova va per secondo.
SCALA, FIRENZE
AVVENTURE DI UN SEDUTTORE
1. Senza pietà con le povere
VICTORINE PIANGE PER UNA SERATA FINITA MALE CON CASANOVA.
2. Frequentatore di conventi A Venezia parecchie giovani di buona famiglia entravano nei conventi della città come “monache da coro”, e non erano poche quelle che poi trovavano l’amante. Casanova racconta di aver conosciuto nel convento di Murano una monaca, da lui chiamata M.M. Si tratta probabilmente di Marina Maria Morosini. La descrive come «un’assoluta bellezza, alta, dalla carnagione bianca quasi pallida, aria nobile e decisa quanto timida e riservata, con grandi occhi azzurri». Malgrado l’aria innocente, ha già un altro amante, l’ambasciatore francese de Bernis.
3. Giocatore impenitente La passione di Casanova per il gioco è superata solo da quella per le donne. I debiti l’incalzano, tanto che deve chiedere denaro alle amanti, salvo poi perderlo di nuovo alle scommesse. Giocare, dice, gli serve per «soffocare il fuoco ardente dell’amore». Una notte, turbato dopo un incontro amoroso, «ho sentito che volevo divertirmi: sono andato al tavolo da gioco». Di ritorno a casa incrocia un mendicante che risulta essere un conte in rovina, e gli dà parte delle vincite. FICHES DI POKER VENEZIANE. XVIII SECOLO. CASINÒ DI VENEZIA.
6. La fuga dai Piombi
BRI
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Dopo quindici mesi di detenzione, Casanova è deciso a evadere. Con materiali di recupero accumulati durante la prigionia riesce a fabbricare un perforatore con cui buca il soffitto di piombo. Sale sul tetto dove rischia più volte di cadere e sfracellarsi al suolo, ma infine riesce a calarsi all’interno del palazzo di governo, in una stanza chiusa a chiave. Spavaldo, si cambia d’abito e urla per chiedere aiuto, spacciandosi per un visitatore rimasto chiuso dentro. Gli viene aperto ed è accompagnato all’uscita.
Per vendicarsi di uno scherzo troppo pesante, Giacomo Casanova architetta un piano terrificante. Disseppellisce un cadavere recente, gli taglia un braccio e si nasconde sotto il letto dell’uomo che l’ha offeso. La notte, mentre l'uomo dorme, lui lo stuzzica con l'arto mozzato e quando il malcapitato l’afferra, lui glielo lascia fra le lenzuola. La mattina dopo tutti l’accusano di aver fatto venire un accidente al signore: «Solo tu ti saresti potuto azzardare a fare questo!». Dopo un simile shock, l’uomo è impazzito, racconta Casanova in parte pentito.
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4. Un burlone macabro
Casanova incanta Bragadin e i suoi amici grazie alle doti di mago ed esperto cabalista. Nel suo ruolo d’indovino si ALFABETO CABALISTICO USATO DA GIACOMO CASANOVA. serve di una tecnica secolare. «Davo sempre risposte a doppio senso, e uno dei significati era accuratamente pensato perché non fosse comprensibile neppure dopo l’evento. In tale modo la mia scienza cabalistica, come l’oracolo di Delfi, non poteva mai sbagliare», confessa poi divertito.
GIACOMO CASANOVA SCAPPA DAI PIOMBI ASSIEME A UN ALTRO REO. ACQUERELLO DI AUGUSTE LEROUX.
SCALA, FIRENZE
5. Il mago
STORIA VISUALE
Operazione Barbarossa Ottant’anni fa, alle tre del mattino del 22 giugno 1941, iniziava l’Operazione Barbarossa. Hitler la definì la più grande invasione della storia, quella dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) da parte del Terzo Reich e dei suoi alleati.
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SORPRESA E DISTRUZIONE
Iosif Stalin, il massimo leader dell’URSS, aveva ricevuto numerosi rapporti sull’imminenza dell’attacco, ma li aveva ignorati; il governante sovietico, la cui diffidenza rasentava la paranoia, aveva preferito fidarsi dei patti da lui stesso stretti con Adolf Hitler piuttosto che dei propri servizi segreti. L’invasione fu condotta tramite 3,35 milioni di uomini, 3.600 carri armati, 600mila mezzi di trasporto motorizzati, 625mila cavalli e 3.400 aerei della Luftwaffe, la forza aerea tedesca. Quest’ultima svolse un ruolo cruciale nel successo dell’operazione: distrusse i campi d’aviazione sovietici e gli aerei che vi stazionavano, come si può vedere in questa foto, privando così il nemico della copertura aerea, proteggendo l’avanzata delle colonne corazzate tedesche e annientando la resistenza russa. Ma all’inizio di dicembre una vigorosa controffensiva costrinse i tedeschi a ritirarsi, quando ormai alcune delle loro unità erano entrate a Chimki, a 15 chilometri dalla piazza Rossa di Mosca.
STORIA VISUALE
LA SOFFERENZA DELLA POPOLAZIONE CIVILE
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L’invasione dell’URSS non fu una campagna come quelle condotte in Europa occidentale. Era un progetto genocida ispirato alle idee di Hitler contenute nel Piano generale per l’Est. Diretto da H. Himmler, il capo delle SS, e A. Rosenberg, il principale ideologo del nazionalsocialismo, il piano prevedeva la pulizia etnica e il ripopolamento dell’Europa orientale fino agli Urali con coloni germanici, così come l’«annientamento o l’espulsione» di almeno 45 milioni di persone «razzialmente indesiderabili» per creare «spazio vitale» per la Germania. Queste linee guida si tradussero nell’Operazione Oldenburg ideata da Hermann Göring (capo della Luftwaffe e ministro dell’economia), che prevedeva la totale deindustrializzazione di quelle aree per trasformarle in territori agricoli; e nel Piano fame, che mirava a utilizzare le risorse della popolazione invasa per il sostentamento della Wehrmacht. A sinistra, un orfano davanti alla sua casa distrutta in Bielorussia, in una foto di Mikhail Trakhman; a destra, una contadina rifugiata con un bambino in braccio.
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STORIA VISUALE
RESISTENZA E RAPPRESAGLIE
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Nella visione del mondo hitleriana della lotta tra razze, il nemico da combattere era il «bolscevismo giudaico», e gli slavi erano «subumani» da sottomettere. Hitler dichiarò inequivocabilmente che si trattava di una guerra razziale, e l’alto comando delle forze armate tedesche, l’Oberkommando der Wehrmacht, guidato dal feldmaresciallo Wilhelm Keitel, riprese il concetto nel suo ordine ufficiale del 6 giugno 1941, che iniziava così: «In questa battaglia non c’è spazio per la pietà o per considerazioni relative al diritto internazionale». Ciò si tradusse nella spietata repressione della popolazione civile accusata di sostenere i gruppi partigiani. I protagonisti di questa foto, scattata nell’agosto del 1941, facevano parte di uno di essi. Keitel dichiarò che la morte di ogni soldato tedesco sarebbe stata pagata con la vita di «50 o 100 comunisti». L’attività della guerriglia forniva un alibi alla guerra di annientamento. Il 16 luglio 1941 il leader nazionalsocialista Martin Bormann scrisse: «La guerra condotta dai partigiani ci offre un grande vantaggio: ci dà la possibilità di spazzare via tutto ciò che ci resiste».
STORIA VISUALE
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LA TRAGEDIA DEI PRIGIONIERI
Lo storico Christer Bergström ha evidenziato come, dei 5,7 milioni di militari sovietici internati nei campi di prigionia della Wehrmacht – le forze armate tedesche –, circa 3,3 milioni morirono di fame, freddo e malattia, o furono giustiziati. Questi numeri costituiscono uno spaventoso 58% del totale (il tasso di mortalità dei prigionieri tedeschi in cattività sovietica era invece del 15%). Il dato è indicativo del carattere assunto dalla guerra a est. Il colonnello Falkenberg, comandante di uno di questi campi, lo Stalag 318, osservò nel settembre del 1941: «Quei maledetti Untermenschen [subumani] mangiano erba, fiori e patate crude. Se non trovano nulla di commestibile, si danno al cannibalismo». Nella maggior parte dei campi non c’erano nemmeno baracche e, secondo lo stesso Falkenberg, per ripararsi dal freddo i prigionieri scavavano «buche nel terreno con utensili da cucina e a mani nude». Nella foto, prigionieri sovietici in un luogo non identificato.
STORIA VISUALE
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VITTIME DEL GENOCIDIO
Con l’attacco all’URSS iniziò una nuova fase della persecuzione degli ebrei europei. Se fino ad allora erano stati emarginati, umiliati, derubati, espulsi e persino assassinati, in quel momento ebbe inizio il loro sistematico sterminio: già il 27 giugno furono massacrate o bruciate più di duemila ebrei all’interno della sinagoga di Bialystok. Si stima che durante la guerra siano morti tra i 2 milioni 509mila e i 2 milioni 624mila ebrei dei territori sovietici occupati dalla Germania e dai suoi alleati – tra il 68 e il 95% della popolazione giudaica. I protagonisti dei massacri furono le “unità operative” (Einsatzgruppen) che accompagnavano l’esercito, la “polizia d’ordine” (Ordnungspolizei) e le brigate delle Waffen-SS. Vi presero parte anche dei soldati, soprattutto i membri delle cosiddette “divisioni di sicurezza” (Sicherungsdivisionen). Questa fotografia, scattata da Dmitrij Bal’termanc nel gennaio del 1942 mostra i parenti degli ebrei uccisi a Kerch che cercano i loro cari.
L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA
STORIA SOCIALE
Il monito attuale delle discriminazioni medievali
L Marina Montesano
AI MARGINI DEL MEDIOEVO Carocci, 2021; 271 pp., 24 ¤
a storia dovrebbe insegnare agli uomini e alle donne a non ripetere gli stessi tragici errori. Tuttavia, nonostante lo scorrere dei secoli, l’insegnamento che l’umanità ha tratto in termini di accettazione della diversità è limitato. Oggi come ieri, soprattutto nei momenti di crisi economica e sociale, si acuisce la necessità d’individuare alcuni gruppi umani contro cui far brillare tutto il carico di paure, ansie, insoddisfazioni.
Tramite la forza dei discorsi retorici l’esclusione assurge a strategia politica, gli stereotipi diventano verità. Certo le comparazioni fra passato e presente non sono mai semplici e ovvie, ma secondo la storica Marina Montesano le discriminazioni medievali servono quantomeno a riflettere su quelle odierne. C’è sempre una qualche unità politica, sociale, religiosa a sentirsi “assediata” da nemici esterni. Riprendendo lo storico del cristianesimo Jean De-
lumeau, Marina Montesano conduce il lettore in quell’epoca «pervasa da una sensazione di ansietà che porta a reazioni collettive dalle quali scaturiscono “nemici”: l’ebreo, il lebbroso, la strega, l’eretico». A finire sotto la lente d’ingrandimento della storica è quella «società persecutoria» medievale in cui l’eresia diventa non solo un’accusa spendibile contro ogni avversario, ma si trasforma addirittura «in un caposaldo nella costruzione del nemico». La tesi di fondo dell’autrice è che nel Medioevo si era in generale più inclusivi verso poveri e diseredati e meno nei confronti dei non cristiani. L’adesione a un altro culto costituiva infatti «un discrimine profondo».
STORIA ANTICA
IL CANTO DELLE MUSE È NECESSARIO «C’È QUALCOS’ALTRO di cui avete bisogno?» chiese un
giorno Zeus agli altri dei. Questi sembrano rispondere: «A cosa serve vincere una battaglia cosmica, riportare ordine nel caos [...] se poi non c’è chi canti tutto questo?». Dall’unione di Zeus e Mnemosine nasceranno le muse, fonti della musica e della poesia, e che «non sono una graziosa decorazione aggiunta da Zeus a un cosmo già completo: ne sono piuttosto la chiave di volta». A scriverlo è filologo Massimo Raffa, nel suo saggio sui miti musicali del mondo classico a partire dalla Teogonia di Esiodo, secondo cui alle muse spetta il canto delle «cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che erano prima». Massimo Raffa
IL TESSUTO DELLE MUSE Inschibboleth, 2021; 208 pp., 14 ¤
128 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Federica Introna
LA REGINA GUERRIERA Tre60, 2021; 304 pp., 16,90 ¤
sovrana splendente di Palmira […] in te lo sguardo indomito di Cleopatra rivive, forza e malia di chi è donna, regina e dea». Sono versi che un aedo immagi«ZENOBIA
nario rivolge alla regina nel cui spirito convivono «luce e ombra, pace e guerra, vita e morte». È su dicotomie di tal genere che Federica Introna costruisce il personaggio di Zenobia di Palmira «donna indipendente, madre affettuosa e guerriera intrepida». Ne viene fuori un romanzo tumultuoso com’è la stessa vita dell’augusta imperatrice che da alleata di Roma si trasformò in nemica implacabile dell’impero, conscia che «il potere ha sempre un prezzo anche e soprattutto quando non c’è più», spiega l’autrice. Il libro nasce come reazione allo scempio portato a Palmira nel 2016 dai miliziani, «memoria di quanto la furia del fanatismo voleva cancellare per sempre».
FABIO MELONI
EX-VOTO PROVENIENTE DAL MESSICO. COLORE ACRILICO SU LATTA.
CELEBRAZIONI DANTESCHE
La vita umana, eterna lotta tra bene e male Scene e rimandi danteschi in oltre novanta ex-voto provenienti soprattutto dal Messico e da varie regioni d’Italia
A
mio padre non piaceva che avessi un ragazzo» recita il frammento di un cartiglio di un ex-voto messicano. Nell’illustrazione una coppia seduta sulla tomba di un cimitero è spaventata da ciò che accade. Un gruppo di diavoli danza, balla e si prende gioco delle miserie umane. Appartandosi con il ragazzo la giovane ha disatteso il volere paterno. Ma
per fortuna c’è la Vergine di Guadalupe a proteggere gli innamorati. La consapevolezza che a ogni peccato corrisponde una pena, il rimorso generato dalla colpa o, al contrario, l’essere talmente immersi nel vizio da non vederne la stortura: sono solo alcuni dei temi al centro di oltre novanta ex-voto in mostra a Milano. Si tratta di pezzi di arte povera, di autore spes-
so ignoto, emblemi di fede e pietà popolare. Databili soprattutto dal XVIII secolo ai giorni nostri, sono raffigurazioni realizzate a olio, tempera, acquerello o penna su supporti come tela, lamiera, tavola, vetro o carta. La mostra riunisce i pezzi in cui sono stati trovati rimandi a volte nitidi e altre sfumati a personaggi, situazioni o scene della Divina Commedia, segno
dell’abilità di Dante di penetrare nella cultura popolare. «Emerge così la capacità di Dante, pur descrivendo un viaggio e un mondo ultraterreni a noi lontanissimi, d’illustrare anche momenti di vita in realtà comuni e frequenti, condivisibili e riconoscibili; di parlare cioè a tutti, ancora oggi» spiegano i curatori. L’allestimento è ispirato alle geometrie di Piet Mondrian e crea un intreccio di «antico e moderno, poesia e matematica, realtà e astrazione, vissuto in prima persona o sentito dire, saputo e sognato». LA UMANA COMMEDIA Casa Manzoni, Milano Fino al 25 gennaio 2022
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STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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Prossimo numero I PRIMI GRANDI ARTISTI DELL’UMANITÀ
MARC DOZIER / GTRES
VERSO LA FINE del XIX secolo la scoperta di pitture come quelle della grotta di Altamira o di Lascaux cambiò per sempre la concezione di arte rupestre acquisita fino a quel momento. Invece di rappresentare forme schematiche e simboli semplici, gli artisti preistorici dipinsero sulle pareti delle grotte, oltre 20mila anni fa, una fauna molto variegata con dettagli e colori degni delle tavolozze più eminenti della storia dell’arte.
L’INDIA, IL GIOIELLO DELL’IMPERO BRITANNICO INTORNO AL 1900 l’India era un territorio
popolato da 315 milioni di abitanti che comprendeva gli attuali Pakistan, Birmania, India e Bangladesh. Le autorità britanniche lo governavano senza mischiarsi mai con i locali. Dalla metà del XIX secolo l’India fu raggiunta da migliaia di cittadini inglesi desiderosi d’intraprendere la carriera militare o diplomatica, o piuttosto di provare a fare fortuna sfruttando il commercio tra la madrepatria e la colonia più importante dell’impero. THIERRY OLIVIER / RMN-GRAND PALAIS
I visir egizi Sotto il faraone si collocava la figura del visir, o chaty, il funzionario con la più alta carica d’Egitto, al quale il sovrano affidava molte responsabilità.
Il tramonto dell’impero romano Le ricerche più recenti hanno evidenziato il ruolo fondamentale svolto dal cambiamento climatico e dalle epidemie nel declino dell’impero romano.
La Città Proibita di Pechino Dal XV al XIX secolo fu la dimora degli imperatori della Cina, la cui vita era regolata da protocolli così rigidi da trasformarli in prigionieri nel loro stesso palazzo.
La morte di Napoleone Deportato sull’isola di Sant’Elena dopo la sconfitta di Waterloo, Napoleone fu vittima di diverse malattie che ne accelerarono il decesso.
V iVi
il piaCere e l ’ emozione di possedere una autentiCa moneta dell ’ i mpero r omano
Il denarIo d’argento dI traIano
Al diritto è effigiato il profilo dell’imperatore Traiano volto a destra, mentre al rovescio campeggiano figure allegoriche.
Attestato di Garanzia Il DenarIo D’argento DI traIano 98/117 D.C. Lo stato di conservazione e il rilievo dell’immagine sono di buona qualità in rapporto allo standard degli esemplari del periodo. La moneta è garantita autentica da
è la pIù emblematIca moneta della roma ImperIale. oggI per te a 195 euro con certIfIcato dI autentIcItà
Le monete sono da sempre preziose testimonianze dell’epoca cui sono appartenute e dei personaggi che hanno fatto la storia. Lo spirito di uno dei più grandi imperatori romani, forse il più grande, grazie al quale l’impero raggiunse la massima estensione territoriale, rivive oggi nel denario d’argento che riporta l’effigie del glorioso condottiero. Oggi puoi vivere l’emozione di possedere una vera moneta dell’epoca di Traiano, realmente circolata, coniata quasi duemila anni fa e passata di mano in mano nei secoli per giungere fino a noi: in perfetto stato di conservazione, è offerta a € 195,00 corredata dal certificato di autenticità e con spedizione gratuita. La riceverai in un elegante cofanetto, protetta da capsula trasparente per conservarla nel migliore dei modi.
C ome La moneta è in argento, pesa gr. 3,4 e ha un diametro di mm. 19
ordinare
telefonando (011.55.76.340), inviando una email a promo@bolaffi.it, sul sito www.collectorclub.it oppure direttamente nei negozi Bolaffi di Torino, Milano e Roma Per noi la storia é un oggetto da collezione