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Ernesto Galli Della Loggia Opening speaker



Opening Speaker Ernesto Galli Della Loggia


Ernesto Galli Della Loggia, storico, professore emerito alla Normale di Pisa ed editorialista del Corriere della Sera, ha inaugurato a Gubbio la prima edizione di Richmond Future Factory forum, dedicato ai temi Industry 4.0. È il secondo evento di Richmond Italia nel 2021 dopo tanti mesi di stop, e le emozioni sono palpabili in sala.

Secondo Della Loggia, stiamo assistendo non alla fine del futuro, ma alla fine di una certa idea del futuro nata alla fine del Settecento. Prima di allora non esisteva un’idea di futuro tout court, nessuno pensava che le cose avrebbero potuto cambiare in meglio o in peggio. Allora per la prima volta si registrò un aumento simultaneo dei consumi, dei redditi e delle persone in salute. Non era mai successo prima, la rottura col passato è stata enorme. Si cominciò a sospettare che si fosse innescato un meccanismo storico di miglioramento lento basato sulla tecnica e sulla scienza che avrebbe assicurato un progresso materiale inesorabile. E che avrebbe garantito alle persone di essere tutte un po’ più libere e tutte un po’ più uguali.

È la narrazione liberale, poi adottata in seguito anche dai socialdemocratici, una visione sostanzialmente ottimistica dell’andamento della storia che produce felicità. E qui per storia si intende la nostra storia, la storia occidentale, una storia superiore a tutte le altre. Sarebbe in questo momento, secondo Della Loggia, ad essersi formata la grande spinta della cultura europea all’ottimismo ma anche alla volontà di sopraffazione, che ha portato a imporre questa visione


Quell’idea di futuro che ci scivola fra le mani

La storia ci consegna la sensazione di un futuro radicalmente nuovo, mai visto prima, un futuro senza paragoni
al resto del mondo appropriandosi delle altre culture. Negli ultimi trenta o quarant'anni questa narrazione, che pone al centro il progresso tecnico-scientifico, è diventata il cuore della globalizzazione.

Ma oggi è una narrazione che non funziona più. O meglio, funziona così bene che rende sempre più problematica la visione ottimistica. Il fronte dell’innovazione oggi si muove principalmente su due settori, che lasciano intravedere un collegamento sempre più stretto fra loro: i robot e l’automazione, e l’intelligenza artificiale, che stanno per incontrarsi in una fase di sintonia con le tecnologie biologiche. I neuroscienziati sono sempre più vicini a comprendere il funzionamento del cervello umano e delle sue catene neuronali. Le nostre scelte in qualsiasi campo dipendono da miliardi di neuroni che calcolano in una frazione di secondo probabilità e alternative, e questo è esattamente il modello di funzionamento degli algoritmi informatici, che stanno facendo progressi enormi.
Della Loggia racconta di esser rimasto colpito dalla notizia che risale al 7 dicembre 2017, quando il


programma AlphaZero di Google, grazie all’apprendimento automatico, che consente di capire l’esito delle proprie decisioni, partendo da zero in sole nove ore ha appreso il gioco degli scacchi raggiungendo una tale padronanza creativa da sconfiggere Stockfish, il software open source campione mondiale di scacchi in carica, capace di analizzare circa 70 milioni di posizioni al secondo. AlphaZero ha vinto grazie a una capacità creativa superiore!
Gli algoritmi biochimici del cervello e quelli dell’intelligenza artificiale stanno disegnando un terreno d’incontro fra tecnologie biologiche e informatiche. Già oggi un algoritmo decide per quale lavoro siamo più adatti, ed è difficile contestare le sue decisioni. In futuro, ha detto Della Loggia, l’algoritmo ci consiglierà quali studi fare, quali cibi sono consigliabili dato il nostro stato di salute, e magari ci raccomanderà anche il partner sentimentale. Ma tutto ciò è compatibile con l’idea di essere umano che abbiamo da millenni? E poi, che tipo di società abbiamo in mente quando introduciamo massicciamente, come già succede in Cina, la tecnologia per il riconoscimento facciale che consente di sorvegliare le persone in ogni istante? O quando introduciamo la gravidanza fuori dal corpo femminile?
Uno dei cuori di questo processo è l’automazione. Sono ormai molti i campi in cui le prestazioni e le competenze dell’intelligenza artificiale superano di gran lunga quelle umane. E saranno poche le attività e le professioni esenti dalla sostituzione degli esseri umani con le macchine. Ma non è sempre stato così? Da quanto è stato inventato il telaio automatico, il progresso ha sempre prodotto disoccupazione. Non sempre le cose apparentemente uguali lo sono veramente, e anzi, in questo caso sono radicalmente diverse. In passato succedeva che le masse di disoccupati venivano riassorbite abbastanza facilmente, e persone con competenza medio-bassa acquisivano un’altra competenza medio-bassa. Oggi gli operai che devono cambiare settore, devono fare un salto di know how. La tematica dell’educazione permanente va benissimo per i ministri, ma al momento sono pure chiacchiere.




A questo punto Della Loggia ha portato il discorso sulla questione politica. Se è vero che la democrazia è quel regime che dà ai cittadini il diritto di esprimersi sulle scelte chiave che riguardano la loro vita, cosa succede quando il principale agente storico di trasformazione della loro vita – l’innovazione – sfugge a qualsiasi nostra volontà collettiva di decisione? Succede che la politica va sotto scacco, e del progresso tecnico-scientifico possono parlare solo gli addetti ai lavori: la conoscenza non è democratica, chi non ce l’ha non è abilitato a parlare. E allora si pone un problema vero di carattere democratico. L’antipolitica, ossia masse crescenti di elettori che non si sentono rappresentati, si spiega con il fatto che governi e partiti negli ultimi dieci o quindici anni sono stati sempre meno in grado di capire il progresso tecnico-scientifico, e dunque di indirizzarlo, progresso che però incide eccome sulla vita delle persone, per esempio creando disoccupazione. Oggi nel mercato del lavoro assistiamo alla crescita dei servizi alla persona, sebbene nessuno di noi voglia fare questo tipo di lavori, sono lavori senza protezione e mal pagati. In passato il progresso tecnico-scientifico ha generato forti aumenti del Pil e ha consentito una distribuzione dei redditi. Un aumento abbastanza significativo di reddito per una parte abbastanza significativa della popolazione creava consenso. Oggi non è questo il caso, e soprattutto il progresso tecnico-scientifico non produce aumento del Pil. Per la prima volta, l’innovazione tecnico-scientifica va a colpire non solo gli operai ma anche il ceto medio, per esempio il commerciante distrutto dall’e-commerce o gli impiegati. Le persone si sentono sacrificabili, inutili e quindi covano un senso di rancore e disperazione, addebitando la responsabilità non alle macchine, come facevano i luddisti, ma alla classe politica. In democrazia si presume che i politici possano modificare le cose, e quindi la colpa sarebbe dei politici che non hanno pensato e deciso? Ma come avrebbero potuto? Io per primo non ci capisco niente, capiamo solo se qualcuno ci spiega le cose. Non possiamo essere nel cuore conoscitivo delle tecnologie di oggi. Fino al telaio e all’automobile si può fare, oltre non ci arriva nessuno. Della Loggia ha proseguito ricordando il potere detenuto da organismi come Google e Facebook, che sono in grado di acquisire e incrociare una quantità di dati fuori scala in modo privatistico, aumentando ancora di più la loro conoscenza. Google sa molto più su di noi del Ministero degli Interni, e se Google dovesse staccare la spina, scatterebbe la paralisi totale. Cinque o sei persone detengono il dominio in maniera incontrollata e incontrollabile, senza nemmeno pagare le tasse. Sono extra legem, e possono contravvenire al primo obbligo posto dallo stato, che è quello fiscale.





La protesta contro la politica stigmatizza l’impotenza dei parlamenti, dei governi e dei partiti nel dire una parola risolutiva circa l’uso delle tecnologie biologiche e informatiche, o su problemi chiave come algoritmi e controllo dei loro impieghi. D’altronde, che cosa si può fare, mettere ai voti la scienza? Un avvocato di Benevento dovrà dire agli scienziati cosa fare? In effetti è ridicolo. Lo statuto della politica e lo statuto del progresso rischiano di essere in rotta di collisione. Il progresso tecnico-scientifico, secondo Della Loggia, sta producendo un fenomeno inquietante: si sta allentando il legame sociale, ossia i fattori coesivi e di vincolo che tengono insieme la collettività, consentendo di riconoscersi in una storia condivisa, in una reciprocità di obblighi e soprattutto in un comune sentire.
Allo scollamento della politica corrisponde lo scollamento del legame sociale. Il progresso tecnico-scientifico pone l’enfasi sull’individualismo, che caratterizza sempre più le nostre società e crea una condizione di vero e pro-







prio isolamento, anche psicologico, innanzitutto nel lavoro. Con il tramonto delle fabbriche raccontate nei film di Charlie Chaplin è finito il lavoro come momento di aggregazione e solidarietà. Gli apologeti del presente dicono che è bello cambiare lavoro. Ma cambiare lavoro e reinventarsi due, tre quattro volte nella vita è una cosa infernale. Che senso del proprio io potrà avere uno che a 54 anni dovrà cambiare ambiente, colleghi di lavoro, e magari dovrà ripiegare su uno schermo di computer a casa?
È difficile resistere a un’ondata di cambiamenti continui senza sentire disfarsi la propria identità, e con l’identità vacillano anche i rapporti familiari e sociali. Che razza di legami sociali potrà produrre un simile modo di lavorare?
Già oggi possiamo fare acquisti senza dover andare fisicamente in un negozio e incontrare la faccia di una commessa. Possiamo assistere a eventi come quello di oggi da remoto. Mangiare come al ristorante a casa. Individualità da remoto! Si sta delineando una società in cui il legame sociale retrocede sullo sfondo, diventando impalpabile e privo di concretezza. Alle nostre società viene negato il tipico aspetto di legame sociale: il legame con il passato. Senza la presenza del passato non ci può essere legame sociale. Senza condivisione di cose accadute non c’è legame. Tutti i sistemi educativi occidentali sono in crisi perché l’istruzione è per l’appunto tecnico-scientifica, e da Pechino a Los Angeles è tutta uguale, non restituisce alcun senso del passato, alcuna identità sociale. Viene meno l’istruzione che racconta il passato e che tramanda ai giovani un retaggio.
La perdita di autorità dei genitori è la perdita di autorità del passato. Una volta trasmettere il passato era motivo di prestigio, si ascoltavano i nonni, oggi tutto questo è azzerato tanto forte è il prestigio della dimensione tecnico-scientifica e tanto forte la sua proiezione nel futuro. Ciò che conta è ciò che si avvera nel futuro. Il futuro svaluta radicalmente il passato, la famiglia, l’istruzione. Ancora resiste la figura della madre per ragioni fisiologiche, ma presto scomparirà anche lei.
Nella chiusura del suo intervento, Della Loggia ha posto il tema del limite, sostenendo che quanto tutto si muove in un’unica direzione, bisognerebbe inventare un limite, in questo caso un limite che argini l’idea di un progresso continuo autoalimentato dalle conoscenze tecnico-scientifiche. Bisognerebbe che si facesse chiarezza sul fatto che la scienza è una cosa e le sue applicazioni pratiche un’altra. Oggi questo legame dovrebbe essere messo in discussione. Anche se non si sa come e dove, e immaginare un limite si prospetta come un territorio sconosciuto, è arrivato il momento di farlo. Dovrebbe essere la sfida più importante in agenda, e riguarda innanzitutto chi ha competenze tecnico-scientifiche. Con temperature di cinquanta gradi e poli che si sciolgono, è ragionevole pensare che le persone avranno sempre più motivazioni per riflettere su questo limite e trovare le forze per attuarlo.
NKE Automation HSE & Facilities manager



Sono figlio di un costruttore edile, sono nato in mezzo a cantieri, progetti, impalcature, disegni, elmetti. Il cantiere l’ho vissuto sin da bambino: mio padre mi ci portava spesso, forse perché sapeva che così facendo mi avrebbe lasciato un forte imprinting che mi avrebbe spinto a seguire le sue orme. Mi ricordo ancora perfettamente di tutti gli odori che si sentivano. Già allora, da piccolo, nacque in me l’ambizione di progettare ciò che mio padre costruiva.
Per la prima volta mi sono imbattuto nel tema della sicurezza sui luoghi di lavoro durante il mio percorso di studi di Ingegneria edile. Ho avuto subito modo di applicare sul campo ciò che avevo studiato quando fui assunto come assistente del Coordinatore della Sicurezza in un cantiere per la costruzione di un grande centro commerciale della provincia di Torino.
Ho avuto il privilegio di lavorare fino al 2008 con mio padre, che al tempo guidava un’azienda con venticinque addetti tra dipendenti e
artigiani. La grande crisi dell’edilizia mi ha portato ad affrontare scelte complicate e sofferte. Alla fine decisi di lasciare l’azienda di famiglia e seguire un nuovo percorso professionale. Avevamo idee diverse, papà era restio al cambiamento, mentre io ero molto focalizzato su questo punto. Conflitti di questo tipo non sono certo una rarità nell’avvicendarsi delle generazioni in azienda. Oggi andiamo più d’accordo, lui ha capito che io dovevo andarmene per trovare la mia dimensione, così come è successo. Poi, in quell’anno, accadde un evento straordinario che ci segnò tutti ed ebbe impatto anche sulla mia decisione.
L’11 aprile 2008 mio cugino Fabio di diciassette anni ebbe un grave incidente motociclistico a Moncalieri, e finì in coma. Sin dall’infanzia ero molto legato a Fabio, di nove anni più giovane di me, lo sentivo come un fratello minore. Dopo qualche mese ne uscì, ma con danni irreversibili e soprattutto su una sedie a rotelle. Nel tempo è riuscito a recuperare parte del deficit, ma si può immaginare al momento la portata di questo evento. Posso dire che ha cambiato il mio modo di vedere le cose, in assoluto. A quell’epoca ho frequentato a lungo l’ospedale CTO di Torino dove era ricoverato. Ho visto alcuni ragazzi riprendersi, altri no. In quel periodo ho capito che avrei potuto prendermi cura degli altri anche nel lavoro. Sempre in quel periodo, frequentai il corso di formazione organizzato dall’Ordine degli Ingegneri di Torino e moderato dall’architetto Paolo Dughera, necessario per esercitare il ruolo di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione sul lavoro.
Prima di allora, mi occupavo di sicurezza in maniera piuttosto accademica, preoccupandomi soprattutto di norme e conformità legislativa come criterio organizzativo. Dopo quel corso ho intuito che migliorare la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro non poteva essere un mero atto amministrativo, ma che per riuscire a dar forza a un cambiamento culturale bisognava dare importanza ai valori che accomunano l’uomo lavoratore in azienda e l’uomo padre di famiglia, ispirando le persone a cambiare per se stessi prima che per l’azienda, attraverso un percorso che motivasse le persone ad aver cura l’uno dell’altro. Bisognava interpretare la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro come uno strumento che desse la possibilità a ogni lavoratore di rientrare a casa tutte le sere dalla propria famiglia.
Nella cultura giapponese esiste una bella definizione, Ikigai. È

praticamente intraducibile nelle altre lingue senza una perifrasi. Ikigai è quel sentimento che ti dà il gusto di alzarti ogni mattina e affrontare la vita, la ragione per vivere. Il simbolo che si usa nel mondo tattoo è molto bello: quattro cerchi intrecciati l’uno nell’altro.
Nel 2018 sono entrato in NKE Automation, un’azienda che si occupa di automazione industriale nel settore automotive, nell’ambito dell’erogazione fluidi, incollaggio cristalli e marcatura VIN. Oggi conta settanta dipendenti in Italia e oggi fa capo alla multinazionale tedesca SAT Sterling Holding. Il quartier generale si trova a Dägeling, a nord di Amburgo, e ha sedi in Cina, Stati Uniti e Brasile. La vera sfida del nostro lavoro non è solo gestire la sicurezza all’interno di aziende ben strutturate e con una buona cultura della sicurezza, ma garantire che tutta la catena dei subcontractor garantisca la conformità legislativa e rispetti le misure tecniche e operative prescritte dai piani operativi di sicurezza in tutte le fasi dell’installazione, anche nel caso di strutture piccole, molto agili ma per questo anche insofferenti a situazioni che a qualsiasi titolo richiedano rallentamenti, burocrazia, e in generale una riflessione più ampia che vada al di là di date di consegna e costi orari. Qual è la mia filosofia della sicurezza nei luoghi di lavoro? Dobbiamo tenere sempre a mente che l’essere umano è fallibile, cadere, inciampare o sbagliare nel nostro percorso può accadere in qualsiasi momento. A questo punto devo fare una piccola digressione. Fin da piccolissimo ho praticato judo, e da adolescente anche a livello agonistico. Nel 1997, all’età di quindici anni, sono stato vice campione italiano della categoria UISP-73kg. Allenarmi per garantire un buon livello di preparazione mi ha portato a fare molte rinunce, e alla fine la difficoltà di conciliare gli studi con i continui allenamenti mi ha portato ad abbandonare l’agonismo a soli 23 anni. La passione per questa nobile arte mi ha spinto a diventare istruttore e fondare un’associazione sportiva dilettantistica per trasferire ai bambini quello che avevo appreso ed elaborato nel tempo. La pratica del Judo, l’esperienza nella gare e nell’insegnamento oltre al mio ruolo di formatore nelle aziende, mi hanno dato lo stimolo a creare una via per portare i principi del Judo nella sicurezza sui luoghi di lavoro.
Ho creato Judo for Health and Safety, un prodotto formativo promosso da EcoSafe, una società del settore della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro della quale ai tempi ero dipendente. Si tratta di un corso specifico per le persone che si occupano come me di sicurezza sul lavoro (preposti, dirigenti e addetti ai lavori). Il modulo minimo è di quattro ore. Il corso si svolge sul Tatami. Attraverso una via non convenzionale si incomincia a riflettere sui principi che accomunano Judo e salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, partendo dalla fallibilità dell’uomo e dalla necessità di imparare a cadere, minimizzare i danni e rialzarsi nel più breve tempo possibile. Un proverbio giapponese dice: Nana Korobi, Ya Oki (“Cadi 7 volte, rialzati 8”). Si parte imparando a cadere nel modo corretto e senza farsi male, fino a provare a fare un piccolo combattimento.
Il Judo, che è un’evoluzione del Jujutsu, è anche conosciuto come la Via della Cedevolezza. Rispetto al Jujutsu ha sviluppato molto gli aspetti della salute e della sicurezza delle persone che lo praticano: Sei-Ryoku-Zen-Yo (“La mente e il corpo usare bene.”) e Ji-Ta-Kyo-Ei (“Insieme per progredire”). Nel Judo si è molto attenti alla sicurezza della pratica, e si applicano tecniche di controllo che hanno l’obiettivo di far crescere entrambe

le parti che si affrontano. Forse anche per questo il Judo è diventata l’arte marziale più diffusa al mondo, e la prima arte marziale a diventare disciplina olimpica nel 1962. Oggi è la quarta disciplina olimpica per numero di nazioni aderenti.
In questo progetto sono partito dalla visione del fondatore del Judo, Jigoro Kano, che nel Judo vedeva un mezzo per migliorare la persona sia sotto il profilo etico che sotto quello fisico. Il fine del Judo è sempre stato quello di superare la mera pratica della cedevolezza fino a giungere alla cultura della cedevolezza come approccio e stile di vita. Ho provato a fare lo stesso con la sicurezza nei luoghi di lavoro. Sono convinto di essere arrivato a risultati interessanti, per non dire sorprendenti, che applico volentieri alla mia attività di HSE manager. Mi ricordo la prima volta che proposi questo mio metodo così particolare. All’inizio le persone sono rimaste zitte, tutte zitte, a lungo. Pensavo di non essermi fatto capire, o peggio. E invece poi c’è stata una dimostrazione di stupore e di interesse straordinaria, come se avessi aiutato i partecipanti ad aprire gli occhi su qualcosa che sospettavano ma di cui non avevano evidenza.

protezione dell’individuo. (In azienda bisogna essere formati e addestrati, bisogna conoscere i rischi e saperli gestire al meglio, in altre parole essere consapevoli dei pericoli che ci circondano.) Nelle “cicatrici” che però una caduta può lasciare si scoprono argomenti di riflessione su come si sarebbe potuto evitare di cadere. In fondo, il primo demone da combattere è la difficoltà a riconoscere il fatto che siamo tutti fallibili. Le nostre misure di mitigazione dei rischi cadono lì dentro, cercando ove possibile di evitare il rischio, o perlomeno di contenerne la probabilità di accadimento alla sfera dell’accettabilità. Questo processo permette al lavoratore di conoscere l’importanza delle misure di mitigazione del rischio al fine di coprire un errore umano, così come una “caduta” ben fatta permette a chi inciampa di rialzarsi nel più breve tempo possibile senza farsi male. I lavoratori arrivano a riflettere sull’importanza di rompere la propria zona di comfort e comprendere l’importanza del lavoro di squadra, insinuando una nuova cultura della sicurezza nelle aziende.
*Il commento dei B.Liver*
L' uomo commette errori. Il primo passo per evitarli sta nel riconoscere che tutti possiamo fallire. Una volta compreso il rischio di uno sbaglio lo si può prevenire. L'esperienza è il primo passo per la conoscenza. Eleonora Bianchi
Nei miei corsi si lavora molto sul concetto di caduta, e sul saper cadere come elemento di prevenzione e